giuseppe pennisi

Le Olimpiadi hanno reso i carioca più felici?

Le Olimpiadi hanno reso i carioca più felici?

Con la chiusura il 21 agosto delle Olimpiadi di Rio è tempo di bilanci e di meditare sulla proposta di tenere a Roma i Giochi nel 2024.

E’ arduo pensare che sotto il profilo economico e finanziario siano positivi. Si tratterebbe di un eccezione clamorosa alle esperienze degli ultimi lustri. Le Olimpiadi non sono affatto “un affare” in termini di ricavi finanziari (giustapposti ai costi finanziari) per la città, o le città, che le ospitano. Lo ha ricordato il primo agosto un editoriale del New York Times Tre economisti greci hanno condotto una valutazione ex-post delle Olimpiadi di Atene del 2004 (è pubblicata sulla rivista Applied Financial Economics, Vo. 18 n. 19 del 2008); finanziariamente, hanno guadagnato solo gli sponsor, le azioni delle cui imprese hanno avuto una rapida ma breve impennata quando la capitale greca è stata scelta – quindi, un effetto annuncio. Di recente, economisti greci hanno individuato nelle Olimpiadi del 2004 una delle determinanti dell’impennata del debito pubblico greco.

Interessante una dettagliata valutazione dei giochi invernali: i costi superano i benefici, anche senza contabilizzare le spese per le infrastrutture (perché permanenti e non connesse solo all’evento) e quantizzando “l’orgoglio della città e della Provincia” di ospitare le gare. In effetti, stime analitiche dei probabili flussi turistici sono modeste (ed i costi associati al turismo olimpico superano i ricavi) come peraltro già rilevato in occasione di altre Olimpiadi, ad esempio quelle tenute nel 1996 ad Atlanta in Georgia).

Uno dei lavori sugli esiti economici non brillanti delle Olimpiadi di Atlanta è intitolato: “Perché gareggiare per essere sede di Giochi?”. La risposta viene data da due saggi relativi uno alle Olimpiadi di Pechino del 2008 (pubblicato nello Sports Lawyer Journal) e l’altro alla Coppa del Mondo giocata in Germania nel 2006 (CESifo Working Paper No. 2582). I costi per la collettività vengono in questi casi superati, anche di molto, dai benefici per la collettività perché l’evento riguarda l’intera Nazione e contribuisce al “Nation Building”.

Indubbiamente ci possono ritorni politici, spesso a caro prezzo. Le Olimpiadi di Roma del 1960 vengono considerate come una delle determinante (non la principale) dell’ingresso dell’Italia in quello che allora si chiamava il consesso delle Nazioni.

I Giochi rendono più ‘felici’ coloro che li ospitano. Il 17 luglio, il DIW di Berlino ha pubblicato un discussion paper (il No. 1599) in cui nove accademici della London School of Economica, della Sorbona, e delle Università di Chicago, del Michigan e di Cornell University a Ithaca si chiedono se le Olimpiadi aumentano la felicità dei cittadini delle città dove si svolgono. La ricerca raffronta Londra, Berlino e Parigi nell’anno dei Giochi londinesi tramite una complessa indagine statistica e sociologica, con questionari discussi con 26.000 persone nel 2011, 2012 e 2013. In breve , c’è un forte balzo in avanti per i cittadini di Londra che, su una scala da 1 a 10) hanno visto aumentare la loro felicità da 1 a 4, nei mesi ‘olimpionici’ . L’effetto è stato di breve periodo: dopo nove mesi si era di nuovo in fondo alla scala.

