giuseppe pennisi

Così Craxi “risolve” la  trattativa Tsipras-Ue

Così Craxi “risolve” la trattativa Tsipras-Ue

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

Oggi 16 febbraio verrà parafato (il termine del lessico diplomatico per dire siglato) un nuovo accordo tra la Repubblica ellenica da una parte e i partner dell’eurozona, la Commissione europea, il Fondo monetario internazionale e l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, dall’altra. L’Ocse è, per così dire, un nuovo arrivato; su richiesta in gran misura della delegazione greca, in ragione della sensibilità mostrata dall’organizzazione parigina con sede a Chateau de la Muette per i temi sociali, la distribuzione del reddito e lo sviluppo sostenibile. Non ci sarà la Banca centrale europea non perché Alexis Tsipras abbia Mario Draghi in antipatia (in seguito alla decisione di non accettare titoli del Governo greco a garanzia di prestiti alle banche elleniche), ma perché è un bene per tutti che la Bce mantenga una veste puramente tecnica e in tale ambito possa, se del caso, concedere aiuti al di fuori di un accordo eminentemente politico.

L’intesa è Tak blizko!, Tak blizko! Bliko (ossia a portata di mano, dice un economista russo mio amico non coinvolto nella trattativa, ma come molti economisti russi ben informato poiché costretto ad “arrotondare”, facendo altre cose, il suo modesto stipendio universitario). Quali sarebbero i termini? Il punto principale sarebbe una dilazione della scadenza per il pagamento di una tranche del debito ora dovuta il 28 febbraio. Il dilazionamento potrebbe essere di sei mesi; la Grecia può sopravvivere in autonomia sino a fine maggio, se non è costretta a far fronte alla scadenza. Una dilazione di sei mesi consentirebbe di preparare un piano di riassetto strutturale con la collaborazione dell’Ocse e forse anche quella della Commissione europea e del Fmi, istituzioni gradite invece ai suoi creditori. Tuttavia, Tsipras potrebbe dire al proprio elettorato che la troika non è più l’interlocutore-vessatore in quanto la Bce esce e l’Ocse entra. Non si parlerebbe di ulteriori riduzione dei tassi d’interesse principalmente perché già adesso i termini sono così generosi che il servizio del debito della Grecia (pari al 170% del Pil) è appena il 2,6% del Pil rispetto al 5% del Portogallo (il cui debito è il 132% del Pil), al 4,7% dell’Italia (132% del Pil), al 3,3% della Spagna (95%).

Secondo il centro di ricerche Bruegel (abbastanza coinvolto nella trattativa), se il programma preparato con il supporto Ocse (e verosimilmente di Commissione Ue e Fmi) porta a ulteriori dilazioni, i risparmi di spesa pubblica potrebbero arrivare al 15-17% del Pil ed essere disponibili per nuovi investimenti (da selezionare con cura). È probabile che a questo punto l’intesa non vada oltre in attesa del programma di riassetto strutturale.

Andare più a fondo rischierebbe di fare saltare il tavolo in una fase in cui nessuno vuole farlo. Non tanto perché dal 2008 il Pil nominale greco ha subito una contrazione del 22%, i salari reali un taglio di pari portata (ma del 40% per la fascia di età tra i 18 e i 24 anni), il valore delle abitazioni (la prima destinazione del risparmio delle famiglie anche nella Repubblica ellenica) una riduzione del 40%. E neanche perché si temano i riflessi dell’uscita della Grecia dalla moneta unica sull’intera eurozona. Ma a causa della situazione nel Mediterraneo e dell’avamposto in Cirenaica posto dall’autoproclamato Califfato islamico. Oggi tutti vogliono pace e stabilità sul fronte greco: la situazione è drammaticamente cambiata nel giro di una settimana.

Sono state scartate le proposte di prestiti i cui interessi siano collegati all’andamento del Pil reale oppure di prestiti senza scadenza ma tali di assicurare una “rendita” ai creditori (in gran parte Stati e organizzazioni internazionali). In effetti, il pittoresco Varoufakis ha mostrato di avere poca fantasia ripescando idee e strumenti della Russia zarista (per finanziare la transiberiana) e dell’Italia mussoliniana (per la “Guerra d’Abissinia” che ci avrebbe fatto diventare un Impero).

Tuttavia, proprio Ocse e Fmi hanno suggerito che se il programma di riassetto strutturale è di qualità (e non si basa su grandi incrementi del gettito da imputarsi a una maggiore e migliore lotta all’evasione e alla corruzione), per la Grecia si potrebbe riprendere una proposta del Rapporto Craxi del 1990 all’Assemblea Generale Onu per i paesi più indebitati: rimettere, in fasi, parte del debito greco man mano che le riforme strutturali hanno effetto e aumenta la produttività complessiva del Paese.

Occorre dire che Tsipras contava molto sull’apporto e appoggio di Renzi poiché sia Portogallo che Spagna sono guidati da Presidenti del Consiglio di centrodestra. Non solo, ma il leader italiano aveva ostentato amicizia e comunanza d’intenti con forti abbracci durante la visita fatta dal greco a Roma. Tuttavia, Renzi è stato molto preso dal fronte interno, e la manifestata intenzione di andare avanti senza il contributo dell’opposizione nella riforma della Costituzione e della legge elettorale gli ha fatto perdere quel po’ di autorevolezza che aveva conquistato nell’eurozona.

A tendere la mano a Tsipras (e a rammentare come per vent’anni i negoziati per i Paesi poveri più indebitati sono stati guidati dal Rapporto Craxi) sono stati, oltre all’Ocse e al Fmi, i tedeschi. Pare che a Palazzo Chigi, alla Farnesina e a via Venti Settembre nessuno se ne ricordasse. La prossima volta Tsipras saprà chi abbracciare.

