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Patrimoniale mascherata sui nostri risparmi: 9 miliardi in più tra 2011 e 2014

Patrimoniale mascherata sui nostri risparmi: 9 miliardi in più tra 2011 e 2014

Liberoquotidiano.it

Il prelievo forzoso sui conti correnti degli italiani c’è già stato, e negli ultimi 3 anni ha tolto dalle nostre tasche qualcosa come 9 miliardi di euro. Per interdersi sulle proporzioni: quello ufficiale e dichiarato, anche se eseguito nottetempo, ad opera dell’allora premier Giuliano Amato nel luglio 1992 oggi corrisponderebbe a 3 miliardi di euro. A fare la conta sull’incredibile escalation di pressione fiscale sui 3.800 miliardi di euro di attività finanziarie detenute dalle famiglie italiane è una ricerca del centro studi ImpresaLavoro pubblicata sul settimanale Panorama. E i numeri del triennio 2011-2014, corrispondente ai governi di Mario Monti, Enrico Letta e Matteo Renzi, se messi l’uno dopo l’altro sono impressionanti.

La patrimoniale occulta di 9 miliardi – A pesare sulle tasche degli italiani sono stati tre interventi massicci, che sommati risultano una vera e propria patrimoniale mascherata. Innanzitutto, l’aumento delle aliquote sui redditi di natura finanziaria, passata dal 12,5% al 26% (eccetto i titoli di Stato), che nel 2015 porterà all’Erario 11,2 miliardi di euro rispetto ai 6,5 stimati per il 2011. Quindi l’introduzione della tassa su una parte delle transazioni finanziarie, la celebre Tobin Tax: secondo gli analisti, la tassa non ha portato nelle casse dello Stato non più di qualche centinaia di milioni di euro. Le stime parlano di 300 milioni, praticamente la stessa entità della diminuzione degli scambi sui mercati italiani, riflesso negativo della misura. Infine, l’imposta di bollo sul deposito titoli che, sottolinea Panorama, da imposta si è trasformata in vera e propria patrimoniale occulta. Dal 2012 a oggi ha già raddoppiato la sua portata e pesa per lo 0,2% su depositi bancari, fondi e alcune polizze e per 34,20 euro sui conti correnti con una giacenza media di 5.000 euro. Rispetto al 2011, nel 2015 questa misura dovrebbe portare allo Stato 4,4 miliardi, 4 in più rispetto al 2011. In tutto, dunque, le tasse sui risparmi degli italiani oggi ammontano a 15,9 miliardi, rispetto ai 6,9 del 2011. Una mazzata, in un quadro in cui a causa della crisi la ricchezza complessiva dei contribuenti si è ridotta contemporaneamente di 814 miliardi.

L’aumento su interessi e capital gain – Basta dare un’occhiata nello specifico alla progressione dell’imposta su interessi e capital gain per comprendere la portata degli interventi fiscali degli ultimi tre governi. Soltanto sui conti correnti e depositi bancari e postali c’è stato un leggero miglioramento, passando dal 27% del 31 dicembre 2011 al 26% attuale. C’è da dire però che fine al 30 giugno 2014 l’imposta era stata abbassata al 20 per cento. Invariata l’aliquota sui titoli di stato sovranazionali e governativi (12,5%), è cresciuta in modo esponenziale quella sui titoli azionari, obbligazionari societari e bancari, dal 12,5% del 2011 al 20% del 2014 fino al 26% attuale. Aumentate anche le imposte su fondi comuni e polizze vita (dal 12,5% alla media ponderata comunque oscillante tra il 12,5 e il 20%) e sui fondi pensione e piani pensionistici individuali (dall’11% alla media tra 12,5 e 20%). Alla luce di tutto ciò, ritrovare Amato al Colle sarebbe non tanto una beffa, quanto la perfetta chiusura del cerchio.

Tasse sul risparmio, dal 2011 bruciati 9 miliardi

Tasse sul risparmio, dal 2011 bruciati 9 miliardi

Raffaella Salato – La Notizia

Il settimanale “Panorama” oggi in edicola dedica la copertina a una ricerca del Centro studi “ImpresaLavoro” sul progressivo e repentino aumento della pressione fiscale operata dai governi Monti, Letta e Renzi sui risparmi degli italiani. Un fenomeno che in questi ultimi anni ha assunto forme diverse: l’incremento delle aliquote sui redditi di natura finanziaria, più che raddoppiate – salvo eccezioni – tra la fine del 2011 e la metà del 2014; l’introduzione di una tassa su una parte delle transazioni finanziarie (la Tobin Tax) a partire dal marzo 2013; la trasformazione dell’imposta di bollo sul deposito titoli in una vera e propria patrimoniale (che grava anche su conti deposito e altri strumenti finanziari), introdotta nel 2012 e già raddoppiata nel giro di due anni.

