germania

Famolo à la francese

Famolo à la francese

Davide Giacalone – Libero

Famolo à la francese. È il ruggito che s’ode per ogni dove, da destra a sinistra, in un’Italia generosamente pronta a farsi del male con le proprie mani. L’annuncio governativo che conferma il perdurante sfondamento del deficit è, per i francesi, un segno di resa non di attacco, una sconfitta non un’orgogliosa impennata. Tagliano la spesa pubblica per 50 miliardi in tre anni e quella continua a crescergli. Un film dell’orrore.

I francesi divorziano dalla dottrina del rigore e spezzano l’asse con i tedeschi? Scordatevelo. Pierre Moscovici, ex ministro delle finanze francesi e ora commissario europeo, ha annunciato l’avvio di una procedura d’infrazione, a carico del suo Paese (e non poteva fare diversamente), ma ha anche detto che per tutta la durata del mandato non si parlerà di eurobond. È questo è inaccettabile, oltre che la conferma del lato oscuro dell’asse Berlino-Parigi. La realtà è che il sistema francese è più in crisi di quello italiano, e mentre le nostre imprese manifatturiere ancora camminano le loro arrancano. Hanno un sistema più forte dal lato delle grandi imprese, molto protette dallo Stato, ma questo non li rende più elastici, bensì meno. Il governo francese rende noto che più di tanto non può fare senza cadere ed essere massacrato all’interno. Posto che potrebbe comunque accadere. È un segnale d’impotenza, non un’inversione di marcia.

Ciò avviene nel mentre le scelte della Banca centrale europea ottengono la discesa del valore dell’euro. A lungo reclamata e oggi non declamata. È la seconda volta che la Bce coglie nel segno, avendo già operato con successo per la discesa dei tassi d’interesse e la riduzione della voragine spread. Il fatto è che la Bce non può fare il resto, non può sostituirsi ai governi, non può e non deve usurpare la politica. È alla politica che spetta il compito di piantarla di vivere l’euro e l’Unione europea come vincoli, decidendosi a trasferirvi maggiore sovranità, quindi più politica e più democrazia. Avvertendone, altrimenti, l’insostenibilità. Se si praticasse seriamente la prima opzione (più saggia e promettente), si tratterebbe non di chiedere deroghe sui conti, non di avere spazi per far continuare una politica depressiva di sottrazione di ricchezza alla produzione e al consumo, per consegnarla alla fornace della spesa corrente improduttiva, ma di rifare i conti e rivalutare i pesi di ciascuno. Noi italiani siamo un pessimo esempio di gestione del debito pubblico, ma un buon esempio di debito aggregato (pubblico + privato) in relazione al patrimonio. Il nostro debito pubblico, così com’è, ci affonda. Il nostro debito aggregato è fra i meglio sostenibili, ben più di quello francese. Questo è far politica, questo è portare la politica nelle sedi decisionali, anche per evitare che il ragionierismo conceda ad altri vantaggi indebiti.

Ci sono in giro troppi keynesiani immaginari, magari pronti a citare l’esempio del 1929. Ma allora lo Stato era smilzo, ora è obeso. Allora era saggio praticare il deficit spending (spesa in deficit), mentre noi, da lustri, pratichiamo il deficit burning, nel senso che contraiamo debiti per bruciare denaro in spesa corrente. Certo che non bisogna rassegnarsi all’ottusa politica del rigore, ma questo deve significare grande rigore nelle politiche nazionali di bilancio e spinta allo sviluppo nelle politiche europee. Certo che non ci si deve piegare all’egemonismo teutonico, ma i tedeschi vanno battuti non strappando il non rispetto dei parametri (quindi suicidandosi), bensì nella federalizzazione della spesa per investimenti e del debito. Quella è la condizione cui subordinare la vita dell’euro, non l’opposto, ovvero la possibilità di allargare ciascuno i propri debiti, perché questo consegna tutto il potere ai tedeschi: senza la loro copertura e senza l’euro la Francia, che ha il 54% del debito pubblico collocato all’estero (noi circa il 40), si ritroverebbe massacrata dagli interessi passivi.