Così il Piano Juncker può  sbloccare la trattativa Ue-Tsipras

Così il Piano Juncker può sbloccare la trattativa Ue-Tsipras

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

La prima notizia è senza dubbio buona: il tanto temuto “mal di Grecia”, ossia il contagio della crisi finanziaria ed economica greca, al resto dell’eurozona, non avverrà – oppure se ci sarà, sarà in forma molto limitata blanda e l’Italia non ne sarà, come si era temuto, il vettore. I mercati internazionali hanno reagito con calma e souplesse alle richieste ad alta voce del nuovo Governo della Repubblica ellenica, anche a quelle del pittoresco ministro delle Finanze Yanis Varoufakis. E, soprattutto, la Banca centrale europea ha detto chiaro e tondo a tutti che “misure monetarie straordinarie” non vuole dire accettare in garanzia, per nuovi prestiti, titoli che domani possono essere carta straccia.

La seconda notizia è abbastanza buona. I nuovi governanti della Repubblica ellenica hanno iniziato la trattativa con quello che, in termini di “teoria dei giochi”, si chiama un gioco a ultimatum: un duello in cui una delle due parti deve soccombere (quale quello tra Don Giovanni e il Commendatore nelle varie versioni del mito del burlador de Sevilla). Ma appena la Bce ha mostrato non un bazooka ma un regolamento (e una dose di buon senso) hanno fatto marcia indietro, nonostante ad Atene (e non solo) le piazze si agitassero. Ciò vuol dire che si sta aprendo un negoziato che verosimilmente sarà lungo e difficile.

Le parti in causa sono numerose: i 19 Stati membri dell’eurozona, gli altri dieci dell’Unione europea, la Commissione europea, la Bce, il Fondo monetario internazionale e il resto del mondo in trepida e nervosa attesa. Ciascuna parte deve massimizzare due obiettivi: “la reputazione”, nel senso del rispetto delle regole nei confronti di tutti gli altri, e “la popolarità” nei confronti del proprio elettorato. Il Prof. Pier Carlo Padoan, attualmente ministro dell’Economia e delle Finanze dell’Italia, è un maestro di “teoria dei giochi multipli a più livelli” e potrebbe dare lezioni in materia. Potrebbe anche avere un ruolo centrale nella trattativa. Tuttavia, le divergenze tra gli obiettivi sono tali e tanti che è arduo prevedere che venga svolta unicamente sulla base della logica economica.

La terza notizia non è affatto buona. L’affaire Grecia ha scoperchiato la pentola di tutte le contraddizioni di un’unione monetaria (l’unica che io rammenti) effettuata non come conseguenza di un’unione politica, anche solamente confederale, ma come disegno puramente a tavolino tra Governanti di Paesi con storie, tradizioni, culture, strutture economiche profondamente differenti nella speranza che il resto arrivi come conseguenza del Trattato di Maastricht e degli accordi intergovernativi a esso successivi.

Gli esiti sono stati tali che ne sono nati movimenti che guardano con diffidenza (per parlare in toni gentili) alla moneta unica. La ripresa in atto nel Nord America e l’andamento abbastanza buono dell’economia mondiale mostrano che l’eurozona è il “grande malato” e che dal 2010 le difficoltà in cui versa non possono essere attribuite alla crisi dei mutui subprime venuta dagli Stati Uniti, ma, come ha chiaramente scritto la Banca d’Italia, a “una crisi del debito sovrano europeo”. Per risolverla, sarebbe auspicabile una conferenza dei debitori (numerosi) e dei creditori (pochi) e un metodo condiviso per procedere. È difficile pensare che un’assise del genere possa essere convocata in tempi brevi, anche e soprattutto poiché manca un metodo condiviso.

Nel breve periodo preverrà un approccio multi-bilaterale, termine elegante per dire di fare sì che tutti “salvino la faccia”, senza incorrere in costi eccessivi, quali il Piano Marshall per la Grecia che qualche anima bella ogni tanto evoca. Una soluzione potrebbe essere quella di allungare le scadenze del debito greco e dare un’allocazione speciale degli investimenti del “piano Juncker” alla Repubblica ellenica. Il prolungamento delle scadenza pare, in ogni caso, necessario per evitare un vero e proprio default: i greci lo presenterebbero al loro pubblico come una riduzione del debito (in sostanza lo è), i “duri e puri” direbbero ai loro elettori che non si è fatto alcun taglio ma soltanto somministrato un dosaggio di vitamine e antibiotici, le anime belle (poche e dubbiose come le vergini nelle processioni delle Pasque greche e non solo) inneggerebbero (a torto) alla flessibilità.

Un’allocazione straordinaria del “piano Juncker” non danneggia alcun partner della Grecia (principalmente poiché il pipeline di progetti di qualità ed effettivamente cantierabili non è affatto pieno) e permetterebbe al Governo greco di annunciare di avere portato fresh money a casa. Nel complesso si metterebbe una pezza. Sempre che non ci sia l’intenzione di acquistare un nuovo paio di pantaloni.

Enel, è vera privatizzazione?

Enel, è vera privatizzazione?

Giuseppe Pennisi – Formiche

Se le cose vanno come desiderato al Ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef) ed a Palazzo Chigi, la vendita del 3-6% di quote Enel potrebbe essere presentato come ‘il fiore all’occhiello’ delle privatizzazioni. Verrebbe effettuata in tempi brevi: il collocamento inizierebbe la settimana del 9 febbraio e verrebbe completato entro la fine del mese, anche in quanto ci sarebbero investitori internazionali interessati all’acquisto. Il provvedimento porterebbe “cassa” (si stima sino a due miliardi di euro) senza fare perdere allo Stato il controllo di quello che è, in sostanza, il protagonista della produzione dell’energia elettrica. Al termine della cessione il Ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef), oggi azionista con il 31,2%, si troverebbe a scendere al 25% circa. Il secondo azionista di peso, dopo l’azionista pubblico, resterebbe People’s Bank of China con una quota del 2 per cento.