La battaglia per le libertà nelle economie costituzionali

La battaglia per le libertà nelle economie costituzionali

Tra breve gli italiani saranno chiamati ad esprimersi su una riforma costituzionale approntata né da un’assemblea eletta a questo scopo né da una forte maggioranza di parlamentari eletti, ma nominati dalle segreterie dei partiti. Può essere utile, nelle circostanze, leggere alcuni paper recenti di storici dell’economia. Interessante l’articolo di Luke Norris della Facoltà di Giurisprudenza della Columbia University “Consitutional Economics:Lochner, Labor and the Battle for Liberty” apparso nell’ultimo fascicolo del Journal of Law & the Humanities. Lochner, e il Lochnerismo, sono poco noti agli italiani. Il “caso” Lochner si riferisce ad una sentenza del 1905 della Corte Suprema Usa. Il caso riguardava la costituzionalità di una legge sul lavoro dello Stato di New York in base alla quale un lavoratore di un forno per produrre pane non potesse lavorare più di dieci ore al giorno per un totale di sessanta ore la settimana. La Suprema Corte respinse la tesi a maggioranza (cinque su quattro), secondo la quale la norma era necessaria per proteggere la salute del lavoratore; anzi la considerò “un’interferenza non necessaria, irragionevole ed arbitraria nei riguardi della libertà contrattuale degli individui”.

Da allora – ci ricorda Norris – è passato più di un secolo. Nei primi venticinque anni dalla sentenza, la Corte Suprema dichiarò incostituzionali numerose legge federali o statuali dirette a regolare le condizioni ed i rapporti di lavoro. In parallelo, la Corte Suprema cominciò ad utilizzare il Quattordicesimo Emendamento alla Costituzione Americana per tutelare la libertà di parola e la privacy. La svolta avvenne nel 1937, subito dopo la Grande Depressione, nella vertenza West Coast Hotel Co versus Parrish quando la Corte Suprema adottò un punto di vista più espansivo dell’intervento regolatorio. Non, però, in senso statalista: mentre la sentenza Lochner si basava su una visione della libertà che premiava la libertà “da”, dal 1937 hanno prevalso sentenze sulla libertà “di”. Negli Usa il cambiamento è stato incoraggiato anche dai sindacati che lo hanno associato alla libertà di associazione repubblicana nella sfera politica. La libertà “di” in una sfera come il luogo di lavoro e stata gradualmente estesa ad altre sfere e ha trasformato il diritto costituzionale americano.

Che brutta figura!

Che brutta figura!

di Giuseppe Pennisi

Tassiamo o, di converso, paghiamo tanto in tasse ed imposte. Spendiamo ancora di più di quanto incassiamo (con deficit che di anno in anno hanno portato il debito pubblico al 135% del Pil) ma – quel che è peggio – spendiamo male.

Nella calura estiva ce lo ha ricordato uno studio approfondito di Antonio Alfonso e di Mina Kanzemi (ambedue dell’Università di Lisbona, capitale del Portogallo, altro Paese che non se la passa proprio bene). Lo studio, Assessing Public Spending Efficiency in 20 OECD Contries , diramato come ISEG Economics Department Working Papers No WP 12/20/2016/DE/UECE. Lo studio aggiorna e compara lavori precedenti sullo stesso tema, soffermandosi sul periodo 2009-2013. Mette a raffronto in particolare indicatori sulla qualità del settore pubblico (Public Sector Performance – PSP) e sulla efficienza del settore pubblico (PSE). Per assicurare coerenza tra i vari indicatori viene utilizza una tecnica statistica chiama la Data Envelopment Analis (DEA). L’analisi mostra che solamente in Svizzera la spesa pubblica opera al pieno livello della tecnologia. In media, negli altri diciannove Paesi, hanno un indicatore di efficienza, dal lato degli input, pari a 0,732; in linguaggio colloquiale ciò vuol dire che si sarebbero mediamente ottenuti gli stessi risultati spendendo il 26,8% di meno. Dal lato dell’output l’indicatore è 0,769, ossia in media si sarebbe potuto ottenere, con i livelli di spesa erogati, il 23,1% di più.

L’Italia nella classifica si situa piuttosto male: siamo costantemente tra Portogallo e Grecia. Anche se tecnico, il lavoro dovrebbe interessare non solo pochi economisti ma la politica.