C’è anche evidenza empirica: nel 2003-2004 Francia e Germania sfondarono i deficit, i francesi per pagarsi la stabilità del governo e i tedeschi per pagare il costo sociale delle riforme. Guardate i risultati dieci anni dopo e chiedetevi se gli sfondamenti portano bene, quando praticati per salvare il passato anziché propiziare il futuro. Ogni volta che sento dire o leggo: “diciamolo all’Europa”, “ce lo impone l’Europa”, “lo abbiamo promesso all’Europa”, capisco che chi usa quel linguaggio non è cittadino europeo, ma subisce il vincolo di un regno ove è suddito. Supporre che i conti francesi portino forza all’ulteriormente scassare quelli italiani significa ancora di più: avere vocazione alla sudditanza.

L’ultimo salvagente rimasto

L’ultimo salvagente rimasto

Giuseppe De Bellis – Il Giornale

Basta, ha detto ieri la Francia. A se stessa, alla Germania, all’Europa. Basta con l’ossessione del rigore. Il governo di Parigi ha annunciato che sforerà ancora il rapporto deficit-Pil, quello che per i trattati europei deve essere massimo al 3%, una percentuale che per noi è diventata un incubo fatto di manovre su manovre, ovvero tasse su tasse. Ecco, la Francia quest’ anno chiuderà al 4,4% e ha rimandato il rientro sotto la soglia al 2017.

È la rottura di un argine che ha tenuto finora, di un fronte rigorista che praticamente tutti (tranne l’Italia di Berlusconi e in parte quella di Renzi) in Europa non avevano il coraggio di contrastare. Lo fa la Francia, che per anni ha fatto da spalla alla Germania della Merkel: ve lo ricordate l’asse franco-tedesco? Parigi ha cambiato idea da un po’ sotto la spinta della crisi e del conseguente calo di popolarità del presidente Hollande, arrivato oggi a un imbarazzante 13%. E sarà di sicuro questa la principale motivazione che spinge la Francia, ma resta il fatto che Parigi ieri ha lanciato una carica di dinamite sull’Europa: un governo tassatore che dice «noi non chiederemo più un solo sforzo ai francesi». La Germania ha reagito all’istante, la Merkel ha minacciosamente detto: «I Paesi facciano i loro compiti». Sprezzante, nervosa, irritata. Non se l’aspettava. Ce l’aspettavamo noi, invece, e da tempo, quando speravamo che il grido di dolore dei Paesi arrivasse dall’ltalia ma né Monti, né Letta si sono sognati di dire quel «basta». Di che cosa avevano paura? E di che cosa dovrebbe avere paura oggi Hollande? Delle dichiarazioni da maestrina della Merkel? Che può accadere? Commissarieranno la Francia? Sarebbe la fine dell’Europa.

Il potere contrattuale è direttamente proporzionale al coraggio. Renzi aveva cominciato le sue trattative con Bruxelles e Berlino, poi s’è fermato. Hollande l’ha superato, forse per disperazione. Ma l’ha fatto. Ci si può aggregare, distruggendo prima le resistenze di sindacati e mezzo Pd: la riforma del lavoro subito per muovere il Paese e dire all’Europa: «Adesso basta anche per noi». È paradossale che Parigi, cioè il governo più di sinistra d’Europa, faccia la cosa più liberale d’Europa: smettere di chiedere ai cittadini di salvare lo Stato. Dev’essere lo Stato a salvare i cittadini. I propri, prima che quelli europei. Forse vale la pena di salvare gli italiani.

Se la crisi fa tremare l’Unione

Se la crisi fa tremare l’Unione

Stefano Lepri – La Stampa

Il «Fiscal Compact» vacilla. Quell’insieme di regole di bilancio molto severe che aiutò (ma non bastò da solo, ci volle Mario Draghi) a uscire dalla crisi dell’euro tre anni fa non è più adeguato oggi, nel seguito di una grande crisi che continua a sorprendere. Se tutti i Paesi lo rispettassero alla lettera, l’Europa si addentrerebbe in una recessione senza fine. Purtroppo quando si incrina una regola, senza che ne sia pronta una nuova, il rischio del caos è grave. In mancanza della fiducia creata da una comune disciplina, contrasti disordinati tra Paesi possono condurre a esiti perfino peggiori. Nell’ipotesi più probabile, un compromesso poco trasparente lascerà strascichi di rancore. La Francia quelle regole non le ha mai seguite; l’annuncio che le infrangerà per la terza volta può darsi non aiuti l’Italia, poiché i casi dei due Paesi sono molto diversi. L’obbligo principale, quello del 3% di deficit, il nostro governo promette di rispettarlo. Ma la relazione presentata ieri al Parlamento spiega che fare onore agli altri due, deficit strutturale e debito, avrebbe effetti disastrosi.