Secondo la ricerca di “ImpresaLavoro” (le cui stime si basano su dati e indici Banca d’Italia, ABI, MEF e Fideuram) questa stretta fiscale corrisponde a un incremento di 9 miliardi annui (pari al +130%) per il periodo 2011-2015 così suddiviso: 4,7 miliardi dall’aumento delle aliquote sui rendimenti, 4 miliardi dall’introduzione dell’imposta di bollo proporzionale, e altri 0,3 miliardi dalla Tobin Tax. Il prelievo complessivo è così passato dai 6,9 miliardi del 2011 ai 15,9 miliardi attesi per il 2015.

Se ciò non bastasse, per il futuro prossimo circola l’ipotesi di un giro di vite fiscale anche sulla rivalutazione di fondi pensione, casse previdenziali e trattamento di fine rapporto. Lo studio di “ImpresaLavoro” mostra che un incremento delle aliquote sui fondi pensione al 17% potrebbe ridurre il montante contributivo atteso (e quindi la pensione) dei giovani lavoratori di una percentuale compresa tra il 3,3% ed il 5,7%, mentre un aumento al 26% lo ridurrebbe fino al 14,6%. Considerazioni analoghe si possono esprimere sia sulle casse previdenziali che sul TFR: con un aumento dall’11% al 17% i giovani lavoratori potrebbero subire una decurtazione della liquidazione di fine rapporto compresa tra il 3,6% ed il 6,2%.

Delega fiscale contro il tempo

Delega fiscale contro il tempo

Beatrice Migliorini – Italia Oggi

Recuperare il comitato ristretto per licenziare nel più breve tempo possibile tutti i decreti legislativi già pronti e scongiurare il fantasma della proroga a fine anno. Questa, in base a quanto risulta a Italia Oggi, la strategia che governo e parlamento starebbero mettendo in campo per dare forma entro la scadenza di fine marzo al contenuto della legge 23/2014 (delega fiscale). A quasi un anno dall’approvazione della legge delega sono, infatti, solo tre i dlgs che hanno ricevuto il via libera delle camere: il semplificazioni fiscali, la riforma delle commissioni censuarie e la riforma della tassazione delle accise sui tabacchi. Di questi, solo i primi due sono stati pubblicati in Gazzetta Ufficiale non, però, senza qualche difficoltà. Un ritmo a dir poco insostenibile per un testo che nasce con l’ambizione di essere quanto meno un’opera di manutenzione straordinaria del sistema fiscale italiano. Ecco, quindi, che per ottimizzare il fattore tempo la soluzione comitato ristretto potrebbe tornare utile.

L’idea, su cui il cui governo dovrà pronunciarsi in queste ore, sarebbe quella reinstaurare il gruppo di lavoro trasversale alle due camere e ai partiti politici. Questa operazione potrebbe, infatti, consentire un rapido esame preliminare dei testi una volta licenziati da palazzo Chigi, in modo tale che una volta giunti all’esame delle Commissioni finanze a ranghi completi siano sufficienti un paio di sedute per esprimere il parere al testo. Ammesso e non concesso che il meccanismo funzioni, sarà poi compito dell’esecutivo non apportare ulteriori modifiche ai testi dei decreti, per evitare di ricadere in dinamiche simili a quelle che hanno dettato le sorti del dlgs sulle semplificazioni fiscali (cambiato dal governo in seconda lettura). Un lavoro che, se ben strutturato, potrebbe portare a licenziare quasi dieci decreti (tra cui, il dlgs contenente i punti cardine della riforma del catasto, il dlgs sulla fatturazione elettronica, sulla certezza del diritto e sui giochi) entro la fine di marzo.

Una missione ai limiti dell’impossibile ma che potrebbe concretizzarsi laddove il governo volesse con ogni mezzo possibile evitare la strada della proroga che assomiglierebbe molto ad una sconfitta. Ma per non rischiare un’altra stoccata a vuoto e lasciare comunque aperta la strada dello slittamento dei termini restano ancora in piedi le altre due opzioni incardinate alla Camera: il ddl di proroga a firma di Marco Causi (Pd) e Daniele Capezzone (Fi) i cui lavori inizieranno questo pomeriggio e il dl Milleproroghe al vaglio delle Commissioni affari costituzionali e bilancio di Montecitorio. E proprio la mancata presentazione di un emendamento ad hoc contenente la proroga sia da parte dell’esecutivo, sia da parte di esponenti della maggioranza, suggerisce che palazzo Chigi e via venti settembre stiano cercando ogni strada per evitare lo slittamento dei termini.

Scippo da 9 miliardi sui risparmi

Scippo da 9 miliardi sui risparmi

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Gianni Zorzi, docente di Finanza dell’impresa e dei mercati e consulente per l’area Finanza di “ImpresaLavoro” – Panorama

Un fantasma si aggira, da anni, per l’Italia: la paura di un prelievo forzoso sui risparmi. Tipo quello di Giuliano Amato nel 1992, quando il Fisco incamerò improvvisamente il 6 per mille sulle giacenze dei conti correnti. In realtà questo timore appare infondato. Perché lo Stato ha già, di fatto, colpito pesantemente il risparmio degli italiani con una patrimoniale strisciante che, secondo una ricerca realizzata dal centro studi ImpresaLavoro, vale circa 9 miliardi di euro. Tanto per fare un confronto, se oggi venisse replicata la manovra di Amato sui conti correnti, si tratterebbe di un prelievo di 3 miliardi, un terzo rispetto agli aggravi imposti dal 2011 ad oggi dai governi di Mario Monti, Enrico Letta e Matteo Renzi.

