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Così facciamo morire le nostre imprese

Così facciamo morire le nostre imprese

Nicola Porro – Il Giornale

L’ultimo caso è certamente quello più clamoroso. Perché riguarda l’Eni, una delle poche multinazionali italiane. Per di più coinvolge il suo attuale numero uno e il predecessore. Insomma il top delle aziende italiane, con il top dei suoi vertici. La vicenda è nota. La Procura di Milano indaga su presunte tangenti che sarebbero state pagate al governo nigeriano per l’esplorazione di un nuovo pozzo. Un caso simile ha riguardato nei mesi scorsi un altro big della manifattura, parapubblica: Finmeccanica. In quel caso fu addirittura arrestato il vertice operativo dell’azienda e aperta una pericolosa, per Finmecca, procedura che avrebbe potuto portare anche al suo commissariamento. L’ipotesi di reato anche in questo caso era la corruzione internazionale. La terza reginetta delle nostre imprese ex monopoliste, e cioè l’Enel, ha una lunga serie di problemi giudiziari legati all’inquinamento che sta coinvolgendo anche i vertici. I suoi ex amministratori sono stati condannati in primo grado a tre anni di carcere.

Le cose non è che vadano molto meglio nel campo privato, anche se, tranne casi clamorosi, si crea minore clamore. Basti pensare all’Ilva, una delle più grandi aziende siderurgiche d’Europa e una delle poche in Italia a reggere la concorrenza, fatta fuori per via giudiziaria. Senza uno straccio di sentenza definitiva. Alla Fiat, dove con l’arrivo di Marchionne hanno deciso di farsi solo gli affari loro, stanno scappando dall’Italia. Solo la Cgil-Fiom l’ha portata davanti al Tribunale del lavoro per un centinaio di cause, i cui esiti sono differenti l’uno dall’altro. Telecom è, grazie al cielo, fuori da questo tourbillon giudiziario (l’incredibile caso con Scaglia si è chiuso solo pochi mesi fa). Ma in compenso il governo e la politica non hanno alcuna intenzione di perdere la presa. Basti pensare alla separazione della rete: un fiume carsico che all’occorrenza esce dal sottosuolo.

Cosa vogliamo dimostrare con questa superficiale e incompleta lista dei guai giudiziari e degli interessi politici sulla nostra corporate Italia? Una cosa semplice. Se nel passato la cultura anti industriale e anti impresa emergeva alla luce del sole, era ideologica, legittima, manifesta e organizzata, oggi tutto ciò esiste ancora, ma è più subdolo. Non c’è più nessuno che apertamente ce l’abbia con l’Eni, ma sono in molti che a casa nostra godono delle sue disgrazie. Oggi Renzi difende i vertici del Cane a sei zampe, ma ieri pretendeva che si inserisse una norma nel suo statuto che decapitava i vertici al solo iniziare di un’indagine. Per fortuna che l’assemblea non l’ha votata contro il parere del governo.

Si dice sempre che in Italia non sarebbe mai potuta nascere la Apple perché la Asl avrebbe fatto chiudere il garage dove fu inventata. La verità è che oggi in Italia non potrebbe nascere neanche l’Eni di Mattei. All’epoca c’era un impasto fatto di politica, media, sindacati e istituzioni che si sentiva classe dirigente e che aveva un progetto per il Paese. E lo difendeva ad ogni costo. Oggi siamo vittime dell’ultimo interesse legittimo e schiavi di ogni ordine costituito. Non c’è un potere, ma piccoli poteri intoccabili. A parole diciamo tutti che vogliamo la ripresa, più Pil e più occupazione. Ma poi soccombiamo a quella sottocultura anti industriale per cui ripresa, Pil e occupazione si possono fare solo per decreto e grazie all’intervento dei funzionari pubblici.