Ormai le carte sono in tavola. Varie sono le colpe. L’Italia ha migliorato i suoi bilanci, ma è rimasta inefficiente. Il presidente francese è riuscito nel capolavoro alla rovescia di giocarsi il consenso pur non avendo cambiato quasi nulla; giura che manterrà la settimana di 35 ore, unica al mondo. Se pur con questi torti ora Roma e Parigi riescono a vantare ragioni, la responsabilità è della Germania.

Non sarebbe stato possibile sfidare il «Fiscal Compact» se l’economia dell’Europa non si fosse bloccata in un ristagno che minaccia di trasformarsi in ricaduta. Tutte le misure utili a una ripresa sono state o sono ostacolate da Berlino: ora un piano di investimenti collettivo, prima una unione bancaria più completa, prima ancora una ricapitalizzazione delle banche. Così pure la Bundesbank ha cercato di bloccare o ritardare tutte le misure monetarie espansive della Banca centrale europea. Lo farà anche contro le novità all’ordine del giorno oggi nel consiglio direttivo della Bce riunito a Napoli. E solo fino a un certo punto c’è una logica di interesse economico, tanto meno di dominio. C’è piuttosto un fenomeno culturale di conformismo misto a senso di superiorità nazionale e a paura del nuovo, nell’ossessivo ripetere agli altri Paesi «dovete fare come abbiamo fatto noi». Ma non è più possibile – ammesso e non concesso che lo fosse prima, per tanti Paesi insieme – uscire dalla crisi esportando, ora che la Cina ed altri emergenti rallentano. L’Italia, la Francia, devono sì diventare più competitive, ma non basta. C’è una crisi epocale in cui alcuni Paesi hanno troppi disoccupati e altri hanno capitali in eccesso: se non riescono ancora a incontrarsi, occorre che le autorità pubbliche sperimentino mosse nuove. Ovvero tutto ciò che la dottrina in voga in Germania, mese dopo mese smentita dai fatti, considera azzardi.

Si apre ora in Europa una partita complicata, dove sarà ancora più necessaria l’efficacia dell’azione di governo interna. Ancora non è chiaro, ad esempio, se la teatrale resa dei conti all’interno del Pd sulla questione del lavoro si tradurrà in novità vere o no; fermo restando che l’obiettivo dev’essere tirar fuori i giovani dal precariato facendo funzionare il contratto di inserimento. Il pericolo di una nuova crisi dell’euro è politico, non finanziario. O si smuove qualcosa nelle politiche nazionali – Angela Merkel dovrà imparare ad avere nemici a destra cosi come Matteo Renzi li ha a sinistra, Renzi dovrà impegnarsi a realizzare – oppure finiremo per contrapporci tra nazioni, ognuno a dare la colpa agli altri.

La lezione francese da seguire

La lezione francese da seguire

Gaetano Pedullà – La Notizia

Evviva la Francia! Lo spread e i mercati vogliono affamarla? Parigi se ne frega. L’austerità è nemica del progresso, del sacrosanto diritto dei cittadini di vivere dignitosamente e di godere dei benefici che un intero popolo si è conquistati con sacrifici, con il lavoro e con il sangue versato per costruire un’Europa libera dai totalitarismi. Compreso quello dei mercati finanziari. La Francia dunque non si piegherà alle politiche di rigore – ormai chiaramente fallimentari e recessive – imposte da Berlino. E fa bene, perché nell’attuale crisi proprio la Germania e i vincoli imposti alla politica monetaria della Bce sono il freno che sta bloccando la ripresa. Ora illustri critici e commentatori di giornali sempre pronti a trovare il pelo nell’uovo si stanno esercitando a sparare sul governo di Parigi, sostenendo che ribellarsi alle regole di Bruxelles nuocerà pure all’Italia. Ma quando mai? Piuttosto facesse pure l’Italia lo stesso, abbassando subito le tasse e mettendo più soldi in tasca ai cittadini. Da questa crisi non si esce curandoci con l’aspirina. Abbia il governo il coraggio di sfidare i mercati. Per iniziare una cura seria. E darci la speranza che il domani sarà migliore.

