giuseppe pennisi

Gli “attacchi a orologeria” di fine anno sull’Italia

Gli “attacchi a orologeria” di fine anno sull’Italia

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

Una mera coincidenza casuale? Si potrebbe pensare. Tuttavia, è curioso che proprio nei giorni di vigilia dell’ultimo Consiglio europeo a presidenza italiana (il prossimo avverrà almeno tra quattordici anni) uno dei più noti, se non più autorevoli, economisti europei, Daniel Gros, direttore del Center for european policy studies, divulghi un’analisi (il Ceps Policy Brief No. 326) che contraddice una delle linee di fondo dell’azione dell’Italia negli ultimi mesi.

E anche curioso che in parallelo, sempre sabato 13 dicembre, quando nei Paesi nordici si festeggia Santa Lucia al lume di candele, Jens Weidmann, presidente della Bundesbank, in un’intervista a Repubblica, non a un quotidiano o periodico tedesco, si scagli apertamente contro il Presidente della Banca centrale europea (Bce) Mario Draghi affermando: “L’acquisto di titoli sovrani nell’Eurozona è da valutare diversamente che in altre aree valutarie”. “In Europa accanto alla politica monetaria comune abbiamo 18 Stati con politiche finanziarie indipendenti e rating e situazioni di debito ben diversi. Ciò crea tentazioni di indebitarsi di più e scaricare le conseguenze sugli altri”. Frase non solitaria – Weidmann è considerato il proprio faro da un gruppo di Governatori di banche centrali europee – e con la quale si intende seppellire, una volte per tutte, quelle manovre monetarie “non convenzionali”, altro punto di fondo del semestre in cui l’Italia ha avuto l’onere di guidare gli organi di governo dell’Unione europea.

Ancora più curioso, infine, che il lavoro di Gros e l’intervista di Weidmann avvengano proprio mentre a Roma, il 12 e il 13 dicembre, si teneva una conferenza su “Investire sull’Europa a lungo termine”, in cui si sono alternati sul podio o nelle tavole rotonde circa quaranta relatori, tra cui due Ministri in carica, due Commissari europei, il Vice Segretario Generale dell’Ocse ed esponenti non solo delle maggiori istituzioni internazionali ma anche di quella che viene comunemente chiamata “società civile”.

Gli argomenti di Weidmann non solamente riflettono un punto di vista espresso, in maniera più sfumata, altre volte e chiariscono le posizioni assunte il 4 dicembre al Consiglio Bce, ma avvengono proprio mentre si paventa una nuova crisi greca, di cui, secondo studi interni della Bundesbank, l’Italia potrebbe essere la cinghia di trasmissione che contagerebbe il resto d’Europa.

Più complesso il lavoro di Daniel Gros, in quanto avanza un’ipotesi intrigante: il tanto lamentato declino del tasso d’investimento dal 2007 (particolarmente accentuato in Italia e altri paesi dell’Europa meridionale) sarebbe più fittizio che reale, poiché negli anni precedenti la crisi l’investimento sarebbe stato drogato da un eccesso di liquidità e di credito. Inoltre, un aumento dell’investimento avrebbe pochi effetti in un’Europa la cui popolazione e il cui apparato produttivo sono in veloce invecchiamento e in cui la produttività totale dei fattori produttivi ristagna. “Di per sé – afferma Gros in toni un po’ apodittici – la riduzione della produttività totale dei fattori produttivi abbassa il tasso d’investimento”.

Non è questa la sede per indicare come la conferenza sugli investimenti a lungo termine del 12-13 dicembre a Roma (gli atti saranno tra breve disponibili sul sito della Federazione delle Banche, delle Assicurazioni e della Finanza) abbia implicitamente risposto a queste critiche, specialmente alla seconda. In una fase come l’attuale, nell’eurozona, un aumento dell’investimento a lungo termine è essenziale sia per una migliore utilizzazione, nel breve periodo, della capacità di produzione, sia per un aumento, nel medio e lungo termine, della produttività dei fattori. Su questo punto, al convegno di Roma, la risposta è stata unanime. Soprattutto ha riguardato non solo l’infrastruttura tradizionale (strade, ponti, aeroporti), ma anche le reti e l’infrastruttura sociale (scuole, giardini d’infanzia, ospedali, social housing).

È difficile dire se l’appello per una politica di crescita imperniata sull’investimento di lungo periodo sia un esito del “semestre italiano” oppure il frutto dell’esigenza fortemente sentita che l’Europa riprenda a crescere. È certo comunque che se non si investe non si produce per il futuro e non si cresce.

Così Francia e Italia rispondono alle sculacciate di Juncker

Così Francia e Italia rispondono alle sculacciate di Juncker

Giuseppe Pennisi – Formiche

Commentando l’Ecofin, numerosi editorialisti hanno posto l’accento sull’ampliamento (vero o presunto) del fronte anti-tedesco (specialmente a ragione del caos che da Atene sta contagiando le Borse di mezza Europa). Pochi hanno riportato (e senza grande enfasi) i rimbrotti (sarebbe meglio parlare di sculacciate) di Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione Europea, all’Italia, inasprite dalla minaccia di “conseguenze spiacevoli” (per noi tutti) se in primavera non passeremo gli esami di riparazioni.