Come si arriva a questo dato? Secondo le più recenti rilevazioni di Banca d’Italia, il totale delle attività finanziarie detenute dalle famiglie supera i 3.800 miliardi di euro. Su questa massa di attivi si è registrato a partire dalla fine del 2011 un progressivo e repentino inasprimento fiscale: in prima istanza, l’aumento tra la fine del 2011 e la metà del 2014 delle aliquote sui redditi di natura finanziaria che sono più che raddoppiate, passando dal 12,5 al 26 per cento, salvo eccezioni (come i titoli di Stato); in secondo luogo, l’introduzione di una tassa su una parte delle transazioni finanziarie (la Tobin tax) a partire dal marzo 2013; infine, la trasformazione dell’imposta di bollo sul deposito titoli in una vera e propria patrimoniale introdotta nel 2012 e già raddoppiata nel giro di due anni: oggi pesa per lo 0,2 per cento sui depositi di titoli (azioni, obbligazioni, titoli di Stato), sui depositi bancari, sui fondi e su alcune polizze, e per 34,20 euro per i conti correnti oltre una giacenza media di cinquemila euro.

Risultato: secondo le nostre ricerche, basate su dati e indici Banca d’Italia, Abi, ministero dell’Economia e Fideuram, la somma di questi interventi corrisponderebbe a un aumento del prelievo fiscale di 9 miliardi annui (corrispondente al 130 per cento in più) per il periodo 2011-2015. In particolare, l’incremento delle imposte sui rendimenti porterebbe un gettito pari a 11,2 miliardi nel 2015 a fronte dei 6,5 stimati per il 2011, nonostante la riduzione dei rendimenti medi di titoli di stato e di conti correnti e depositi bancari e postali; l’imposta di bollo, applicabile su quasi 2.200 miliardi di controvalore di attività finanziarie e depositi, dovrebbe pesare per oltre 4,4 miliardi nelle tasche degli italiani con un incremento di 4 miliardi rispetto al 2011; la Tobin tax, applicata dal marzo 2013, fornisce invece un prelievo marginale che non supera alcune centinaia di milioni l’anno, tanto da non superare, secondo alcune analisi, i costi commerciali derivanti dalla riduzione degli scambi di attività realizzati sui mercati italiani. A queste somme si aggiunga la stima del gettito sui conti correnti che continua a pesare sui risparmiatori persone fisiche nel caso di giacenze medie superiori a cinquemila euro, che risulta pari a circa 0,6 miliardi annui.

Quindi il prelievo complessivo sul risparmio degli italiani passerebbe dai 6,9 miliardi del 2011 ai 15,9 attesi per il 2015. La crescita del prelievo appare vertiginosa anche in considerazione del drastico calo della redditività, sia dei titoli di Stato che dei depositi bancari (e senza considerare che negli ultimi cinque anni la ricchezza complessiva degli italiani si è ridotta di 814 miliardi di euro per colpa della crisi e della tassazione sugli immobili, come rivela un’indagine pubblica sulla Repubblica). C’è poi il capitolo previdenziale, cioé l’incremento della tassazione sulla rivalutazione di strumenti di previdenza come i fondi pensione e le casse previdenziali, nonché del trattamento di fine rapporto (Tfr).

Dopo un lungo tira e molla, gli aumenti sono stati approvati nella Legge di stabilità, e ora sono in vigore (con effetto peraltro retroattivo) sui rendimenti realizzati a partire dall’anno 2014. Per la previdenza complementare (fondi pensione, piani individuali pensionistici) si passa dall’11,5 al 20 per cento, mentre per le casse previdenziali di categoria l’incremento è dal 20 al 26 per cento. In entrambi i casi, l’aliquota sulla quota dei fondi investita in titoli di stato è agevolata al 12,5 per cento, ed è infine previsto un credito d’imposta condizionato che potrebbe in linea teorica compensare gli aumenti. Sul trattamento di fine rapporto, invece, la rivalutazione viene ora tassata al 17 per cento anziché all’11. Questi aumenti si ripercuotono sui montanti contributivi (cioè il capitale che il lavoratore ha accumulato nel corso degli anni lavorativi) specie per chi è a inizio carriera. Nello studio è emerso infatti che l’incremento delle aliquote applicate sui fondi pensione al 20 per cento potrebbe ridurre il montante contributivo di una percentuale compresa tra il 5 e l’8,6 per cento, mentre un eventuale ulteriore aumento al 26 per cento lo ridurrebbe di un importo tra l’8,3 ed il 14,1 per cento. Considerazioni analoghe si possono esprimere naturalmente anche sulle casse previdenziali, i cui giovani iscritti si dovranno attendere prestazioni a fine carriera ulteriormente ridotte di una percentuale compresa tra il 3,3 e il 5,5 per cento, mentre il giro di vite sul Tfr potrebbe ridurre le liquidazioni di chi si affaccia oggi al mondo del lavoro di un importo compreso tra il 3,6 e il 6,2 per cento.