La svolta keynesiana dei paladini neo-liberitsti

La svolta keynesiana dei paladini neo-liberitsti

Stefano Lepri – La Stampa

«Arrendetevi, siete circondati» si potrebbe con humour gridare ai governanti tedeschi. Di fronte a una crisi che non vuole finire, matura dappertutto nel mondo l’idea che occorra provare soluzioni diverse dall’austerità pura e dura. Anche il Fondo monetario internazionale, a lungo dominato dalla dottrina neo-liberista secondo cui la spesa pubblica è perlopiù nociva, ritorna alle sue origini keynesiane e rooseveltiane: ampi investimenti in infrastrutture sarebbero utili alla ripresa.

Si può dare lavoro a chi non l’ha costruendo per il futuro. Se non ora, con un costo del denaro cosi basso, quando? In Europa è Berlino a ostacolare il progetto di investimenti transnazionali del nuovo presidente della Commissione Jean-Claude Juncker e le proposte ancora più ambiziose del governo polacco. Eppure all’interno della stessa Germania la gente si lamenta di ponti da rifare e strade malandate. Con una punta di malignità, il Fmi giudica efficace la «regola d’oro» di tenere i bilanci pubblici in pareggio al netto degli investimenti: era nella Costituzione tedesca, prima che fosse inasprita per dare l’esempio ai Paesi spendaccioni. Vale la pena di dare l’esempio facendo male anche a sé stessi? La Germania continua a rinfacciare alla Francia i bilanci in deficit, ma i suoi li tiene in ordine investendo la metà rispetto alla Francia.

Sarebbe forse meglio tornare a quella regola aurea. E intanto compiere uno sforzo eccezionale qui e ora per uscire dalla crisi: nei Paesi con bilanci solidi e come Europa nel suo insieme. L’Italia da sola, troppo indebitata, non può permetterselo. E poi non dobbiamo dimenticare che le nostre infrastrutture sono carenti non perché negli anni passati abbiamo speso poco, piuttosto perché abbiamo speso male. Il timore che si costruisca non ciò che serve, ma ciò che fa guadagnare qualcuno, diventa senso comune; alimenta le proteste, giustifica ogni tipo di ostilità al nuovo. Oggi quasi tutti preferirebbero una tassa in meno piuttosto che il cantiere di una metropolitana in più: occorrerà prima tornare a fidarsi dei poteri pubblici.

Italia in coda a un’Europa depressa

Italia in coda a un’Europa depressa

Giuseppe Turani – La Nazione

Stiamo viaggiando dentro un convoglio che ha il freno a mano tirato e, naturalmente, siamo il vagone di coda, quello che si sta perdendo per strada. Questo è il senso del ‘ultimo rapporto Ocse sull’economia europea. È quasi inutile persino guardare le cifre, tanto sono deludenti.

La crescita europea, nel suo complesso, quest’anno sarà grosso modo quella che in America si ha in un trimestre. Se poi dall’insieme del Vecchio Continente passiamo ai singoli Paesi più grandi le cose cambiano di poco. La Germania ha un po’ più di sprint rispetto alla media, ma siamo sempre in una zona di bassa crescita. La Francia fa un po’ peggio della Germania e l’Italia rischia addirittura di farsi, oltre ai due che ha già fatto, altri due anni di recessione: il 2014 e il prossimo. Perché accade questo? La risposta non è difficile: l’Europa è un Paese chiuso dentro una doppia ingessatura.

La prima riguarda il suo assetto istituzionale e le sue regole di convivenza. È un’area lenta, dove nulla si cambia se non dopo lunghi dibattiti e lunghi scontri con delle burocrazie molto potenti, che hanno il solo obiettivo di rendere tutto ancora più labirintico e complicato. Inoltre, non si può nemmeno escludere che l’Europa tenti di difendere un welfare diventato ormai molto costoso. La cura delle persone (il welfare) è la cosa che distingue l’Europa dall’America, ma forse il suo peso comincia a essere eccessivo.