In effetti, tenendo presente che il terzo Paese “rimandato” (il Belgio) è piccolo e (sui mercati finanziari) conta poco, Juncker conosceva in anticipo le misure approvate questa mattina 10 dicembre (in vista degli esami tra quattro mesi circa) dal Consiglio dei Ministri francese della Francia. In effetti, mentre in Italia ci si sollazza su come garantire in Costituzione che Villa Lubin diventi appannaggio della Corte dei Conti in un clima romano che ricorda la Mahagonny di Brecht e Weill (la città dove ormai il crimine è al comando e tutto l’illegale è lecito, anzi incoraggiato), il 36enne Emmanuel Macron ha tessuto la tela con i suoi colleghi e messo a punto un disegno di legge quadro di “Crescita e Attività” approvato il 10 dicembre alle 13 dal Consiglio dei Ministri e per il quale è prevista una “corsia preferenziale” all’assemblea nazionale. Macron ha detto che il provvedimento sarà varato entro febbraio e in marzo la Francia si presenterà a Bruxelles, anche con i primi decreti delegati.

Il provvedimento è di vasta portata. Dato che nel settore manifatturiero la concorrenza (e, quindi, le liberalizzazioni) sono regolate e vigilate a livello europee, la prima delle misure riguarda i servizi. Nel settore dei trasporti locali, le autolinee private sono messe in competizioni tra di loro e con il mitico, e sino ad ora monopolista, chemin de fer. In materia di giustizia civile vengono poste tempistiche serrate per risolvere controversie e, nel settore edilizio-urbanistico, per promuovere anche l’ingresso di “nuovi entranti”. Per favorire gli investimenti, vengono varate misure per incoraggiare i lavoratori ad investire i propri risparmi nelle imprese di cui sono dipendenti, diventandone azionisti (anche a livello di piccole e medie imprese). Altre misure riguardano il social housing, anche al fine di migliorare le periferie. Viene poi modificato il sistema lavoristico: le domeniche in cui i negozi ed i servizi resteranno aperti saranno definite a livello locale da ciascun sindaco, ma non potranno essere meno di cinque e più di dodici l’anno. Vengono modificate le regole di accesso alle professioni (anche a quella, potentissima oltralpe, dei notai) e definito che gli studi professionali possano avere “soci di capitale”.

Un vero programma “rivoluzionario” e liberale, anche se varato da un Governo socialista. Mette l’accento su quelle liberalizzazioni dei servizi e delle professioni che in Francia è sempre stato molto difficile effettuare (e dove neanche in Italia si è brillato). Vedremo quanto andrà effettivamente in porto e se verrà attuato il programma di “denazionalizzazioni” annunciato quasi in parallelo. Si tratta pur sempre di quelle “riforme di struttura” per rilanciare la produttività che Bruxelles si aspetta.

Rimandati e declassati

Rimandati e declassati

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Ci è stato chiesto dai “poteri costituiti” di prendere con “spirito sportivo” la decisione dell’Unione europea di “rimandarci” alla “stagion dei fiori” (invero con Francia e Belgio) per un nuovo esame dei conti pubblici e dei progressi effettivi delle riforme. Quando il 5 dicembre Standard & Poor’s ha declassato a BBB- i nostri titoli di Stato (il gradino appena superiore a quello dei “titoli spazzatura”) ci è stato detto da compiacenti mezzi busto televisivi che le agenzie di rating sono una cricca che comunque ormai conta poco.

Purtroppo, proprio il 5 dicembre, un saggio di Iftekhar Hasan della Fordham University di New York, di Suk-Joong Kim della University of Sydney e di Eliza Wu dell’University of Technology di Sidney veniva pubblicato dalla Bank of Finland (Discussion Paper n. 25/2014): in esso si afferma che le agenzie pesano molto, specialmente nella valutazione che gli operatori danno al rischio di debito sovrano (che in Italia marcia verso il 135% del Pil).

Sempre il 5 dicembre, in quella Villa Lubin tanto agognata dalla Corte dei Conti che si è posto un articolo ad hoc nella riforma della Costituzione tra breve all’esame della Camera, veniva presentata la quarantottesima edizione del Rapporto Censis il cui tema di fondo è il capitale inagito di un’Italia dove famiglie, banche e imprese sono molto liquide, ma non investono per timore del futuro (nonostante i “road show” del volenteroso Presidente del Consiglio per infondere fiducia).

Ancora il 5 dicembre, nella Sala Emeroteca della Banca d’Italia, si è svolto dalle 9 alle 18 il consueto convegno annuale di fine anno della Banca d’Italia (solo per inviti): sono stati discussi dieci lavori scientifici sul tema “l’impatto della crisi sul potenziale produttivo e sulla spesa delle famiglie” – i lavori, come spesso avviene, saranno oggetto di un volume in primavera.