Più importati dei due miliardi (eventuali), che appena scalfirebbero l’irta montagna del debito pubblico, la misura sarebbe una prova concreta che il governo intende andare avanti seriamente con il piano di privatizzazioni (di fatto fermo da circa tre anni) almeno per quanto nelle competenze dello Stato centrale. La cessione di quote Enel arriva, inoltre, in un momento particolarmente propizio: in una fase in cui il calo domanda pesa sui ricavi (per ben 75,8 miliardi), l’Ebitda è in linea con gli obiettivi, e soprattutto l’indebitamento scende a 38 miliardi da 44,57 in settembre, nonostante i maggiori investimenti. Ciò indica che il management è stato in grado di cogliere le opportunità del ribasso internazionale ed europeo dei tassi d’interesse e d’effettuare buone operazioni di rifinanziamento, oltre che di portare a termine cessioni di controllate all’estero (Egp France e le attività in El Salvador). Un terzo elemento è il desiderio di numerosi investitori, piccoli e grandi, di porre i propri risparmi in collocamenti a lungo termini con poco rischio, rendimenti non elevati ma con caratteristiche di permettere di dormire tra due cuscini: i risparmi delle famiglie italiane sono arrivati a 3800 miliardi nonostante la tassazione sia cresciuta, secondo il Centro Studi “ImpresaLavoro” da 6,9 miliardi nel 2011 a 15,9 miliardi stimati nei documenti di finanza pubblica per il 2015, e l’investimento nell’attore principale di un mercato oligopolista pare avere le caratteristiche appropriate.

Il 26 gennaio al ministero dell’Economia e delle Finanze si è tenuta una riunione con il comitato per le privatizzazioni e gli advisor (Equita e Clifford Chance) per mettere a punto la strategia. In allerta sarebbero anche le banche già individuate per il consorzio di collocamento, una decina in tutto, tra i maggiori player internazionali e italiani, incluse Banca Imi e Unicredit. L’operazione dovrebbe prendere forma in tempi brevi. La tipologia di operazione su cui si sta lavorando è quella di un book building accelerato, che consentirebbe la realizzazione di un collocamento lampo da chiudere nel giro di alcune ore. Nell’ottica di chi ritiene che le privatizzazioni non debbano essere solamente o principalmente uno strumento di breve periodo per “fare cassa”, ed innescare energie nuove nell’azionariato oggi e domani anche nel gruppo dirigente, è doveroso chiedersi perché il Mef non abbia colto questa occasione per cominciare a mettere ordine in un mercato caratterizzato da liberalizzazioni incompiute, molteplicità di attori pubblici e privati, nonché nazionali ed europei, ed una regolamentazione incompleta ed in cui vari aspetto si accavallano.

In Italia, abbiamo l’Autorità per l’Energia Elettrica ed il Gas, Terna (proprietario della rete e responsabile della trasmissione e del dispacciamento di energia elettrica, il Gestore dei servizi energetici, principalmente per gli incentivi alle fonti rinnovabili), l’Acquirente unico, garante di ultima istanza della fornitura alle famiglie ed alle piccole imprese. A livello europeo per l’Agenzia per la cooperazione tra i regolatori nazionali, in cui concorrono autorità statali incorporate nel processo regolatorio europeo. In breve, un vero e proprio labirinto. Una guida efficace sono i 22 saggi raccolti nel volume a cura di Alberto Clò, Stefano Clò e Federico Botta “Riforme elettriche tra efficienza ed equità”, Bologna Il Mulino, 2014. Ha pienamente ragione Sabino Cassese nel sottolineare che siamo in una fase di transizione, con un mercato che continua ad essere oligopolistico, con molte e complesse nuove regole. Ciò non vuol dire che il riassetto del settore (eliminando ad esempio duplicazioni ed accavallamenti), debba essere simultaneo alla cessione di quote, ma dovrebbe, per mostrare un nesso, avvenire nei prossimi mesi. Allora sarebbe una ‘vera’ privatizzazione con una ricaduta istituzionale sul funzionamento del mercato.

Ma sul debito di Atene i conti son già fatti.  Anche da Cottarelli

Ma sul debito di Atene i conti son già fatti. Anche da Cottarelli

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Rispunta Carlo Cottarelli. Questa volta ad Atene. Non nella veste di autore di spending review secretate, quindi, ma di “avvocato difensore”  della Grecia alle dirette dipendenze di Alexis Tsipras, in quanto rappresentante della Repubblica ellenica («oltre che dell’Italia e di un’altra mezza dozzina di Stati») nel consiglio del Fmi, il partner senior della troika se non altro per l’esperienza e le risorse professionali di cui dispone.

Cottarelli è avvezzo a trattare di debito pubblico. Per di più trova il terreno pronto. Nel novembre 2014 – a Washington, Bruxelles ed Atene è il “segreto di Pulcinella”, anche se a Francoforte si afferma di non saperne nulla – il presidente del Consiglio greco allora in carica Antonis Samaras aveva concluso un patto top secret con i partner europei che contano. Atene avrebbe dovuto rientrare quanto il dovuto nei loro confronti – quasi 190 miliardi su 300 – entro il 2057. Non si possono toccare i crediti privilegiati targati Fmi e Bce, perché salterebbe l’intero sistema. Ma la Grecia avrebbe forse avuto un periodo di grazia (senza pagare nulla ai maggiori creditori) fino al 2020. Da quella data avrebbe poi rimborsato a tassi di interesse “calmierati”, pari a solo lo 0,53% annuo in aggiunta al tasso armonizzato d’aumento dei prezzi pubblicato nel Bollettino Mensile della Banca centrale europea. Tsipras è ovviamente perfettamente al corrente.

Su questa base è anche facile non solo fare il gioco delle tra carte, ma mostrare risultati differenti a seconda dell’uditorio. Mediamente il debito greco ha scadenze di 16 anni, oltre il doppio di quelle di Francia, Germania ed Italia. Ad un tasso d’attualizzazione nominale (l’inverso del tasso d’interesse) medio del 2,5% (il 2% definito come “obiettivo d’inflazione” della Bce più lo 0,53%) il prolungamento delle scadenze comporta una riduzione di un terzo di quanto dovuto – e un taglio ancor maggiore se nel pacchetto rientra anche il “periodo di grazia”.

Mediaticamente sarebbero tutti contenti. Tsipras sottolineerebbe ai suoi che ha ottenuto un bel taglio. La troika che si è trattato di un allungamento “tecnico” per meglio consentire alla Grecia il rientro del debito e l’avvio dello sviluppo. Ai contribuenti italiani l’operazione costerebbe circa 15 miliardi. Spalmati, però, su una ventina d’anni.

