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Lavoro manuale o fuga all’estero, gli under 30 davanti al bivio

Lavoro manuale o fuga all’estero, gli under 30 davanti al bivio

La Stampa

Loro cercano di mettercela tutta, rendendosi disponibili anche al lavoro manuale, ma la fiducia nel futuro è davvero scarsa, tanto da portarli a guardare all’estero come ultima spiaggia. Effetto mediatico e percezioni distorte? No, è un campanello d`allarme che forse non vogliamo sentire: solo il 10% delle ragazze e il 15% dei ragazzi italiani ritiene di avere in patria adeguate occasioni di impiego e cerca di reagire con pragmatismo e adattabilità a un avvenire ritenuto cupo.

Sono questi i risultati che si possono leggere nel Rapporto Giovani, curato dall’Istituto Toniolo in collaborazione con Ipsos e il sostegno di Fondazione Cariplo e di Intesa Sanpaolo, che da tempo esplora la galassia dei «millennials››. L’indagine è stata condotta su un campione di 1727 giovani di eta tra i 19 e i 30 anni. Oltre l’80% degli intervistati si dichiara pronto a svolgere un lavoro di tipo manuale, tre su quattro ambirebbero a un’attività in cui poter esprimere la propria creatività, senza badare troppo alla coerenza con i titoli di studio. L’85% dei maschi e il 90% delle femmine ritengono che l’Italia non offra possibilità di trovare lavoro ad un giovane con la preparazione posseduta e pensano di andare all’estero.

Di chi è la colpa? La crisi c’entra, ma non è l’unico motivo. Per il 30% il problema sono i limiti strutturali del mercato che dà poche occasioni, bassa qualità e contratti brevi e precari. In secondo luogo viene la situazione economica complessiva, al terzo posto la «preferenza data ai raccomandati», al quarto la «minore esperienza» (15,4%). Solo un intervistato su cento ritiene che i giovani rifiutino alcuni lavori. Per questo i giovani guardano anche al lavoro manuale, ma ad alcune condizioni: stipendio adeguato, lavoro creativo e flessibilità dell’orario. E nella classifica dei lavori preferiti compaiono quelli per le giovani generazioni oggi più facili da trovare, ma che sono di bassa qualità. Pochissimi consiglierebbero ad un amico di fare il telefonista di call center (35%), l’operatore di fast food (42%), o il distributore di volantini (15%).

E che cosa ne sanno i giovani del provvedimento governativo a loro dedicato partito a maggio? Poco o niente e rivelano una bassa fiducia sull’impatto generale che la misura potrà avere. Sulla Garanzia giovani, infatti, il 45% dichiara di non saperne nulla e il 35% di averne sentito vagamente parlare. Meno di un giovane su cinque la conosce abbastanza bene (14%) o molto bene (5%). Anche tra i «Neet», i giovani che non studiano e non lavorano e che rappresentano il target principale del provvedimento, la percentuale di chi la conosce abbastanza o molto bene risulta molto bassa (attorno al 22%). Riguardo agli effetti solo il 37% pensa che migliorerà molto o abbastanza il rapporto dei giovani con il mercato del lavoro. Prevalgono gli scettici con un 54% che afferma che cambierà poco o nulla. I meno convinti sono proprio i «Neet», per i quali la sfiducia sale al 58%.

«I giovani – afferma Alessandro Rosina, uno dei curatori del Rapporto Giovani – sono stanchi di promesse e annunci: vogliono solo fatti. Senza risposte credibili e concrete il rischio è quello di alimentare sfiducia, frustrazione e fuga verso l’estero. Preoccupa che l’80% concordi con chi pensa che per migliorare davvero la propria condizione, più che sperare nella Garanzia giovani, la scelta migliore sia quella di andare all’estero».