Tornando al quadro generale dei guadagni di natura finanziaria, le varie riforme intervenute di recente hanno mirato soprattutto all’incremento generalizzato delle aliquote, evitando perciò di considerare alcune storture del particolare sistema di fiscalità vigente. Come la doppia tassazione degli utili delle società di capitali distribuiti sotto forma di dividendi (sono tassati sia gli utili che i dividendi), e il complesso e non sempre equo meccanismo di compensazione tra guadagni e perdite nel regime del risparmio amministrato. Si tratta di norme che, nel loro insieme, possono aumentare anche notevolmente il prelievo effettivo operato sulle tasche dei risparmiatori: per esempio, la tassazione su alcuni guadagni continua a intervenire anche se nel frattempo la stessa o altre attività detenute fanno registrare delle perdite. Si può quindi chiudere in perdita un portafoglio di investimenti, oppure in alcuni casi anche un singolo investimento, ed essere stati nel frattempo ugualmente tassati. Per i piccoli risparmiatori, tra rendimenti in picchiata e tassazione in aumento, il rebus investimenti si fa ancora più complesso.

La tassazione del risparmio in Italia

La tassazione del risparmio in Italia

ABSTRACT

Secondo le più recenti rilevazioni di Banca d’Italia, il totale delle attività finanziarie detenute dalle famiglie supera i 3.800 miliardi di euro. Su questa massa di attivi si è registrato a partire dalla fine del 2011 un progressivo e repentino inasprimento fiscale, che potrebbe proseguire nel futuro prossimo colpendo anche le rivalutazioni sugli strumenti della previdenza complementare. La stretta fiscale ha assunto forme diverse: in prima istanza, l’incremento delle aliquote sui redditi di natura finanziaria, più che raddoppiate – salvo eccezioni – tra la fine del 2011 e la metà del 2014; in secondo luogo, l’introduzione di una tassa su una parte delle transazioni finanziarie (la Tobin Tax) a partire dal marzo 2013; infine, la trasformazione dell’imposta di bollo sul deposito titoli in una vera e propria patrimoniale (che grava anche su conti deposito e altri strumenti finanziari), introdotta nel 2012 e già raddoppiata nel giro di due anni.
Nell’immaginario collettivo persiste ancora lo spettro di un possibile e improvviso prelievo forzoso sulle attività finanziarie, come quello del 6 per mille operato sui conti correnti dal Governo Amato nel 1992; in realtà, tale intervento peserebbe oggi sulle tasche degli italiani per circa 3 miliardi di euro una tantum, mentre l’incremento della fiscalità ordinaria sul risparmio delle famiglie ha già assunto, in pochi anni e nel suo complesso, dimensioni ben più rilevanti. Secondo le nostre ricerche, infatti, ciò corrisponderebbe a un incremento di 9 miliardi annui (corrispondente al +130%) per il periodo 2011-2015, e si dovrebbe per 4,7 miliardi all’aumento delle aliquote sui rendimenti, per 4 miliardi all’introduzione dell’imposta di bollo proporzionale, e per 0,3 miliardi alla Tobin Tax. Secondo le stime, basate su dati e indici Banca d’Italia, ABI, MEF e Fideuram, il prelievo complessivo passerebbe quindi dai 6,9 miliardi del 2011 ai 15,9 attesi per il 2015.
L’incremento appare vertiginoso anche in considerazione del drastico calo della redditività, sia dei titoli di stato che dei depositi bancari. Se ciò non bastasse, per il futuro prossimo circola l’ipotesi di un giro di vite fiscale anche sulla rivalutazione di fondi pensione, casse previdenziali, e trattamento di fine rapporto. Lo studio mostra che un incremento delle aliquote sui fondi pensione al 17% potrebbe ridurre il montante contributivo atteso (e quindi la pensione) dei giovani lavoratori di una percentuale compresa tra il 3,3% ed il 5,7%, mentre un aumento al 26% lo ridurrebbe fino al 14,6%. Considerazioni analoghe si possono esprimere sia sulle casse previdenziali che sul TFR: con un aumento dall’11% al 17% i giovani lavoratori potrebbero subire una decurtazione della liquidazione di fine rapporto compresa tra il 3,6% ed il 6,2%.
Tornando alle rendite finanziarie in generale, lo studio evidenzia che le varie riforme succedutesi in questi anni non hanno provveduto a risolvere alcune delle criticità intrinseche alla normativa, quali la doppia tassazione degli utili distribuiti sotto forma di dividendi, il complesso e non sempre equo meccanismo di compensazione tra guadagni e perdite. Si è rilevata anche la complessità dei calcoli di convenienza relativi alle opzioni di affrancamento concesse dal legislatore al momento degli aumenti fiscali. Vi è inoltre l’aspetto relativo alla tassazione di favore concessa ai titoli di stato rispetto ai titoli emessi da banche e imprese, a partire dal 2012. Le famiglie italiane potrebbero consolidare le tendenze riscontrate nel periodo 2011-2013, con la riduzione in misura lieve dell’impiego diretto nei titoli di stato (-1,3%), e un forte incremento di quello indiretto costituito da fondi comuni (+30,7%) e polizze vita (+9,5%), che godono di un’aliquota intermedia determinata dal peso della componente investita nel debito pubblico.
Scarica il Paper di Impresa Lavoro: La tassazione del risparmio in Italia tendenze evolutive ed effetti
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Aziende schiacciate dalle tasse