Esageriamo? Ma per carità. Il virus della norma e dell’intervento pubblico e sanzionatorio è ormai diffuso a tutti i livelli. A parte la coraggiosa direttrice generale, Marcella Panucci, la Confindustria, che dovrebbe rappresentare le imprese, soprattutto quelle più grandi, ha paura anche della sua ombra. Nessuno (a parte la solita Panucci) ha fiatato sull’allucinante e pervasivo potere di commissariamento che ha in mano il pm Cantone con la sua Authority anticorruzione. Roba da socialismo reale. E chi ha il coraggio di dire che l’inasprimento del reato di falso in bilancio, che si sta studiando in queste ore, è una follia; che l’autoriciclaggio è invenzione rischiosa per i privati. Chi ha il buon senso di dire che aver reso penalmente rilevante la sola ipotesi di evasione (o elusione, o abuso di diritto) di imposta superiore a 50mila euro in un Paese con la nostra giustizia, vuol dire consegnarsi mani e piedi alla burocrazia fiscale?

Sì sì cari vertici industriali: continuate a parlare di legalità nei vostri convegni. Fate delle belle agenzie di stampa con la vostra indignazione per l’evasione fiscale. Scappate come dei conigli davanti a Finmeccanica o Eni indagate e prima di loro davanti alla Fastweb di Scaglia. Alimentate la vostra invidia verso quel brusco (e sicuramente spregiudicato, pace all’anima sua) Capitano di impresa che era Emilio Riva. E non capite che siamo tutti sulla stessa barca. Fa acqua da tutte le parti. E voi state lì a dettare il regolamento, le norme e le eventuali sanzioni su come evacuarla in caso di falla. Che è già grande come una voragine.

New Deal da mille miliardi, vendiamo l’oro dell’Europa

New Deal da mille miliardi, vendiamo l’oro dell’Europa

Renato Brunetta – Il Giornale

È vero. Il problema della bassa crescita economica non è solo italiano, ma di tutta l’area dell’euro. Si crescerà, in media, nei prossimi dieci anni, non più dell’1% (se va bene). La metà, o meno della metà, di quanto cresceranno, invece, gli Stati Uniti. E questa bassa crescita deriva da due fattori fondamentali: il basso livello di investimenti in Europa (si pensi solo alla bassa dotazione infrastrutturale storica dell’intera area) e l’ulteriore caduta degli ultimi 7 anni, quelli della crisi: -20% (di un livello, abbiamo detto, già troppo basso in partenza).

Non è un caso se la Commissione europea e il Fondo Monetario Internazionale continuano a richiamare la Germania con riferimento al suo eccessivo surplus delle partite correnti, auspicando, per rientrare nei parametri europei, un aumento degli investimenti pubblici in infrastrutture e servizi. I benefici si allargherebbero a tutto il sistema economico europeo. Ma se ancora oggi la Germania non spende in casa propria, nonostante un rapporto deficit/Pil praticamente pari a zero, come potevamo pretendere che la politica economica europea degli anni della crisi, germanocentrica, fosse orientata agli investimenti? I risultati del dogma del rigore fine a se stesso e dell’austerità a tutti i costi, che si è tradotto in sangue, sudore e lacrime per gli Stati dell’eurozona, si sono visti. E il cambiamento di rotta è oggi più che mai necessario.

Il combinato disposto del basso livello infrastrutturale storico e l’ulteriore caduta degli anni della crisi ha ridotto la competitività dell’area euro. Per questo l’Europa deve uscire in maniera strutturale dalla crisi non solo con la politica monetaria, non solo con le riforme ma anche e soprattutto lanciando il suo New deal.

Obiezione scontata: dove si trovano le risorse per tutti gli investimenti necessari per colmare il gap infrastrutturale europeo? Risposta: attraverso l’emissione di Project bond garantiti dalla Banca Europea degli Investimenti (Bei). Oppure facendo ricorso, con tutte le cautele del caso, a quella quota delle riserve auree delle banche centrali nazionali eccedente rispetto agli obblighi di copertura dell’euro. Oppure ancora, attraverso una riconversione del Fondo salva-Stati, quell’orribile mastodonte che oggi, contrariamente alle ragioni per cui è stato creato, utilizza le risorse versate dai paesi dell’area euro (con conseguente aumento dei relativi debiti pubblici) per acquistare titoli del debito sovrano di Stati con rating AAA, come i Bund tedeschi, che hanno rendimento pari a zero.