Questo non è un paese per giovani

Questo non è un paese per giovani

Ilvo Diamanti – La Repubblica

Temo che l’immagine di Renzi cominci a risultare inadeguata per raffigurare il Paese. Troppo “giovane” e “giovanile”. Troppo spavalda e, perfino, esagerata. Rispetto a un Paese che sembra viaggiare – e guardare – in direzione contraria. Cioè, verso il passato. Perché l’Italia mi sembra un Paese sempre più rassegnato. Che ostenta un ottimismo triste, attraversato da rabbia diffusa. È un Paese di pensionati, con tutto rispetto per chi la pensione se l’è guadagnata, dopo anni e anni di lavoro. Però, è difficile non rilevare le tensioni continue intorno al sistema pensionistico. Dal punto di vista sociale e politico. Perché l’età di accesso alla pensione si è “allungata”, per contenere il costo della previdenza pubblica, in una società sempre più vecchia. Dove i pensionati sono oltre 7 ogni 10 occupati. Ma, in questo modo, l’ingresso nel mercato del lavoro per i più giovani si è ulteriormente ristretto. Così la generazione dei padri – e, talora, dei nonni – sessantenni vorrebbe andare in pensione. Ma non ci riesce. Neppure quando il governo, come ha fatto nelle scorse settimane, lo prevede. Ad esempio: per gli insegnanti (cosiddetti) “quota 96”. Che a 61 anni abbiano maturato 35 anni di contributi. Perché, dopo l’annuncio, si scopre che non ci sono le coperture, le risorse. Un po’ com’è avvenuto per gli “esodati”. Un’invenzione linguistica. Participio passato di un verbo che non c’è. Coniato per significare quelle persone sperdute, in “esodo” verso la pensione. Ma rimasti per strada. Pre-pensionati senza pensione. A causa di im-previsti legislativi. Esistono ma non si vedono. Sono “pensionandi”. In attesa che lo Stato trovi le risorse per “pensionarli” davvero, dopo la chiusura anticipata del rapporto di lavoro, negoziata con l’impresa.

D’altronde, l’Italia è un Paese schiacciato dalla spesa pubblica. Dal debito pubblico. Nonostante che il pubblico impiego sia in costante calo. Il 7% in meno negli ultimi 5 anni. Ma circa il 20%, per quel riguarda gli statali. Con l’esito, paradossale, che la spesa pubblica non è calata. Al contrario. Perché, come ha annotato Tito Boeri, alcuni giorni fa su queste pagine, “gli stipendi pubblici in meno si sono trasformati in pensioni in più da pagare, sempre a carico del contribuente”.

Questo Paese di esodati, pensionandi e aspiranti pensionati, come può avere e, prima ancora, “immaginare” il futuro? Al massimo: il presente. Ma, più facilmente, il passato prossimo. Nell’Italia di oggi, nonostante Renzi, il futuro: è ieri. Al massimo, stamattina. D’altronde, non per nulla, questo Paese per vecchi, come io stesso ho rilevato altre volte, sta perdendo e ha già perduto i suoi giovani. Che sono pochi e sempre di meno, visto che i tassi di natalità, in Italia, sono fra i più bassi dell’Occidente. Mentre i tassi di occupazione giovanile scendono e quelli di disoccupazione crescono continuamente.

I giovani: sono “esodati” anche loro. Visto che si contano circa due milioni di Neet, un altro neologismo per significare una popolazione fuori dalla scuola e dal lavoro. Dunque, anch’essa sperduta. Tra le pieghe dell’impiego temporaneo e informale. Protetta dalle famiglie, che offrono loro un ancoraggio, in attesa di una stabilità imprevista e imprevedibile. I giovani. Se ne vanno dall’Italia, se e quando possono. Sempre più numerosi. In particolare, durante i corsi di laurea. Utilizzano l’Erasmus, programma che prevede alcuni mesi di studio presso università straniere in convenzione con quelle italiane. Ma poi, dopo la laurea, ripartono di nuovo. Proseguono la loro “formazione” in altre università straniere. E spesso trovano impiego. Altrove. Perché l’Italia è un Paese di pensionati dove i giovani “esodano”. Soprattutto i “laureati”. Che sono sempre meno. Il 20% della popolazione fra 25 e 34 anni. Cioè, la metà della media Ocse. D’altronde, il saldo fra giovani laureati che escono e vengono, in Italia, è negativo (-1,2%, secondo un Rapporto di Manageritalia). Il peggiore della Ue.