Aziende schiacciate dalle tasse

Valerio Stroppa – Italia Oggi

Per ogni 10 euro guadagnati dalle imprese italiane 6,5 euro vanno allo Stato. Il total tax rate per l’anno 2014 si è attestato al 65,4%, con un leggero miglioramento rispetto al 65,8% del 2013. Una pressione fiscale maggiore si ritrova solo in Francia (66,6%), mentre ben più basso risulta il prelievo complessivo in Germania (48,8%), Spagna (58,2%) e Regno Unito (33,7%). Senza considerare ordinamenti di particolare favore verso le imprese come quello della Croazia (tassazione totale al 18,8%) e dell’Irlanda (25,9%). È quanto emerge da un’elaborazione del Centro studi ImpresaLavoro basata sui dati contenuti nel rapporto Doing Business 2015, predisposto ogni anno dalla Banca mondiale. Il tax rate gravante sulle imprese viene calcolato in percentuale sugli utili totali e comprende l’imposta sul reddito (corporate tax), i contributi sociali e previdenziali, le tasse su dividendi e capital gain, nonché le tasse su rifiuti, veicoli e trasporti.

Il Doing Business è impietoso con il Belpaese: nella classifica globale che misura la facilità di fare impresa, al capitolo fisco l’Italia si piazza ultima a livello continentale e 141° nel mondo (su 189 paesi), dietro a paesi quali Sudan, Sierra Leone, Burundi. «Un risultato determinato da un mix micidiale composto da pressione fiscale elevata, sistema complesso e tempi lunghi anche per pagare quanto dovuto allo Stato», spiega una nota di ImpresaLavoro, «al prelievo elevato, infatti, si associa anche un sistema burocratico particolarmente complicato. Tra Ires, Irap, tasse sugli immobili, versamenti Iva e contributi sociali in Italia un imprenditore medio effettua in un anno 15 versamenti al fisco, sei in più di un suo collega tedesco, sette in più di un inglese, di uno spagnolo o di un francese e nove in più di uno svedese».

Ai costi diretti legati al prelievo fiscale si sommano poi gli oneri indiretti, ossia le «ore-uomo» necessarie per adempiere correttamente agli obblighi tributari. Per essere in regola con l’erario, infatti, le aziende italiane impiegano in media 269 ore all’anno. Sotto questo profilo, tuttavia, in Europa sono altri cinque gli stati membri dove le aziende impiegano più tempo: in Portogallo servono 275 ore, in Ungheria 277, in Polonia 286, per salire alle 413 ore della Repubblica Ceca e alle 454 della Bulgaria. Netto però il divario con le altre grandi economie europee: un’azienda tedesca ha bisogno di 218 ore all’anno (51 in meno dell’Italia), una spagnola di 167 ore (102 ore in meno) e una francese 137 ore (132 ore in meno). «Particolare poi la situazione del Regno Unito», prosegue il centro studi, «dove a un sistema fiscale gia leggero in termini quantitativi si accompagna un sistema di pagamento molto semplice. Gli imprenditori inglesi effettuano in un anno una media di otto versamenti al fisco, occupando solo 110 ore del loro tempo, meno della metà di un imprenditore italiano».

I dati del rapporto mondiale indicati nel capitolo «Paying taxes» evidenziano una disparità anche tra l’Italia e il mondo Ocse nel suo insieme. La media della pressione fiscale vigente nei 34 paesi più sviluppati appartenenti all’organizzazione parigina è del 41,3%. Lo scostamento maggiore non si riscontra nella tassazione sugli utili di impresa (19,9% in Italia contro una media Ocse del 16,4%), ma soprattutto in quella gravante sui lavoratori (43,4% contro 23,0%). Le imposte indirette sono in linea con la media Ocse, dove però le ore dedicate ogni anno alla compliance fiscale dalle imprese non supera le 175 (contro le 269 ore italiane).

