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Che fine ha fatto il Piano Juncker?

Che fine ha fatto il Piano Juncker?

Giuseppe Pennisi – Formiche

Che fine ha fatto il Piano Juncker per rilanciare l’anemica economia europea? Se ne parlò molto con tanto clamore lo scorso novembre quando venne presentato. Si sarebbe trattato di un programma  ambizioso di 315 miliardi di euro, nell’arco di tre anni a partire dal giugno 2015, per promuovere l’occupazione e la crescita.

La Commissione europea (Ce) ha proposto un Fondo europeo per gli investimenti strategici (Feis), che sarà istituito in stretto partenariato con la Banca europea per gli investimenti (Bei), ma la Ce di proprio ha messo sul piatto solamente 21 miliardi di euro (anche se una cinquantina di miliardi di euro sono stati in parte “promessi” ed in parte “impegnati” tra novembre e metà febbraio). Al Fondo sarà associato un organismo di consulenza – lo European Investment Advisory Hub – che aiuterà gli Stati dell’Ue a mettere a punto i progetti più efficaci. Il Fondo dovrebbe costituisce, secondo i comunicati della Ce, “il fulcro dell’offensiva sugli investimenti” del Presidente Juncker, che mobiliterebbe almeno 315 miliardi di euro di investimenti pubblici e privati in tutta l’Unione europea. Saranno sostenuti soprattutto gli investimenti strategici, ad esempio nella banda larga e nelle reti energetiche, e le imprese di dimensioni più piccole.

La proposta istituisce inoltre un Polo europeo di consulenza sugli investimenti per contribuire all’individuazione, la preparazione e lo sviluppo di progetti in tutta l’Unione. Una riserva di progetti di investimento europei migliorerà infine l’informazione degli investitori sui progetti esistenti e futuri. Infine, secondo alcune interpretazioni, gli investimenti del Piano Juncker non verrebbero contabilizzati ai fine di parametri quali il rapporto tra l’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni ed il Pil, sarebbe, quindi, un cavallo di Troia per quella golden rule (esenzione della spesa pubblica in conto capitale dal computo del vincolo al deficit annuale) a cui diversi governi (quello italiano in prima linea) mirano da tempo. Con il doppio obiettivo di illustrare il Piano (vero fiore all’occhiello di una Ce che appare sempre più pallida e sbiadita) il vice presidente della Ce, Jirki Katainen, sta facendo un road show che entro settembre lo porterà in 28 Paesi. In gennaio ha visitato per due giorni Roma ed incontrato esponenti del governo, dei sindacati e delle associazioni imprenditoriali.

Già allora è stato sottolineato che sul Piano permangono seri dubbi. Agli occhi della Ce, l’Italia è tra i Paesi che più hanno bisogno di un rilancio degli investimenti pubblici e privati per sostenere la ripresa economica, scalfire il pericolo della deflazione, aiutare la riduzione del debito. L’obiettivo del Feis è di attirare capitale privato. Molti investitori però sono cauti all’idea di partecipare all’iniziativa, anche se il Feis si sobbarcherebbe i rischi insieme al settore privato (assumendosi la prima perdita, ndr). C’è una differenza nel profilo di rischio tra i prestiti della Bei e i prestiti del Feis. A questo riguardo, per dotare il bilancio comunitario di un cuscinetto di liquidità, la Ce intende creare un fondo di garanzia che attraverso contributi regolari provenienti dal proprio  bilancio dovrebbe raggiungere gli otto miliardi di euro entro il 2020. L’obiettivo della Commissione è sempre di assicurare al Fondo un effetto leva di 15. Troppo? Molti lo temono. L’esecutivo comunitario nota però che il recente aumento di capitale della Bei ha generato un effetto leva di 18.

Altro nodo riguarda il governo del Feis. Bruxelles vuole che la selezione dei progetti sia nelle mani di esperti indipendenti, mentre gli Stati membri vogliono influenzare le scelte, e per certi versi condizionano i loro versamenti nel capitale iniziale ad assicurazioni su questo fronte. La trattativa già in gennaio era in salita. Un colpo al Piano è stato inferto il 23 febbraio dal presidente della Bei Werner Hoyer: “Se vogliamo tornare a crescere abbiamo bisogno di un’azione regolatoria per rendere l’Europa un ambiente più favorevole alla imprese di come è oggi”. Ciò sarebbe molto più importante di un’azione sugli investimenti pubblici.

Tanti progetti, poche certezze. Tanti impegni pubblici, pochi privati. Ma soprattutto poca innovazione. Il Piano Juncker lascia più di qualche perplessità alla Bei, l’istituto chiamato a un ruolo centrale nell’attuazione della strategia dell’esecutivo di Bruxelles. Ma al di là dei numeri di rito, è sugli scenari futuri che si concentra l’attenzione della Bei. “L’obiettivo del 2015 è passare dalla ripresa economica al rilancio della competitività attraverso investimenti e innovazione”, sottolinea Hoyer. Ma a Lussemburgo – sede della Bei – non mancano perplessità. “Non vedo abbastanza progetti per il settore privato”, ammette Hoyer. Un problema, visto che serve il coinvolgimento dei privati perché il piano Juncker funzioni. “Vedo progetti orientati principalmente verso il settore pubblico”.

Ma c’è di più. “Si è evidenziato tanto il gap di investimenti, ma in Europa c’è un problema maggiore di gap di innovazione”. Il gap dii investimenti in innovazione, da sola, vale, secondo la Bei, 130 miliardi di euro, circa la metà del piano Juncker (che vale 315 miliardi). L’innovazione oggi la fanno le imprese, dunque i privati. Per cui a detta della Bei “occorre fare in modo che progetti privati in ricerca e sviluppo, quelli che permettono di avere innovazione, possano avere accesso agli strumenti finanziari dell’Ue”.