C’è un forte nesso tra queste notizie: il declassamento deciso da Standard & Poor’s è la punta di un complesso iceberg denso di implicazioni (come ci ricorda la Banca centrale finlandese), il lavoro Censis ne sviscera gli aspetti sociologi, gli studi della Banca d’Italia ne esaminano quelli economici.

Non è questa la sede per analizzare il Rapporto Censis o i documenti (a volte molto tecnici) presentati al convegno della Banca d’Italia. Tuttavia, il lavoro Censis mostra un’Italia delusa che si appresta a celebrare un Natale mesto. Gli studi della Banca d’Italia rappresentano un importante blocco di lavori per definire politiche a lungo termine non necessariamente in linea con quelle annunciate da Palazzo Chigi. Auguriamoci che Piazza di Priscilla (sede del Censis) e Via Nazionale (sede della Banca d’Italia) non vengano additati come covi di gufi. Invece, il Natale dovrebbe essere l’occasione per studiare e fare contrizione nei confronti del peccato capitale dell’orgoglio.

In sintesi che lezione si trae? Mutuando dal titolo di un libro di successo di Carmen Reinhart “This Time is Different”. Questa crisi (che riguarda una piccola parte dell’economia mondiale, l’eurozona, mentre il resto è in buona salute) è differente da quelle degli ultimi ottocento anni perché nella sua prima parte (2008-2010) ha sconvolto la finanza mondiale e nelle seconda (2012-2014) ha messo a nudo i danni, sulle strutture economiche, di un debito sovrano fuori controllo.

La lezione principale è che è urgente affrontare (specialmente in alcuni paesi europei, tra cui l’Italia è in prima fila) il debito sovrano non tanto per le risorse che assorbe in interessi passivi, ma perché blocca le politiche essenziali per tornare a crescere. O almeno per non distruggere ulteriormente l’industria manifatturiera, non aggravare la situazione delle giovani generazioni, non comprimere ancora i consumi delle famiglie a più basso reddito, non continuare ad aumentare la pressione fiscale e parafiscale complessiva (inclusa quella degli enti locali).

Dai lavori esce un messaggio forte: cambiare strada. Se si è ancora in tempo.

Ecco le tre mosse per salvare l’Italia e l’Europa

Ecco le tre mosse per salvare l’Italia e l’Europa

Giuseppe Pennisi – Formiche

Un seminario di studi organizzato da Febaf e da Economia Reale, le proposte per uscire dalla crisi e un paio di perplessità… Il 3 dicembre, proprio mentre il disegno di legge di stabilità approvato (ricorrendo al voto di fiducia) dalla Camera approda in Senato, la Federazione Banche Assicurazioni e Finanza (FeBaF) presieduta da Luigi Abete e l’Associazione Economia Reale hanno organizzato una riflessione sulla strategia di politica economica.

Riflessione tra economisti
Ad essa hanno preso parte, tra gli altri, il Presidente ed il Segretario Generale della FeBaf (Luigi Abate e Paolo Garonna), il Presidente dell’Associazione Economia Reale (Mario Baldassarri), Emilio Rossi della Oxford Economics, nonché Sergio de Nardi (Nomisma), Stefania Tomasini (Prometeia), Pierluigi Ciocca (Accademia dei Lincei), Marco Simoni (London School of Economics), Marco Fortis (Fondazione Edison), Marcello Messori (Luiss), Paolo Savona (Emerito Luiss) e molti altri. Una riflessione, quindi, tra economisti qualificati.

Il Rapporto
Il documento di base presentato è stato un libro curato da Mario Baldassarri Scacco Matto alla Crisi: Tre mosse per salvare l’Italia e l’Europa e un aggiornamento per tenere conto degli ultimi sviluppi e delle misure di politica economica all’esame del Parlamento. Non è certo questa la sede per riassumere le 370 pagine del volume e le 80 dell’aggiornamento, oppure diverse ore dibattito. L’analisi del volume e dell’aggiornamento è pienamente condivisibile: l’Italia sembra essere su una china sempre più in discesa – tanto da considerare preoccupanti gli “esami di riparazione” che l’Unione Europea ci ha chiesto di fare in marzo-aprile – e la legge di stabilità non è tale da mordere e fare cambiare marcia.

I 3 consigli
Le tre mosse suggerite nel libro e reiterate nell’aggiornamento sono le seguenti:
a) Un ritorno graduale del rapporto di cambio 1 a 1 tra euro e dollaro.
b) Una politica di bilancio espansionista (tagliando però le spese improduttive delle amministrazioni pubbliche dello Stato e delle autonomie locali, valutate in almeno 40 miliardi di euro l’anno) a supporto, complemento ed integrazione di una politica espansionista della moneta.
c) Una riduzione del fardello del debito pubblico tramite emissioni di titoli di un fondo garantito dal patrimonio immobiliare dello Stato e delle autonomie.
In tal modo, non solo si uscirebbe dalla recessione e deflazione ma si potrebbe progressivamente tornare a tassi di crescita del 3% l’anno e non solo risolvere il problema del debito ma anche e soprattutto rilanciare produzione, produttività ed occupazione. Questa è, senza dubbio, una sintesi di documenti molto articolati e molto ricchi di analisi econometriche.