Un contesto dal quale emerge come, secondo ImpresaLavoro, «l’Italia resta la matrigna d’Europa per quanto riguarda le tasse sulle imprese», anche perché le frequenti modifiche normative e la conseguente incertezza applicativa scoraggia la nascita di nuove iniziative. Temi, questi, sui quali il governo sta cercando di intervenire a più riprese. A cominciare dalle misure introdotte dalla legge di stabilità 2015 (deducibilità ai fini Irap del costo del lavoro, patent box, credito d’imposta ricerca e sviluppo), ma anche con l’intervento sull’abuso del diritto previsto dalla delega fiscale. Il decreto attuativo, però, è stato stoppato dallo stesso esecutivo dopo le polemiche sorte in merito alla norma che avrebbe depenalizzato talune fattispecie di reato tributario. Il dlgs, riveduto e corretto, tornerà sul tavolo di palazzo Chigi il prossimo 20 febbraio.

La riforma del versamento Iva nuova tagliola per le imprese

La riforma del versamento Iva nuova tagliola per le imprese

Antonio Signorini – Il Giornale

Le imprese sono sempre più a secco di liquidi e le scelte del governo rischiano di aggravare la loro situazione, invece di migliorarla. I ritardi nei pagamenti pubblici e privati – ha certificato ieri la Cgia di Mestre – pesano sul fatturato delle aziende per 34 miliardi di euro. Un male antico, quello delle fatture non saldate da committenti statali o da aziende, al quale rischia di aggiungersi il peso delle nuove norme sul pagamento dell’Iva.

Il cosiddetto reverse charge deciso dall’ultima legge di Stabilità prevede che l’Iva sia versata allo Stato direttamente dall’acquirente. Una partita di giro per quei settori che hanno un equilibrio nel tempo tra merci acquistate e quelle vendute. Ma non per tutti. Da qualche giorno arrivano al governo, ad esempio, gli allarmi del settore del latte e da quello della grande distribuzione. In questo caso il reverse charge farebbe aumentare il credito Iva già enorme (si parla di un miliardo di euro) drenando liquidità a un settore che già non se la passa bene. Tra i possibili effetti, difficoltà a pagare i fornitori di latte e un ulteriore spostamento degli acquisti verso il latte estero. Nella stessa situazione la grande distribuzione organizzata, le cui imprese diventeranno ancora di più dipendenti dai rimborsi Iva, quindi da crediti verso lo Stato.

E su questo fronte ancora non c’è da rallegrarsi. In Italia ben 3,4 milioni di imprese, pari al 76 per cento del totale nazionale, soffrono di problemi di liquidità riconducibili al ritardo nei pagamenti, ha calcolato ieri la Cgia di Mestre. I mancati incassi, sia su crediti verso il pubblico sia verso il privato, hanno comportato perdite di 35 miliardi di euro e 1,7 milioni di imprese, il 39 per cento del totale, hanno segnalato che a causa di questa criticità non hanno potuto effettuare assunzioni, mentre 900mila aziende (pari al 20 per cento) hanno valutato la possibilità di licenziare in ragione di problemi conseguenti al ritardo dei pagamenti. Infine, 700mila imprese (pari al 15 per cento del totale nazionale) si trovano sull’orlo del fallimento.

«Le cause di queste criticità – segnala il segretario della Cgia Giuseppe Bortolussi – vanno ricercate nei tempi medi di pagamento effettivi presenti in Italia che intercorrono nelle transazioni commerciali sia tra imprese e Pubblica amministrazione, sia tra imprese private. Nel primo caso, i giorni medi necessari per il saldo fattura sono 165; nel secondo caso, invece, si arriva a 94 giorni». Il primo cattivo pagatore, insomma, ancora una volta è lo Stato. E «in entrambe le situazioni siamo maglia nera quando ci confrontiamo con i nostri principali partner dell’Ue».

È dall’ottobre scorso che il ministero dell’Economia non aggiorna i dati sul rimborso dei debiti della Pa. Segnalano che i debiti pagati dallo Stato e dalle Autonomie locali ammontano a 32,5 miliardi di euro. «Se si considera che nell’ultimo biennio sono stati messi a disposizione circa 56,3 miliardi di euro – spiega la Cgia – l’incidenza dei pagamenti effettuati sul totale è pari al 57,7 per cento. C’è stato un rallentamento, che ieri il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha spiegato in un’intervista al Sole24Ore . «Il problema è legato ai crediti per la spesa in conto capitale, dove dobbiamo tener conto dell’impatto sul deficit. Eppoi con alcune ragioni continuano ad esserci problemi. Si stanno comunque sbloccando nuove tranche». In sostanza, non si pagano i debiti per non incidere sul deficit e sforare i limiti europei.