Qui serve un cambio di strategia politica. La Bei coopera con i commissari interessati, vale a dire Jyrki Katainen (Crescita e investimenti), Pierre Moscovici (Affari economici) e Valdis Dombrovskis (Euro), ma è il caso “iniziare a collaborare di più con Frans Timmermans e Kristalina Georgieva”, commissari rispettivamente per la Migliore legislazione e il Bilancio. “Il Feis per gli investimenti da solo non risolve i problemi”, sottolinea Hoyer. “Se vogliamo tornare a crescere abbiamo bisogno di un’azione regolatoria per rendere l’Europa un ambiente più favorevole alla imprese di come è oggi”.

Perché Hoyer parla solamente adesso? Le ragioni sono almeno tre:

a) Da un lato, a Bruxelles ed in alcuni capitali europee (tra cui Roma) non si è mai voluto ammettere che sette anni di recessione hanno avuto effetti deleteri sulla preparazione di progetti. Le imprese combattevano per sopravvivere più che per ampliare gli impianti esistenti o crearne di nuovi. La spesa in conto capitale si è fatta sempre più piccola: in Italia è passata dal 3% del Pil negli Anni Ottanta a meno dell’1% e appena il 20% dell’apposito fondo per la progettazione creato nel 1999 è stato utilizzato. Quindi, semplicemente mancano i progetti “pronti”, “cantierabili” e con effettive ricadute positive sull’economia del Paese.

b)  Da un altro, la nuova crisi greca (e l’opposizione nei confronti dell’unione monetaria crescente in molti Paesi) ha reso tutti più cauti. La  alma dei mercati finanziari viene interpretata come la quiete prima della tempesta. Su ciò pesa la situazione degli istituti di credito; le voci della possibile istituzione di una bad bank non incoraggiano certo ad investire.

c) Da un altro ancora, la situazione ad Est (leggi Ucraina) e nel Mediterraneo (leggi Libia). Nessuno ha sino ad ora smentito le stime che un eventuale intervento in Libia contro l’Isis costerebbe 15 miliardi di euro al mese, che cadrebbero in gran misura sui contribuenti europei, spiazzando altri obiettivi. In questo quadro, il Piano è quanto meno una “vittima collaterale”.

Ferrovie e non solo, il discreto charme delle privatizzazioni

Ferrovie e non solo, il discreto charme delle privatizzazioni

Giuseppe Pennisi – Formiche

Nell’ultimo mese, una serie di articoli su Formiche.net hanno cercato di fare il punto sulle privatizzazioni. È venuto il momento di arrivare ad alcune conclusioni. Almeno per ora, la materia è in rapida evoluzione e non è detto che non ci siamo svolte improvvise. In una direzione o in un’altra.

Per tre lustri, redigo il capitolo sulle privatizzazioni del Rapporto Annuale sulla Liberalizzazione della Società Italiana pubblicato dall’editore Rubbettino. Mi sono gradualmente convinto che in Italia le privatizzazioni hanno, come la borghesia del noto film di Bunuel, uno ‘charme discreto’: affascinano tutti ma quanto si arriva al dunque viene fatto molto meno di quanto sperato. Oppure – ancora peggio – si nazionalizza più di quanto non si privatizzi. A fine 2014, il più diffuso quotidiano italiano dedicava tre pagine alle privatizzazione in programma per il 2015, iniziato da poche settimane. Dimenticava, però, di dire che i Governi ed i Parlamenti succedutesi dal 2011 hanno portato a termine unicamente la privatizzazione dell’UNICI, l’unione degli ufficiali in congedo, in pratica un circolo ricreativo. È stata, invero, portata in Borsa Fincantieri ma ha ottenuto giusto i fondi (350 milioni) per sostenere il suo piano di sviluppo.

Cdp Reti – che ingloba le partecipazioni di controllo di Terna e Snam già in portafoglio di Cdp – ha fruttato 2,1 miliardi con la cessione del 35% alla State Grid of China, ma serviranno altri passaggi come un dividendo straordinario per far tornare quelle risorse ai soci. Dopo molti tentennamenti, ha varcato la porta di Palazzo Mezzanotte anche RaiWay, essenzialmente però per rendere possibile una riduzione dei contributi pubblici a quella Rai che, come si è visto nel primo di questi articoli, dovrebbe essere “la madre di tutte le privatizzazioni”, secondo un documento dell’Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuan sulla Dottrina Sociale della Chiesa, organismo internazionale distinto e distante dalle nostre beghe.

Il Governo Renzi ha annunciato privatizzazioni per 11,2 miliardi all’anno fino al 2017, contro gli 8 miliardi fino al 2016, contemplati dal Governo Letta. Tuttavia, oggi è ancora meno chiara di dieci-quindici anni fa quella che gli economisti chiamano la funzione obiettivo delle privatizzazioni: in che misura vengono invocate per ‘fare cassa’ ed alleggerire il debito pubblico ed in che misura per rendere più efficiente il sistema complessivo ed aumentare la produttività multifattoriale. Allora la priorità della riduzione del debito pubblico era chiara ed iscritta nella normativa, tanto che i proventi delle privatizzazione venivano direttamente incanalati in un fondo speciale per alleggerire il fardello del debito. Adesso, anche ove in tre anni si privatizzasse per 33-34 miliardi, si scalfirebbe appena uno stock di debito pubblico attorno a 2.200 miliardi. A maggior ragione, quindi, occorre essere chiari sugli obiettivi. Altrimenti, lo charme discreto diventa come quella catenine d’argento che si regalano per i Battesimi, “così fini, così fini – diceva Petrolini – che non si vedono nemmeno”.

Inoltre, allo charme discreto delle privatizzazioni si contrappongono mani pubbliche sempre più tentacolari. È di questi giorni il ritorno alla grande del Tesoro come azionista del Monte dei Paschi di Siena. Aumentano le voci di una bad bank pubblica per alloggiare (sulle spalle dei contribuenti) le sofferenze di istituti di credito privati. È ormai scontato un intervento pubblico “temporaneo” per l’Ilva. È in fase avanzata il progetto di un fondo per l’ingresso anche esso ‘temporaneo’ nel capitale di aziende in crisi. Lo “charme” rischia di diventare troppo discreto.