Perché dopo la scossa di Draghi serve privatizzare in Italia

Perché dopo la scossa di Draghi serve privatizzare in Italia

Giuseppe Pennisi – Formiche

Nei giorni in cui tutti azzardano stime sugli effetti del Quantitative Easing (Q.E.), volgiamo lo sguardo a cosa fare per rendere efficaci le “misure monetarie non convenzionali” varate il 22 gennaio dalla Banca centrale europee. Non solo mi concentro sulle materie strettamente nel nostro campo: ciò che possono (e che debbono) fare Parlamento e Governo della Repubblica Italiana mentre gli altri 18 membri dell’eurozona molto probabilmente si accapiglieranno su questa o quella virgola del compromesso raggiunto.

A mio avviso, il tema più urgente è quello delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni. Il Q.E. può darci lo spazio di manovra per farlo anche se i suoi effetti saranno inferiori a un tasso di crescita complessivo dell’1,8 % sui prossimi due anni (ossia, mediamente, 0,75% l’anno) come stimato dal Centro Studi Confindustria. La crescita sarà probabilmente – è la media delle proiezioni dei 20 maggiori istituti econometrici internazioni, tutti privati, nessuno italiano – sullo 0,4% nel 2015 e sul 0,6% nel 2016, pur sempre un’inversione di tendenza dopo tre lustri in cui alla stagnazione hanno fatto seguito una recessione ed una deflazione.

Le privatizzazioni (e la chiusura di enti inutili) sono particolarmente urgenti sia per contribuire a ridurre lo stock di debito (sarebbe illusorio, ove non puerile, fare conto, a questo scopo solo o principalmente sul Q.E.) sia per rendere più snello quello che un tempo si chiamava (grazie ad una definizione molto appropriata di Franco Reviglio) “settore pubblico allargato” sia per contribuire, in tal modo, ad aumentare la produttività dei settori di produzione (da quindici anni rasoterra). È un campo particolarmente ostico: basti pensare che l’unica privatizzazione portata a termine nel 2014 è quella dell’Unione Nazionale degli Ufficiali in Congedo e che dal 2011 il Ministero dell’Economia e delle Finanze non mette in rete la Relazione Annuale al Parlamento sulle Privatizzazioni (forse perché non riuscirebbe a riempire neanche una pagina). Anzi, stiamo andando verso la nazionalizzazione (tramite una SpA contenitore) per le aziende in crisi. Non solo ma la nostra proposta è di cominciare non con operazioni relativamente facili (cessioni di quote dell’Enel, dell’Eni, delle Poste), e neanche da quella giudicata come la “madre di tutte le privatizzazioni” dall’Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuan sulla Dottrina Sociale della Chiesa (la RAI, per cui si potrebbe stilare un programma tecnico dettagliato) ma dal terreno più difficile: quello del capitalismo (o socialismo) regionale e municipale.

Il campo è tanto ispido che il documento stilato dal buon, e caro, Carlo Cottarelli (chiamato a rimettere ordine e presto rispedito, dal Presidente del Consiglio, oltre-oceano, dove non potesse sapere troppo su ciò che avviene in Italia) è stato “segretato” come se svelasse segreti di Stato sul terrorismo mondiale. Interpolando dalle informazioni apparse sulla stampa a proposito del documento segretato, analisi apparse sulla bella rivista Amministrazione Civile del Ministero dell’Interno (ha cessato le pubblicazioni subito dopo avere toccato l’argomento), studi dell’Università ‘La Sapienza’ di Roma e un saggio recente pubblicato dal Chief Economist della Cassa Depositi e Prestiti Edoardo Reviglio sulla rivista Economia Italiana, si giunge ad una base conoscitiva essenziale per trarre direttive operative.

In breve le “partecipate” a livello locale sono circa 25.000 mila (Cottarelli ne ha censite 8000), di un centinaio partecipate totalitarie, un migliaio aziende in cui la mano pubblica ha la maggioranza , 22.000 partecipate in cui gli enti pubblici hanno una quota inferiore al 49%, e ben 16.000 con una quota inferiore al 4%. Numerosissime sono mere scatole cinesi in cui sovente il numero dei dipendenti è inferiore a quello dei componenti degli organi di indirizzo di gestione. Secondo Giovanni Montemartini, che in età giolittiana teorizzò le municipalizzate, avrebbero dovuto generare reddito da utilizzare a fini sociali a beneficio degli ‘incapienti’, i più poveri dei poveri’. Molte di esse, invece, sono macchine per fare debiti (si parla di circa 120 miliardi l’anno).

Occorre dire che all’interno del Governo era stato proposto di fare pulizia, portando a non più di mille (nell’arco di tre anni) il numero delle partecipate e di dismettere quelle con disavanzi per due anni consecutivi, nonché un drastico dimagrimento degli organi di indirizzo e di gestione e chiusura delle ‘scatole cinesi’. Alcune norme erano stato nelle legge di stabilità. Tuttavia, con un emendamento all’articolo 15 della legge di stabilità al Senato, il Governo cancella con un colpo di spugna i tentativi di razionalizzazione delle società partecipate messi in campo negli ultimi anni. Niente vendite obbligatorie per le aziende dei Comuni fino a 50mila abitanti, previste dal 2010 e poi rinviate da una serie di proroghe, e niente privatizzazione delle società strumentali, cioè quelle che lavorano quasi solo con le amministrazioni controllanti, e che la spending review varata nel 2012 dal Governo Monti chiedeva di vendere o chiudere entro il prossimo 31 dicembre. Tutto abrogato: il panorama attuale delle società di enti locali, Regioni e ministeri può tranquillamente rimanere quello attuale.

Al posto delle sforbiciate, sempre rimaste sulla carta, il governo tenta la strada del controllo dei bilanci, imponendo agli enti che posseggono società in perdita di accantonare riserve e prevedendo, ma solo dal 2017, la chiusura obbligatoria delle aziende che chiudono bilanci in rosso per quattro anni consecutivi. Confermata, ma solo a partire dal 2015, la possibilità di “licenziare” gli amministratori delle partecipate che chiudono in perdita per due anni consecutivi. Sempre dal 2015, arriva un taglio del 30% ai compensi dei manager delle società controllate e titolari di affidamento in house che chiudono in perdita per tre anni consecutivi.