Le perplessità
Tuttavia, ho perplessità sull’obiettivo (un ritorno ad un tasso di crescita del 3% l’anno) sia sugli strumenti. L’obiettivo non tiene conto che prima della crisi del 2006 la Banca mondiale, la Banca Centrale Europea, la Commissione Europea, il Fondo Monetario Internazionale e l’OCSE ponevano all’1,3% il tasso potenziale di crescita dell’economia italiana a ragione dell’invecchiamento della popolazione, delle dimensioni medie aziendali e dell’obsolescenza degli impianti, Già nei piani triennali del 1981 e del 1982, per le medesime determinanti la crescita potenziale dell’Italia veniva stimata tra il 2% ed il 2,5%. Nel più recente documento Bce viene posta allo 0% a ragione degli effetti devastanti della crisi sull’apparato produttivo nonché dell’ulteriore invecchiamento. Quindi sarebbe più realistico puntare ad un tasso potenziale di crescita pre-crisi (1.3-1.5% per cento).

La questione del cambio
In secondo luogo, il cambio euro-dollaro dipende più dalla politica monetaria americana che da quella europea; se gli Usa continuano sulla strada del benign neglect, è difficile pensare di poter raggiungere, nel breve termine, l’obiettivo della parità tra dollaro ed euro. E’ da condividersi una politica di bilancio espansionista, ma l’attuale Governo non intende né uscire dai binari europei né entrare in aree di spesa di competenza delle autonomie locali (dove c’è molto grasso).

Il nodo del fondo
In terzo luogo, io stesso propongo da anni un fondo (non solo immobiliare) e tale da ridurre il fardello del debito. E’ stato effettuato un esame tra le varie proposte in una giornata seminariale al Cnel ed l’associazione di ricerca Astrid ha presentato un dettagliato documento. Ma a più riprese il presidente del Consiglio ed il ministro dell’Economia e delle Finanze hanno affermato di non considerare quello del debito un argomento prioritario.

Il dibattito è aperto.

Caro Matteo Renzi, lascia perdere gli alchimisti e non ascoltare le sirene degli iconoclasti

Caro Matteo Renzi, lascia perdere gli alchimisti e non ascoltare le sirene degli iconoclasti

Giuseppe Pennisi – Formiche

Il ‘semestre europeo’ che sarebbe dovuto essere a guida italiana si sta chiudendo senza essere stato pilotato, in effetti, da nessuno. Le ragioni sono oggettive: i protratti, e difficili negoziati, per la costituzione di una nuova Commissione Europea in una fase in cui l’eurozona è il grande malato dell’economia mondiale, sono in corso guerre guerreggiate alle frontiere orientali e meridionali dell’area, e le tensioni tra il ‘virtuoso’ Nord ed il ‘peccaminoso’ Sud si fanno più acute. Non si deve certo attribuire al Presidente del Consiglio italiano il ‘bailamme’ in cui si è dipanato il semestre. Gli si può rimproverare , però, di avere, come è sua abitudine, fatte troppe promesse e destato eccessive aspettative. Accendendo la miccia per delusioni. Alla vigilia dell’imminente Consiglio Europeo del 18-19 dicembre, sarebbe auspicabile consigliargli la prudenza, virtù cardinale che pare lontana dalle sue convinzioni.

Oggi l’Europa sembra in mano a leader intellettuali e politici di stampo medioevale. Il confronto è tra iconoclasti e gli alchimisti. I primi sono guidati dall’economista Anatole Kaletsky ed annoverano tra i loro ranghi sia premi Nobel come Paul Krugman che giornalisti di belle speranze e tanto ottimismo. I secondi hanno trovato il loro Leader Massimo nel Presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker.

Per i primi ci sarebbero indicazioni molto solide di una svolta. Anzi, sarebbe dietro l’angolo una “Grande Convergenza” tra le politiche macro-economiche degli Stati Uniti (dove la crescita del Pil rasenta il 4% l’anno) e quelle di Unione Europea, Giappone ed anche India e Cina. Le banche centrali, a cominciare dalla Bce, inizierebbero un programma ‘vigoroso’ di ‘misure non convenzionali’, si allenterebbero i vincoli di bilancio (senza troppo preoccuparsi di Trattati e di Compact), si liberalizzerebbe, si privatizzerebbe. E via discorrendo. A mio avviso, queste indicazioni, ove ci fossero, non tengono conto dei nodi demografici che caratterizzano l’Europa in generale e l’Eurozona in particolare e che frenano innovazione, consumi ed investimenti ed impongono un crescente stato sociale (previdenza, sanità) e comportano una bassa produttività dei fattori di produzione. Inoltre, nell’eurozona, i Paesi ‘che pesano di più’ non ritengono che Trattati e Compact, liberamente sottoscritti, possano essere liberamente e gioiosamente violati.