Italia, terra di tassator scortesi

Italia, terra di tassator scortesi

Matteo Rigamonti – Formiche

Tra le cause della crisi economica dell’Occidente industrializzato ci sono anche le tasse. È ciò che mette in luce l’Indice della libertà fiscale in Europa, stilato dal centro studi “Impresa lavoro” e di cui Formiche.net è in grado di anticipare i contenuti. L’ipertassazione, peraltro, che secondo il centro studi pregiudica la capacità produttiva di un paese, raggiunge i suoi livelli massimi in Italia, dove l’onere del prelievo è direttamente proporzionale a quello della burocrazia. Due voci sempre da riformare, ma che non cambiano mai. Proviamo a capire perché.

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Enel, è vera privatizzazione?

Enel, è vera privatizzazione?

Giuseppe Pennisi – Formiche

Se le cose vanno come desiderato al Ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef) ed a Palazzo Chigi, la vendita del 3-6% di quote Enel potrebbe essere presentato come ‘il fiore all’occhiello’ delle privatizzazioni. Verrebbe effettuata in tempi brevi: il collocamento inizierebbe la settimana del 9 febbraio e verrebbe completato entro la fine del mese, anche in quanto ci sarebbero investitori internazionali interessati all’acquisto. Il provvedimento porterebbe “cassa” (si stima sino a due miliardi di euro) senza fare perdere allo Stato il controllo di quello che è, in sostanza, il protagonista della produzione dell’energia elettrica. Al termine della cessione il Ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef), oggi azionista con il 31,2%, si troverebbe a scendere al 25% circa. Il secondo azionista di peso, dopo l’azionista pubblico, resterebbe People’s Bank of China con una quota del 2 per cento.

Più importati dei due miliardi (eventuali), che appena scalfirebbero l’irta montagna del debito pubblico, la misura sarebbe una prova concreta che il governo intende andare avanti seriamente con il piano di privatizzazioni (di fatto fermo da circa tre anni) almeno per quanto nelle competenze dello Stato centrale. La cessione di quote Enel arriva, inoltre, in un momento particolarmente propizio: in una fase in cui il calo domanda pesa sui ricavi (per ben 75,8 miliardi), l’Ebitda è in linea con gli obiettivi, e soprattutto l’indebitamento scende a 38 miliardi da 44,57 in settembre, nonostante i maggiori investimenti. Ciò indica che il management è stato in grado di cogliere le opportunità del ribasso internazionale ed europeo dei tassi d’interesse e d’effettuare buone operazioni di rifinanziamento, oltre che di portare a termine cessioni di controllate all’estero (Egp France e le attività in El Salvador). Un terzo elemento è il desiderio di numerosi investitori, piccoli e grandi, di porre i propri risparmi in collocamenti a lungo termini con poco rischio, rendimenti non elevati ma con caratteristiche di permettere di dormire tra due cuscini: i risparmi delle famiglie italiane sono arrivati a 3800 miliardi nonostante la tassazione sia cresciuta, secondo il Centro Studi “ImpresaLavoro” da 6,9 miliardi nel 2011 a 15,9 miliardi stimati nei documenti di finanza pubblica per il 2015, e l’investimento nell’attore principale di un mercato oligopolista pare avere le caratteristiche appropriate.

Il 26 gennaio al ministero dell’Economia e delle Finanze si è tenuta una riunione con il comitato per le privatizzazioni e gli advisor (Equita e Clifford Chance) per mettere a punto la strategia. In allerta sarebbero anche le banche già individuate per il consorzio di collocamento, una decina in tutto, tra i maggiori player internazionali e italiani, incluse Banca Imi e Unicredit. L’operazione dovrebbe prendere forma in tempi brevi. La tipologia di operazione su cui si sta lavorando è quella di un book building accelerato, che consentirebbe la realizzazione di un collocamento lampo da chiudere nel giro di alcune ore. Nell’ottica di chi ritiene che le privatizzazioni non debbano essere solamente o principalmente uno strumento di breve periodo per “fare cassa”, ed innescare energie nuove nell’azionariato oggi e domani anche nel gruppo dirigente, è doveroso chiedersi perché il Mef non abbia colto questa occasione per cominciare a mettere ordine in un mercato caratterizzato da liberalizzazioni incompiute, molteplicità di attori pubblici e privati, nonché nazionali ed europei, ed una regolamentazione incompleta ed in cui vari aspetto si accavallano.

In Italia, abbiamo l’Autorità per l’Energia Elettrica ed il Gas, Terna (proprietario della rete e responsabile della trasmissione e del dispacciamento di energia elettrica, il Gestore dei servizi energetici, principalmente per gli incentivi alle fonti rinnovabili), l’Acquirente unico, garante di ultima istanza della fornitura alle famiglie ed alle piccole imprese. A livello europeo per l’Agenzia per la cooperazione tra i regolatori nazionali, in cui concorrono autorità statali incorporate nel processo regolatorio europeo. In breve, un vero e proprio labirinto. Una guida efficace sono i 22 saggi raccolti nel volume a cura di Alberto Clò, Stefano Clò e Federico Botta “Riforme elettriche tra efficienza ed equità”, Bologna Il Mulino, 2014. Ha pienamente ragione Sabino Cassese nel sottolineare che siamo in una fase di transizione, con un mercato che continua ad essere oligopolistico, con molte e complesse nuove regole. Ciò non vuol dire che il riassetto del settore (eliminando ad esempio duplicazioni ed accavallamenti), debba essere simultaneo alla cessione di quote, ma dovrebbe, per mostrare un nesso, avvenire nei prossimi mesi. Allora sarebbe una ‘vera’ privatizzazione con una ricaduta istituzionale sul funzionamento del mercato.