Il secondo tipo di ingessatura che frena l’economia del Vecchio Continente è quella che si potrebbe definire come “avarizia monetaria”. Negli Stati Uniti, allo scoppio della crisi hanno deciso di non badare a spese e le rotative della Federal Reserve hanno lavorato anche di notte per stampare dollari. È probabile che abbiano anche esagerato, ma alla fine il gigante si è mosso e adesso cresce abbastanza bene. In Europa, come tutti sanno, si è seguita la strada inversa. I tedeschi si sono opposti a usare l’euro (magari stampato in quantità industriali) come medicina per la crisi. Poiché molti Paesi (Italia compresa) avevano già esagerato con i debiti, hanno preteso (e pretendono) che prima si faccia un po’ di ordine: i famosi ‘compiti a casa ‘. Abbiamo cominciato con Monti e stiamo ancora andando avanti, tre governi dopo. Gli altri Paesi non stanno molto meglio però. La Germania respira appena, rispetto alle sue potenzialità, e la Francia se ne sta li con l’acqua alla gola.

La conclusione è molto semplice: i tedeschi volevano un Continente serio e ordinato, con governi molto attenti e responsabili, a loro immagine e somiglianza, ma finora non hanno ottenuto quasi niente di tutto questo. Sono solo riusciti a trasformare un’area in cui vivono più di 400 milioni di persone in una zona depressa del pianeta.

Sfiduciati

Sfiduciati

Davide Giacalone – Libero

L’immagine della locomotiva, riferita alla Germania, fa deragliare molti ragionamenti. In qualche caso, negli ultimi anni, oltre a non trascinare nessuno la Germania è stata trainata. Tenerlo presente aiuta a capire i dati sul calo della fiducia (indice Ifo), da parte delle aziende tedesche: è il quarto ribasso consecutivo e, per giunta, ci si aspettava il calo di un punto (a 107 da 108 di luglio), invece è stato di un 1,7 (106,3). Posto ciò, e prima di guardare dentro al problema, meglio non dimenticare che il prodotto interno lordo tedesco è previsto in crescita di un punto e mezzo, alla fine del 2014, avendo perso mezzo punto rispetto alle previsioni di inizio anno. Noi, invece, abbiamo perso di più (0,6-0,7), rispetto alle previsioni del governo, e chiuderemo a zero o a zero più un nulla, in quel caso festeggiando il non avere chiuso in negativo. Così, giusto perché non sfuggano le differenze, ingigantite dai dati del passato prossimo.

Torniamo alla locomotiva. La Germania sarebbe effettivamente tale se i suoi consumi interni trascinassero le esportazioni di altri paesi europei. Ma non è così. Il modello tedesco, negli ultimi anni, s’è retto su tre pilastri: a. riforme del mercato interno, per rilanciare la competitività; b. basso costo per l’accesso ai capitali; c. esportazioni verso aree extra Unione europea (in questo incorporando importanti componenti made in Italy). La prima cosa è un loro merito (ed è una nostra colpa stare ancora qui a chiacchierare anziché adeguarci). La seconda è stata un coltellata alla schiena degli altri europei, noi per primi, in parte responsabili del loro disordine finanziario, in parte inchiodati da come l’euro è stato concepito e fin qui realizzato. La terza è un legittimo successo, salvo che ora il mondo s’è fatto meno ospitale, sicché le tensioni rendono meno floridi i commerci. A questo aggiungete che il nuovo governo, che ha sempre Angela Merkel come cancelliere, ma una composizione politica che ora comprende i socialdemocratici, ha deciso di indebolire il primo pilastro, puntando all’aumento dei salari minimi. Mettete assieme queste cose e vi spiegherete perché le aziende tedesche nutrono qualche preoccupazione.

Quel modello, comunque, non era una locomotiva per l’economia Ue. Noi italiani siamo stati vicini alla caldaia, a spalare carbone e consentire al ciuf-ciuf di non ansimare. Lo abbiamo fatto pagando il denaro assai più dei tedeschi. E lo abbiamo fatto finanziando gli europei in grave crisi e, con questo, alleggerendo le banche tedesche dai non pochi errori (e orrori) commessi. Il frutto di questi squilibri lo si sente nel cappio che il debito pubblico stringe attorno al nostro collo, costandoci il doppio del deficit consentito. E lo si vede anche nella bilancia commerciale tedesca, patologicamente e irregolarmente in avanzo. A far da controprova che la locomotiva era un vagone letto.