Gli alchimisti hanno trovato – si è detto – il loro Leader nel Presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker, di cui Matteo Renzi è un aedo, ancor più che un corista a cappella. La prova si ha nel tanto atteso e tanto applaudito (da coristi e aedi) piano di investimenti di 300 miliardi di euro che dovrebbe ‘dare la scossa’ all’eurozona. In effetti, non solo – come notato da numerosi commentatori – la Commissione Europea stanzia sono 21 miliardi (che dovrebbero attrarre i Governi, i privati ed anche mia zia Carolina dubbiosa sul futuro della propria pensione ed anche dei propri risparmi), ma se dedica un po’ di tempo allo studio del bilancio comunitario ci si accorge che i 21 miliardi sono rimasugli (infrattati in migliaia di voci) non utilizzati dalla Commissione presieduta da José Barroso.

Non sono stati impegnati o perché mancavano i progetti o per lungaggini burocratiche degli Stati membri, delle loro Regioni e negli stessi labirinti comunitari. Quindi, più nulla che poco per ‘svoltare’ e ‘cambiare marcia’ in un’eurozona dove l’investimento in infrastrutture è ridotto, mediamente, a meno del 2% del Pil (non riporto per carità di patria l’ulteriore taglio proposto nella nostra Legge di Stabilità). In breve si tratta di una ricetta ispirata alla Vêc Makropoulos, la pozione che l’alchimista greco-ebreo preparò per l’Imperatore Rodolfo d’Asburgo (quando Praga era la capitale dell’Impero) immortalata in un dramma di Ċâpeck, uno dei massimi scrittori boemi del primo Novecento.

Matteo, lascia perdere gli alchimisti e non ascoltare le sirene degli iconoclasti. Cerca, piuttosto, di circondarti di chi di queste cose se ne intende.

Ripresa? I numeri dell’Italia che “mettono all’angolo” l’Ue

Ripresa? I numeri dell’Italia che “mettono all’angolo” l’Ue

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

I fine settimana sono utili anche per assimilare rapporti, documenti e dati che nei giorni feriali hanno avuto una lettura superficiale, specialmente in quotidiani dove la pressione a “chiudere” non permettere di cogliere le sfumature. Ad esempio, il 27 novembre (Giorno del Ringraziamento negli Stati Uniti) è stata data molta enfasi, soprattutto in televisione, all’utile “Congiuntura Flash” del Centro Studi Confindustria (Csc), un documento che, proprio perché di poche pagine, richiede un’attenta lettura.

In effetti, mentre gran parte dei “mezzi busto” televisivi hanno sbrigativamente parlato di “ripresa dietro l’angolo” e alcune testate di livello hanno annunciato “una ripartenza in primavera”, il testo è molto più cauto: si limita a sottolineare come una crescita zero del Pil nel quarto trimestre (ma il dato sarà noto solo a fine gennaio/inizio febbraio) sarebbe “una buona base” per indicare che dopo sette anni di recessione si sta ricominciando a crescere. Soprattutto, la nota Csc enfatizza che “le riforme strutturali danno frutti nel medio periodo, ma nel breve rispondono al cambiamento e infondono fiducia”.

In parallelo con la nota Csc, è stato diramato il breve, ma succoso, rapporto mensile Istat sul clima di fiducia delle imprese; a novembre 2014 l’indice composito del clima di fiducia delle imprese italiane (Iesi, Istat economic sentiment indicator), espresso in base 2005=100, scende a 87,7 da 89,1 di ottobre. Il primo grafico a fondo pagina mostra a tutto tondo come non si sia ancora alla fase in cui riforme (peraltro in gran misura solo enunciate in termini approssimativi) infondano fiducia.

Contemporaneamente, l’Istat ha diffuso il rapporto periodico sulla produttività e competitività (si veda il secondo grafico a fondo pagina). In breve, il sistema è affaticato. Una ragione è la frammentazione. Le imprese attive dell’industria e dei servizi di mercato sono 4,4 milioni e occupano circa 16,1 milioni di addetti, di cui 11,2 milioni sono dipendenti. La dimensione media si conferma di 3,7 addetti. La spesa sostenuta per gli investimenti ammonta a circa 92 miliardi di euro e il valore aggiunto realizzato a circa 690 miliardi di euro.

Nell’industria in senso stretto, le imprese attive sono 437.650, assorbono 4,2 milioni di addetti – in larga maggioranza dipendenti (3,6 milioni, pari al 32,2% dei dipendenti complessivi) – e realizzano circa 245 miliardi di euro di valore aggiunto. All’interno del segmento delle microimprese, risulta rilevante la presenza di imprese con non più di un solo addetto (2,4 milioni di unità), che realizzano un terzo del valore aggiunto di questo segmento dimensionale. Le fasce dimensionali delle piccole (circa 190.000 unità con 10-49 addetti) e delle medie imprese (circa 21.000 unità con 50-249 addetti) assorbono rispettivamente 3,3 e 2 milioni di addetti, con una presenza relativa importante soprattutto nell’industria.