A chi piace e a chi non piace la spesa pubblica

A chi piace e a chi non piace la spesa pubblica

di Giuseppe Pennisi

In Italia , la spesa pubblica e il debito pubblico crescono e così pure la pressione e l’oppressione tributaria. Nonostante che tutti se ne lamentino. Cosa incide sulle preferenza per forti spese pubbliche e forti tasse?

Ci sono indubbiamente determinanti storiche e storico sociali. In Paesi a basso livello di reddito- procapite la capacità impositiva è molto limitate ed i meccanismi tributari sono primitivi, con il risultato che la spesa pubblica supera raramente il 15% del Pil e si concentra su sicurezza interna e difesa internazionale. Nei Paesi emergenti, la bassa imposizione è strumento per attirare investimenti dall’estero. Nella società americana , raramente (principalmente in caso di guerra,) il gettito supera il 35% del Pil in quanto le libertà dell’individuo e della impresa sono alla base del compatto sociale. In Europa Occidentale, specialmente nell’eurozona, la pressione fiscale giunge al 45-50% del Pil per sostenere un vastissimo perimetro di spesa pubblica-. Italia e Francia sono gli Stati con più alta pressione tributaria e più alta spesa pubblica.

Spesso gli elettori non se ne rendono conto. Un lavoro interessante è stato messo online dal CESifo (Working Paper Series No 5938) . Sulla base di una inchiesta empirica ed esperimenti, sviscera come e quanto le informazioni (in cui hanno un ruolo importane i media) incidono sulle preferenze per la spesa pubblica, sovente senza tener presente il suo contrappeso (la tassazione). Ne sono autori Philipp Lergetporer della Università di Innsbruck, Guido Scherdt del CESifo,, Katharina Werner del CESifo e Ludger Woessmann dell’Università di Monaco. La conclusione è che “l’elettorato non ha cognizione di come il perimetro della spesa pubblica causa distorsioni tra le preferenze di chi vota”. La squadra di economisti e statistici ha condotto una serie di indagini campionarie prendendo l’avvio dagli attuali livelli di spesa pubblica. Quando coloro che sono oggetto del campione hanno l’informazione, sono essi stessi a proporre riduzioni di spesa nei campi più vari, dalle pensioni alla difesa. Nel passato recente, analisi sulle spese pubbliche per la scuola e sulle retribuzioni degli insegnanti indicano che le reazioni (in favore di riduzione della spesa) sono più per coloro che inizialmente sottostimavano i livelli di spesa . Quindi, la corretta informazione è essenziale per sostenere una revisione della spesa.

Economia e democrazia nell’Unione europea

Economia e democrazia nell’Unione europea

di Giuseppe Pennisi

Per i prossimi tre anni, il tema principale di discussione, e di negoziati, in Europa sarà l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. L’argomento ha un suo sottostante importante: cosa intende l’Ue per democrazia, e per gioco politico democratico. È un argomento che merita di essere scandagliato non solo da politologi, ma anche da economisti poiché è ormai dimostrato – si legga o rilegga l’ultimo libro di Luciano Pellicani, “L’Occidente e i suoi nemici” (Rubbettino, 2016) – che la democrazia è elemento fondante della crescita. L’arresto dello sviluppo in gran parte degli Stati dell’Ue, ormai in corso da circa dieci anni, deve attribuirsi, in buona parte, a quel deficit di democrazia che ha portato la maggioranza dei cittadini del Regno Unito alla Brexit (pur nella consapevolezza dei suoi elevati costi economici) e che serpeggia tra i cavalli di battaglia di numerosi movimenti politici e sociali chiamati anti-sistema e fortemente critici dell’Ue.