Nel corso di questa estate si sono lette tante cose, circa le ricette economiche da adottare. L’ingrediente più diffuso è stato la novità. C’è bisogno di idee nuove, s’è detto e scritto. Le ricette nuove sono sempre interessanti, se non pretendono di venderti un cecio con sentore di tamarindo quale pasto completo e sofisticato. Però la cucina ha una sua tradizione di ragionevolezza, destinata al nutrimento con soddisfazione. Supporre che i banchieri centrali o i mumble-mumble economici possano trasformare i debiti in ricchezza e la nullafacenza in produttività, non è da ottimisti, ma da illusi. Noi italiani abbiamo bisogno di cose semplici, benché non facili: lavorare di più, più numerosi, con meno tangente fiscale, avendo meno mantenuti sulle spalle. Rozzo? Certo, ma anche un panino al salame può esserlo, restando più convincente del citato cecio. In Europa, invece, ci si deve decidere: o si sta tutti ai parametri, nel qual caso i tedeschi paghino per i loro sforamenti; oppure ci si decide a ricordarsi che siamo l’area più ricca e produttiva del mondo, sicché si potrebbe provare ad accompagnare la politica, e la democrazia, alla moneta comune.

Non c’è modo che questi problemi si risolvano da soli. Mentre è da sciocchi supporre che qualcuno li risolva per noi.

Due regole non scritte

Due regole non scritte

Antonio Polito – Corriere della Sera

Appena sabato scorso Arnaud Montebourg aveva detto a Le Monde che «l’Europa deve fare come Matteo Renzi» e liberarsi dell’«ossessione tedesca per l’austerità». Non gli ha portato bene. Tre giorni dopo è stato licenziato da François Hollande, aprendo a Parigi una crisi di governo di inusitata gravità, solo cinque mesi dopo la nascita dell’esecutivo guidato da Manuel Valls (un altro che è stato spesso paragonato a Renzi).

Naturalmente il ministro dell’Economia francese non è stato punito perché troppo renziano. Anzi, se si vuol stare al paragone con l’Italia, il Don Chisciotte della sinistra d’Oltralpe assomiglia più a un Fassina o a un Bertinotti vecchia maniera. Ma la sua cacciata conferma due leggi della politica europea da cui neanche la Francia si è mai allontanata, e che faremmo bene a tenere sempre a mente anche noi italiani. 
La prima è che delle «due sinistre» quella che non fa i conti con la realtà, che si illude e illude gli elettori di poter tornare all’età dell’oro socialdemocratica facendo deficit e mettendo tasse, è destinata a perdere. Seppure su scala minore, la crisi di Parigi ricorda lo scontro con cui alla fine degli anni Novanta il Cancelliere Schröder si liberò del ministro Lafontaine a Berlino. La rottura della Spd con la sinistra interna diede il via alla stagione di riforme che salvarono la Germania dal declino economico, e aprirono la strada all’era Merkel. Hollande, allo stesso modo, vuole riaffermare la sua autorità sul partito e sul governo proprio mentre è impegnato in un programma di riforme liberali della stagnante economia francese.

La seconda legge che esce confermata dalla punizione di Montebourg è che Parigi, chiunque sia al governo, non guiderà mai un fronte di opposizione alla Germania. La Francia non ha alcun interesse a diventare il capofila dei deboli. Sia perché la sua missione politica è quella di stare nel cuore dell’Europa, sia perché i mercati la premiano finché resta attaccata a Berlino, con tassi di interesse bassi quando non addirittura negativi, nonostante deficit alti e crescita zero. Perché mai Hollande dovrebbe dunque trasformare la sua retorica anti-austerità in un vero e proprio scontro con la Merkel, come il ministro ribelle lo invitava a fare?

È bene dunque non farsi troppe illusioni su presunti assi mediterranei tra Parigi e Roma per piegare Berlino. Ogni Paese deve contare sulla sua credibilità prima di ogni altra cosa. La Spagna, per esempio, ha fatto riforme efficaci dell’economia che le hanno consentito a giugno, insieme al Portogallo, di dire di no alla richiesta italiana di maggiore flessibilità nei conti, e che probabilmente le varranno la nomina di Luis de Guindos alla presidenza dell’Eurogruppo (con il francese Moscovici che conquista l’Economia e la nostra Mogherini piazzata alla Politica estera).

Non abbiamo dunque altra strada che trasformare le promesse e gli annunci della stagione Renzi in realtà. Il nostro governo ha ancora un grande capitale di fiducia da spendere in Europa. Ma deve agire. Riforme radicali della giustizia e del mercato del lavoro sono, nelle prossime settimane, l’unica vera arma di cui dispone. E, come i fatti francesi hanno dimostrato, valgono molto più degli applausi di un Montebourg.