Perché dopo la scossa di Draghi serve privatizzare in Italia

Perché dopo la scossa di Draghi serve privatizzare in Italia

Giuseppe Pennisi – Formiche

Nei giorni in cui tutti azzardano stime sugli effetti del Quantitative Easing (Q.E.), volgiamo lo sguardo a cosa fare per rendere efficaci le “misure monetarie non convenzionali” varate il 22 gennaio dalla Banca centrale europee. Non solo mi concentro sulle materie strettamente nel nostro campo: ciò che possono (e che debbono) fare Parlamento e Governo della Repubblica Italiana mentre gli altri 18 membri dell’eurozona molto probabilmente si accapiglieranno su questa o quella virgola del compromesso raggiunto.

A mio avviso, il tema più urgente è quello delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni. Il Q.E. può darci lo spazio di manovra per farlo anche se i suoi effetti saranno inferiori a un tasso di crescita complessivo dell’1,8 % sui prossimi due anni (ossia, mediamente, 0,75% l’anno) come stimato dal Centro Studi Confindustria. La crescita sarà probabilmente – è la media delle proiezioni dei 20 maggiori istituti econometrici internazioni, tutti privati, nessuno italiano – sullo 0,4% nel 2015 e sul 0,6% nel 2016, pur sempre un’inversione di tendenza dopo tre lustri in cui alla stagnazione hanno fatto seguito una recessione ed una deflazione.

Le privatizzazioni (e la chiusura di enti inutili) sono particolarmente urgenti sia per contribuire a ridurre lo stock di debito (sarebbe illusorio, ove non puerile, fare conto, a questo scopo solo o principalmente sul Q.E.) sia per rendere più snello quello che un tempo si chiamava (grazie ad una definizione molto appropriata di Franco Reviglio) “settore pubblico allargato” sia per contribuire, in tal modo, ad aumentare la produttività dei settori di produzione (da quindici anni rasoterra). È un campo particolarmente ostico: basti pensare che l’unica privatizzazione portata a termine nel 2014 è quella dell’Unione Nazionale degli Ufficiali in Congedo e che dal 2011 il Ministero dell’Economia e delle Finanze non mette in rete la Relazione Annuale al Parlamento sulle Privatizzazioni (forse perché non riuscirebbe a riempire neanche una pagina). Anzi, stiamo andando verso la nazionalizzazione (tramite una SpA contenitore) per le aziende in crisi. Non solo ma la nostra proposta è di cominciare non con operazioni relativamente facili (cessioni di quote dell’Enel, dell’Eni, delle Poste), e neanche da quella giudicata come la “madre di tutte le privatizzazioni” dall’Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuan sulla Dottrina Sociale della Chiesa (la RAI, per cui si potrebbe stilare un programma tecnico dettagliato) ma dal terreno più difficile: quello del capitalismo (o socialismo) regionale e municipale.

Il campo è tanto ispido che il documento stilato dal buon, e caro, Carlo Cottarelli (chiamato a rimettere ordine e presto rispedito, dal Presidente del Consiglio, oltre-oceano, dove non potesse sapere troppo su ciò che avviene in Italia) è stato “segretato” come se svelasse segreti di Stato sul terrorismo mondiale. Interpolando dalle informazioni apparse sulla stampa a proposito del documento segretato, analisi apparse sulla bella rivista Amministrazione Civile del Ministero dell’Interno (ha cessato le pubblicazioni subito dopo avere toccato l’argomento), studi dell’Università ‘La Sapienza’ di Roma e un saggio recente pubblicato dal Chief Economist della Cassa Depositi e Prestiti Edoardo Reviglio sulla rivista Economia Italiana, si giunge ad una base conoscitiva essenziale per trarre direttive operative.

In breve le “partecipate” a livello locale sono circa 25.000 mila (Cottarelli ne ha censite 8000), di un centinaio partecipate totalitarie, un migliaio aziende in cui la mano pubblica ha la maggioranza , 22.000 partecipate in cui gli enti pubblici hanno una quota inferiore al 49%, e ben 16.000 con una quota inferiore al 4%. Numerosissime sono mere scatole cinesi in cui sovente il numero dei dipendenti è inferiore a quello dei componenti degli organi di indirizzo di gestione. Secondo Giovanni Montemartini, che in età giolittiana teorizzò le municipalizzate, avrebbero dovuto generare reddito da utilizzare a fini sociali a beneficio degli ‘incapienti’, i più poveri dei poveri’. Molte di esse, invece, sono macchine per fare debiti (si parla di circa 120 miliardi l’anno).

Occorre dire che all’interno del Governo era stato proposto di fare pulizia, portando a non più di mille (nell’arco di tre anni) il numero delle partecipate e di dismettere quelle con disavanzi per due anni consecutivi, nonché un drastico dimagrimento degli organi di indirizzo e di gestione e chiusura delle ‘scatole cinesi’. Alcune norme erano stato nelle legge di stabilità. Tuttavia, con un emendamento all’articolo 15 della legge di stabilità al Senato, il Governo cancella con un colpo di spugna i tentativi di razionalizzazione delle società partecipate messi in campo negli ultimi anni. Niente vendite obbligatorie per le aziende dei Comuni fino a 50mila abitanti, previste dal 2010 e poi rinviate da una serie di proroghe, e niente privatizzazione delle società strumentali, cioè quelle che lavorano quasi solo con le amministrazioni controllanti, e che la spending review varata nel 2012 dal Governo Monti chiedeva di vendere o chiudere entro il prossimo 31 dicembre. Tutto abrogato: il panorama attuale delle società di enti locali, Regioni e ministeri può tranquillamente rimanere quello attuale.

Al posto delle sforbiciate, sempre rimaste sulla carta, il governo tenta la strada del controllo dei bilanci, imponendo agli enti che posseggono società in perdita di accantonare riserve e prevedendo, ma solo dal 2017, la chiusura obbligatoria delle aziende che chiudono bilanci in rosso per quattro anni consecutivi. Confermata, ma solo a partire dal 2015, la possibilità di “licenziare” gli amministratori delle partecipate che chiudono in perdita per due anni consecutivi. Sempre dal 2015, arriva un taglio del 30% ai compensi dei manager delle società controllate e titolari di affidamento in house che chiudono in perdita per tre anni consecutivi.