Dal 2015 è previsto che anche società partecipate, aziende speciali e istituzioni, anche di regioni e camere di commercio, debbano dare una mano nel «conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica». Come? In primo luogo, la norma promette di individuare “parametri standard” dei costi e dei rendimenti dei servizi, traducendo in termini societari il percorso dei fabbisogni standard degli enti locali che però al momento si mantiene lontano dal traguardo. Più immediato è invece l’obbligo per gli enti proprietari di accantonare in bilancio fondi di riserva, a garanzia delle perdite accumulate dalle società. Le regole di questi fondi procederanno in due tempi: nel 2014, ogni ente dovrà accantonare una somma pari alla perdita registrata dalla sua società nel 2013. Nel 2015-2017, invece, le regole dividono le società in due gruppi, a seconda del risultato medio del 2011-2013: se è positivo, l’accantonamento sarà pari a una quota della perdita conseguita nell’ultimo anno, altrimenti si calcolerà sulla media degli ultimi tre. Troppo poco e troppo tardi.

Italia, Cottarelli “batte” Draghi

Italia, Cottarelli “batte” Draghi

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

Tutti coloro che in questi giorni cantano le lodi del bazooka probabilmente non sanno cos’è un bazooka. All’inizio della Seconda guerra mondiale, i fanti avevano contro i carri armati ultimamente usando i fucili anticarro della Grande Guerra, praticamente impotenti: quando i carri migliorarono mobilità e protezione, infatti, i fucili diventarono solo un peso inutile per i fanti. A quel punto fu necessario utilizzare un tipo diverso di arma, i lanciarazzi, che furono sviluppati sia dai tedeschi che da inglesi e americani Quello degli yankee era il M1 Rocket Launcher 2.36 in Bazooka, che diede risultati soddisfacenti negli ultimi anni di guerra, ideato da Edward Uhl nel 1942. Il soprannome bazooka deriva dal fatto che un uomo, addetto ai collaudi, disse che il tubo assomigliava a uno strano strumento musicale, usato dall’attore radio Bob Burns per creare effetti comici. In effetti, il bazooka, se non è parte di una strategia ben pensata e di una tattica ben coordinata, ha effetti limitati. Vi ricordate il detto di Totò: Bazooka, ogni colpo una buca, ossia più si spara e meno si centra il bersaglio?

Eppure i mercati esultano. Non occorre essere il Premio Nobel Robert Shiller che con una fine teoria ha dimostrato come l’esuberanza delle piazze finanziarie possa essere “irrazionale”. I mercati brindano perché in caso di mancato accordo si sarebbe andati allo sfascio. Alla Banca centrale europea le bocche sono cucite, ma nei felpati saloni del Frankfurter Hof si bisbiglia che Draghi avrebbe minacciato le dimissioni, mettendo in crisi Bce ed eurozona. Ci sarebbe un accordo segreto – da lui smentito – con Renzi per farlo eleggere Presidente della Repubblica italiana, proprio per farlo andare lontano dalle rive del Meno.

In effetti, nella storia degli ultimi due secoli, i mercati hanno esultato solo per pochi giorni o settimane ad accordi monetari redatti unicamente da tecnici e politici, tranne che dopo una guerra mondiale, quando si doveva ricostruire il sistema dalle fondamenta, e quindi la politica, aiutata da grande tecnica (Keynes, White), doveva scendere in campo. Vi ricordate l’intesa del Smithsonian Institution del dicembre 1971, pubblicizzata dal Presidente degli Stati Uniti a reti unificate come “il più grande accordo monetario della storia dell’umanità” e lodato con pari enfasi dalla Commissione europea? Ebbe vita breve (tre mesi) e contrastata, arricchendo la speculazione sui cambi. Anche il Trattato di Maastricht venne esaltato come veicolo di crescita nella stabilità per gli Stati dell’unione monetaria. Soprattutto, sei mesi dopo la firma, Gran Bretagna, Danimarca e Italia ne chiesero la sospensione (dopo che molti, anche loro concittadini, si erano gonfiati i portafogli alle spalle di governi e banche centrali). Londra e Copenhagen restarono i fuori. Roma prese la via del rientro, un percorso come quello per andare al Santuario di Compostela. Lo guidava Carlo Azeglio Ciampi, che fece pagare agli italiani un dazio di un aumento di sette punti percentuali della pressione fiscale sul Pil. Da allora siamo a sviluppo rasoterra.

Oggi nessuno sa come i mercati reagiranno a un accordo contro il quale forze politiche dello stesso azionista di maggioranza (la Repubblica Federale Tedesca, unitamente ad Austria, Finlandia, Estonia, Lettonia) hanno espresso una tale opposizione che un gruppo di distinti cattedratici del diritto e dell’economia ha fatto ricorso alla Corte Suprema (che attende pazientemente sulla riva del Reno superiore, a Karlsruhe, l’evolversi degli eventi). Il problema è politico, non giuridico. Lo esprime con grande chiarezza Antonio Luca Riso dell’ufficio legale Bce nel documento pubblicato nel numero speciale di Imfs (Interdisciplinary Studies in Monetary anf Financial Stability) dedicato alle Outright Monetary Transactions (OMT) e pubblicato a metà gennaio.

Per “politico” deve intendersi che tutto dipende dalle altre politiche che gli Stati dell’eurozona metteranno in campo per dare corpo alla possibile politica di ripresa. Ovviamente, il tasso d’integrazione nell’eurozona sta nel fatto che le politiche di uno Stato incidono anche su quelle degli altri. Ad esempio, si dovrebbe dare maggiore attenzione alla crescita della propria domanda aggregata che, pur se in misura minore di quanto sostengono numerosi media e tanti politici poco informati, può avere un effetto di trazione su altri soci del club. In Italia, tuttavia, ci siamo inflitti dei nostri mali: uno studio del Centro Studi Impresa Lavorodocumenta che dal 2011 l’imposizione su conti correnti e investimenti è aumentata del 130% da 6,9 a 15,9 miliardi di gettito, azzoppando imprenditori e consumatori proprio in una fase in cui da recessione si scivolava in deflazione.