Per non trovarsi isolato in Europa e per non fallire nel suo semestre di presidenza dell’Unione, Renzi rilanci. Vada oltre la proposta Juncker di 300 miliardi, e presenti un piano europeo di misure concrete che triplichi gli importi del presidente della Commissione europea, fino a 1.000 miliardi. Un piano finalizzato a una maggiore integrazione del mercato interno, in particolare nel settore dei servizi; a migliorare la regolazione e la normativa comunitaria; a costruire nuove infrastrutture; a migliorare I piani di approvvigionamento energetico; a dare impulso agli investimenti in ricerca e sviluppo, innovazione, capitale umano.

Come fare? Innanzitutto si dovrebbe sfruttare meglio la Banca Europea per gli Investimenti (Bei) e la sua capacità di assunzione di rischio, mediante lo Strumento di Finanziamento Strutturato (Sfs), che eroga prestiti, e/o altri strumenti come la cartolarizzazione. Si potrebbe pensare anche a un moltiplicatore della capacità di intervento della Bei, prendendo come riferimento il modello previsto per le operazioni di finanziamento della stessa Banca Europea per gli Investimenti nei paesi extra-Ue: in concreto si tratta di un fondo di garanzia capitalizzato per una certa quota del totale degli impegni (circa il 9%) che genera un moltiplicatore di 11 a 1 sulle operazioni in questione.

La quota capitale da inserire nel fondo di garanzia varierebbe in relazione al rischio legato al settore d’intervento. In caso di operazioni a rischio limitato (es. infrastrutture ad alto potenziale di redditività), l’effetto moltiplicatore sarebbe ancora maggiore: con il 3% di capitalizzazione si può garantire il 100% dei finanziamenti. Capitalizzazione da attuare con una semplice redistribuzione interna nel bilancio dell’Unione o con fondi devoluti dagli Stati membri (da stabilirsi sulla base degli stessi parametri di contribuzione al bilancio Ue), che non rientrerebbero nel computo del 3% del rapporto deficit/Pil.

L’Unione potrebbe ricorrere essa stessa all’emissione di un debito mirato. Il servizio di questo debito, poi, verrebbe finanziato da appositi capitoli di spesa del bilancio Ue, e il suo status in qualche modo negoziato con le agenzie di rating, in modo da mantenere un solido rating AAA per le emissioni. Non è una cosa del tutto nuova: il cosiddetto “Sportello Ortoli”, della fine degli anni Settanta, prevedeva proprio la raccolta di fondi da parte dell’Unione, per destinarli a iniziative specifiche. In alternativa, il fondo di garanzia potrebbe anche essere capitalizzato facendo ricorso, con tutte le cautele del caso, a quella quota delle riserve auree delle banche centrali nazionali eccedente rispetto agli obblighi di copertura dell’euro. Le quote dovrebbero essere considerate trasferimenti a fondo perduto, con la possibilità per la Bce (che sarebbe la custode delle quote trasferite) di vendere il metallo per finanziare le eventuali perdite sulle garanzie (le riserve auree sono infruttifere, mentre il sistema di garanzie del fondo può dover fare fronte a perdite). Last but not least: impiegare, per finanziare investimenti in infrastrutture, la liquidità di fatto ora bloccata nel Fondo salva-Stati. Quanto, infine, ai capitali privati, essi possono dare un impulso considerevole al potenziale di crescita dell’Europa. Ma la realizzazione di partenariati tra soggetti pubblici e privati (o di altre forme di cooperazione tra pubblico e privato) richiede un impegno finanziario certo da parte degli investitori istituzionali.