O il coraggio, oppure la manovra

O il coraggio, oppure la manovra

Alessandra Servidori – Italia Oggi

C’è chi pensa che i numeri negativi per le economie di due partner fondamentali dell’Italia come Francia e Germania rafforzino la richiesta italiana di una maggiore flessibilità nelle regole europee. Ma sicuramente c’è un caso Italia, e se «non siamo il vagone di coda» e «l’Eurozona è in stagnazione» ho i miei dubbi che «l’Italia è in condizione di trascinare l’Eurozona fuori dalla crisi». La tempesta perfetta si è già annunciata con un meteo fuori dal normale mentre la tempesta economica è ancora incalzante.

L’Italia chiede flessibilità e politiche europee orientate alla ripresa economica ma ciò comunque comporta riforme costose nell’immediato, come giustizia, pubblica amministrazione e un’ulteriore diminuzione delle tasse sul lavoro.

Vero è che per l’Italia alla guida del semestre Ue, si apre un varco e un dialogo/alleanza anche con altri paesi nel chiedere correzioni di linea. I primi appuntamenti chiave per capire se questo sarà possibile sono il Consiglio europeo del 30 agosto, dedicato peròsoprattutto alle nomine, e soprattutto l’Ecofin informale previsto a Milano il 13 settembre.

La richiesta del governo italiano potrebbe essere quella di «incentivi» per quei paesi che le riforme le fanno davvero. Incentivi che prevedono più tempo nell’abbattimento del deficit e del debito e maggiori margini di manovra sui conti senza incorrere nelle sanzioni. Certo, la recessione c’è e non ci consola la situazione franco/tedesca. Ma è anche vero che il nostro export coinvolge solo 12-15 mila imprese, la crescita si fa solo con gli investimenti che, a loro volta, sono figli di una politica economica e industriale da «piano straordinario Marshall all’italiana». Non possiamo quindi dare la colpa solo a Bruxelles e Berlino poiché se anche la Germania si è fermata il crollo dell’export è stato con i paesi extra-Ue.

La ripresa è lenta e la recessione è svelta anche se i nostri giovani governanti hanno detto che «non c’è bisogno di fare alcuna manovracorrettiva». Ma stiamo ai fatti: il pil scende al denominatore (tre decimi di punto nel primo semestre), il deficit programmato nel Def al 2,6% sarà comunque entro il 3%? La Ue, stiamo pur certi, non farà sconti e, visto che non ci ha concesso di far slittare il pareggio di bilancio dal 2015 al 2016, ci chiederà di cominciare a limare fin d’ora.Gli 80 euro sono privi di reale copertura poiché non regge la previsione dei proventi derivanti dalla lotta all’evasione e dalla spending review, la vicenda dei pensionati «quota 96» è lì che canta poiché la maggioranza ha dovuto rimangiarsi quanto promesso.

Per effetto della deflazione, gli interessi sul debito ci costeranno altri 17 miliardi, solo parzialmente compensati dai bassi tassi pagati sui titoli di Stato, e il l’intervento correttivo dei conti pubblici, per almeno una ventina di miliardi, è una evidente necessità. La manovra andrà fatta. Ecco perchè va chiesto a chiediamo a Renzi di cambiare passo: sia coraggioso faccia tre passi avanti: il patrimonio pubblico (come da quattro anni insistono ItaliaOggi e Milano Finanza, con il piano SalvaItalia redatto, fra gli altri, da Monorchio e Savona) deve servire sia all’abbattimento dellostock di debito che a rilanciare gli investimenti pubblici e favorire quelli privati, abbassando le tasse sulle imprese e sul lavoro. Metta in pista un piano industriale nazionale che ci consenta di incrementare la quota sul pil del manifatturiero e dei servizi ad alto valore aggiunto. Vada avanti con riforme strutturali vere che siano in grado di tagliare di 7-8 punti sul pil quella spesa pubblica che, ultimi calcoli, nel 2014 arriverà a superare gli 825 miliardi, 16 in più di quanto programmato e il 7,8% in più del 2013.