Dal 2015 è previsto che anche società partecipate, aziende speciali e istituzioni, anche di regioni e camere di commercio, debbano dare una mano nel «conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica». Come? In primo luogo, la norma promette di individuare “parametri standard” dei costi e dei rendimenti dei servizi, traducendo in termini societari il percorso dei fabbisogni standard degli enti locali che però al momento si mantiene lontano dal traguardo. Più immediato è invece l’obbligo per gli enti proprietari di accantonare in bilancio fondi di riserva, a garanzia delle perdite accumulate dalle società. Le regole di questi fondi procederanno in due tempi: nel 2014, ogni ente dovrà accantonare una somma pari alla perdita registrata dalla sua società nel 2013. Nel 2015-2017, invece, le regole dividono le società in due gruppi, a seconda del risultato medio del 2011-2013: se è positivo, l’accantonamento sarà pari a una quota della perdita conseguita nell’ultimo anno, altrimenti si calcolerà sulla media degli ultimi tre. Troppo poco e troppo tardi.

Congiura italiana del silenzio sul FACTA

Congiura italiana del silenzio sul FACTA

Giuseppe Pennisi – Formiche

In queste settimane, uno dei temi caldi sulla stampa internazionale riguarda gli effetti del FATCA (Foreign Account Tax Compliance Act), una norma americana recepita dall’Italia l’estate scorsa sugli intermediari finanziari, sulle famiglie e sugli individui. Due importanti columnist del ‘Project syndacate’, appena effettuati i loro adempimenti con il FATCA, sono andati ai più vicini consolati americani a rinunciare alla loro nazionalità americana (diventando uno tedesco e uno francese, le nazionalità dei coniugi). I consolati americani hanno aumentato da 400 a 3250 euro la fee (tassa) per rinunciare alla cittadinanza.

In Canada, dove la doppia cittadinanza è frequentissima, si è addirittura costituito un partito con il programma di forzare il Governo di uscire dall’Intergovernmental Agreement con cui è stato recepito il FATCA. Gli americani residenti nei Paesi OCSE hanno dato vita ad un’associazione perché siano gli organi dell’organizzazione a far sì che gli Stati Uniti applichino, come tutti, il principio dell’imposizione tributaria sulla base delle ‘residenza’ non della ‘cittadinanza’. Non solo: oggi se ci si rivolge a qualsiasi istituzione finanziaria italiana per acquistare quote di un fondo comune d’investimento, si deve compilare un complesso modulo per certificare che non si è, e non si è mai stati, cittadini americani, e – ove lo si sia stati – occorre esibire copia autenticata dell’atto di rinuncia quale accettato dall’Amministrazione Usa.

Infine, alcuni correntisti italiani stanno ricevendo lettere di disdetta dei loro conto correnti da banche, di cui sono stati clienti per decenni, perché ci sono ‘forti indizi’ di cittadinanza americana. Si tratta spesso di figli di italiani che, dopo un periodo di espatrio, sono rientrati in Patria, di vedovi o vedovi di americani, di persone nate quasi “per caso” negli Usa in quanto figli di diplomatici, funzionari internazionali, italiani che hanno lavorato per periodi più o meno lunghi all’estero.

Cosa è il FATCA? Non è questa la sede per entrare nei dettagli tecnico-tributari. Come scrisse mirabilmente Paul Streeten in un saggio nel lontano 1986 è il frutto della ‘legge del racket’ in base alla quale una buona idea finisce nelle mani delle persone sbagliate e ne creano un incubo burocratico per i propri fini. FATCA nasce da una buona idea: tentare di limitare il riciclaggio e far sì contemporaneamente che i milioni di cittadini americani (spesso inconsapevoli di esserlo) adempiano ai loro obblighi tributari nei confronti degli USA. Su questa buona idea, si sono inserite due componenti: la lobby dei ‘mutual funds’ americani per impedire che i cittadini americani investano in ‘fondi comuni’ esteri, od in mutual funds Usa che operano anche con titoli stranieri, e il desiderio dell’Internal Revenue Service (IRS), l’Agenzia delle Entrate americana di espandere il proprio tentacolare organico. Il tutto è stato condito di una buona dose di populismo.

In estrema sintesi, tutti gli intermediari finanziari devono consegnare all’IRS, tramite le agenzie tributarie nazionali, tutti i dati sui conti di deposito di cittadini americani, anche quelli cointestati con non americani. Un costo enorme per gli intermediari. Ancora maggiore, però, quello che pesa sugli intermediari finanziari (e sui singoli sia individui sia famiglie sia imprese) se gli americani residenti all’estero vogliono mettersi in regola tramite un percorso speciale definito nel FATCA; occorre infatti presentare, per gli ultimi sei anni, i movimenti (spesso quotidiani) di ciascun titolo all’interno di ciascun comparto di mutual fund americano o straniare al fine di determinare capitale,
dividendo o interesse. Un lavoro mostruoso.

Teoricamente, dovrebbe servire all’IRS a determinare se l’imposta sull’aumento di capitale (che negli Usa aveva, sino ad un anno fa, aliquote più alte che in numerosi Paesi OCSE) deve essere conguagliata. Per l’imposta sui redditi,i trattati sulla doppia tassazione fanno sì che unicamente in rarissimi casi ci saranno compensazioni da fare. Quindi molto lavoro per un piccolo gruppo di fiscalisti specializzati in questa materia. Un costo pesantissimo per le istituzioni finanziarie, per gli individui e per le famiglie.

