giuseppe pennisi

Il gioco delle parti

Il gioco delle parti

Giuseppe Pennisi, presidente del board scientifico di ImpresaLavoro, è stato docente di Economia al Bologna Center della John Hopkins University e alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. È Consigliere del Cnel e insegna all’Università Europea di Roma.

Due settimane cruciali per la politica economica italiana ed europea. Quella che sta per concludersi è stata dominata dalle tematiche del lavoro. In Italia, si è arrivati, non senza tormenti, all’approvazione da parte del Senato della legge quadro sulla regolamentazione di base dei rapporti di lavoro, che prevede un’ampia e per alcuni aspetti poco chiara delega al Governo. A livello europeo, la conferenza dei Capi di Stato e di Governo tenuta a Milano l’8 ottobre ha riguardato i problemi occupazionali nell’UE. In ambedue i casi si è fatto molto chiasso senza concludere un granché.
Ma se ci aspettavamo ‘molto rumor per nulla’ dalla conferenza europea (un’occasione essenzialmente mediatica da cui non si attendavano risultati concreti), ben altre erano le aspettative riposte dagli osservatori sulla legge quadro sul lavoro. E invece, alla prova dei fatti, la sua sostanza è stata essenzialmente ‘delegata’ a decreti ancora da predisporre e per i quali sono stati dati principi e criteri estremamente laschi. Il vivace dibattito in Senato (con il contemporaneo ricorso al voto di fiducia) è così servito all’esecutivo essenzialmente per ‘fare ammuina’ in occasione della conferenza europea: da un lato per dare l’impressione che qualcosa si stia facendo sul piano delle riforme strutturali relative all’economia reale; da un altro, sopratutto, allo scopo di distrarre sia all’interno sia all’estero dal duro lavoro necessario in questo fine settimana e nei primi giorni della prossima per mettere a punto il disegno di legge di stabilità con una ‘manovra’ di almeno 20 miliardi che impedisca che l’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni salga oltre 3% del Pil, quanto meno nel preventivo del bilancio e dei conti pubblici. Un obiettivo che, stando ai rumor che provengono dal Palazzo, sarebbe ancora molto lontano.
Hanno ‘fatto ammuina’, e molto volentieri, anche i nostri partner europei (i quali, con l’eccezione di Hollande, avrebbero volentieri evitato un viaggio a Milano per una breve riunione inconcludente a quindici giorni circa da un Consiglio Europeo in cui la crescita dovrebbe essere all’ordine del giorno). Per ingraziarsi l’opiste, tutti hanno pensato di dare grandi pacche sulle spalle al Presidente del Consiglio italiano, dispensandogli sorrisi di incoraggiamento. Non solo. A Matteo Renzi è stata fatta anche balenare la possibilità (non la probabilità, e ancor meno la certezza) di non contabilizzare il cofinanziamento ai progetti europei ai fini dei parametri di Maastricht e del Fiscal Compact. Un ammiccamento che non è costato loro grande sforzo, dal momento che uno studio di Chatham House, che verrà presentato la settimana prossima a Londra, conclude che in Italia i ‘progetti cantierabili’ si contano sulle dita di una mano. Ed è facile pronosticare un repentino cambiamento di clima quando la prosisma settimana prossima la nostra legge di stabilità giungerà a Bruxelles, sottoposta a un esame molto rigoroso e niente affatto benevolo.
La verità è che in Europa tutti già conoscono la dura realtà con cui si devono misurare tanto Palazzo Chigi quanto via XX Settembre: restare entro il tetto di un indebitamento della pubblica amministrazione del 3% del Pil è poco più di una finzione. Già alla prima ‘trimestrale di cassa’ si annunceranno sforamenti, accusando ‘il destino cinico e baro ’. A fine 2015, il disavanzo sarà probabilmente attorno al 5% del Pil, non molto differente da quello della Francia. Uno scenario che ci vedrà fatalmente sottoposti alle procedure di infrazione da parte della tanto aborrita troika: Banca centrale europea (Bce), Commissione Europea (CE) e Fondo monetario internazionale (Fmi).
Ma se tutti sanno già tutto, perché insistere in questo pirandelliano ‘gioco delle parti’? In 15 mesi – si spera – si può varare una nuova legge elettorale ed andare alle urne. Peccato che in Italia nessuno voglia farlo. E i partner europei temono il caos di elezioni politiche in Italia (con una normativa in parte dichiarata non conforme alla Costituzione) poiché le analisi disponibili considerano il nostro Paese come il più ‘contagioso’, dopo la Spagna, sui mercati europei.
Perché la Banca Centrale Europea ha scelto di non scegliere, e cosa insegnano le recenti misure