Così, siamo diventati un paese di vecchi, attraversato da inquietudini e paure. Perché, quando si invecchia, crescono e si diffondono anche le paure. E ci si difende dagli altri, chiudendosi in casa. Guardando tutti con crescente sospetto. In Italia, più di due persone su tre diffidano di chi hanno di fronte (Oss sulla Sicurezza, Demos-Oss. Pavia-Fond. Unipolis). Perché ci potrebbero “fregare”. In particolare, preoccupano – e spaventano – gli stranieri che affollano l’Italia, in numero crescente. Perché sono tanti, sempre di più, quelli che arrivano. Con ogni mezzo. In particolare, dal Nord dell’Africa. Non per “piacere”, ma spinti da paure ben più immediate e drammatiche delle nostre. Le guerre, la fame, i conflitti. Fuggono dal loro mondo che è lì, a un passo dal nostro. E intraprendono viaggi brevi ma, spesso, infiniti. Perché finiscono in modo tragico. In fondo al mare. Ai nostri mari che assomigliano a cimiteri liquidi, dove si depositano, a migliaia, i corpi di migranti che tentano di scavalcare il muro che li separa da noi. Il Mare Nostrum che ormai è divenuto un Mare Mostrum. Quel tratto di mare: è un muro, una barriera. Costruita con le nostre paure, per difendere la nostra solitudine, la nostra vecchiaia infelice. Per coltivare la nostra indifferenza.

Noi, l’estremo confine d’Europa. Ultima frontiera di una civiltà senza più civiltà. Senza più pietà. Senza più futuro. Perché se fai partire i tuoi giovani (più qualificati) e tieni lontani quelli che vorrebbero entrare, dal Sud ma anche dall’Occidente, i poveri e i disperati, ma anche i più istruiti e specializzati: che futuro vuoi avere? Al massimo un passato. Sempre più incerto, anch’esso. E annebbiato. Come la memoria. Per questo la rappresentanza, o meglio, la “rappresentazione” offerta da Renzi, oggi, mi appare inadeguata. Troppo giovane e giovanile. Troppo giocosa. Rispetto al Paese: rischia di proporre uno specchio deformante. Difficile predicare la “crescita” se siamo in “declino” – demografico. Se i giovani sono pochi e quando possono se ne vanno. Non basterà, di certo, un gelato a farli rientrare. Né a farci ringiovanire tutti. Più facile, piuttosto, che lui, il premier, rispecchiandosi nel Paese, invecchi presto.

Lavoro flessibile in crescita: togliere lacci crea posti

Lavoro flessibile in crescita: togliere lacci crea posti

Claudio Tucci – Il Sole 24 Ore

Il mercato del lavoro resta in grande crisi. Ma laddove si tolgono i vincoli, e si ha più coraggio, qualcosa inizia a muoversi. Nel secondo trimestre di quest’anno l’Istat evidenzia un aumento dei dipendenti a termine del 3,8%, pari a 86mila lavoratori in più rispetto ai 12 mesi prima. Anche il ministero del Lavoro e l’Isfol, analizzando i dati sui rapporti di lavoro attivati, segnalano, negli stessi tre mesi, una crescita dei contratti a termine del 3,9 per cento. Un incremento maggiore, ed è una notizia, riguarda l’apprendistato che dal varo della Testo unico Sacconi (fine 2011) inverte rotta e nel terzo trimestre 2014 cresce addirittura del 16,1% (+12mila contratti circa rispetto al secondo trimestre 2013, +8mila, su base destagionalizzata, rispetto al trimestre precedente). Un incremento concentrato essenzialmente nella classe d’età compresa tra i 20 e i 29 anni. Resta invece in difficoltà l’apprendistato di primo livello per i giovani in età 15-19: dal 2010 il numero di nuovi rapporti risulta più che dimezzato.