Ci sono alternative migliori e più semplici (nonché meno onerose) per raggiungere i medesimi obiettivi tanto che negli Usa il Partito Repubblicano sta lavorando alla sostituzione del FATCA; con un altro strumento legislativo. Il punto di fondo è perché in Italia non c’è stato il débat publique prima di recepire l’accordo e perché oggi non se parla e non si mettono le strutture pubbliche in condizioni di aiutare individui, famiglie ed imprese? Tanto più che c’è un aspetto molto grave: una legge straniera cambia regole italiane per cittadini italiani e discrimina nei confronti di cittadini italiani come in altri tempi venne fatto nei confronti degli italiani.

Così Francia e Italia rispondono alle sculacciate di Juncker

Così Francia e Italia rispondono alle sculacciate di Juncker

Giuseppe Pennisi – Formiche

Commentando l’Ecofin, numerosi editorialisti hanno posto l’accento sull’ampliamento (vero o presunto) del fronte anti-tedesco (specialmente a ragione del caos che da Atene sta contagiando le Borse di mezza Europa). Pochi hanno riportato (e senza grande enfasi) i rimbrotti (sarebbe meglio parlare di sculacciate) di Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione Europea, all’Italia, inasprite dalla minaccia di “conseguenze spiacevoli” (per noi tutti) se in primavera non passeremo gli esami di riparazioni.

In effetti, tenendo presente che il terzo Paese “rimandato” (il Belgio) è piccolo e (sui mercati finanziari) conta poco, Juncker conosceva in anticipo le misure approvate questa mattina 10 dicembre (in vista degli esami tra quattro mesi circa) dal Consiglio dei Ministri francese della Francia. In effetti, mentre in Italia ci si sollazza su come garantire in Costituzione che Villa Lubin diventi appannaggio della Corte dei Conti in un clima romano che ricorda la Mahagonny di Brecht e Weill (la città dove ormai il crimine è al comando e tutto l’illegale è lecito, anzi incoraggiato), il 36enne Emmanuel Macron ha tessuto la tela con i suoi colleghi e messo a punto un disegno di legge quadro di “Crescita e Attività” approvato il 10 dicembre alle 13 dal Consiglio dei Ministri e per il quale è prevista una “corsia preferenziale” all’assemblea nazionale. Macron ha detto che il provvedimento sarà varato entro febbraio e in marzo la Francia si presenterà a Bruxelles, anche con i primi decreti delegati.

Il provvedimento è di vasta portata. Dato che nel settore manifatturiero la concorrenza (e, quindi, le liberalizzazioni) sono regolate e vigilate a livello europee, la prima delle misure riguarda i servizi. Nel settore dei trasporti locali, le autolinee private sono messe in competizioni tra di loro e con il mitico, e sino ad ora monopolista, chemin de fer. In materia di giustizia civile vengono poste tempistiche serrate per risolvere controversie e, nel settore edilizio-urbanistico, per promuovere anche l’ingresso di “nuovi entranti”. Per favorire gli investimenti, vengono varate misure per incoraggiare i lavoratori ad investire i propri risparmi nelle imprese di cui sono dipendenti, diventandone azionisti (anche a livello di piccole e medie imprese). Altre misure riguardano il social housing, anche al fine di migliorare le periferie. Viene poi modificato il sistema lavoristico: le domeniche in cui i negozi ed i servizi resteranno aperti saranno definite a livello locale da ciascun sindaco, ma non potranno essere meno di cinque e più di dodici l’anno. Vengono modificate le regole di accesso alle professioni (anche a quella, potentissima oltralpe, dei notai) e definito che gli studi professionali possano avere “soci di capitale”.

Un vero programma “rivoluzionario” e liberale, anche se varato da un Governo socialista. Mette l’accento su quelle liberalizzazioni dei servizi e delle professioni che in Francia è sempre stato molto difficile effettuare (e dove neanche in Italia si è brillato). Vedremo quanto andrà effettivamente in porto e se verrà attuato il programma di “denazionalizzazioni” annunciato quasi in parallelo. Si tratta pur sempre di quelle “riforme di struttura” per rilanciare la produttività che Bruxelles si aspetta.

Ecco le tre mosse per salvare l’Italia e l’Europa

Ecco le tre mosse per salvare l’Italia e l’Europa

Giuseppe Pennisi – Formiche

Un seminario di studi organizzato da Febaf e da Economia Reale, le proposte per uscire dalla crisi e un paio di perplessità… Il 3 dicembre, proprio mentre il disegno di legge di stabilità approvato (ricorrendo al voto di fiducia) dalla Camera approda in Senato, la Federazione Banche Assicurazioni e Finanza (FeBaF) presieduta da Luigi Abete e l’Associazione Economia Reale hanno organizzato una riflessione sulla strategia di politica economica.

Riflessione tra economisti
Ad essa hanno preso parte, tra gli altri, il Presidente ed il Segretario Generale della FeBaf (Luigi Abate e Paolo Garonna), il Presidente dell’Associazione Economia Reale (Mario Baldassarri), Emilio Rossi della Oxford Economics, nonché Sergio de Nardi (Nomisma), Stefania Tomasini (Prometeia), Pierluigi Ciocca (Accademia dei Lincei), Marco Simoni (London School of Economics), Marco Fortis (Fondazione Edison), Marcello Messori (Luiss), Paolo Savona (Emerito Luiss) e molti altri. Una riflessione, quindi, tra economisti qualificati.

Il Rapporto
Il documento di base presentato è stato un libro curato da Mario Baldassarri Scacco Matto alla Crisi: Tre mosse per salvare l’Italia e l’Europa e un aggiornamento per tenere conto degli ultimi sviluppi e delle misure di politica economica all’esame del Parlamento. Non è certo questa la sede per riassumere le 370 pagine del volume e le 80 dell’aggiornamento, oppure diverse ore dibattito. L’analisi del volume e dell’aggiornamento è pienamente condivisibile: l’Italia sembra essere su una china sempre più in discesa – tanto da considerare preoccupanti gli “esami di riparazione” che l’Unione Europea ci ha chiesto di fare in marzo-aprile – e la legge di stabilità non è tale da mordere e fare cambiare marcia.

