gianni zorzi

Scippo da 9 miliardi sui risparmi

Scippo da 9 miliardi sui risparmi

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Gianni Zorzi, docente di Finanza dell’impresa e dei mercati e consulente per l’area Finanza di “ImpresaLavoro” – Panorama

Un fantasma si aggira, da anni, per l’Italia: la paura di un prelievo forzoso sui risparmi. Tipo quello di Giuliano Amato nel 1992, quando il Fisco incamerò improvvisamente il 6 per mille sulle giacenze dei conti correnti. In realtà questo timore appare infondato. Perché lo Stato ha già, di fatto, colpito pesantemente il risparmio degli italiani con una patrimoniale strisciante che, secondo una ricerca realizzata dal centro studi ImpresaLavoro, vale circa 9 miliardi di euro. Tanto per fare un confronto, se oggi venisse replicata la manovra di Amato sui conti correnti, si tratterebbe di un prelievo di 3 miliardi, un terzo rispetto agli aggravi imposti dal 2011 ad oggi dai governi di Mario Monti, Enrico Letta e Matteo Renzi.

Come si arriva a questo dato? Secondo le più recenti rilevazioni di Banca d’Italia, il totale delle attività finanziarie detenute dalle famiglie supera i 3.800 miliardi di euro. Su questa massa di attivi si è registrato a partire dalla fine del 2011 un progressivo e repentino inasprimento fiscale: in prima istanza, l’aumento tra la fine del 2011 e la metà del 2014 delle aliquote sui redditi di natura finanziaria che sono più che raddoppiate, passando dal 12,5 al 26 per cento, salvo eccezioni (come i titoli di Stato); in secondo luogo, l’introduzione di una tassa su una parte delle transazioni finanziarie (la Tobin tax) a partire dal marzo 2013; infine, la trasformazione dell’imposta di bollo sul deposito titoli in una vera e propria patrimoniale introdotta nel 2012 e già raddoppiata nel giro di due anni: oggi pesa per lo 0,2 per cento sui depositi di titoli (azioni, obbligazioni, titoli di Stato), sui depositi bancari, sui fondi e su alcune polizze, e per 34,20 euro per i conti correnti oltre una giacenza media di cinquemila euro.

Risultato: secondo le nostre ricerche, basate su dati e indici Banca d’Italia, Abi, ministero dell’Economia e Fideuram, la somma di questi interventi corrisponderebbe a un aumento del prelievo fiscale di 9 miliardi annui (corrispondente al 130 per cento in più) per il periodo 2011-2015. In particolare, l’incremento delle imposte sui rendimenti porterebbe un gettito pari a 11,2 miliardi nel 2015 a fronte dei 6,5 stimati per il 2011, nonostante la riduzione dei rendimenti medi di titoli di stato e di conti correnti e depositi bancari e postali; l’imposta di bollo, applicabile su quasi 2.200 miliardi di controvalore di attività finanziarie e depositi, dovrebbe pesare per oltre 4,4 miliardi nelle tasche degli italiani con un incremento di 4 miliardi rispetto al 2011; la Tobin tax, applicata dal marzo 2013, fornisce invece un prelievo marginale che non supera alcune centinaia di milioni l’anno, tanto da non superare, secondo alcune analisi, i costi commerciali derivanti dalla riduzione degli scambi di attività realizzati sui mercati italiani. A queste somme si aggiunga la stima del gettito sui conti correnti che continua a pesare sui risparmiatori persone fisiche nel caso di giacenze medie superiori a cinquemila euro, che risulta pari a circa 0,6 miliardi annui.

Quindi il prelievo complessivo sul risparmio degli italiani passerebbe dai 6,9 miliardi del 2011 ai 15,9 attesi per il 2015. La crescita del prelievo appare vertiginosa anche in considerazione del drastico calo della redditività, sia dei titoli di Stato che dei depositi bancari (e senza considerare che negli ultimi cinque anni la ricchezza complessiva degli italiani si è ridotta di 814 miliardi di euro per colpa della crisi e della tassazione sugli immobili, come rivela un’indagine pubblica sulla Repubblica). C’è poi il capitolo previdenziale, cioé l’incremento della tassazione sulla rivalutazione di strumenti di previdenza come i fondi pensione e le casse previdenziali, nonché del trattamento di fine rapporto (Tfr).

Dopo un lungo tira e molla, gli aumenti sono stati approvati nella Legge di stabilità, e ora sono in vigore (con effetto peraltro retroattivo) sui rendimenti realizzati a partire dall’anno 2014. Per la previdenza complementare (fondi pensione, piani individuali pensionistici) si passa dall’11,5 al 20 per cento, mentre per le casse previdenziali di categoria l’incremento è dal 20 al 26 per cento. In entrambi i casi, l’aliquota sulla quota dei fondi investita in titoli di stato è agevolata al 12,5 per cento, ed è infine previsto un credito d’imposta condizionato che potrebbe in linea teorica compensare gli aumenti. Sul trattamento di fine rapporto, invece, la rivalutazione viene ora tassata al 17 per cento anziché all’11. Questi aumenti si ripercuotono sui montanti contributivi (cioè il capitale che il lavoratore ha accumulato nel corso degli anni lavorativi) specie per chi è a inizio carriera. Nello studio è emerso infatti che l’incremento delle aliquote applicate sui fondi pensione al 20 per cento potrebbe ridurre il montante contributivo di una percentuale compresa tra il 5 e l’8,6 per cento, mentre un eventuale ulteriore aumento al 26 per cento lo ridurrebbe di un importo tra l’8,3 ed il 14,1 per cento. Considerazioni analoghe si possono esprimere naturalmente anche sulle casse previdenziali, i cui giovani iscritti si dovranno attendere prestazioni a fine carriera ulteriormente ridotte di una percentuale compresa tra il 3,3 e il 5,5 per cento, mentre il giro di vite sul Tfr potrebbe ridurre le liquidazioni di chi si affaccia oggi al mondo del lavoro di un importo compreso tra il 3,6 e il 6,2 per cento.