Perché la Banca Centrale Europea ha scelto di non scegliere, e cosa insegnano le recenti misure

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Le Borse non hanno apprezzato che il Consiglio della Bce, paralizzato dai contrasti al proprio interno, ha deciso non scegliere, mantenendo sì ai minimi il tasso di interesse di riferimento ma non prendendo alcuna iniziativa in materia di misure monetarie ‘non convenzionali’. A Napoli il Consiglio avrebbe dovuto mettere a punto le specifiche di nuovi strumenti finanziari, cioè i dettagli di Abs (Asset backed securities, ossia ‘pacchetti’ di titoli cartolarizzati garantiti da attività reali) dicovered bonds (obbligazioni garantite da azioni). In un comunicato emesso dopo la riunione è stata fornita un’indicazione di massima degli acquisti ‘potenziali’ (mille miliardi di euro su due anni), senza precisare però caratteristiche e tempistica.

Alcuni giorni fa il rappresentante della Germania in seno al Consiglio ed il ministro delle Finanze tedesco, di fronte al Bundestag, hanno hanno espresso perplessità nei confronti di questi strumenti e di misure non convenzionali dell’ampliamento dell’offerta di moneta. Il dibattito ha aspetti intricati, ma non è banale chiedersi se è ‘opportuno’ mettere in atto misure ‘non convenzionali’ per il rilancio dell’eurozona. Quelle convenzionali, con tassi d’interessi attorno allo zero, sono state già in atto. Mercoledì la Francia, pur presentando uno schema di bilancio con severe riduzioni alla spesa sociale, ha annunciato che non si curerà di giungere, nel breve termine, al pareggio di bilancio previsto dal Fiscal Compact e neanche di limitare al 3% il rapporto tra indebitamento netto delle Pa e Pil. Giovedì è giunto da Londra un ‘assist’ a Parigi dal presidente del Consiglio italiano. Chiaramente, in queste condizioni, sarebbe stato difficile proporre misure monetarie ‘non convenzionali’ con la specificità per considerarle operative.

Martedì sono stati diramati due studi che esaminano le misure ‘non convenzionali’ adottate in Gran Bretagna e Usa, e che giungono alla stessa conclusione: gli effetti sono stati di breve periodo e si sono evaporati presto (ove non accompagnati da politiche economiche aggressivamente orientate alla crescita). Oggi, acquistare gli Abs di Grecia e Cipro equivarrebbe a mettersi in portafoglio titoli ‘spazzatura’. La stessa esperienza Bce ingenera perplessità. I T-ltro (Targeted long term refinancing operations, operazioni ‘mirate’ a lungo termine per rifinanziare investimenti produttivi) hanno avuto un esito ben inferiore alle attese. Di Omt (Outright monetary transactions, pure transazioni monetarie), lanciate con clamore circa due anni fa, non si parla più. Quindi, c’è da avere dubbi sulla efficacia di Abs e covered bond sino a quando i governi non abbiano attuate le necessarie riforme dei mercati dei fattori, dei beni e dei servizi e che tali riforme abbiano avuto il tempo di dispiegare i loro effetti.

Gli Abs e i covered bonds presentano poi il rischio che la Bce finisca per acquistare titoli il cui sottostante abbia un elevato grado di volatilità o, peggio ancora, sia di dubbia qualità (e lo mostri dopo qualche tempo). Un modo ‘non convenzionale’ sarebbe l’acquisto di titoli del debito pubblico di qualità da alcuni Paesi. L’economista Guido Salerno sta per pubblicare una proposta: la Bce acquisti titoli del debito pubblico italiano per 400 miliardi di euro, l’equivalente, secondo le sue stime, del costo degli errori compiuti dalle istituzioni europee nella gestione delle crisi. Può sembrare un’idea guascona. Non verrà accettata dai Paesi nordici. Ma potrebbe essere il modo più lineare per facilitare la crescita.

Nota di aggiornamento del Def deludente nelle proposte: urge delineare una strategia alternativa. Ecco quale

Nota di aggiornamento del Def deludente nelle proposte: urge delineare una strategia alternativa. Ecco quale

Giuseppe Pennisi, presidente del board scientifico di ImpresaLavoro, è stato docente di Economia al Bologna Center della John Hopkins University e alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. È Consigliere del Cnel e insegna all’Università Europea di Roma.