D’altro canto, le grandi imprese ammontano a circa 3.400 unità e impiegano 3,1 milioni di addetti su oltre 16 milioni. Alla produzione del valore aggiunto complessivo contribuiscono per il 22,3% le microimprese dei servizi, seguite dalle grandi imprese dei servizi (17,1%) e dalle grandi imprese dell’industria in senso stretto (13,8%). Le imprese delle costruzioni con almeno 10 addetti forniscono il contributo più basso alla realizzazione di valore aggiunto (in totale 3,7%).

Ancora più preoccupante il quadro occupazionale (nel grafico a fondo pagina). A ottobre 2014 gli occupati sono 22 milioni 374 mila, in diminuzione dello 0,2% rispetto al mese precedente (-55 mila) e sostanzialmente stabili su base annua. Il tasso di occupazione, pari al 55,6%, diminuisce di 0,1 punti percentuali in termini congiunturali mentre aumenta di 0,1 punti rispetto a dodici mesi prima. Il numero di disoccupati, pari a 3 milioni 410 mila, aumenta del 2,7% rispetto al mese precedente (+90 mila) e del 9,2% su base annua (+286 mila). Il tasso di disoccupazione è pari al 13,2%, in aumento di 0,3 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 1,0 punti nei dodici mesi.

I disoccupati tra i 15 e i 24 anni sono 708 mila. L’incidenza dei disoccupati di 15-24 anni sulla popolazione in questa fascia di età è pari all’11,9%, in aumento di 0,1 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 0,7 punti su base annua. Il tasso di disoccupazione dei 15-24enni, ovvero la quota dei disoccupati sul totale di quelli occupati o in cerca di lavoro, è pari al 43,3%, in aumento di 0,6 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 1,9 punti nel confronto tendenziale. Il numero di individui inattivi tra i 15 e i 64 anni diminuisce dello 0,2% rispetto al mese precedente (-32 mila) e del 2,5% rispetto a dodici mesi prima (-365 mila). Il tasso di inattività si attesta al 35,7%, in diminuzione di 0,1 punti percentuali in termini congiunturali e di 0,8 punti su base annua.

Ciò indica l’urgenza di una politica industriale volta non a sussidiare questo o quello, ma a facilitare, anche tramite concentrazioni e fusioni, maggiori dimensioni medie d’impresa – essenziali per raggiungere adeguate economie di scala e un’efficiente utilizzazione di ammodernamenti tecnologici.

Torti e ragioni della recalcitrante Germania sull’Europa poco teutonica

Torti e ragioni della recalcitrante Germania sull’Europa poco teutonica

Giuseppe Pennisi – Formiche.net

Nonostante sia da quasi mezzo secolo sposato con una francese (non certo filotedesca tanto più che nata dove negli anni della seconda guerra mondiale, c’era “la linea di demarcazione tra territorio occupato e la Repubblica di Vichy”), sin dagli anni dell’università i miei migliori amici personali erano tedeschi. La Germania mi aveva affascinato al liceo con la sua filosofia e la sua musica. Quando in un’università internazionale ero con studenti di differenti Paesi, finii con fraternizzare, e studiare, con i colleghi tedeschi per il loro fortissimo senso del dovere e la loro parimenti profonda lealtà. Non avere imparato la lingua (se non per sommi capi) è ancora un cruccio, causato dall’avere vissuto per oltre tre lustri negli Stati Uniti.

Molti amici e colleghi italiani (nonché francesi) hanno difficoltà a comprendere l’atteggiamento della Repubblica Federale in generale e dei Governi tedeschi nei confronti di programmi e progetti (ad esempio, gli eurobond) che faciliterebbero il processo d’integrazione europea. In effetti, i tedeschi (non solo i Governi ma la popolazione in generale) sono recalcitranti nei confronti di un’Europa più integrata e più coesa di cui Berlino (il Paese più vasto e più potente) avrebbe tutti i titoli per assumerne la guida.

Per comprendere il fenomeno occorre guardare al passato ed al futuro. Per il passato un utile contributo è Reluctant Meisters: How Germany’s Pasti s Shaping its European Fuure di Stephen Green. Green non è uno storico di professione ma un Lord britannico, che è stato Ministro del commercio con l’estero ed anche Presidente della Hong Kong and Shanghai Bank. I tedeschi diffidano del resto d’Europa dal lontano 9-15 dopo Cristo quando leader tribale di nome Hermann sconfisse tre legioni romani nella foresta di Teutoburg per essere fatto a pezzi dopo alcuni anni (quando i romani tornarono con ancora maggiori forze). In tempi più recenti, si sono considerati (a torto od a ragione) vittime della guerra dei trent’anni 1618-48, delle scorribande napoleoniche ed infine del Trattato di Versailles che li umiliò al solo scopo di giungere ad un armistizio di vent’anni della lunga guerra mondiale che ha caratterizzato la prima metà del Ventesimo Secolo.