Il combinato disposto di tutti questi strumenti potrebbe consentire, in un quinquennio/decennio, 1.000 miliardi di investimenti freschi. Risorse nuove. Più di 3 volte l’ammontare del piano su cui sta lavorando il presidente Juncker, e che potrebbe rivelarsi l’ennesima delusione di istituzioni comunitarie poco coraggiose, in quanto mera ridestinazione di fondi già esistenti nel bilancio europeo. Mille miliardi che avrebbero un grande impatto non solo sul Pil dell’Unione, ma sulla competitività strutturale dell’Europa. Non si tratterebbe, infatti, di un moltiplicatore keynesiano di breve periodo, ma di un acceleratore di impatto sul medio-lungo termine. Ne deriva una miscela ottimale, se al New deal europeo da 1.000 miliardi di euro si unisce la politica espansiva della Banca centrale europea e un piano sorvegliato e coordinato di riforme strutturali in tutti i paesi dell’eurozona. Una grande strategia di lungo periodo (5-10 anni), finalizzata alla modernizzazione dell’Unione. Modernizzazione da fare attraverso le reti, materiali e immateriali: infrastrutture, telecomunicazioni, energia, sicurezza, ricerca scientifica, capitale umano.

È questa la proposta che l’Italia deve fare all’Europa. È questo che, probabilmente, l’Europa, delusa dai primi 200 giorni di governo, si aspetta da Matteo Renzi. Per il presidente del Consiglio italiano, una prova di sopravvivenza. Ma, se vorrà seguire i nostri consigli, una prova facile. L’Italia si è storicamente modernizzata grazie al vincolo esterno, come lo chiamava Guido Carli. Rispetto al dibattito attuale: altro che commissariamento. Meglio Juncker che Landini…

Riforma del lavoro e addio Irap, solo così il Paese può ripartire

Riforma del lavoro e addio Irap, solo così il Paese può ripartire

Francesco Forte – Il Giornale

In luglio la produzione industriale italiana ha avuto un calo dell’1% sul giugno e un calo dell’1,6% sul luglio 2013 che ha portato a zero la sua crescita per i primi 7 mesi del 2014. Ora si teme che il terzo trimestre possa avere ancora segno negativo e che il Pil 2014 abbia la crescita zero. Gli 80 euro in busta paga, che hanno dato ai lavoratori a basso reddito un miglioramento piccolo in sé ma per loro significativo, non sono serviti a dare una scossa al Pil. Altri sono i fattori che servono. Pesa la persistente crisi dell’edilizia, privata dovuta alle troppe tasse e di quella pubblica dovuta ai troppi vincoli. E pesa l’inadeguata performance delle nostre imprese nel commercio estero, dovuta sia alle tropo tasse sul lavoro e sia alla rigidità dei contratti di lavoro, aggravata dalle sanzioni alla Russia e dai problemi nel Medio Oriente. Infine c’è una carenza di investimenti delle industrie, dovuta alla loro scarsa convenienza.

Le nostre imprese sono oberate da una fiscalità eccessiva, che riguarda soprattutto il costo del lavoro tramite l’anomalia dell’Irap, un’imposta diretta che colpisce con una aliquota fra il 4 e il 5% il costo del lavoro al lordo dei contributi sociali con un gravame sulle retribuzioni lorde di circa il 6%. Con questo aggravio la tassazione dei profitti che con l’imposta sulle società (inclusi gli interessi passivi tassabili) si aggira sul 32%, raddoppia. E arriva al 70% nelle imprese ad alta intensità di lavoro. Dunque occorre agire sull’Irap con una riduzione che la azzeri, in tre anni, per imprese e lavoro autonomo. Servono 16-17 miliardi (l’operazione 80 euro è costata 8 miliardi).