Cosa fare? Uno stop alla pressione tributaria, e se possibile una sua riduzione con paralleli tagli alla spesa corrente. Sono misure che si possono mettere in atto subito agendo su quel capitalismo (o socialismo) regionale e comunale, analizzato dal “segretato” Rapporto Cottarelli (alla faccia della trasparenza e della democrazia). Si può anche mettere in atto immediatamente un programma di privatizzazioni di vaste dimensioni; unitamente alle misure Bce, tale programma dovrebbe portare a una riduzione almeno del 30% dello stock entro il 2015 e rimuovere il blocco principale alla ripresa. In parallelo occorre rilanciare la politica dei prezzi e dei redditi, al fine di porre fine alla discesa nella povertà dei ceti medio bassi e liberalizzare i mercati di merci e di servizi (segnatamente delle professioni un tempo dette “liberali”) per aumentare, tramite la concorrenza, la produttività. Il Governo Renzi è pronto a mettere in atto questa batteria? Altrimenti – ricordiamoci Totò – il bazooka di Draghi farà “buca”.

Il “gioco del cerino” che mette nei guai Draghi

Il “gioco del cerino” che mette nei guai Draghi

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

In attesa della riunione del Consiglio della Banca centrale europea si stanno affilando i coltelli e la situazione appare ogni giorno (ove non ogni ora) più complicata. Un coretto a cappella di cronisti e commentatori ha scritto, sulla stampa italiana, che dopo il documento dell’Avvocato generale della Corte di Giustizia europea, il management della Bce deve considerarsi “sereno” e deve essere considerato acquisito il “via libera” al Quantitative easing (Qe) e alle misure “non convenzionali” che, insieme a un numero di componenti del Consiglio Bce, Mario Draghi vorrebbe mettere in atto per rilanciare l’economia dell’eurozona, specialmente le Outright monetary transactions (Omt). O non hanno letto il documento o vivono lontani dal mondo Bce.

Facciamo un passo indietro a un ricorso alla Corte Costituzionale tedesca fatto da un gruppo nutrito di economisti e giuristi tedeschi, secondo cui le Omt proposte dal Presidente Bce nel giugno 2012 avrebbero trasgredito vari trattati e la stessa Carta fondamentale della Repubblica Federale. Il massimo tribunale della Germania ha risposto chiedendo il parere della Corte di Giustizia Ue. È un parere non vincolante, ma è altamente probabile che la Corte Tedesca vi si atterrà. Se non altro per non restare con il cerino acceso in quel di Karlsruhe (dove i giudici rosso togati hanno sede).

Tuttavia, l’Avvocato generale Pedro Cruz Villalon, il cui parere verrà molto probabilmente recepito dalla Corte di Giustizia Ue (su questo punto concordo con il coretto a cappella) ha scritto un documento tra il fariseo e il pilatesco, passando il cerino agli organi dell’unione monetaria, in primo allo luogo alla Bce, il cui Consiglio si riunisce ben prima della Corte tedesca di Karlsruhe (peraltro ancora non convocata).

Il documento, infatti, afferma che la Bce deve avere «ampia discrezionalità» in materia di politica della moneta, ma unicamente in questa materia. In questo quadro, le misure “non convenzionali”, il Qe e soprattutto le Omt (non affatto amate a Berlino e dintorni) possono essere formulate e attuate purché siano uno strumento di politica monetaria e non aiuto finanziario a uno Stato membro. L’esatto contrario di quanto vorrebbe il management della Bce, che desidererebbe poter acquistare obbligazioni di Stati in difficoltà (ad esempio, titoli del debito italiano per ridurne il fardello).

Inoltre , secondo il documento, ciascuna operazione dovrebbe essere effettuata sulla base di un programma economico concordato dallo Stato membro con le autorità Ue, un po’ come le varie forme di structural adjustment lending che Banca mondiale e Fondo monetario internazionale attuano da quaranta anni – e che la Troika ha elaborato per Cipro, Grecia, Irlanda e Spagna. Infine, secondo il documento, le circostanze straordinarie per tale intervento eccezionale devono essere precisate, unitamente a un meccanismo di monitoraggio, perché il programma definito venga attuato.

Quindi, un “nulla osta” molto condizionato, pieno di paletti e vincoli che ne rendono difficile l’attuazione. Potrebbe il Governo Renzi essere messo nella condizione di dover rendere conto a un gruppo di eurocrati con cui concordare misure specifiche la cui attuazione verrebbe monitorata con attenzione? E quello Hollande?

Prima ancora di arrivare a questi nodi politici, dovrebbero essere sciolti spinosi nodi tecnici. Prendiamo la forma più semplice di Qe: l’acquisto di obbligazioni degli Stati dell’eurozona. L’acquisto avverrebbe in proporzione alla loro partecipazione al capitale della Bce per tutti i 19? O si terrebbe conto della “qualità” dei titoli di ciascuno? Quale metro di giudizio, in questo caso, verrebbe utilizzato per valutare la qualità? Quello delle quattro agenzie di rating (tre essenzialmente americane e una cinese)? Oppure si metterà in piedi un apparato specifico europeo? E come si tratterebbero le obbligazioni di Stati in cui forze politiche importanti (e che potrebbero presto avere responsabilità di governo) hanno annunciato l’intenzione di ripudiare parte del proprio debito sovrano?

In effetti, a questi interrogativi posti dai giuristi e dagli economisti che hanno fatto ricorso alla Corte suprema tedesca, i giudici rosso togati di Karlsruhe pensavano di avere qualche risposta dalla Corte di Giustizia europea. Sono stati, invece, rinviati non direttamente al mittente, ma al Consiglio Bce, nel cui seno infuria la battaglia.