Il dato sull’apprendistato è un primo segnale. Ma indicativo di quanto aiutino regolazioni semplici. Le aziende, da sempre, lamentano difficoltà nell’utilizzo di questo strumento carico di troppa burocrazia e di difficile gestione pratica (nonostante gli incentivi e i forti sgravi contributivi previsti). Ebbene, prima il decreto Giovannini, poi ulteriori interventi semplificatori su libretto formativo e formazione pubblica contenuti nel decreto Poletti, hanno colto nel segno e reso un po’ più accessibile l’apprendistato alle aziende. Sul coinvolgimento degli studenti il decreto Carrozza ha lanciato un programma sperimentale per coinvolgere alunni di quarta e quinta superiore. Il provvedimento attuativo è però arrivato ben sette mesi dopo, a ridosso della fine della scuola. A settembre partirà solo una grande azienda, Enel, con circa 150 assunzioni di studenti-apprendisti.

La direzione è quella giusta, ma la burocrazia va combattuta fino in fondo e serve un piano di comunicazione e orientamento ad ampio raggio. È poi importante abbattere le barriere ideologiche semplificando ancor più l’apprendistato a partire dai 14 anni, come chiede una parte della maggioranza capeggiata da Maurizio Sacconi (la misura convince pure il sottosegretario all’Istruzione, Gabriele Toccafondi). Molto può fare anche «Garanzia giovani» (che è partita in forte sordina) e serve un legame vero tra scuola e lavoro, come sottolineano anche dal Pd, con l’economista del lavoro Carlo Dell’Aringa. È positivo, poi che il nuovo regime di a-causalità fino a 36 mesi dei rapporti a tempo non abbia “colpito” i contratti a tempo indeterminato che fanno segnare la prima variazione positiva (+140/0) da oltre due anni. L’attenzione ora è alla delega lavoro sul «Jobs act»che riparte a settembre. Serve coraggio, magari togliendo il limite del 20% ai contratti a termine e rendendo più flessibili mansioni e recesso nei contratti a tempo indeterminato. Il lavoro ha bisogno della ripresa economica, non c’è dubbio. Ma anche norme semplici, certe e chiare per le imprese possono aiutare.

L’altra faccia del precariato che a volte i giovani non vedono

L’altra faccia del precariato che a volte i giovani non vedono

Roger Abravanel – Corriere della Sera

Che in Italia il precariato sia molto aumentato non è una novità per nessuno. È anche cosa nota che in Italia il precariato sia particolarmente ingiusto, perché la normativa sul lavoro ha creato un «apartheid» – secondo la definizione di Pietro Ichino – tra precari «cronici» (partite Iva, contratti a progetto), soprattutto giovani e donne, e lavoratori garantiti come in nessun altro Paese al mondo – lavoratori maschi di età media che lavorano in fabbriche che si stanno chiudendo in tutti i Paesi sviluppati e nel settore pubblico.

Eppure esiste anche un’altra faccia del precariato: per cento persone che perdono il lavoro ce ne sono 98 che il lavoro lo trovano. Come è possibile? Per capirlo basta analizzare le statistiche dei nuovi contratti di lavoro, per esempio quelle del 2012, quando sono state registrate ben 10 milioni di nuove assunzioni. Molte hanno brevissima durata, 3 milioni sono sotto il mese, ma ce ne sono almeno 2 milioni che durano più di un anno, un numero pari a quello dei lavoratori a tempo indeterminato. In media le persone che trovano lavoro ne trovano due all’anno, e quindi i 10 milioni di assunzioni corrispondono a 5 milioni di persone che cambiano due lavori all’anno.

Nei 5 anni di crisi si è perso 1 milione di posti di lavoro, il che equivale a 4.000 ogni settimana. Dato però che ogni settimana 200.000 persone vengono assunte (10 milioni diviso 52 settimane), vuole dire che per cento persone che vedono terminare il proprio contratto ce ne sono 98 che, invece, trovano una occupazione (200.000 su 204.000). Molte di queste saranno diverse dai 100 che hanno perso il lavoro, ed è anche possibile che alcuni tra questi ultimi non lo ritrovino più.