Il ‘miracolo tedesco’ – ricorda Lord Green – è stato il frutto degli aiuti americani (i quali anche delinearono la Costituzione ed il sistema politico della Repubblica Federale). Sono stati anche gli americani a contribuire, più degli altri europei, al crollo del muro di Berlino ed alla riunificazione. Agli americani va la loro gratitudine e lealtà. Anzi – Lord Green non lo dice ma ne ho la chiara sensazione – da quando gli Usa hanno diminuito il loro interesse (a torto o a ragione) nel processo di integrazione europea caratterizzato, a loro avviso, da bisticci tra comari – pure la Germania Federale non vede perché deve assumere un onere pesantissimo nei confronti di millenari avversari che hanno scarso senso del dovere e spesso hanno concluso guerre con alleati differenti da quelli con cui le avevano iniziate.

A queste determinanti relative al passato, se ne aggiungono fortissime altre concernenti il futuro. La Germania “sente” più di altri Paesi europei l’invecchiamento della propria popolazione. Coen Teulings della University di Cambridge – un demografico olandese distinto e distante dalle beghe del Continente (e per questo motivo sulle rive del fiume Cam) – ha calcolato che per fare fronte alla “sfida demografica” (ad esempio, pensioni ed assistenza medica decenti) il risparmio complessivo delle famiglie tedesche deve porsi sul 350% del Pil. Non che l’Italia sia piazzata meglio. Per i tedeschi (in generale) la differenza è che loro se ne curano, a ragione del “dovere” che sentono profondamente nei confronti delle generazioni future, mentre gli italiani (con i francesi, gli spagnoli, i portoghesi ed i greci) se ne preoccupano meno. Perché – mi diceva recentemente un vecchio compagno di studi che ha fatto, in quel di Francoforte, il banchiere per tutta la vita professionale – dobbiamo metterci alla guida di tale brigata e porci l’onere sulle nostre spalle? Come rispondere?

Gli accordi che svelano il nostro “buco”

Gli accordi che svelano il nostro “buco”

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

L’Italia è alle prese con una nuova sfida, ma a Roma e a Milano pare non accorgersene nessuno. Se ne parla in cenacoli come quelli dello Iai, dell’Ispi, della Fondazione Ugo La Malfa, dell’Istituto Bruni Leoni, ma non si è sentita voce istituzionale. Neanche un tweet dal Presidente del Consiglio, Matteo Renzi o dai Ministri preposti (Affari esteri e Sviluppo economico) o da enti sempre sul punto di essere chiusi o riformati, come l’Ice. Proprio a quest’ultimo, la nuova sfida darebbe spunto per una nuova e più forte ragione di vita.

In breve, la globalizzazione che sembrava sgretolarsi dopo la crisi del 2008 è tornata alla grande. Questa è la conclusione a cui giungono Pankaj Ghemawat della Stern School della New York University e Steven Altman della Business School dell’Iese. Hanno compilato il Global Connectedness Index della Dhl sulla base di dati di 140 paesi che rappresentano il 99% del Pil e il 95% della popolazione mondiale. Utilizzano una vasta congerie di indicatori per misurare l’ampiezza e la profondità dell’integrazione internazionale: flussi commerciali, movimenti di capitale, migrazioni, rapidità e diffusione delle informazioni.

Secondo lo studio, dopo un arresto nel 2008-2009, la globalizzazione ha ripreso, più in profondità che in ampiezza. L’eurozona è rimasta un po’ all’angolo (e l’Italia in particolare è tra i fanalini di coda). Soprattutto, dopo una fase della globalizzazione pilotata dal mondo “avanzato” occidentale, adesso le imprese dei grandi paesi occidentali stanno rispondendo stancamente, e con un colpevole ritardo, alla tendenza, con il rischio di trovarsi spiazzate sui mercati più dinamici. Nel 2013, ad esempio, i Paesi in via di sviluppo emergenti hanno rappresentato (con il 36% della popolazione mondiale) il 17% degli utili delle cento maggiori imprese internazionali. L’anno scorso i paesi che hanno “globalizzato” di più (abbattendo barriere) sono quelli dell’America Latina e dei Caraibi. Particolarmente veloce, la globalizzazione delle informazioni, in accelerazione dal 2010.

Tra gli indicatori di integrazione internazionale, mentre i flussi finanziari sono in ripresa, preoccupa il commercio. Nel lontano autunno 2000, nell’ambito della Wto (l’Organizzazione mondiale del commercio) si aprì a Doha un negoziato multilaterale che avrebbe dovuto rimuovere le ultime restanti restrizioni agli scambi internazionali, particolarmente nei comparti dell’agricoltura e dei servizi. Sinora il negoziato non ha portato a nulla di concreto. È nel frattempo scaduta “l’autorizzazione” data dal Congresso americano al Presidente di presentarne i risultati per una ratifica in blocco.