Ove la situazione non fosse sufficientemente complicata, un numero crescente di economisti (anche italiani) ritiene che la Bce deve considerarsi causa dei suoi mali, in quanto, pur adottando una politica di inflatition targeting e fissando tale target, ha fatto cadere l’eurozona in deflazione. Altri documentano che con una crescita della quantità di moneta al 2,5% l’anno, non è la liquidità a far difetto, ma un sistema economico, regolamentare e giudiziario obsoleto che frena gli investimenti – Nomura lo ha scritto chiaro e tondo ai propri clienti. In tal caso, Qe, Omt e tante altre sigle servirebbero unicamente ad arricchire la galassia degli acronimi.

Un documento che divide le anime di Francoforte

Un documento che divide le anime di Francoforte

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Il documento dell’Avvocato Generale della Corte di Giustizia europea che verrà probabilmente recepito tale e quale dal massimo organico giurisprudenziale Ue è quello che si potrebbe chiamare, in senso colloquiale, “pilatesco”. Lavandosi le mani dal nocciolo del problema, mira a fare contenti sia coloro che vogliono una Bce più attiva (in politiche di ripresa) sia da coloro che invece la considerano il garante supremo della stabilità monetaria. In breve, ad un ricorso alla Corte suprema tedesca fatto da un gruppo nutrito di economisti e giuristi tedeschi secondo cui le Outright monetary transactions (Omt) proposte dal presidente Bce nel giugno 2012 avrebbero trasgredito vari trattati e la Carta fondamentale della Repubblica Federale, il massimo tribunale della Germania ha risposto chiedendo il parere della Corte Ue. È un parere – si badi – non vincolante, ma è altamente probabile che la Corte Tedesca vi si atterrà. Se non altro per non restare con il cerino acceso in quel di Karslruhe (dove i giudici rosso togati hanno sede).

L’Avvocato generale Pedro Cruz Villalon afferma che la Bce deve avere «ampia discrezionalità» in materia di politica della moneta. In questo contesto, le operazioni Omt (di cui peraltro non è stato ancora approvato il regolamento) possono essere contemplate purché siano uno strumento di politica monetaria e non aiuto finanziario a uno Stato membro. In effetti, nelle intenzioni del direttivo, la Bce con lo «scudo» dovrebbe poter acquistare obbligazioni di Stati in difficoltà (ad esempio, titoli del debito italiano per ridurne il fardello) sulla base di un programma economico concordato con le autorità Ue. Il documento Villalon chiede che le circostanze per tale intervento eccezionale vengono precisate meglio perché il programma definito venga attuato. In effetti, il parere suggerisce di dare il nulla osta alle Omt, ma con vincoli tali che ne rendono ardua l’applicazione agli Stati che potrebbero trarne maggior beneficio.

Il documento sta suscitando un acceso dibattito in attesa del Consiglio Bce del 22 gennaio, che dovrebbe varare forme di Quantitative Easing QE tramite l’acquisto di obbligazioni degli Stati membri. In effetti, a seconda di come viene interpretato il documento, si porrebbe un “tetto” più o meno alto agli interventi, si favorirebbero o meno le obbligazioni giudicate (dalle agenzie di rating) di maggior qualità, si condividerebbe in vari modi in rischio tra le Banche centrali nazionali e si deciderebbe in che misura la Bce debba essere considerata «creditore privilegiato» (nei cui confronti non si possono effettuare ristrutturazioni del debito) come Fmi e Banca mondiale. Invece di contribuire ad un accordo, il documento sta rendendo più accesa la lotta tra le varie anime che albergano nella Bce.

2015, il nuovo rischio “figuraccia” per l’Italia

2015, il nuovo rischio “figuraccia” per l’Italia

Giuseppe Pennisi – Il Sussidiario.net

Sarebbe ingeneroso commentare il semestre in cui l’Italia ha avuto il compito di presiedere gli organi di governo dell’Unione europea raffrontando le aspettative suscitate dalle promesse dello scorso maggio/giugno con i risultati quali si possono constatare a fine dicembre. Le promesse contengono sempre una buona dose di retorica e si è puntato molto in alto (un’interpretazione  e tensiva di trattati e di accordi inter-governativi in materia di flessibilità) allo scopo di raggiungere  obiettivi più modesti, quali lo scomputo degli investimenti pubblici dal calcolo dei parametri  attinenti al rapporto tra indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni e Prodotto interno lordo (Pil). In effetti di concreto si è ottenuto molto poco: lo “scomputo” sarà consentito all’Italia, e ai nostri partner, unicamente per gli investimenti attinenti al quel “piano Juncker” che, come abbiamo scritto, si regge su complicate e strane alchimie e forse non decollerà mai.

Occorre dare atto alla tenacia e all’energia del Presidente del Consiglio, tuttavia, di aver contribuito alle richieste di altri Capi di Stato e di Governo di riportare il tema della crescita nell’agenda europea. Dobbiamo anche dare atto che il semestre ha avuto luogo in un momento particolarmente infausto caratterizzato dal cambiamento della Commissione europea, da un’eurozona additata dal G20 come il grande malato dell’economia mondiale, da una guerra al confine orientale (Ucraina-Russia) e dal Medio Oriente in subbuglio con il sorgere dell’Isis.

La crescita è tornata tra i temi dell’agenda europea, ma non è certo che ne sia l’argomento centrale. Perché l’Italia possa proporre, in seno agli organi Ue, che la crescita abbia un ruolo maggiore deve, innanzitutto, uscire dalla condizione di ultimo della classe, “rimandato e declassato” come ricordato su queste pagine. È necessario ammettere che Governo e Parlamento non hanno dato un bello spettacolo nel completare la Legge di stabilità con il voto di fiducia su un maxiemendamento le cui coperture non sono certe.