Formalmente l’Ue si regge su istituzioni democratiche. Il Parlamento europeo (Pe) è eletto direttamente dal popolo sovrano – con un tasso di partecipazione leggermente superiore al 50% (in linea con quello della media dei Paesi avanzati a economia di mercato) – e i suoi 751 seggi sono ripartiti tra i 28 Stati membri secondo quote definite in trattati ratificati dai Parlamenti nazionali. Il Pe approva la normativa (regolamenti, direttive) secondo una procedura che richiede la partecipazionedei Consigli dei ministri (non eletti direttamente, ma rappresentanti di governi democraticamente eletti).

Il perno della costruzione è la Commissione europea e gli altri funzionari che la compongono, indicati o nominati dai governi, ma che necessitano di ottenere la fiducia del Pe. Sono, in gran misura, ex politici o tecnici, ottimati, convinti di avere la missione, loro assegnata dal Trattato di Lisbona, di andare verso un’ever closer union stimolando accordi irreversibili che vanno, in modo monotematico, in quella direzione. Anzi si tengono distanti dal dibattito quotidiano di confronto politico su questo o su quel tema proprio per non essere distratti dal loro obiettivo che ha passi intermedi alti come la creazione (forse prematura) di un’unione monetaria e anche bassi (come regolamentare la curvatura delle banane e definire, ogni anno, il giorno per cominciare a imbottigliare l’olio d’oliva).

Il nodo di fondo è che in una democrazia ben funzionante non solamente non esistono ottimati, ma si è tutti coinvolti in un dibattito politico quotidiano che è spesso uno scontro, o una serie di scontri, fatti di passione, ma anche – amava ripetere un uomo politico italiano – di sangue e di sterco. È in tale confronto, non solo nel giorno delle elezioni, che i cittadini partecipano e fanno sentire i loro punti di vista, e chi fa realmente politica cerca soluzioni, spesso mediando tra interessi legittimi ma contrapposti. È questo il sale della democrazia, che gli ottimati dell’Ue, accecati dalla missione monotematica che pensano di avere, non conoscono. Sono diventati, quindi, sempre più distanti dai problemi a cui gli europei danno priorità.

Nessun europeo che abbia meno di cinquant’anni è preoccupato di eventuali nuove guerre, in mancanza di un’ever closer union, tra Francia e Germania per il controllo della Ruhr. I cittadini europei sono angosciati, invece, da problemi che gli ottimati (retribuiti, ai gradi alti, con stipendi e prebende pari al doppio del compenso del presidente degli Stati Uniti) non percepiscono: il lavoro loro e dei loro figli in un’Europa che non cresce, la sicurezza personale, l’immigrazione e via discorrendo. Temi sui quali gli ottimati organizzarono forbiti seminari e tentano di arrabattarsi, senza giungere a conclusione. Proprio perché distanti dal confronto-scontro politico quotidiano anche su temi che possono sembrare di quartiere, ma che fanno bella o brutta la vita degli europei.

Da europeo e da convinto europeista mi auguro che, di fronte alla Brexit, gli ottimati aprano gli occhi e si rendano conto che stanno marciando, come nel film di Buñuel, “Le charme discret de la bourgeoisie”, verso un suicidio politico. L’unico suicidio – diceva Winston Churchill – a cui di solito si sopravvive. Per comprenderne i danni.

Da ŒCONOMICUS dell’agosto 2016

Perché la Germania Orientale non è diventata un altro Mezzogiorno

Perché la Germania Orientale non è diventata un altro Mezzogiorno

di Giuseppe Pennisi*

Vi ricordate perché e come nacque l’unione monetaria? Alla caduta del muro di Berlino, vennero preconizzate enormi spese pubbliche tedesche per evitare che i Länder orientali diventassero un nuovo Mezzogiorno.

I centri studi basati a Bruxelles pubblicarono paper su paper tratteggiando questa tesi ed anzi dipingendola ancora più fosca: per evitare il ‘”Mezzogiorno d’Europa” ai confini con la Polonia e per impedire un’ondata d’inflazione, la Germania avrebbe avuto forti deficit di bilancio e la Bundesbank alti tassi d’interesse. Tramite gli alti tassi d’interesse, avremmo pagato tutti noi parte del costo dell’unificazione tedesca. Oppure, sarebbe andato a carte quarantotto la rete di accordi europei sui cambi (in gergo giornalistico chiamata Sistema Monetario Europeo, SME).