Il fisco italiano nelle banche svizzere

Il fisco italiano nelle banche svizzere

Marco Mobili – Il Sole 24 Ore

Scambio di informazioni su tutte le imposte di qualsiasi natura e denominazione. In nessun caso sarà possibile negare informazioni in possesso di banche, intermediari finanziari o fiduciari. La richiesta di dati e notizie da parte del Fisco potrà riguardare soltanto atti e informazioni bancarie successive alla firma dell’accordo e si potrà concentrare su singoli contribuenti così come su specifici gruppi di soggetti. Ma in quest’ultimo caso solo sulla base si specifici comportamenti “fiscali” e non che li accomunano, ma mai sulla base dei loro dati identificativi. Non solo. Per i lavoratori transfrontalieri stop ai ristorni dalla Svizzera ai comuni italiani, a rimborsare le casse dei sindaci di confine sarà direttamente Roma. Come? Con un cambio di tassazione ancora tutto da scrivere ma che nella sostanza prevederà un prelievo elvetico del 60/70% e uno tutto made in Italy sulla parte restante del reddito del lavoratore.

L’accordo
Sono queste le principali novità dell’accordo fiscale raggiunto ieri tra Italia e Svizzera dopo tre anni di trattative. Un accordo fiscale che certamente per l’Italia rappresenta anche una spinta e una facilitazione all’adesione alla voluntary disclosure da parte di contribuenti italiani che hanno capitali nei 26 Cantoni elvetici. La firma vera e propria dell’accordo tra i ministri delle Finanze arriverà a metà febbraio, comunque sia prima del 2 marzo come prevede la disciplina sul rientro dei capitali e dunque con la possibilità di evitare il raddoppio delle sanzioni e il raddoppio dei termini dell’accertamento (si veda il servizio qui in basso). A presentare ieri alla stampa i contenuti e la struttura dell’accordo è stato Vieri Ceriani, consigliere per le politiche fiscali del ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, che dopo tre anni di negoziato “benedice” l’accordo definendolo «epocale» e in grado di «fornire strumenti di contrasto dell’evasione fiscale impensabili fino a qualche anno fa».

Quattro capitoli
Sono in tutto quattro i capitoli dell’accordo Italia-Svizzera. Oltre allo scambio di informazioni con la modifica della Convenzione contro le doppie imposizioni l’accordo prevede una vera e propria road map che dovrà portare nei prossimi mesi e con steap successivi: alla definizione di una nuova tassazione per i lavoratori transfrontalieri; all’uscita della Svizzera dalle black list; alla definizione di una serie di questioni che riguardano Campione d’Italia, l’enclave italiana in territorio svizzero, dall’indeducibilità dell’Iva elvetica alla circolazione dei beni. Ma andiamo con ordine.

Doppia imposizione
L’accordo raggiunto con Berna modifica da subito il trattato bilaterale esistente contro la doppia imposizione sulla base dell’attuale strandard Ocse. Trattandosi di una modifica legale – ha spiegato Ceriani – dovrà essere sottoposto alla ratifica dei rispettivi Parlamenti. E compatibilmente con le procedure elvetiche questo dovrà accadere tra non meno di 18 mesi.

Passepartout per il Fisco
I due passepartout per gli ispettori del Fisco italiani sono lo scambio di informazioni finanziarie su tutte le imposte, di qualsiasi natura e senza possibilità di vedersi opporre il segreto bancario. E soprattutto il fatto che la richiesta può finalmente partire direttamente dall’agenzia delle Entrate. Armi più efficaci nel contrasto all’evasione – ha sottolineato Ceriani – rispetto non solo alle attuali procedure che vedono il Paese elvetico rispondere soltanto quando si muovono le procure, ma anche rispetto allo stesso scambio automatico di informazioni al quale la Svizzera ha già dichiarato di volersi adeguare sulla base del negoziato in corso con la Ue e comunque a partire dal 2017.

Controlli non retroattivi
Dal momento della firma dell’accordo tra il ministro Padoan e il suo omologo svizzero, Eveline Widmer-Schlumpf, gli ispettori del Fisco avranno, dunque, piena visibilità sui conti in Svizzera dei contribuenti italiani. In ogni caso, però, nel protocollo è espressamente previsto che non ci sarà retroattività per gli accertamenti del Fisco su eventi e circostanze antecedenti la firma dell’accordo e dunque prima della metà del prossimo mese di febbraio. Comunque sia le Entrate avranno la possibilità di chiedere le informazioni sui contribuenti italiani alla Svizzera comunque molti mesi prima rispetto alla ratifica degli accordi che, come detto, non arriverà prima del 2017.

L’uscita dalla black list
Lo scambio di informazioni secondo lo standard Ocse rappresenta, comunque, il primo passo che dovrà portare la Svizzera a uscire dalle cosiddette black list, a partire da quella sulle controllate estere (Cfc) o quella sulla deducibilità dei costi in Paesi “canaglia”. Due temi, questi, che comunque saranno rivisti a tutto campo nella delega fiscale e nel decreto annunciato per febbraio nel capitolo sulla fiscalità internazionale. Allo stesso tempo dopo lo scambio di informazioni i due Paesi potranno condividere nuove indicazioni sulla concorrenza fiscale.