L’analisi dei dati sulla produzione industriale a luglio 2014 fa capire che le tasse eccessive hanno una grossa colpa del brutto risultato netto. L’industria estrattiva, che riguarda soprattutto i materiali per l’edilizia, ha avuto una diminuzione del 7,8%. La fabbricazione di apparecchiature elettriche e di quelle per uso domestico non elettriche, due altri settori importanti nell’edilizia, è scesa addirittura del 13,9%. Sono andate male anche l’industria del legno (-3,0) e quella tessile e dell’abbigliamento e della pelle e accessori (-5,9%). Per la prima c’è, come spiegazione, la flessione della domanda interna connessa alla crisi edilizia e di quella estera per i mobili made in Italy; per la seconda gioca negativamente la riduzione di competitività della nostra produzione. Sono scese del 2,1 % la metallurgia e del 2,8% la produzione di macchinari e attrezzature, in espansione le produzioni elettroniche (+4,8%), quelle di farmaceutici (+3,0), di mezzi di trasporto (+2,9) e di prodotti chimici (+0,5). Gran parte di questi settori che vanno bene sono ad alto contenuto tecnologico e a bassa intensità di lavoro. Fa eccezione l’industria dell’auto, che è in espansione perché funziona la terapia Marchionne di contratti di lavoro aziendali di produttività e di innovazione organizzativa.

Per trovare la copertura per il taglio dell’Irap, bisogna operare sulla spesa. Dal blog del commissario Carlo Cottarelli rilevo che per l’acquisto di beni e servizi le pubbliche amministrazioni pagano prezzi spesso superiori a quelli praticati dalla Consip, la società che li dovrebbe gestire, a cui esse non si rivolgono, usando abili espedienti. Ci sono 2.671 società partecipate dai Comuni che hanno solo amministratori e zero addetti o meno addetti che amministratori. Il consumo per abitante per illuminazione pubblica dei nostri comuni è più che doppio di quello tedesco e inglese. Così dal satellite risulta che l’Italia è, di notte, la parte più luminosa del pianeta.  

Ecco perché non è follia dare i soldi Bce alla gente

Ecco perché non è follia dare i soldi Bce alla gente

Giampaolo Rossi – Il Giornale

La moneta al popolo! Detta così, sembra una frase da aizza-folla, da Masaniello degli anni 2000, eppure è un’idea che circola con sempre maggiore frequenza tra gli economisti. L’idea è questa: stampare denaro in grande quantità e darlo direttamente al popolo (cioè ai cittadini, ai consumatori) senza passare per la mediazione delle banche; probabilmente è l’unica maniera affinché il denaro entri direttamente nell’economia reale rivitalizzando produzione e consumi.

Il meccanismo attuale prevede che le Banche centrali (Fed o Bce che siano) immettano denaro nel sistema dandolo alle banche private a tassi irrisori (più vicini allo zero) e affidandosi poi al fatto che siano le banche stesse ad alimentare la politica di credito. Un meccanismo che non funziona: il denaro ricevuto le banche se lo tengono stretto per coprire i loro bilanci disastrati e reintegrare i loro attivi. La tranche di liquidità che nel dicembre del 2011 la Bce iniettò nel mercato portò nei conti delle banche italiane circa 60 miliardi netti ad un tasso dell’1%. A gennaio 2012 le stesse banche acquistarono circa 69 miliardi tra Btp (ad un rendimento medio del 3,5%) e obbligazioni bancarie; a imprese e famiglie non andò nulla. Stessa cosa avvenne con la successiva operazione da 80 miliardi.

Anatole Kaletsky, economista della scuderia di George Soros, ha spiegato che se la grande quantità di denaro creato dalle banche centrali fosse andato ai cittadini sarebbe equivalente a 6.000 dollari a testa per ogni uomo, donna e bambino Usa e 6.500 sterline per ogni inglese». Conti alla mano, se gli oltre 1.000 miliardi di euro che Draghi stampò nel 2012 attraverso le due operazioni Ltro della Bce fossero stati dati direttamente a noi, ogni cittadino europeo si sarebbe messo in tasca più di 3mila euro: una famiglia francese, italiana o spagnola di quattro persone, avrebbe avuto a disposizione 12mila euro per rilanciare i consumi, investire o anche solo ridurre la propria esposizione debitoria (altro che gli 80 euro di Renzi ai suoi elettori).