Ovviamente, per le cento persone che si ritrovano senza un’occupazione, questo è un male: i trenta-quarantenni che rimangono disoccupati non possono pianificare la propria vita, e per i cinquantenni si tratta di una vera tragedia. Ma la stessa situazione non è invece così negativa per le 98 persone che trovano lavoro. Molti di loro hanno perso il proprio impiego solo la settimana o il mese prima e rientrano nella categoria dei «precari a vita», vittime dell’«apartheid» cui si faceva riferimento. Ma molti di costoro tornano a cercare un lavoro per la prima volta dai tempi del loro debutto nel mercato del lavoro: e per questi ultimi si tratta di una vera opportunità. In particolare, questa rotazione dovrebbe aprire grandi opportunità ai giovani tra i 18 e 24 anni, che hanno meno bisogno di pianificare il proprio futuro.

E invece questo non avviene, perché i giovani rappresentano solo una piccola parte di quei dieci milioni di assunzioni che avvengono ogni anno: una parte molto inferiore a quella che dovrebbe essere. Questo avviene perché molti giovani non sono preparati e non possiedono quelle «soft skills» che i datori di lavoro ritengono necessarie: capacità di comunicare, risolvere problemi, lavorare in team e una forte etica del lavoro. La scuola italiana non insegna loro queste abilità. Ciò che avviene, quindi, è che alla fine il datore di lavoro si orienti sull’«usato sicuro» e non assuma i giovani.

I ragazzi e le ragazze italiani che possiedono queste competenze perché hanno avuto la fortuna di studiare in una buona scuola e/o università, hanno lavorato durante gli studi e si sono presentati non troppo tardi sul mercato del lavoro, hanno invece molte possibilità: ma anche loro devono rivedere l’approccio alla ricerca di una occupazione. Devono soprattutto dimenticare lo Stato e le sue agenzie del lavoro – che non funzionano -, oltre alle raccomandazioni di parenti e degli amici. Come sempre, dove lo Stato non funziona subentrano il mercato e l’innovazione. Le agenzie interinali come Adecco e Manpower si sono trasformate in questi anni in veri e propri protagonisti del mercato del lavoro, con un ruolo ben più ampio di quello, più tradizionale, di assumere i lavoratori di cui l’azienda non vuole farsi carico direttamente per risparmiare i contributi e mantenere la flessibilità di licenziarli. Sono dei gestori della vita professionale di un lavoratore capace, che, se si dimostra serio e con le giuste competenze , alla fine, con il loro aiuto, può rimediare un lavoro, anche a tempo indeterminato. Queste agenzie sono infatti diventate dei veri esperti della selezione del personale, perché hanno dei professionisti molto capaci a capire quelle soft skills che per le aziende oggi sono più importanti delle competenze professionali e che non si possono leggere in un curriculum. Eppure molti giovani italiani ancora oggi le considerano solo come agenzie «interinali».

C’è, inoltre, Internet che aiuta a rendere enormemente più trasparente il mercato del lavoro. Per esempio, gli italiani stanno scoprendo i social network non solo per la vita personale, ma anche per quella professionale. Ben 7 milioni hanno messo il proprio curriculum su LinkedIn, una piattaforma digitale che permette a un datore di lavoro di «pescare» un lavoratore navigando nelle rete alla ricerca delle caratteristiche giuste e chiedendo referenze a chi lo conosce. Grazie alla tecnologia, LinkedIn «distruggerà» il mondo delle raccomandazioni all’italiana.

Eppure, di questi 7 milioni i giovani sono una minoranza. Più in generale non sfruttano a sufficienza la Rete, anche se dovrebbero essere avvantaggiati. Preferiscono «usare Facebook per mostrare i propri muscoli o le proprie curve, piuttosto che LinkedIn per trovare un lavoro», dice il responsabile delle risorse umane di una grande azienda italiana. Il precariato è drammatico per molti lavoratori. Ma presenta anche un’ altra faccia che dovrebbe favorire i giovani. Eppure questo non avviene, essenzialmente per colpa del nostro sistema educativo che non li prepara al mondo del lavoro.