La Nota di Aggiornamento del Documento di Economia e Finanza 2014, approvata dal Consiglio dei Ministri del 30 settembre, è stata diffusa in sintesi (nove pagine essenzialmente di diapositive per la illustrazione alla stampa) il primo ottobre e posta (nel suo testo integrale di circa 135 pagine) sul sito del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Occorre dare atto che il documento non solo è presentato in modo pregevole ma aiuta il lettore differenziando graficamente le misure ‘in itinere’ da quelle che rappresentano un ‘focus’ per le decisioni di politica economica. La Nota sarà in gran misura la base della legge di stabilità e questo commento riguarda due suoi aspetti:
a) l’analisi della situazione attuale con pertinenti previsioni a medio termine;
b) le indicazioni di politica economica che se ne possono ricavare.
L’analisi della situazione attuale corrisponde, in linea di massima, a quella delle principali organizzazioni internazionali (Commissione Europea, Fondo Monetario Internazionale, OCSE), dei 20 principali istituti internazionali privati di previsioni macro-economiche e dei maggiori istituti di ricerca italiani (Cer, Irs, Prometeia) operanti in questo campo. In estrema sintesi, siamo al sesto anno di una recessione contrassegnata da leggere indicazioni di ripresa spesso seguite da nuovi tassi di crescita negativa. Un dato che caratterizza l’intera eurozona, anche se presenta aspetti più severi della media in Italia a ragione della fragilità di un tessuto imprenditoriale costituito in gran misura da piccole e medie imprese con elevato tasso di autofinanziamento e difficile accesso al credito.
In materia di analisi del quadro attuale, la critica principale è che non si sottolinea adeguatamente come la situazione dell’eurozona, e in particolare quella dell’Italia, dipenda in larga misura dalla politica economica e monetaria americana. Un fenomeno analogo si è verificato alla fine degli anni Novanta, ai tempi di quella che è stata chiamata ‘la crisi asiatica’. Da allora, i Paesi asiatici si sono, almeno in parte, svincolati dalla politica economica americana applicando politiche di cambio flessibili. All’interno dell’eurozona questo non è né fattibile né concepibile. Tuttavia, in generale l’eurozona potrà leggermente avvantaggiarsi dal leggero riallineamento del cambio tra euro e dollaro. Questo sortirà però effetti asimmetrici tra i vari Paesi dell’area dell’euro a ragione delle differenze in composizione merceologica e direzioni degli scambi totali (importazioni ed esportazioni).
L’Italia, in breve, avrà vantaggio modesti a ragione di un orientamento dell’interscambio fortemente orientato sugli altri Paesi dell’eurozona. La dipendenza dalla politica economica e monetaria americana comporta, comunque, un elemento di incertezza sulle scelte di politica economica europea, e in particolare italiana, di cui la Nota avrebbe avuto tenere maggiore conto delineando una risposta flessibile all’andamento del quadro internazionale (in specie al non inverosimile aumento, nei prossimi mesi, dei tassi d’interesse a medio e lungo termine negli Stati Uniti) e all’accentuarsi di riduzione dei prezzi nel resto dell’eurozona così come all’associato timore di una deflazione che aggravi ulteriormente la situazione dell’economia reale.
Dove la Nota delude è nella parte propositiva poiché non delinea né una strategia differente da quella degli ultimi tre anni (che con un aggravamento della pressione tributaria e contributiva ha accentuato le determinanti interne della recessione e dei segnali di deflazione in Italia) né una tattica che tenga conto degli elementi di incertezza provenienti dal resto del mondo (specialmente dagli Stati Uniti) sino al 30 settembre e da ieri primo ottobre anche dall’interno dell’eurozona (con la decisione della Francia di non considerarsi vincolata al limite del 3% del Pil per l’indebitamento delle pubbliche amministrazioni. Non solo. Le principali misure per la crescita sembrano essere un’estensione a una più vasta platea del ‘voucher’ o ‘bonus’ di 30 euro in busta paga da aumentare, per il settore privato, con un ipoteco versamento di parte del Tfr al fine di favorire una crescita dei consumi. Sino ad ora, le analisi anche econometriche rilevano che il ‘voucher’ o ‘bonus’ non ha avuto alcun effetto apprezzabile. L’operazione, peraltro non precisata, relativa al Tfr avrebbe implicazioni disastrose soprattutto per le piccole e medie imprese nonché sulla previdenza integrativa, e i suoi ipotetici impatti sulla domanda aggregata sono quanto meno dubbi.
È urgente delineare una strategia alternativa. Essa deve essere caratterizzata su quello che può essere chiamato ‘uno sgabello’ a tre pilastri:
– una riduzione della pressione fiscale sul lavoro (Iperf) e sull’impresa (Irap) di circa 40 miliardi da attuarsi già nel 2015;
– una riduzione della spesa iniziando dai 20 miliardi individuati dal commissario alla Spending Review Carlo Cottarelli e dalla sua équipe (che includeva la Ragioneria generale dello Stato) nella recente operazione di ‘revisione della spesa’;
– un rilancio degli investimenti pubblici e privati come individuato con grande chiarezza nel rapporto di Chatham House Building Growth in Europe Innovative Financing for Infrastructure datato settembre 2014 , tenendo conto che esiste notevole liquidità, specialmente presso le famiglie, alla ricerca di investimenti di lungo periodo.
Una strategia di questa natura porterebbe a superare, almeno temporaneamente, il vincolo relativo all’indebitamento delle pubbliche amministrazioni rispetto al Pil ma avrebbe il vantaggio di riattivare la crescita, facendone diventare l’investimento il suo motore, e di avere un buon grado di flessibilità per rispondere a evoluzioni della politica economica e della situazione americana.
Crisi e banche di sviluppo, lezioni italiane