L’idea percorre la storia dell’economia da decenni: già Milton Friedman, premio Nobel per l’Economia, suggeriva di prendere un elicottero e di lanciare banconote alla popolazione per stimolare le fasi di crisi. Nel 1998, Ben Bernake, allora non ancora presidente Fed ma solo professore universitario, sollecitò la Banca Centrale del Giappone a dare contanti direttamente alle famiglie per affrontare la crisi.

Recentemente su Foreign Affairs , una delle più importanti riviste di analisi internazionale, gli economisti Mark Blyth e Eric Lonergan hanno rilanciato l’idea: «non serve pompare migliaia di miliardi di dollari di nuovo denaro nel sistema finanziario», generando «un ciclo dannoso di boom e crisi, deformando gli incentivi e distorcendo i prezzi delle attività» ma occorre pensare a qualcosa di «simile ai soldi lanciati dall’elicottero di Friedman». Una soluzione che «nel breve termine, potrebbe far ripartire l’economia; nel lungo termine, ridurre la dipendenza della crescita dal sistema bancario». Insomma, «la moneta al popolo» non è più accolta come una suggestione bizzarra.

Perché fino ad oggi nessuno ha mai avuto il coraggio di rivendicarla? Per due ragioni, una tecnica ed una politica. Quella tecnica attiene alla paura di rischi inflazionistici; problema inesistente in una fase in cui l’economia mondiale scivola verso la deflazione. Stampare denaro, poi, e darlo direttamente ai cittadini significa ridurre il potere delle potentissime lobby bancarie. Questo, forse, è l’ostacolo maggiore perché potrebbe sdoganare ciò che per le oligarchie tecno-finanziarie è un tabù: la «proprietà popolare» della moneta fa passare il principio che il denaro, al momento della sua emissione, non appartiene ai banchieri ma ai cittadini. Una vera rivoluzione.

La burocrazia rallenta i pagamenti alle imprese

La burocrazia rallenta i pagamenti alle imprese

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

Una promessa mantenuta. Alla maniera di Renzi, però. La certificazione telematica dei crediti vantati dalle imprese nei confronti della pubblica amministrazione in modo da accelerarne lo smobilizzo è uno dei pochi impegni rispettati dal presidente del Consiglio. Tuttavia, i risultati dell’iniziativa, finora, sono modesti. Secondo il Tesoro, a fine luglio erano infatti stati saldati 26 miliardi di euro di debiti pregressi al 31 dicembre 2013, mentre gli stanziamenti attuali ammontano a circa 31 miliardi, più o meno la metà di quanto resta ancora da pagare.

Lo strumento telematico dovrebbe, in teoria, consentire di velocizzare la procedura. Ma, purtroppo, siamo in Italia e la velocità è un concetto relativo. Ecco perché, all’8 settembre, risultavano presentate istanze di certificazione per soli 6 miliardi, dei quali solo 3 sono stati realmente certificati. Non si può parlare di flop perché l’iniziativa è partita il 21 luglio e i termini, inizialmente fissati al 31 agosto, sono stati prorogati al 31 ottobre. Se si prendessero sempre per oro colato le parole del premier («Tutti i debiti saranno pagati entro il 21 settembre, giorno di San Matteo»), non si potrebbe fare a meno di evidenziare la scarsa incisività del provvedimento.

Sulla carta, è tutto molto facile. Alle imprese (dalle persone fisiche alle società di capitali) basta registrarsi sul sito certificazionecrediti.mef.gov.it e aprire un account come si fa per la posta elettronica o per un social network. Poi si passa all’inserimento delle fatture che può essere manuale (digitando i dati delle singole ricevute) oppure telematico (sia tramite file precompilati sia con le fatture elettroniche per le società che già le utilizzano). Le amministrazioni hanno 30 giorni di tempo per dare una risposta e riconoscere che il credito sia certo ed esigibile. Una volta ottenuta la risposta, le imprese hanno dinanzi a sé due strade: aspettare il pagamento oppure recarsi presso una banca per ottenere una cessione pro soluto a tassi agevolati (1 ,9% fino a 50mila euro, 1,6% oltre i 50mila). Grazie a un accordo che coinvolge Tesoro, Cassa depositi e Associazione bancaria italiana, gli istituti scontano le fatture (per 100mila euro ne riconoscono 98.400) rivalendosi poi sulla Pa.