Tale prospettiva faceva paura soprattutto alla Francia che aveva ricorso a “cambiamenti di parità” (termini elegante per voler dire “svalutazioni” in un salotto con signore di buona famiglia) e che, quasi con la stessa frequenza, cambiava Repubblica. Proprio per questa ragione (smetterla con le svalutazioni ed i cambiamenti di Repubblica), dopo una seria spending review, il 22 febbraio 1987, la Francia aveva firmato con la Germania il patto del Louvre, in base al quale la parità del franco francese con il marco tedesco sarebbe stata fissa e, in pratica,la politica monetaria della Francia sarebbe stata dettata dalla Bundesbank. Proprio nel tentativo di impedire un forte rialzo dei tassi tedeschi per sterilizzare le spese per il previsto Mezzogiorno dell’Est, la Francia propose un percorso a tappe, con parametri oggettivamente verificabili, per dare vita ad un’unione monetarie facendo diventare collegiali le decisioni di politica monetaria.

Molte voci si alzarono contro questo approccio (Alesina, Feldstein, Mundell, tra gli altri) ma quasi nessuno contro la prospettiva del Mezzogiorno dell’Est. Solamente Andrea Boltho del Magdalen College dell’Università di Oxford, Wendy Carlin dell’University College di Londra, e Pasquale Scaramozzino allora all’University College di Londra ed ora alla Università di Roma, Tor Vergata. Contro il coro a cappella (come si diceva allora) o “i gufi” (come si dice oggi), sostennero in un saggio pubblicato nel 1977 sul Journal of Comparative Economics del 1997 che non c’erano le premesse istituzionali, sociali e storiche perché i Länder orientali diventassero un nuovo Mezzogiorno.

Sono tornati sul tema con il paper Why East Germany Did Not Become a New Mezzogiorno pubblicato la settimana scorsa come CEPR Discussion Paper No. Dp 11266. Nel lavoro riesaminano la loro ipotesi alla luce dei dati di 25 dalla unificazione tedesca. Mentre in Italia in termini di reddito pro-capite non c’è stata alcuna convergenza tra il Sud e le Isole, da un lato, ed il centro-nord dall’altro (anzi la divergenza si è accentuata), nello stesso periodo i redditi medi dei Länder orientali tedeschi si sono molto avvicinati a quelli dei Länder occidentali. Le determinanti delle differenze di risultati nei due Paesi dipendono – sostengono i tre economisti – non solo da ragioni storico istituzionali, ma in diversità significative in materia di rendimento degli investimenti, flessibilità del mercato del lavoro e dello sviluppo di settori produttivi competitivi sui mercati internazionali.

*Presidente del board scientifico di ImpresaLavoro

L’età della pensione: riflessioni internazionali

L’età della pensione: riflessioni internazionali

di Giuseppe Pennisi*

L’età “ottimale” della pensione è tema già affrontato in questa rubrica. In un’ottica libera e con un sistema previdenziale essenzialmente pubblico a ripartizione ma in cui le spettanze sono calcolate secondo un metodo contributivo figurativo (come quello italiano), la decisione di lasciare il lavoro e di percepire la pensione, dovrebbe essere lasciata all’individuo. Naturalmente, di solito, quanto prima si “va in pensione”, tanto più basso è il “montante” accumulato e tanto minori sono le spettanze annuali o mensili per una data aspettative di vita. Tuttavia, il mondo non è così semplice. Dove esiste una previdenza pubblica, occorre porre dei “paletti” in termini di età in cui cominciare e percepire le spettanze al fine di evitare che il sistema venga messo a repentaglio da “bracconieri” che andando in pensione troppo presto (nella speranza che anche ove si esaurisse la pensione basata sul montante ci sarebbe comunque un sostegno sociale).