C’è stato un pullulare di accordi bilaterali che hanno reso il commercio internazionale un vero e proprio labirinto. Su proposta della Casa Bianca sono iniziati negoziati per due vaste aree di “partnership” economica e commerciale – attraverso l’Atlantico e il Pacifico. Queste due trattative stanno proseguendo. Purtroppo, l’Italia pare schierata con la Francia in materia di “eccezioni culturali” (un termine nobile per indicare meno nobili protezioni dell’audiovisivo), dimenticando che un commercio più libero è la premessa per un mondo più libero. Speriamo che cambi idea e linea.

Anche e sopratutto perché il 13 novembre, gli Stati Uniti e l’India hanno raggiunto, dopo anni di trattative che bloccavano il negoziato multilaterale, un accordo sul commercio agricolo (in particolare sugli stoccaggi delle derrate alimentare) a cui si lavorava sin dal Kennedy Round degli anni Sessanta del secolo scorso. Non è questa la sede per analizzare i dettagli tecnici di un accordo, i cui lineamenti erano già stati posti alla riunione ministeriale Wto in dicembre 2013 a Bali. Secondo stime dell’ufficio del Rappresentante speciale del Presidente Usa per i negoziati commerciali – se sbloccato questo nodo la trattativa multilaterale si riapre -, l’accordo potrebbe portare a 21 milioni di nuovi occupati e aggiungere mille miliardi di dollari al Pil dell’economia mondiale. I Paesi in via di sviluppo dovrebbero fare uno sforzo in investimenti, anche infrastrutturali, per gli stoccaggi.

Occorre a questo punto chiedersi quale è la posizione del Governo italiano in sede di Unione europea (la Commissione europea negozia per tutti in base al Trattato di Roma) e se siamo pronti a rimuovere la nostra pregiudiziale sulla “eccezione culturale”. Si gradisce risposta.

Crisi italiana: quelle divergenze tra Bce e Bankitalia

Crisi italiana: quelle divergenze tra Bce e Bankitalia

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Su cosa verte la differenza di punti di vista tra Italia ed Unione Europa sulle circostanze eccezionali del Fiscal Compact che consentirebbero una deviazione dalle regole sull’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni (ossia il deficit), oltre al rinvio del pareggio di bilancio? Il nodo del problema è quello che in lessico economico viene chiamato l’output gap (letteralmente ‘divario produttivo’), ossia il differenziale tra Pil potenziale e Pil effettivo. Prima della crisi, nel 2008, la Commissione Europea, il Fondo monetario, e l’Ocse stimavano attorno all’1,3% la crescita potenziale del Prodotto interno lordo dell’Italia. Per avere un paragone, i ‘piani triennali’ dell’inizio degli Anni Ottanta la ponevano sul 22,5%, spiegando che è quello che già allora ci si poteva aspettare da un Paese con una popolazione anziana, un apparato produttivo non modernizzato eccetto che in certe nicchie specifiche, ed un’amministrazione pubblica tutt’altro che efficiente. Le stime econometriche che giungevano ad un potenziale di crescita dell’1,3% tenevano conto dell’evoluzione avvenuta negli ultimi trent’anni (non positiva né sotto l’aspetto demografico né sotto quello dell’apparato produttivo), nonché dal peso del debito che incide comunque sulla crescita.

Nel 2010 il servizio studi della Banca d’Italia ha pubblicato uno studio che esaminava il periodo 1999-2005 (ossia gli anni che hanno preceduto la crisi) e poneva l’output gap del nostro paese tra lo 0,5% e lo 0,7% del Pil. Se la crescita potenziale è lo 1,3%, quella effettiva si poneva quindi attorno tra lo 0,8% e lo 0,6%. Mentre di recente, l’Ocse ha stimato l’output gap dell’Italia a -5 punti percentuali del Pil. Una chiara giustificazione di ‘circostanze eccezionali’.

La Banca centrale europea ha reso pubblico sul suo sito da meno di una settimana uno studio firmato da un gruppo di economisti. Non sono stati pubblicati lavori della Commissione Europea, ma si intende che le stime di Bruxelles coincidono con quelle di Francoforte. Il lavoro analizza gli effetti della crisi economica sui tassi di crescita potenziali, utilizzando una vasta gamma di modelli econometrici, e confronta l’eurozona con gli Stati Uniti ed il Giappone. Per l’Italia il Prodotto interno lordo potenziale sarebbe attorno al livello zero per l’anno 2013, proprio in quanto non sono state fatte le riforme sulle strutture dell’economia (essenzialmente miglioramento delle infrastrutture e delle reti, liberalizzazioni in tutti i settori, dalle professioni, alle banche ed assicurazioni, ai servizi pubblici locali, ai taxi, e via discorrendo) e in campo di privatizzazioni siamo riusciti a portare a casa solo quella dell’ente degli ufficiali in congedo. Quindi, non si possono invocare circostanze eccezionali. Non siamo, però, condannati alla ‘crescita zero’. A pagina 118 di quello studio, infatti, si dice chiaramente che tutto dipende dalle riforme strutturali, e cioè quelle sulla struttura economica del sistema nazionale, che non coincidono – lo ricordiamo – con quelle istituzionali. A questo punto Palazzo Chigi e Via Venti Settembre farebbero bene a mostrare le loro carte.