Ci sono casi, specialmente se si è stati rimandati agli esami di riparazione, in cui è preferibile qualche settimana di esercizio provvisorio per mettere bene a punto la normativa e presentarsi agli “esaminatori” con un compito ben fatto. Sarebbe disastroso se la prima relazione di cassa, coincidente con la verifica europea del “caso Italia”, mostrasse che siamo stati frettolosi e pasticcioni. Inoltre, le prospettive per il futuro non sono rassicuranti. Abbiamo spesso fatto riferimento alle stime del gruppo del consensus (20 istituti privati econometrici) che, però, hanno una durata di 24 mesi. Rivolgiamoci ad alcune a medio e lungo periodo approvate dai rappresentanti ufficiali del Governo italiano. Le più ottimiste sono quelle della Commissione europea, che mostrano una graduale ripresa sino a raggiungere il tasso di crescita dell’1,1% nell’ipotesi di energiche riforme dei mercati dei prodotti e dei servizi e di un serio programma di privatizzazione. L’Ocse vede un ritorno a un tasso crescita del 2% verso il lontano 2025 , sotto l’ipotesi di politiche ottimali, per poi riprendere a scendere a ragione dell’invecchiamento della popolazione. Per il Fondo monetario internazionale si giungerebbe a un tasso di crescita dell’1,3% (sempre con politiche ottimali) ma subito dopo tornerebbe il declino. L’ufficio studi economici ci vede ansimanti alla ricerca di un tasso di crescita dell’1% l’anno. Se dai grafici e dalle tabelle si passa ai testi, due sono i temi di fondo: la produttività dei fattori e il peso del debito. Sono stati affrontati con l’energia del caso nel corso del semestre? Ce lo chiediamo.

Congiura italiana del silenzio sul FACTA

Congiura italiana del silenzio sul FACTA

Giuseppe Pennisi – Formiche

In queste settimane, uno dei temi caldi sulla stampa internazionale riguarda gli effetti del FATCA (Foreign Account Tax Compliance Act), una norma americana recepita dall’Italia l’estate scorsa sugli intermediari finanziari, sulle famiglie e sugli individui. Due importanti columnist del ‘Project syndacate’, appena effettuati i loro adempimenti con il FATCA, sono andati ai più vicini consolati americani a rinunciare alla loro nazionalità americana (diventando uno tedesco e uno francese, le nazionalità dei coniugi). I consolati americani hanno aumentato da 400 a 3250 euro la fee (tassa) per rinunciare alla cittadinanza.

In Canada, dove la doppia cittadinanza è frequentissima, si è addirittura costituito un partito con il programma di forzare il Governo di uscire dall’Intergovernmental Agreement con cui è stato recepito il FATCA. Gli americani residenti nei Paesi OCSE hanno dato vita ad un’associazione perché siano gli organi dell’organizzazione a far sì che gli Stati Uniti applichino, come tutti, il principio dell’imposizione tributaria sulla base delle ‘residenza’ non della ‘cittadinanza’. Non solo: oggi se ci si rivolge a qualsiasi istituzione finanziaria italiana per acquistare quote di un fondo comune d’investimento, si deve compilare un complesso modulo per certificare che non si è, e non si è mai stati, cittadini americani, e – ove lo si sia stati – occorre esibire copia autenticata dell’atto di rinuncia quale accettato dall’Amministrazione Usa.

Infine, alcuni correntisti italiani stanno ricevendo lettere di disdetta dei loro conto correnti da banche, di cui sono stati clienti per decenni, perché ci sono ‘forti indizi’ di cittadinanza americana. Si tratta spesso di figli di italiani che, dopo un periodo di espatrio, sono rientrati in Patria, di vedovi o vedovi di americani, di persone nate quasi “per caso” negli Usa in quanto figli di diplomatici, funzionari internazionali, italiani che hanno lavorato per periodi più o meno lunghi all’estero.

Cosa è il FATCA? Non è questa la sede per entrare nei dettagli tecnico-tributari. Come scrisse mirabilmente Paul Streeten in un saggio nel lontano 1986 è il frutto della ‘legge del racket’ in base alla quale una buona idea finisce nelle mani delle persone sbagliate e ne creano un incubo burocratico per i propri fini. FATCA nasce da una buona idea: tentare di limitare il riciclaggio e far sì contemporaneamente che i milioni di cittadini americani (spesso inconsapevoli di esserlo) adempiano ai loro obblighi tributari nei confronti degli USA. Su questa buona idea, si sono inserite due componenti: la lobby dei ‘mutual funds’ americani per impedire che i cittadini americani investano in ‘fondi comuni’ esteri, od in mutual funds Usa che operano anche con titoli stranieri, e il desiderio dell’Internal Revenue Service (IRS), l’Agenzia delle Entrate americana di espandere il proprio tentacolare organico. Il tutto è stato condito di una buona dose di populismo.

In estrema sintesi, tutti gli intermediari finanziari devono consegnare all’IRS, tramite le agenzie tributarie nazionali, tutti i dati sui conti di deposito di cittadini americani, anche quelli cointestati con non americani. Un costo enorme per gli intermediari. Ancora maggiore, però, quello che pesa sugli intermediari finanziari (e sui singoli sia individui sia famiglie sia imprese) se gli americani residenti all’estero vogliono mettersi in regola tramite un percorso speciale definito nel FATCA; occorre infatti presentare, per gli ultimi sei anni, i movimenti (spesso quotidiani) di ciascun titolo all’interno di ciascun comparto di mutual fund americano o straniare al fine di determinare capitale,
dividendo o interesse. Un lavoro mostruoso.

Teoricamente, dovrebbe servire all’IRS a determinare se l’imposta sull’aumento di capitale (che negli Usa aveva, sino ad un anno fa, aliquote più alte che in numerosi Paesi OCSE) deve essere conguagliata. Per l’imposta sui redditi,i trattati sulla doppia tassazione fanno sì che unicamente in rarissimi casi ci saranno compensazioni da fare. Quindi molto lavoro per un piccolo gruppo di fiscalisti specializzati in questa materia. Un costo pesantissimo per le istituzioni finanziarie, per gli individui e per le famiglie.

Ci sono alternative migliori e più semplici (nonché meno onerose) per raggiungere i medesimi obiettivi tanto che negli Usa il Partito Repubblicano sta lavorando alla sostituzione del FATCA; con un altro strumento legislativo. Il punto di fondo è perché in Italia non c’è stato il débat publique prima di recepire l’accordo e perché oggi non se parla e non si mettono le strutture pubbliche in condizioni di aiutare individui, famiglie ed imprese? Tanto più che c’è un aspetto molto grave: una legge straniera cambia regole italiane per cittadini italiani e discrimina nei confronti di cittadini italiani come in altri tempi venne fatto nei confronti degli italiani.