La Yale Law School ha in corso di pubblicazione un volume che tratta i problemi della terza età , dal titolo “New Deal for Old Age”. I singoli capitoli vengono pubblicati in via telematica, prima di essere finalizzati, come “Yale Law School Public Law Reserch Paper”. Il numero 566 di questi Paper è un saggio di Anne Alstott (luminare di diritto pubblico di Yale) proprio su questo tema.  

Anne Alstott parte dalla premessa che un coro di economisti e giuristi americani chiede una revisione al rialzo dell’età per poter percepite la Social Security, pilastro di base del sistema previdenziale federale americano (spesso i pensioni americani contano su tre pilastri: una pensione “professionale” derivante dalla contrazione ed una frutto di fondi pensioni privati). Attualmente l’età per accedere alla Social Security è 66 anni. Tuttavia, a questo coro si contrappongono, a mò di contrappunto, voci  secondo le quali, alzare i requisiti di accesso, pur avvantaggiando i giovani, penalizza i poveri e coloro che vengono espulsi dal mercato del lavoro prima di raggiungere la vecchiaia. Tra l’altro, i poveri, coloro che guadagnano poco e gli espulsi hanno statisticamente un’aspettativa di inferiore a quella di coloro che hanno redditi medio-alti. Quindi si pone un problema di fondo di politica previdenziale: come giungere ad un equilibrio tra equità intergenerazionale ed equità infragenerazionale.

Anne Alsott sottolinea che l’età è una “categoria contingente” il cui significato fisico e sociale varia. Invece di “partire dall’età” occorre esaminare in profondità gli obiettivi della politica previdenziale. Il saggio mostra come sia, tecnicamente e politicamente, possibile mantenere la possibilità di andare in pensione relativamente presto per i lavoratori che ne hanno effettiva esigenza e, al tempo stesso, mettere in atto un sistema di incentivi per i lavoratori che vogliono e possono lavorare di ritardare l’età in cui cominciare a percepire la Social Security.

È una lettura da cui si traggono lezioni anche per temi su cui sta tribolando l’Italia.

*Presidente del board scientifico di ImpresaLavoro

La partita Italia-Ue sulla crisi delle Banche

La partita Italia-Ue sulla crisi delle Banche

di Giuseppe Pennisi – Formiche

La crisi di alcuni istituti di credito italiani (grandi e piccoli) è sparita da circa una settimana dalle prime pagine dei giornali. Ad esempio, su Il Sole-24 Ore del 17 luglio solo una (quasi invisibile) breve a p. 17 riportava un comunicato dell’ufficio dell’alto rappresentate per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, Federica Mogherini, secondo cui ‘il Governo italiano e le autorità europee stanno lavorando positivamente’. Comunicato poco utile perché era da supporsi che le parti in causa stessero lavorando e da auspicarsi che stessero operando ‘positivamente’ verso un accordo.
In effetti, è in corso un negoziato la cui conclusione è tecnicamente semplice, sotto il profilo giuridico (basterebbe un’interpretazione estensiva per un periodo determinato – ad esempio sino al termine del 2016 – per l’applicazione di alcune regole delle direttiva sui dissesti bancari), ma politicamente molto difficile.

In primo luogo, il Governo italiano è stato oggettivamente indebolito dai risultati delle elezione amministrative, è alle prese con la riapertura del dibattito sulla legge elettorale, sta perdendo quota nei sondaggi di un referendum per il quale non è stata ancora stabilita una data ed ha la necessità di giungere ad un accordo ‘bancario’ con l’Ue nel più breve tempo possibile. Tanto il Governo italiano quanto quelli del resto dell’Ue e la stessa Commissione europea (Ce) sanno che le famiglie italiane hanno nei loro portafogli 200 miliardi di euro che, in mancanza di soluzione positiva dei negoziati con l’Ue, verrebbero triturati dal bail in, rendendo ancora più forti le opposizioni all’attuale Esecutivo.