Crisi e banche di sviluppo, lezioni italiane

Giuseppe Pennisi – Formiche.net

Tutti gli Stati dell’area euro hanno drasticamente tagliato i loro bilanci in conto capitale, ossia gli investimenti pubblici. In media, l’investimento pubblico è passato dall’8% della spesa complessiva delle Pubbliche amministrazioni a meno del 4%. In effetti, è più facile ritardare i programmi che comportano investimento in capitale fisico che operare su spese correnti, come gli stipendi per il pubblico impiego oppure i trasferimenti alle famiglie. Lo ha fatto anche la Germania. Secondo la Camera di commercio federale, per evitare un arresto delle attività, specialmente nei trasporti – basta viaggiare sulle autostrade per awertirlo – occorre investire 80 miliardi di euro l’anno per i prossimi cinque anni. Il confronto con la piccola Austria è drammatico: un tasso d’investimento aggregato (infrastrutture, industria, commercio) pari al 17% del Pil in Germania rispetto al 27% in Austria (e a una media Ue del 21%). Il ministro dell’Economia, Sigmar Gabriel, ha invitato gli esperti stranieri a fornire suggerimenti.

Da un lato, le modifiche di politica economica (energia, previdenza, norme lavoristiche) scoraggiano le imprese che “emigrano” in vicini Paesi neocomunitari. Dall’altro, (capitolo poco noto in Italia), i Länder hanno una ragnatela di regole che – per ragioni campanilistiche – hanno in gran misura neutralizzato le leggi Schroeder-Merkel per incoraggiare l’aumento delle dimensioni industriali. Nel breve periodo gli investimenti pubblici attivano la capacità produttiva non utilizzata – in un’eurozona con un tasso di disoccupazione dell’11,5% di forza lavoro ce ne è moltissima – senza innescare inflazione. Nel medio periodo migliorano la produttività dei fattori produttivi.

È in quest’ottica che il neopresidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, ha proposto un programma speciale di 300 miliardi di euro (aggiuntivo ai fondi europei già in essere) su tre anni per rilanciare i programmi di lungo periodo. Un anno fa è stato completato l’aumento di capitale della Banca europea per gli investimenti (Bei). Non ci sono, quindi, difficoltà a finanziare il programma, anche tramite obbligazioni targate Bei. Il 4 luglio le banche di sviluppo dei Paesi del G20 si sono riunite a Roma per definire scambi frequenti di strategia e di prassi. Da luglio, il club delle maggiori banche di sviluppo non solo europee (il Long term investors club – Ltic) è presieduto dall’ltalia. Anche se gli storici dell’economia ritengono che la Vnesheconombank, creata in Russia nel 1917, sia la più antica banca di sviluppo, l’ltalia è uno dei Paesi dell’Europa occidentale con più lunga e più varia tradizione.

Uno studio recente di Amadeo Lepore analizza la storia della Cassa per il Mezzogiorno e rafforza le conclusioni a cui erano giunti una quindicina di anni fa Alfredo Del Monte e Adriano Giannola: la Cassa ha funzionato, sino alla meta degli anni Settanta, come le migliori banche di sviluppo. È stata spesso elogiata dalla stessa Banca mondiale che ha incanalato i propri finanziamenti all’ltalia (sino al 1964) non tramite i ministeri ma tramite la Cassa. Un libro di Giovanni Farese e Paolo Savona, fresco di stampa, riguarda il ruolo personale del presidente della Banca mondiale, Eugene Black, perché la Cassa diventasse il modello per il resto d’Europa e del mondo. Sappiamo che interessi particolaristici miopi hanno portato al declino e crollo della Cassa a partire della seconda metà degli anni Settanta. Tuttavia, come documentato in due ricchi volumi di Marcello De Cecco e di Gianni Toniolo, nell’ultimo decennio la Cassa depositi e prestiti è stata gradualmente trasformata da una direzione generale del ministero del Tesoro a una delle più grandi, più importanti e più prestigiose banche di sviluppo europee. In base a queste esperienze, sia positive sia negative, possiamo – anzi dobbiamo – fornire indicazioni alle altre banche di sviluppo in vista di una strategia coordinata per tornare a crescere.