I frontalieri
L’altro tema caldo dell’accordo e che terrà banco nei prossimi mesi è la nuova tassazione dei lavoratori transfrontalieri. L’obiettivo è quello di intervenire a invarianza di carico fiscale e progressivamente adeguarlo su principi di equità: «Non è pensabile che un lavoratore che risiedee e lavora a 20 chilometri dalla Svizzera paghi più imposte di un lavoratore che risiede a venti chilometri, ma che lavora in un Cantone svizzero», ha sottolineato Ceriani. L’idea su cui sarà formalizzato l’accordo resta quella di uno splitting fiscale rivisto e corretto. Dove non sarà più la Svizzera a restituire una quota del prelievo effettuato sui redditi dei lavoratori transfrontalieri ai Comuni di confine. A farlo sarà Roma. In sostanza il datore di lavoro svizzero continuerà a prelevare il 60% a titolo di tasse dai redditi del dipendente residente in Italia, mentre la parte restante sarà tassata direttamente da Roma. Il meccanismo potrebbe prevedere di riconoscere al lavoratore una deduzione dal reddito imponibile pari alla quota prelevata dall’Erario elvetico e dunque tassare solo il restante 40%. Il tutto a due specifiche condizioni: la prima – ha spiegato Ceriani – è che i Comuni dovranno ricevere le stesse somme che incassavano prima dell’accordo dalla tassazione elvetica dei circa 64mila transfrontalieri (si parla di circa 70 milioni); la seconda è che tutto partirà soltanto dopo che la telematica consentirà di semplificare la vita ai contribuenti. Questi saranno obbligati sì a due dichiarazioni dei redditi, una svizzera e una italiana, ma almeno quella targata Roma sarà interamente precompilata.

Tasse sulle imprese: l’Italia resta la matrigna d’Europa e scivola al 141esimo posto al mondo

Tasse sulle imprese: l’Italia resta la matrigna d’Europa e scivola al 141esimo posto al mondo

NOTA

L’Italia resta la matrigna d’Europa per quanto riguarda le tasse sulle imprese. Lo dimostra un’elaborazione del Centro studi “ImpresaLavoro” sui nuovi dati riferiti al 2014 contenuti nel rapporto Doing Business 2015. Nel rank generale che misura la facilità per le imprese del sistema fiscale l’Italia si classifica ultima a livello continentale e 141esima nel mondo, riuscendo a fare addirittura peggio dell’anno scorso quando si classificò 137esima. Un risultato determinato da un mix micidiale composto da pressione fiscale elevata, sistema fiscale complesso, tempi lunghi anche per pagare quanto dovuto allo Stato. Tra i Paesi dell’Europa a 28 la palma di miglior sistema fiscale va all’Irlanda, seguita dalla Danimarca e dal Regno Unito. Dietro, ma comunque meglio dell’Italia, tutte le tradizionali economie dell’area euro: l’Olanda è sesta, la Germania 18esima, la Spagna 20esima e la Francia 25esima.
tabella 1
In termini di Total Tax Rate sulle imprese l’Italia fa leggermente meglio dello scorso anno e passa da un prelievo complessivo del 65,8% ad uno del 65,4%. Una cifra comunque inferiore alla sola Francia (66,6%) e che distanzia di molto tutti i principali partner europei. Anche volendo tralasciare sistemi di particolare favore verso le imprese come quello croato (Total Tax Rate al 18,8%) e Irlanda (25,9%), non si può fare a meno di notare come, tranne la Francia di cui si è detto, nessuno dei nostri partner tradizionali a livello comunitario sconti una pressione fiscale cosi asfissiante: la Germania si ferma a 16,6 punti percentuali di Total Taxe Rate in meno (48,8%) e anche Grecia (49,9%), Portogallo (42,4%) e Spagna (58,2%) fanno meglio di noi. Per tacere di una grande economia matura come quella del Regno Unito che riesce comunque a garantire alle sue imprese un prelievo statale complessivo del 33,7%.
tabella 2
Al prelievo elevato, nel nostro Paese, si associa anche un sistema burocratico particolarmente complicato. Tra IRES, IRAP, tasse sugli immobili, versamenti IVA e contributi sociali in Italia un imprenditore medio effettua in un anno 15 versamenti al fisco, 6 in più di un suo collega tedesco, 7 in più di un inglese, di uno spagnolo o di un francese e 9 in più di uno svedese. Anche per essere in regola con il fisco le nostre aziende sono costrette ad occupare una parte consistente del loro tempo: con 269 ore l’anno impiegate per adempimenti fiscali, l’Italia è sesta in Europa e prima tra le grandi economie. Un’azienda tedesca ha bisogno di “sole” 218 ore all’anno (51 in meno) e fa comunque peggio di Spagna (167 ore, 102 in meno dell’Italia) e Francia (137 ore, 132 in meno). Particolare la situazione del Regno Unito: a un sistema fiscale già leggero in termini quantitativi si accompagna un sistema di pagamento molto semplice. Gli imprenditori inglesi effettuano in un anno una media di 8 versamenti al fisco, occupando “solo” 110 ore del loro tempo, meno della metà di un imprenditore italiano.

tabella 3

 

tabella 4

 

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Italia Oggi