Perché si sono registrate solo 56mila richieste? Un po’ per la pausa estiva. Un po’ perché la burocrazia la fa da padrona anche qui. Le amministrazioni, infatti, tendono a prendersi un po’ più dei 30 giorni loro concessi e non sempre rispondono positivamente (va ricordato che non si possono certificare crediti classificabili come spese in conto capitale). E anche se le imprese possono chiedere la nomina di un commissario ad acta, non sempre tutti vogliono o possono infilarsi nei meandri del contenzioso. In secondo luogo, nonostante questi crediti siano garantiti dallo Stato con gli stanziamenti e tramite Cdp, le banche tendono a valutare molto minuziosamente ogni pratica di sconto fatture. Ecco perché Confindustria ha chiesto al governo di «monitorare il meccanismo di cessione al sistema finanziario e di stanziare nuove risorse per lo smaltimento integrale dei debiti». Idem Confcooperative: «Meglio il 98,4% che nulla», dice il presidente Maurizio Gardini, consapevole che «la pesante situazione iniziale» porta necessariamente rallentamenti. Il vero problema ora sono i debiti del 2014: la normativa europea (limite di 60 giorni) non viene ancora rispettata. L’ultima ciambella di salvataggio può essere rappresentata dalla prossima pubblicazione del decreto per la compensazione delle cartelle esattoriali con i crediti verso la Pa. Le aziende lo aspettano da 4 mesi, ma forse questa è la volta buona…

La finta spending review: i tagli scendono già al 2%

La finta spending review: i tagli scendono già al 2%

Antonio Signorini – Il Giornale

L’asticella dei risparmi è ufficialmente fissata al 3%, ma potrebbe scendere al 2%. I ministri dovranno indicare a Palazzo Chigi quali capitoli di spesa tagliare e se non lo faranno, scatteranno riduzioni automatiche alle dotazioni finanziarie. Nessuno sarà escluso, nemmeno il ministero della Sanità per il quale si prospetta un taglio, come minimo di tre miliardi. Il premier Matteo Renzi ieri ha cercato di fare passare il messaggio che la spending review nuova versione sarà «soft». Ma quelli che si prospettano in vista della prossima legge di Stabilità sono dei tagli lineari classici, con un margine di decisione in più per i dicasteri.

Ieri Renzi, subito dopo il consiglio dei ministri che ha deciso tra le altre cose l’assunzione di 34 mila insegnanti precari – ha illustrato tutti i colleghi il piano, invitandoli a «scrivere» i rispettivi programmi di risparmi. L’obiettivo di Palazzo Chigi resta quello dei 20 miliardi, anche se dal ministero dell’Economia e anche dal commissario alla spending review Carlo Cottarelli, sono arrivate stime molto inferiori sulle riduzioni di spesa immediatamente attuabili.