Il fisco in Italia rispetto al resto d’Europa

Il fisco in Italia rispetto al resto d’Europa

Giuseppe Pennisi, presidente del board scientifico di ImpresaLavoro, è stato docente di Economia al Bologna Center della John Hopkins University e alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. È Consigliere del Cnel e insegna all’Università Europea di Roma.

Non sono uno specialista di scienza delle finanza o di diritto tributario. Tuttavia, in Italia il nodo centrale è l’oppressione fiscale più che la pressione fiscale. Ho vissuto 15 anni a Washington: di norma dedicavo una sera (dopo il lavoro) agli adempimenti nei confronti dell’imposta federale sul reddito e la sera successiva agli adempimenti relativi all’imposta sul reddito del Distretto di Columbia (dove risiedevo) e alla ‘real estate tax’ (ossia all’imposizione immobiliare e per i servizi comuni indivisibili). Di norma il credito d’imposta, che spesso vantavo, veniva liquidato entro due mesi dall’Agenzia delle Entrate (a Philadelphia) tramite l’invio di un assegno. Nell’arco di 15 anni la modulistica è cambiata solo due volte ed era molto chiara.
Quando nel giugno 1982, mi sono trasferito in Italia alle prime scadenze tributarie ho dovuto servirmi di un commercialista (che mi assiste ancora adesso) a ragione della molteplicità di adempimenti le cui procedure sembrano mutare di anno in anno. A una pressione fiscale tra le più alte al mondo (in termini di Pil e di reddito disponibile delle famiglie) si aggiunge un’oppressione fiscale che è, a mio avviso, una delle prime cause del fenomeno della evasione. Un fisco semplice e comprensivo delle difficoltà dei contribuenti (individui, famiglie, imprese) invita a collaborare. Un fisco ossessivo incoraggia invece a fuggire. È il vecchio teorema di Albert Hirschman su lealtà, protesta ed uscita che temo sia poco conosciuto da coloro che plasmano il sistema tributario italiano. Più un sistema tributario è complicato e in continuo movimento più si favoriscono elusione ed evasione.
È noto che numerose imprese stabiliscono la loro sede legale al di fuori dell’Italia proprio per potere essere soggetti di un sistema tributario più semplice e più ‘amichevole’. È anche noto che artisti e pure imprenditori di rango diventano, per questa ragione, soggetti fiscali stranieri. È meno nota la migrazione di pensionati, anche di pensionati che hanno servito lo Stato per 40 e più anni verso gli Stati Uniti e la stessa Francia che ha aliquote elevate ma non in un moto perpetuo al segno della incertezza. Questi sono esempi di legittima elusione. Ma un fisco oppressivo e ossessivo dopo i tentativi di assecondarlo e le proteste di fronte all’inutilità delle proposte spinge a trovare meccanismi illegali per scappare, quindi evadere.
Mi associo, quindi, alle osservazioni del prof. Zecchini ed all’analisi del dr. Monsurrò. Ma voglio porre l’accento su questo tema specifico nella speranza che le autorità ne tengano finalmente conto.
Il commento del Prof. Giuseppe Pennisi

Il commento del Prof. Giuseppe Pennisi

Giuseppe Pennisi, presidente del board scientifico di ImpresaLavoro, è stato docente di Economia al Bologna Center della John Hopkins University e alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. È Consigliere del Cnel e insegna all’Università Europea di Roma.