In secondo luogo, la Ce vorrebbe dare una mano al Governo italiano (anche perché non vede alternative all’orizzonte) ma perderebbe di brutto la faccia (dopo la ha già persa giù un paio di volte negli ultimi mesi) se regole appena introdotte con la ratifica di tutte le parti in causa venissero applicate in modo lasco alla loro prima prova per favorire uno ‘degli Stati fondatori’ subito dopo la Brexit.

In terzo luogo – come spiega bene David Schäfer della London School of Economics nel saggio pubblicato nell’ultimo fascicolo del Journal of Common Market Studies – ‘unione bancaria’ si basa sull’’ordoliberalismo’ (il liberalismo delle regole) proprio con il fine (più volte ribadito da Berlino) ‘di rompere il circolo vizioso tra Stati e sistema bancario’. Poco importa se in passato i Länder della Confederazione – non le autorità federali- siano intervenute in aiuto di casse di risparmio e di banche di cui i Länder sono azionisti di riferimento: è un problema di ciascun singolo Land non del Governo federale. Per tale motivo si tratta di istituti non soggetti alla vigilanza della Banca centrale europea ed in gran misura al di fuori dell’unione bancaria.

In quarto luogo, nonostante la buona volontà ai piani alti della Ce e nonostante la disponibilità della Germania a stendere una mano pietosa all’Italia, siamo alla prese con un accordo inter-governativo in cui , salvo fare un ricorso alla Corte di Giustizia Europea (ed avere una sentenza definitiva tra tre-cinque anni), pesa anche il parere degli altri firmatari. Non pochi di loro leggendo i rapporti dalle loro ambasciate a Roma, oppure i giornali italiani ed alcuni quotidiani internazionali, non hanno fiducia in un Governo ed in Parlamento che alla firma ed alla ratifica del trattato di Maastricht si sono impegnati a portare il rapporto debito pubblico: Pil dal 105% al 60% entro un tempo ragionevole e venticinque anni dopo supera il 130% . Un debito pubblico molto elevato in rapporto al prodotto nazionale lordo – è noto- è un nemico della stabilità finanziaria , elemento essenziale per un buon funzionamento del sistema bancario. Infine, non pochi Stati del club dell’unione bancaria, notano che i flebili segni di ripresa in Italia si sono smorzati e si chiedono come possa il sistema bancario riprendere a funzionare bene in un’economia che ristagna o scivola in stagflazione.

Olimpiadi 2024 a Roma: serve una (seria) analisi costi-benefici

Olimpiadi 2024 a Roma: serve una (seria) analisi costi-benefici

di Giuseppe Pennisi

Non sta certo a me esprimere un’opinione sul dibattito relativo alle possibili Olimpiadi del 2024 a Roma. Da economista, però, ritengo di avere il dovere etico di ricordare che da decenni si fanno analisi economiche sulla base di solidi numeri per quantizzare costi e ricavi, delineare strategie vincenti, mettere in guardia da tattiche perdenti.

Ad esempio, l’Università di Amburgo ha esaminato (in uno studio pubblicato su Hamburg Contemporary Economic Discussions) 48 candidature nell’arco di tempo tra il 1992 e il 2012 e costruito un modello che tiene conto della logistica, della situazione climatica, e del tasso di disoccupazione. Una conclusione importante è che il parco infrastrutturale, i trasporti pubblici e la nettezza urbana devono essere eccellenti. Questo non il caso di Roma.

Le Olimpiadi, comunque, non sono affatto “un affare” in termini di ricavi finanziari (giustapposti ai costi finanziari) per la città, o le città, che le ospitano. Tre economisti greci hanno condotto una valutazione ex-post delle Olimpiadi di Atene del 2004 (è pubblicata sulla rivista Applied Financial Economics, Vo. 18 n. 19 del 2008); finanziariamente, hanno guadagnato solo gli sponsor, le azioni delle cui imprese hanno avuto una rapida ma breve impennata quando la capitale greca è stata scelta – quindi, un effetto annuncio. Di recente, economisti greci hanno individuato nelle Olimpiadi del 2004 una delle determinanti dell’impennata del debito pubblico greco.