Così la Thatcher ha cambiato verso alla lagna sui “giovani penalizzati”

Così la Thatcher ha cambiato verso alla lagna sui “giovani penalizzati”

Luciano Picone – Il Foglio

Uno Stato leggero e un sistema di mercato non eccessivamente gravato da vincoli di ogni tipo, che premia il merito e non ostacola la concorrenza, favorisce soprattutto i giovani. Un recente studio dell’Office for National Statitics, l’Istat britannico, sui “Salari nel Regno Unito negli ultimi quattro decenni”, mostra con estrema chiarezza gli effetti di lungo periodo sugli stipendi della “rivoluzione liberale”, nel paese che negli anni 80 è stato il laboratorio mondiale della riscossa “neoliberista”. Nell’immaginario collettivo i baby boomers, i nati nel Dopoguerra rappresentano la generazione più fortunata, quella che ha beneficiato della crescita economica e dell’aumento dei consumi, incappando nella Grande depressione soltanto subito prima o subito dopo la pensione. Secondo i dati elaborati dall’ufficio di statistica inglese, le cose non stanno proprio così. Quelli che in Gran Bretagna hanno iniziato a lavorare nel 1975, sotto il governo laburista di Harold Wilson e nell’apogeo dello Stato assistenziale beveridgiano, hanno guadagnato in termini reali molto meno dei loro coetanei che hanno iniziato a lavorare nel 1985 e nel 1995, durante e dopo il ciclone Thatcher. Chi ha trovato la prima occupazione nel 1995 guadagna il 40 per cento in più rispetto ai suoi genitori in 18 anni di lavoro: «Questa differenza di retribuzione – scrive l’Ons – significa che coloro che hanno iniziato a lavorare nel 1975 devono lavorare tre-quattro anni in più di quelli che hanno iniziato a lavorare nel 1985 e 5-6 anni in più di coloro che hanno iniziato a lavorare nel 1995 per accumulare la stessa ricchezza». Sempre al netto dell’inflazione, lo stipendio mediano di un lavoratore del 1975 era di 6,17 sterline l’ora, mentre nel 2013 è di 11,56 sterline, circa il 90 per cento in più. E se nel 1975 lo stipendio più alto nella carriera professionale di una persona era di circa 7 sterline l’ora, la somma è raddoppiata nel 2013. Una tendenza opposta a quella italiana. Nel nostro paese ricchezza e redditi più alti sono appannaggio dei più anziani, mentre scendono le retribuzioni dei più giovani. Secondo la Banca d’Italia, dal 1991 al 2012 il reddito è salito sia per gli over 55 (dal 104 al 122 per cento rispetto alla media generale) che per gli over 65 (dal 95 al 114 per cento), «per le classi di età più giovani, invece, il reddito equivalente diminuisce significativamente rispetto alla media generale: il calo è di circa 15 punti percentuali per le persone fra 19 e 34 anni e di circa 12 punti percentuali per quelli tra 35 e 44 anni». La crisi dell’Eurozona non ha mutato il trend.

Parla l’economista Francesco Daveri

«La realtà è che la crescita dei salari è legata alla produttività, che da noi è rimasta inchiodata», dice al Foglio Francesco Daveri, docente di Economia politica all’Università di Parma, tra gli animatori del sito Lavoce.info dove ha tentato un bilancio della leader conservatrice in campo economico. «I britannici, nonostante una crisi finanziaria che in teoria avrebbero dovuto pagare più di noi, hanno visto crescere costantemente i loro salari. Uno può dire che si tratta di una bolla, ma è una bolla che dura da oltre 30 anni». Per far ripartire la produttività è necessario riformare un sistema incrostato che ostacola la crescita e l’innovazione. «Le Istituzioni contano – prosegue Daveri – e in Italia è più conveniente far parte delle categorie protette, quelle fortemente sindacalizzate, dove si possono far crescere i salari più della produttività ma alla lunga si perdono posti di lavoro». Più o meno la situazione inglese negli anni 70: un’economia fortemente ingessata, condizionata dalle grandi aziende di Stato e dominata dai sindacati. «La Thatcher ha gettato le basi di un sistema di mercato su cui negli anni 90 si è innescata la rivoluzione tecnologica, le sue riforme economiche fatte in anticipo hanno permesso di cogliere le nuove opportunità» dice Daveri. L’Italia si trova in una posizione difficile, con una mobilità del capitale simile a quella americana e inglese ma con istituzioni che corrispondono ad un modello manifatturiero superato, in cui sono contrapposti capitali e lavoro: «Nell’epoca di Internet e dell’Ict abbiamo conservato istituzioni di un’epoca precedente, non adatte a un’economia di servizi. Un modello che pensa di conservare con la baionetta posti di lavoro destinati a scomparire». E la globalizzazione che poteva un’opportunità si sta trasformando in un boomerang. «Ora le obiezioni non sono solo al mercato – conclude Daveri – ma anche alle nuove tecnologie che necessitano del libero mercato. Ma se prevalgono le forze che resistono al cambiamento il rischio è quello di subire solo i lati negativi della globalizzazione».