Appena due giorni fa alcuni organi di stampa vicini a Palazzo Chigi avevano esultato perché a settembre l’indice di fiducia dei consumatori era cresciuto dal 101.9 a 102 – un aumento, in effetti, impercettibile. Nei giorni scorsi, la vera e propria gelata su fatturato ed ordini registrata per luglio (con il rallentamento registrato anche per la performance sui mercati internazionale) aveva anticipato il clima cupo in cui operano le imprese italiane. Nelle ultime settimane l’atmosfera è stata aggravata dalle divisioni sulla politica del lavoro e dalle voci insistenti di aumento dell’imposizione tributaria (anche se sotto la forma di ‘contributi’ e ‘canoni’) e di profondo riassetto dell’imposta di successione in occasione dell’ormai prossima legge di stabilità, il cui ddl deve essere presentato entro il 15 ottobre. Il Presidente della Banca centrale europea (Bce) Mario Draghi è chiaro e netto: la crisi finirà quando sarà tornata la fiducia. Affermazione del tutto condivisibile.
Oggi, però, indiscrezioni da Francoforte indicano che tra il Presidente della Bce ed il Governo tedesco è in atto una sfida all’Ok Corral innescata dalla proposta di acquisto di Abs (Asset backed Securities), titoli bancari cartolarizzati da parte dell’istituto. Anche se non si arriverà ad una resa dei conti all’interno della Bce, ciò non annuncia nulla di buono in materia di regole certe per le imprese (e quindi di fiducia). Tanto più che su piano interno è in atto un scontro sulla normativa per il lavoro all’interno del partito di maggioranza relativa.
Renzi porterà dagli Usa qualche idea di politica industriale?

Renzi porterà dagli Usa qualche idea di politica industriale?

Giuseppe Pennisi – Formiche.net

Il viaggio del Presidente del Consiglio Matteo Renzi negli Stati Uniti ha molteplici obiettivi: partecipare all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, essere presente alle manifestazioni su ambiente e clima, visitare la Silicon Valley e discutere con il Presidente della Università di Stanford delle determinanti che hanno portato ad un vasto distretto di forte sviluppo tecnologico.
Su questo argomento, c’è da augurarsi che rientri in Italia con lo stimolo di dare nuova vita a quella “politica industriale” che da qualche tempo sembra quasi una parolaccia. L’Italia è un Paese a vocazione manifatturiera per necessità: privo di materie prime, può solo contare su produzione industriale e mercato mondiale. Dall’inizio della crisi nel 2008, abbiamo perso quasi il 25% del valore aggiunto industriale e in percentuale del Pil la quota della nostra protezione industriale è passata dal 22% a poco più del 15%.
Ai livelli quasi della vicina Francia che conta però su un vasto comparto agricolo altamente sovvenzionato dai contribuenti europei tramite la politica agricola comune. Attenzione: proprio in Francia sono stati prodotti due importanti documenti, il Rapport Beffa del 2005 ed il Rapport Gallois del 2012 che, pur ponendo l’accento sulla competitività dell’industria francese, contenevano proposte per una strategia industriale europea. Il Rapport Beffa ha avuta una certa eco grazie a seminari e dibattiti organizzati dalla Fondazione Ideazione. Il Rapport Gallois è stato semplicemente ignorato nel nostro Paese. In breve l’ultimo documento organico di politica industriale italiano resta quello predisposto da Antonio Marzano nel 2004, quando era Ministro delle Attività Produttive. Restò, però, una bozza di documento a ragione di una malattia di Marzano e del suo trasferimento al CNEL.
Renzi ha senza dubbio tratto utili stimoli dalla Silicon Valley e dagli incontri all’Università di Stanford. Mi chiedo, però, quanto siano pertinenti ad un Paese come il nostro tra gli ultimi in Europa in termini di infrastruttura cablata e banda larga e dove meno del 15% della popolazione in età lavorativa ha un diploma di laurea (rispetto al 30% in Spagna, al 29% in Francia ed al 27% in Germania, nonché al 75% nella Silicon Valley). Forse avrebbe tratto idee più concrete, e più rilevanti alla situazione italiana, dallo studio pubblicato in queste settimane dall’Inter-American Development Banl, o meglio una raccolta di studi curata da Gustavo Crespi ed Eduardo Fernandez Arias (Retinking Production Development: Sound Policies and Institutions for Economic Transformation).
Solamente i gufi schizzinosi possono adombrarsi da riferimenti all’America Latina. Mostrano di essere profondamente ignoranti degli alti tassi di crescita di numerosi Paesi dell’America Centrale e Meridionale negli ultimi vent’anni e di non sapere che per gran parte del Continente è non più l’Europa ma la Corea del Sud. I saggi indicano come riforme istituzionali – tanto care a Matteo Renzi – possono, anzi debbono, essere coniugate a politiche industriali ancorate ad innovazioni fattibili anche se scarseggiano le infrastrutture ed il capitale umano.
Particolarmente utile la sezione sui business incubator – e sul ruolo dello Stato e delle autonomie locali a questo riguardo – anche per ricca di casi di studio di “avventure” che hanno avuto successo in contesti non troppo distinti dal nostro. E’ vero che alcuni capitoli sono difficili da digerire: scritti per economisti quantitativi con una forte formazione matematica, possono scoraggiare i politici dalla loro lettura. Li salti a pie’ pari. E si concentri invece su quelli che possono dare una politica industriale all’Italia.