I 3 consigli
Le tre mosse suggerite nel libro e reiterate nell’aggiornamento sono le seguenti:
a) Un ritorno graduale del rapporto di cambio 1 a 1 tra euro e dollaro.
b) Una politica di bilancio espansionista (tagliando però le spese improduttive delle amministrazioni pubbliche dello Stato e delle autonomie locali, valutate in almeno 40 miliardi di euro l’anno) a supporto, complemento ed integrazione di una politica espansionista della moneta.
c) Una riduzione del fardello del debito pubblico tramite emissioni di titoli di un fondo garantito dal patrimonio immobiliare dello Stato e delle autonomie.
In tal modo, non solo si uscirebbe dalla recessione e deflazione ma si potrebbe progressivamente tornare a tassi di crescita del 3% l’anno e non solo risolvere il problema del debito ma anche e soprattutto rilanciare produzione, produttività ed occupazione. Questa è, senza dubbio, una sintesi di documenti molto articolati e molto ricchi di analisi econometriche.

Le perplessità
Tuttavia, ho perplessità sull’obiettivo (un ritorno ad un tasso di crescita del 3% l’anno) sia sugli strumenti. L’obiettivo non tiene conto che prima della crisi del 2006 la Banca mondiale, la Banca Centrale Europea, la Commissione Europea, il Fondo Monetario Internazionale e l’OCSE ponevano all’1,3% il tasso potenziale di crescita dell’economia italiana a ragione dell’invecchiamento della popolazione, delle dimensioni medie aziendali e dell’obsolescenza degli impianti, Già nei piani triennali del 1981 e del 1982, per le medesime determinanti la crescita potenziale dell’Italia veniva stimata tra il 2% ed il 2,5%. Nel più recente documento Bce viene posta allo 0% a ragione degli effetti devastanti della crisi sull’apparato produttivo nonché dell’ulteriore invecchiamento. Quindi sarebbe più realistico puntare ad un tasso potenziale di crescita pre-crisi (1.3-1.5% per cento).

La questione del cambio
In secondo luogo, il cambio euro-dollaro dipende più dalla politica monetaria americana che da quella europea; se gli Usa continuano sulla strada del benign neglect, è difficile pensare di poter raggiungere, nel breve termine, l’obiettivo della parità tra dollaro ed euro. E’ da condividersi una politica di bilancio espansionista, ma l’attuale Governo non intende né uscire dai binari europei né entrare in aree di spesa di competenza delle autonomie locali (dove c’è molto grasso).

Il nodo del fondo
In terzo luogo, io stesso propongo da anni un fondo (non solo immobiliare) e tale da ridurre il fardello del debito. E’ stato effettuato un esame tra le varie proposte in una giornata seminariale al Cnel ed l’associazione di ricerca Astrid ha presentato un dettagliato documento. Ma a più riprese il presidente del Consiglio ed il ministro dell’Economia e delle Finanze hanno affermato di non considerare quello del debito un argomento prioritario.

Il dibattito è aperto.

Caro Matteo Renzi, lascia perdere gli alchimisti e non ascoltare le sirene degli iconoclasti

Caro Matteo Renzi, lascia perdere gli alchimisti e non ascoltare le sirene degli iconoclasti

Giuseppe Pennisi – Formiche

Il ‘semestre europeo’ che sarebbe dovuto essere a guida italiana si sta chiudendo senza essere stato pilotato, in effetti, da nessuno. Le ragioni sono oggettive: i protratti, e difficili negoziati, per la costituzione di una nuova Commissione Europea in una fase in cui l’eurozona è il grande malato dell’economia mondiale, sono in corso guerre guerreggiate alle frontiere orientali e meridionali dell’area, e le tensioni tra il ‘virtuoso’ Nord ed il ‘peccaminoso’ Sud si fanno più acute. Non si deve certo attribuire al Presidente del Consiglio italiano il ‘bailamme’ in cui si è dipanato il semestre. Gli si può rimproverare , però, di avere, come è sua abitudine, fatte troppe promesse e destato eccessive aspettative. Accendendo la miccia per delusioni. Alla vigilia dell’imminente Consiglio Europeo del 18-19 dicembre, sarebbe auspicabile consigliargli la prudenza, virtù cardinale che pare lontana dalle sue convinzioni.

Oggi l’Europa sembra in mano a leader intellettuali e politici di stampo medioevale. Il confronto è tra iconoclasti e gli alchimisti. I primi sono guidati dall’economista Anatole Kaletsky ed annoverano tra i loro ranghi sia premi Nobel come Paul Krugman che giornalisti di belle speranze e tanto ottimismo. I secondi hanno trovato il loro Leader Massimo nel Presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker.

Per i primi ci sarebbero indicazioni molto solide di una svolta. Anzi, sarebbe dietro l’angolo una “Grande Convergenza” tra le politiche macro-economiche degli Stati Uniti (dove la crescita del Pil rasenta il 4% l’anno) e quelle di Unione Europea, Giappone ed anche India e Cina. Le banche centrali, a cominciare dalla Bce, inizierebbero un programma ‘vigoroso’ di ‘misure non convenzionali’, si allenterebbero i vincoli di bilancio (senza troppo preoccuparsi di Trattati e di Compact), si liberalizzerebbe, si privatizzerebbe. E via discorrendo. A mio avviso, queste indicazioni, ove ci fossero, non tengono conto dei nodi demografici che caratterizzano l’Europa in generale e l’Eurozona in particolare e che frenano innovazione, consumi ed investimenti ed impongono un crescente stato sociale (previdenza, sanità) e comportano una bassa produttività dei fattori di produzione. Inoltre, nell’eurozona, i Paesi ‘che pesano di più’ non ritengono che Trattati e Compact, liberamente sottoscritti, possano essere liberamente e gioiosamente violati.