Tornando al quadro generale dei guadagni di natura finanziaria, le varie riforme intervenute di recente hanno mirato soprattutto all’incremento generalizzato delle aliquote, evitando perciò di considerare alcune storture del particolare sistema di fiscalità vigente. Come la doppia tassazione degli utili delle società di capitali distribuiti sotto forma di dividendi (sono tassati sia gli utili che i dividendi), e il complesso e non sempre equo meccanismo di compensazione tra guadagni e perdite nel regime del risparmio amministrato. Si tratta di norme che, nel loro insieme, possono aumentare anche notevolmente il prelievo effettivo operato sulle tasche dei risparmiatori: per esempio, la tassazione su alcuni guadagni continua a intervenire anche se nel frattempo la stessa o altre attività detenute fanno registrare delle perdite. Si può quindi chiudere in perdita un portafoglio di investimenti, oppure in alcuni casi anche un singolo investimento, ed essere stati nel frattempo ugualmente tassati. Per i piccoli risparmiatori, tra rendimenti in picchiata e tassazione in aumento, il rebus investimenti si fa ancora più complesso.

I debiti della Pubblica Amministrazione costano alle imprese 6 miliardi l’anno

I debiti della Pubblica Amministrazione costano alle imprese 6 miliardi l’anno

COMUNICATO STAMPA

Il ritardo dei pagamenti ai fornitori della PA ha finora determinato un costo del capitale a carico delle imprese italiane di oltre 6 miliardi di euro all’anno, pari a quasi 30 miliardi nel periodo 2009-2013. Il dato emerge da una ricerca (scaricabile interamente dal sito www.impresalavoro.org) realizzata dal centro studi di ispirazione liberale “ImpresaLavoro” di Udine, promosso dall’imprenditore Massimo Blasoni e il cui board scientifico è presieduto dal professor Giuseppe Pennisi (economista, consigliere del Cnel e docente all’Università Europea di Roma, già Banca Mondiale e dirigente generale dei Ministeri del Bilancio e del Lavoro).
Lo studio di “ImpresaLavoro” sottolinea come ci si debba peraltro accontentare in questo campo di una stima prudenziale, dal momento che le stesse amministrazioni pubbliche non dispongono di una sistematica e organizzata documentazione sui crediti dei propri fornitori e sulle fatture associate, a causa delle insufficienze nei sistemi di contabilizzazione delle transazioni. Finora, infatti, le stime sulla dimensione del fenomeno si sono basate sull’impiego di metodologie statistiche e di indagini campionarie. «Quel che invece si sa con certezza – osserva il presidente Massimo Blasoni – è che i pagamenti del committente pubblico italiano arrivano in media dopo 170 giorni dal ricevimento della fattura, mentre i fornitori privati di norma pagano dopo 60 giorni. Questo mismatching di uscite ed entrate aggrava la situazione finanziaria di migliaia di imprese, esponendole nei casi più gravi al rischio default. Il fenomeno ha assunto rilevanza maggiore a seguito dell’attuale situazione di congiuntura economica, la quale ha provocato anche una riduzione del credito concesso dalle banche alle imprese, con conseguente aggravio della situazione finanziaria di queste ultime».
Secondo le stime prudenziali di “ImpresaLavoro”, l’ammontare per il 2013 è di circa 74,2 miliardi di €, pari a circa il 4,8% del PIL. Lo stock di debito commerciale della nostra PA risulta in calo: nel 2010, esso aveva toccato la cifra record di 87,3 miliardi di euro, pari al 5,5% del PIL. La diminuzione dello stock è dovuta alla riduzione della spesa pubblica relativa all’acquisto di beni e servizi, nonché dei tempi di pagamento concordati con i fornitori. Non è quindi diminuito il ritardo medio nel pagamento delle fatture.
La ricerca di “ImpresaLavoro” rivela inoltre come, a livello europeo, sia in termini nominali che relativi, l’Italia risulti essere il Paese col maggiore stock di debito. Già dal 2010, ha infatti il peggior rapporto tra debiti commerciali e PIL, superando tanto la Spagna quanto la Grecia, le uniche in Europa (a parte l’Italia) a superare il 3% in questo rapporto. Per un’impresa italiana che lavora con PA, l’incidenza di questi costi sulla singola fornitura risulta così pari al 4,2%: un dato circa 4 volte superiore a quello sostenuto da un’impresa francese (1,2%) e circa 7 volte superiore a quello sostenuto da un’impresa tedesca (0,6%).
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L’opinione di Giuseppe Pennisi, Presidente del Board Scientifico di ImpresaLavoro
L’opinione di Salvatore Zecchini, Membro del Board Scientifico di ImpresaLavoro
L’opinione di Carlo Lottieri, filosofo, Università degli Studi di Siena
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