Il «bazooka» di Draghi deve essere utilizzato anche per le infrastrutture

Il «bazooka» di Draghi deve essere utilizzato anche per le infrastrutture

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Oggi la Banca centrale europea lancerà la prima asta di quello che è stato chiamato il bazooka di Mario Draghi: i T-ltro ( Targeted Long Term Refinancing Operations). È un acronimo difficile da pronunciare ma che, se lo strumento funziona, dovremo imparare a memorizzare. Lo strumento, infatti, rappresenta una vera svolta nella politica della Bce: è un modo originale (e sino ad ora mai provato in nessun Paese) per fare sì che la liquidità creata dall’istituto di emissione non finisca, come spesso avvenuto in passato, in una ‘trappola’ e non venga tesorizzata dalle banche per ‘ripulire’ i loro portafogli. La liquidità è, invece, targeted, ‘mirata’ al rifinanziamento di operazioni (investimenti) a lungo termine.
Le aspettative sono grandi in tutta Europa. E non solo. Se lo strumento darà i risultati attesi potrebbe essere replicato in Paesi (ad esempio il Giappone) che hanno sofferto e soffrono di trappole della liquidità. L’asta ha un plafond di 400 miliardi di euro, ma non è detto che si giunga ad utilizzarlo interamente. Le stime parlano di una capacità di ‘assorbimento’ per l’insieme dell’eurozona di 270 di euro (di cui 115-120 alla prima asta ed il resto alla seconda programmata per dicembre). La spiegazione è che dal 2008, inizio della recessione, ad oggi le imprese hanno tentato di fare funzionare (e fruttare) la dotazione di capitale fisso a loro disposizione e non hanno programmato investimenti a lungo termine.
Guardiamo con maggiore attenzione quelle che possiamo chiamare ‘le cose di casa nostra’. Secondo stime della Bce, 75 dei 400 miliardi sarebbero la ‘quota’ potenziale dell’Italia. Pier Carlo Padoan, ministro del Tesoro, ha detto di aspettarsi una richiesta da 37 miliardi da parte delle banche. Altre stime indicano cifre appena inferiori. Occorre chiedersi se le associazioni di categoria (in primo luogo la Confindustria) ed il Ministero per lo sviluppo economico hanno nei loro cassetti ‘progetti pronti’ che il sistema bancario non ha finanziato e potrebbero decollare grazie al T-ltro, quali sono le tipologie, quali i costi ed i finanziamenti necessari. Sarebbe nell’interesse di tutti avere questi dati. In primo luogo, del Presidente del Consiglio. Non per curiosità. Ma per un’esigenza molto pratica. Ove l’Italia mancasse di progetti pronti nei comparti T-ltro, non sarebbe il caso di chiedere alla Bce di ampliare la platea alle infrastrutture, molte delle quali rimaste al palo (anche se cantierabili ) pure dopo lo Sblocca Italia? Auspichiamo di avere presto risposte e se del caso un’azione politica spedita. Non è tempo di piagnistei, come amava ripetere il sindaco di Firenze Piero Bargellini.
Riforma pensioni, il libro “scomodo” per Renzi

Riforma pensioni, il libro “scomodo” per Renzi

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

All’Ecofin di Milano si è trattato estesamente di “riforme strutturali” che i singoli Stati dell’Unione europea, in particolare quelli dell’eurozona, dovrebbero intraprendere perché l’aumento della liquidità, l’abbassamento dei tassi d’interesse e le stesse misure “non convenzionali” che dovrebbero essere adottate tra breve dalla Banca centrale europea abbiano il risultato di rianimare l’economia di un continente all’apparenza sempre più vecchio. Si sono toccati molti temi relativamente all’insieme dei Paesi Ue (mercati del lavoro, dei beni e dei servizi, rafforzamento della concorrenza), nei riguardi di alcuni (ad esempio, della Francia) si è posto l’accento sul sistema previdenziale. Tuttavia, non sono le pensioni italiane uno dei temi che preoccupano il resto dei nostri partner europei.

Siamo stati, con la Svezia, i primi a effettuare , circa venti anni fa, una riforma strutturale, anche se (su richiesta di categorie molto sindacalizzate) abbiamo previsto un periodo di transizione di diciotto anni (a differenza di quello di tre anni della riforma svedese) e, successivamente, abbiamo più volte rimaneggiato la riforma (anche in barba delle sentenze della Corte Costituzionale). Abbiamo, in breve, messo in atto un sistema che Banca mondiale, Fmi, Ocse e, quindi, anche Ue considerano esemplare (nonostante le disfunzioni, peraltro, temporanee causate dal lungo periodo di transizione).