Gli alchimisti hanno trovato – si è detto – il loro Leader nel Presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker, di cui Matteo Renzi è un aedo, ancor più che un corista a cappella. La prova si ha nel tanto atteso e tanto applaudito (da coristi e aedi) piano di investimenti di 300 miliardi di euro che dovrebbe ‘dare la scossa’ all’eurozona. In effetti, non solo – come notato da numerosi commentatori – la Commissione Europea stanzia sono 21 miliardi (che dovrebbero attrarre i Governi, i privati ed anche mia zia Carolina dubbiosa sul futuro della propria pensione ed anche dei propri risparmi), ma se dedica un po’ di tempo allo studio del bilancio comunitario ci si accorge che i 21 miliardi sono rimasugli (infrattati in migliaia di voci) non utilizzati dalla Commissione presieduta da José Barroso.

Non sono stati impegnati o perché mancavano i progetti o per lungaggini burocratiche degli Stati membri, delle loro Regioni e negli stessi labirinti comunitari. Quindi, più nulla che poco per ‘svoltare’ e ‘cambiare marcia’ in un’eurozona dove l’investimento in infrastrutture è ridotto, mediamente, a meno del 2% del Pil (non riporto per carità di patria l’ulteriore taglio proposto nella nostra Legge di Stabilità). In breve si tratta di una ricetta ispirata alla Vêc Makropoulos, la pozione che l’alchimista greco-ebreo preparò per l’Imperatore Rodolfo d’Asburgo (quando Praga era la capitale dell’Impero) immortalata in un dramma di Ċâpeck, uno dei massimi scrittori boemi del primo Novecento.

Matteo, lascia perdere gli alchimisti e non ascoltare le sirene degli iconoclasti. Cerca, piuttosto, di circondarti di chi di queste cose se ne intende.

Torti e ragioni della recalcitrante Germania sull’Europa poco teutonica

Torti e ragioni della recalcitrante Germania sull’Europa poco teutonica

Giuseppe Pennisi – Formiche.net

Nonostante sia da quasi mezzo secolo sposato con una francese (non certo filotedesca tanto più che nata dove negli anni della seconda guerra mondiale, c’era “la linea di demarcazione tra territorio occupato e la Repubblica di Vichy”), sin dagli anni dell’università i miei migliori amici personali erano tedeschi. La Germania mi aveva affascinato al liceo con la sua filosofia e la sua musica. Quando in un’università internazionale ero con studenti di differenti Paesi, finii con fraternizzare, e studiare, con i colleghi tedeschi per il loro fortissimo senso del dovere e la loro parimenti profonda lealtà. Non avere imparato la lingua (se non per sommi capi) è ancora un cruccio, causato dall’avere vissuto per oltre tre lustri negli Stati Uniti.

Molti amici e colleghi italiani (nonché francesi) hanno difficoltà a comprendere l’atteggiamento della Repubblica Federale in generale e dei Governi tedeschi nei confronti di programmi e progetti (ad esempio, gli eurobond) che faciliterebbero il processo d’integrazione europea. In effetti, i tedeschi (non solo i Governi ma la popolazione in generale) sono recalcitranti nei confronti di un’Europa più integrata e più coesa di cui Berlino (il Paese più vasto e più potente) avrebbe tutti i titoli per assumerne la guida.

Per comprendere il fenomeno occorre guardare al passato ed al futuro. Per il passato un utile contributo è Reluctant Meisters: How Germany’s Pasti s Shaping its European Fuure di Stephen Green. Green non è uno storico di professione ma un Lord britannico, che è stato Ministro del commercio con l’estero ed anche Presidente della Hong Kong and Shanghai Bank. I tedeschi diffidano del resto d’Europa dal lontano 9-15 dopo Cristo quando leader tribale di nome Hermann sconfisse tre legioni romani nella foresta di Teutoburg per essere fatto a pezzi dopo alcuni anni (quando i romani tornarono con ancora maggiori forze). In tempi più recenti, si sono considerati (a torto od a ragione) vittime della guerra dei trent’anni 1618-48, delle scorribande napoleoniche ed infine del Trattato di Versailles che li umiliò al solo scopo di giungere ad un armistizio di vent’anni della lunga guerra mondiale che ha caratterizzato la prima metà del Ventesimo Secolo.

Il ‘miracolo tedesco’ – ricorda Lord Green – è stato il frutto degli aiuti americani (i quali anche delinearono la Costituzione ed il sistema politico della Repubblica Federale). Sono stati anche gli americani a contribuire, più degli altri europei, al crollo del muro di Berlino ed alla riunificazione. Agli americani va la loro gratitudine e lealtà. Anzi – Lord Green non lo dice ma ne ho la chiara sensazione – da quando gli Usa hanno diminuito il loro interesse (a torto o a ragione) nel processo di integrazione europea caratterizzato, a loro avviso, da bisticci tra comari – pure la Germania Federale non vede perché deve assumere un onere pesantissimo nei confronti di millenari avversari che hanno scarso senso del dovere e spesso hanno concluso guerre con alleati differenti da quelli con cui le avevano iniziate.

A queste determinanti relative al passato, se ne aggiungono fortissime altre concernenti il futuro. La Germania “sente” più di altri Paesi europei l’invecchiamento della propria popolazione. Coen Teulings della University di Cambridge – un demografico olandese distinto e distante dalle beghe del Continente (e per questo motivo sulle rive del fiume Cam) – ha calcolato che per fare fronte alla “sfida demografica” (ad esempio, pensioni ed assistenza medica decenti) il risparmio complessivo delle famiglie tedesche deve porsi sul 350% del Pil. Non che l’Italia sia piazzata meglio. Per i tedeschi (in generale) la differenza è che loro se ne curano, a ragione del “dovere” che sentono profondamente nei confronti delle generazioni future, mentre gli italiani (con i francesi, gli spagnoli, i portoghesi ed i greci) se ne preoccupano meno. Perché – mi diceva recentemente un vecchio compagno di studi che ha fatto, in quel di Francoforte, il banchiere per tutta la vita professionale – dobbiamo metterci alla guida di tale brigata e porci l’onere sulle nostre spalle? Come rispondere?