In mezzo al guano

In mezzo al guano

Davide Giacalone – Libero

La frenata tedesca può creare delle illusioni, inducendo a credere che propizi l’agognata “elasticità”. Se il rigore tedesco porta sfortuna pure ai germanici, suppongono in diversi, molti dei quali francesi, è ora di tornare a un sano lassismo latino. Se lo tolgano dalla testa, quella è la via della perdizione. Noi italiani abbiamo un debito pubblico arrivato a 2168 miliardi, di tutto abbiamo bisogno, tranne che di farlo crescere allargano i deficit. Cresce già per i fatti suoi, senza che collabori l’incoscienza politica.

Vedere il segno meno innanzi al prodotto interno lordo tedesco (-0,2) desta il ghigno di taluno. Stia attento a non restare con la ghigna allocca: si tratta di un solo trimestre ed è un dato fortemente influenzato dal calo di redditività di investimenti all’estero (Russia e non solo). Nulla di paragonabile alla nostra lunga recessione. Eurostat conferma i dati complessivi della crescita europea, che come previsto dalla Banca centrale europea sono bassi (ma pur sempre positivi). La ripresa è troppo fioca e troppo lenta, come previsto. Non ci sono novità di rilievo. Eppure quel dato tedesco pesa e può propiziare politiche assai interessanti. Dobbiamo saperlo usare. Che è l’opposto di leggerlo come viatico ad allargare la spesa pubblica improduttiva.

Con tutto il rispetto per gli altri europei, la forza economica dell’Unione è data da Francia, Germania e Italia. La Francia ha i conti pubblici fuori controllo e prova a sostenere il pil sostituendo spesa pubblica a mancati investimenti privati. In questo modo si va accartocciando su sé stessa. La Germania ha perso un colpo, con questo dimostrando, se non altro, che il vantaggio preso speculando contro gli altri europei, attirando denaro e pagandolo niente, costringendo gli altri all’opposto (la lunga polemica che qui facemmo, sostenendo che gli alti spread non erano giudizi morali sui singoli governi, ma l’indicazione dei guasti strutturali dell’euro), non è stato sufficiente a darle un abbrivio inarrestabile. Ma sarebbe inesatto sostenere che la frenata tedesca dimostra il fallimento dell’Europa parametrale, perché è vero che quei parametri non bastano a governare le economie, ma è anche vero che li si è applicati solo in parte, consentendo alla politicamente forte Germania di violare sistematicamente quello sugli avanzi commerciali. Ecco il risultato: si impoverisce il mercato interno, che è europeo e non nazionale, con questo forando una ruota della vettura che pretendeva di procedere da sola. Dell’Italia scriviamo ogni giorno: abbiamo bisogno di fare i conti con la realtà, di non prenderci in giro, di non credere che si possa andare avanti con furbate e gargarismi.

In questo quadro la posizione più saggia è quella della Bce: avanti con le riforme del mercato interno, inteso come europeo. Non possiamo permetterci che uno di quei tre paesi resti indietro, quindi non si possono accettare dilazioni italiane (come degli altri). Avanti con politiche antideflattive (che porteranno al debito europeo). Il dato inquietante è che la posizione più politicamente ragionevole trova voce non in un potere eletto, o designato in secondo grado, in qualche modo riconducibile alla democrazia, ma in una Banca centrale, il cui board è composto da banchieri centrali. Ed è questa la grande falla da cui gli europei tutti imbarcano acqua. Per uscire dalla crisi, per non essere i ricchi che crescono meno, non è che si debba guardare al Giappone (cui gli incauti e i superficiali diressero occhi languidi), ma agli Stati Uniti. E il vantaggio degli Usa non è solo quello di avere fatto riforme interne, oltre che di avere avuto una Banca centrale indipendente, ma capace di accompagnare lo sforzo di rimettere in moto la macchina produttiva, il vantaggio, enorme, consiste nell’averlo dovuto fare restando una democrazia in cui i poteri rispondono al popolo. Per quanto complessi e tecnici possano essere i problemi che si affrontano.

Quattro anni dopo siamo ancora lì dove ci vedemmo allo scoppiare della crisi dei debiti sovrani: o si va avanti, creando il debito europeo e, quindi, la connessa cessione di sovranità nazionale nella gestione delle politiche economiche; oppure si rincula al passato, liberando le singole tribù nazionali dai vincoli collettivi e lasciandole al loro lillipuziano destino (che può anche essere florido, ma da turaccioli nel mare della globalizzazione). Quel che non si può fare è restare fermi. Magari si crede d’essere in mezzo al guado e ci si ritrova immersi nel guano.