Ciononostante, pure negli ultimi giorni si sono levate voci perché si rimetta mano alle pensioni in essere al fine di evitare riduzioni di spesa in altri settori (quali i costi della politica e il finanziamento, ancora in atto, ai partiti e alla loro stampa). Queste voci – lo abbiamo detto in altre occasioni – preoccupano l’Ue per due ordini di motivi: a) la certezza del diritto in Italia; b) le implicazioni verso quella “unione europea delle pensioni”, essenziale per fare funzionare il mercato unico e l’unione monetaria.

Tutta la costruzione che stanno faticosamente mettendo in piedi il presidente del Consiglio e il ministro dell’Economia e delle Finanze si basa sull’aumento della credibilità internazionale dell’Italia. Spetta ad altri, per il momento, decidere se tale credibilità internazionale sia vera o fittizia. Una nuova riforma della previdenza che sconvolga la certezza dei diritti di chi ha già maturato la pensione, oltre a mettere repentaglio la situazione sociale interna e a colpire – come dimostrato da studi Censis ed Eurostat – i giovani (i quali spesso sono mantenuti agli studi grazie alle pensioni dei nonni) più che gli anziani – è la prova del nove che l’Italia della certezza delle regole se ne impipa ed è pronta – unico Paese al mondo (secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro) a fare una riforma della previdenza l’anno spesso solo per la vanagloria di chi vuole associare a essa il proprio nome. Tutto ciò è segnale di poca serietà. Anche in materia di impegni economico-finanziari e di riforme strutturali.

Inoltre, la proposta dell’Eiopa – European Insurance and Occupational Pensions Authority, acronimo poco conosciuto nella galassia delle sigle europee – sta facendo strada: la si può leggere per esteso, nei suoi dettagli tecnici, scaricando il relativo documento. È un testo importante che merita di essere divulgato e discusso: nel futuro dell’Ue, perché l’unione monetaria riesca a funzionare, devono funzionare, a livello europeo, anche i mercati delle merci, dei servizi e dei fattori di produzione (quindi anche quello del lavoro).

Oggi il buon funzionamento del mercato del lavoro è ostacolato non solo da rigidità interne ai singoli Stati Ue, ma anche dalle difficoltà di mobilità poste da profonde differenze nei sistemi previdenziali. La proposta Eiopa, peraltro ben delineata, consiste nel fare confluire contributi pubblici e privati in Personal pension plans uniformi per tutti i lavoratori europei che potrebbero scegliere se utilizzare questa strada o sistemi previdenziali nazionali. In pochi mesi, si è fatto molto più lavoro di quanto si sarebbe immaginato come dimostra questo volume Bce.

È incomprensibile che in un Governo che vuole fare della trasparenza il proprio vessillo il lavoro Bce non sia stato divulgato (se possibile in traduzione come fatto in altri Paesi Ue) e venga quasi considerato un “testo all’Indice dei libri proibiti”), peraltro abolito da anni. Pare sia chiuso a quattro mandate nei cassetti dell’Inps e del ministero del Lavoro. Dal volume, che merita un dibattito approfondito, si deduce che l’Italia è indietro, soprattutto in materia di “seconda gamba” di un eventuale sistema previdenziale europeo (i fondi pensione occupazionali). Ed è questo il tassello su cui puntare. Perché in materia i sindacati non cominciano ad agitarsi?

Giuseppe Pennisi – commento al Paper di ImpresaLavoro

Giuseppe Pennisi – commento al Paper di ImpresaLavoro

Giuseppe Pennisi, presidente del board scientifico di ImpresaLavoro, è stato docente di Economia al Bologna Center della John Hopkins University e alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. È Consigliere del Cnel e insegna all’Università Europea di Roma.

«Il lavoro italiano ha le caratteristiche di non essere secondo a nessuno. Due economisti che non potevano comunicare l’uno con l’altro – non solo c’era la guerra ma uno scriveva in inglese e l’altro in magiaro (e solo dopo molti anni venne tradotto….in tedesco, ma non in inglese) – l’americano (e liberista) Charles Kindleberger e l’ungherese (e marxista) Ferenc Janossy, hanno dimostrato che il ‘miracolo economico’ è stato determinato innanzitutto dalla capacità di apprendimento e dalla flessibilità dei lavoratori italiani. Le classifiche del WEF provano che l’eccesso di regole ha tarpato le ali essenziali per la crescita. Governo e Parlamento devono tenerlo ben presente».