Interessante una dettagliata valutazione dei giochi invernali: i costi superano i benefici, anche senza contabilizzare le spese per le infrastrutture (perché permanenti e non connesse solo all’evento) e quantizzando “l’orgoglio della città e della Provincia” di ospitare le gare. In effetti, stime analitiche dei probabili flussi turistici sono modeste (ed i costi associati al turismo olimpico superano i ricavi) come peraltro già rilevato in occasione di altre Olimpiadi, ad esempio quelle tenute nel 1996 ad Atlanta in Georgia).

Uno dei lavori sugli esiti economici non brillanti delle Olimpiadi di Atlanta è intitolato: “Perché gareggiare per essere sede di Giochi?”. La risposta viene data da due saggi relativi uno alle Olimpiadi di Pechino del 2008 (pubblicato nello Sports Lawyer Journal) e l’altro alla Coppa del Mondo giocata in Germania nel 2006 (CESifo Working Paper No. 2582). I costi per la collettività vengono in questi casi superati, anche di molto, dai benefici per la collettività perché l’evento riguarda l’intera Nazione e contribuisce al “Nation Building”.

Si potrebbe dire che le Olimpiadi di Roma del 1960 contrassegnarono la ripresa dopo una lunga fase di guerre. Dimentichiamo che allora il Pil dell’Italia cresceva del 5-6% l’anno, il debito pubblico era un terzo del debito nazionale e il tasso di disoccupazione si avvicinava al 3% toccato nel 1963. Si dovrebbe anche ricordare che Ferenc Janossy (uno dei maggiori economisti, in un lavoro del 1971 (tradotto in tedesco) giudicò le Olimpiadi del 1960 (e le spese improduttive ad esse connesse) come un segno della fine del miracolo economico.

Ho la mente aperta: la proposta di tenere olimpiadi a Roma nel 2024 dovrebbe essere corredata da un’analisi costi-benefici dinamica secondo il metodo Dixit-Pindyck, insegnato per anni alla Scuola Nazionale d’Amministrazione e di cui tanto il Ministero dell’Economia e Finanza quanto il Ministero dello Sviluppo Economico hanno dimestichezza, al fine di uscire da monologhi alterni e di valutare con un metodo solido che impone analisi anche esse solide.

Dopo la Brexit e verso la Legge di Bilancio: quale Spending Review?

Dopo la Brexit e verso la Legge di Bilancio: quale Spending Review?

L’Associazione BuonaCultura e il Centro Studi ImpresaLavoro invitano al Convegno

DOPO LA BREXIT E VERSO LA LEGGE DI BILANCIO: QUALE SPENDING REVIEW?

Sulle linee del libro di Giuseppe Pennisi e Stefano Maiolo
La Buona spesa – Dalle opere pubbliche alla spending review

Giovedì 14 luglio 2016 – ore 18:00
CHORUS CAFE’ – Auditorium Conciliazione
Via della Conciliazione, 4 – ROMA

Introducono
Valerio Toniolo, Presidente Associazione Buonacultura
Simone Bressan, Direttore Centro Studi ImpresaLavoro

Intervengono
Giuseppe De Rita, Presidente Fondazione Censis
Michel Del Buono, Banca Mondiale, Nazioni Unite
Vincenzo Russo, Università di Roma La Sapienza
Salvatore Zecchini, Presidente Comitato Ocse Pmi

Concludono
Giuseppe Pennisi, Cnel, ImpresaLavoro
Stefano Maiolo, Nucleo di Valutazione Regione Lazio

R.S.V.P.
info.buonacultura@gmail.com
info@impresalavoro.org