I distruttori del lavoro

I distruttori del lavoro

Maurizio Ferrara – Corriere della Sera

La disoccupazione giovanile continua a crescere, soprattutto fra le donne. Due mesi ha preso avvio il programma “Garanzia giovani” cofinanziato dall’Unione Europea, il cui obiettivo è proprio quello di aiutare chi ha meno di 29 anni a inserirsi nel mondo del lavoro. Otto settimane non bastano certo a produrre risultati concreti. È però lecito chiedersi a che punto siamo e che cosa possiamo aspettarci da questa ambiziosa aspettativa. Quasi 100mila giovani si sono già inseriti al portale Internet e molti sono stati anche intervistati dai servizi per l’impiego. La vera sfida comincia adesso. La “Garanzia” prevede infatti che entro quattro mesi il disoccupato riceva una proposta concreta di inserimento. Sul portale si legge che le aziende per ora hanno segnalato circa 2mila occasioni di lavoro: un numero davvero esiguo, anche tenendo conto della crisi. Bisogna migliorare con urgenza i flussi informativi sulle posizioni vacanti in tutti i settori dell’economia.

Il compito di attuare la “Garanzia” spetta alle Regioni. Quelle del Centro-Nord (in parte anche la Puglia) sembrano sulla buona strada. Lombardia, Toscana e Lazio hanno già incontrato più di un terzo dei loro iscritti. Le Regioni del Mezzogiorno sono invece quasi ferme. E ciò che sta accadendo solleva, purtroppo, più di una preoccupazione. Nel piano di spesa della Sicilia, ad esempio, quasi due terzi dei 178 milioni di euro disponibili verranno destinati all’«accoglienza»e alla formazione, solo il 6 per cento ad attività concrete come l’apprendistato. Per quest’ultima voce («già incentivata da altre leggi») la Sardegna non prevede neppure un euro mentre abbonda in sussidi a formatori e mediatori. La Calabria dal canto suo ha appena chiuso un bando per 500 tirocini con modalità di selezione che rischiano di riprodurre sotto nuove spoglie le tradizionali logiche clientelari.

Dati questi segnali, vi è un’alta probabilità che la “Garanzia” fallisca proprio nelle aree del Paese dove è più necessaria. Invece di innescare dinamiche virtuose nei mercati del lavoro del Mezzogiorno, le risorse europee rischiano di alimentare, come in passato, il sottosviluppo assistito. Bruxelles è preoccupata e non ha ancora formalmente approvato il piano italiano: non una bella figura per il paese che più aveva insistito per mobilitare i fondi Ue e che ora detiene la presidenza di turno. Per evitare il fallimento, il governo deve attivarsi subito su almeno due fronti. Innanzitutto imponendo alle Regioni il rispetto dei criteri minimi di trasparenza ed efficacia nella fornitura dei servizi (costi standard, pagamento sulla base dei risultati, apertura alle agenzie del lavoro private e così via). In secondo luogo, collegando la “Garanzia giovani” in modo più diretto al mondo delle imprese. Occorrono incentivi, accordi, politiche di livello nazionale. Nel Mezzogiorno ciò significa trarre investimenti, avviare una seria politica per il turismo e per i servizi, in modo da facilitare anche iniziative dal basso di autoimpiego e di start-up. Un’opportunità concreta di mettersi in gioco nel mercato, in base alle proprie capacità e ai propri talenti: questa è la vera “garanzia” che dobbiamo offrire ai giovani italiani. Iniziando da quelli (troppi) che oggi non riescono a uscire con le proprie gambe dalle trappole dell’inattività, della disoccupazione e dell’assistenzialismo.