Il tre per cento sì, ma solo di circa 200 milioni di spesa aggredibile. Secondo questa versione ci sarebbe una stretta praticamente solo sugli acquisti intermedi, ma Renzi vuole di più. Tra i fronti aperti, quello tra il premier e il ministro Beatrice Lorenzin, che vorrebbe limitare i tagli alle spese di funzionamento del ministero, senza toccare il servizio sanitario. «Metteremo in sicurezza i cittadini», aveva assicurato nei giorni scorsi il ministro. Ma non è detto che basti. Il budget del ministero è di 1,2 miliardi e un risparmio di 30 milioni da uno dei dicasteri più importanti non basta. Inevitabile che si cerchi di pescare dai 337 miliardi, la dotazione del fondo sanitario nazionale per i prossimi tre anni, che però sono stati concordati con il patto regioni-governo. Se venisse applicata la regola del 3%, dalla sanità potrebbero arrivare più di 10 miliardi di euro in tre anni, 3 miliardi per il solo 2015. Risorse che le regioni dovrebbero a loro volta trovare tagliando le proprie spese. Se succederà, «dovremo rivedere gli accordi. Ma a parte tutto non dimenticarci come il nostro servizio sanitario è quello che costa di meno in Europa e ha performance di alto livello», ha spiegato il coordinatore della commissione Salute delle Regioni e assessore alla Sanità del Veneto Luca Coletto.

Dalle regioni ai comuni, ieri il presidente dell’Anci Piero Fassino ha respinto al mittente uno dei capitoli del piano Cottarelli, cioè l’operazione cieli bui che punta a spegnere parte dell’illuminazione pubblica. Renzi ha assicurato ancora una volta che non ci saranno le pensioni nel piano di risparmi. Ma tra le ipotesi tecniche di risparmi portate da Cottarelli a Palazzo Chigi, c’è anche il contributo sulle pensioni più alte. Tutti argomenti tabù, che dovranno essere affrontati nei prossimi giorni, visto che il governo intende confermare il bonus degli 80 euro e agire in modo più deciso sulla tassazione che grava sul lavoro. Senza contare gli impegni sulla scuola, che ieri sono stati in parte attuati. Il consiglio dei ministri ha dato il via libera a oltre 30 mila assunzioni dei precari della scuola. Partiranno subito le assunzioni a tempo indeterminato, su posti vacanti e disponibili, di 15.439 insegnanti e 4.599 ausiliari, tecnici e amministrativi. Autorizzata anche l’assunzione di 13.342 docenti da destinare al sostegno di alunni con disabilità e 620 dirigenti scolastici. Si tratta del primo pacchetto di assunzioni, che era già avviato. Secondo gli impegni presi da Renzi nel 2015 le stabilizzazioni dovranno essere 150 mila.

Basta con le riforme inutili che hanno affossato l’Italia

Basta con le riforme inutili che hanno affossato l’Italia

Renato Brunetta – Il Giornale

Sarebbe ora di finirla con la retorica delle riforme. Se ne sono fatte, da Monti in poi, più di 40, e l’Italia non è mai stata peggio di così. Quaranta riforme, dunque, che non sono servite a nulla. Quaranta riforme per obbedire all’Europa. Quaranta riforme sotto il ricatto dei mercati, sotto lo sguardo attento e interessato dei giornaloni, dei poteri forti, delle alte istituzioni benedicenti. Quaranta riforme inutili, se non dannose. Quasi sempre controriforme.

“Negli ultimi 18 anni (1996-2013) l’unico periodo in cui l’Italia ha fatto meglio della media Ue è stato il 2009-2010”: governo Berlusconi. Lo scrive, in uno studio di febbraio 2014, scenarieconomici.it, un sito di analisi politica ed economica fondato a marzo 2013 da un gruppo di

ricercatori indipendenti, che, con riferimento a 6 indicatori di finanza pubblica-economia reale (Pil, disoccupazione, produzione industriale, inflazione, deficit, debito), ha messo a confronto le performance dell’Italia rispetto alla media Ue. Quello del senatore a vita, professor Monti è risultato il peggior governo per l’Italia. Seguito subito dopo dall’esecutivo Letta. Anche se non è nuovo, in tutti questi mesi lo studio non è stato ripreso da nessun giornale; nessun opinion maker italiano ne ha mai parlato, tranne poche citazioni del sottoscritto. Allo stesso modo, lo studio non è stato confutato da nessuno. Proprio perché le analisi ivi contenute poggiano su basi solide. Ma in contrasto con i luoghi comuni della sinistra e dei giornaloni dei poteri forti. E per questo da ignorare. Allora perché citiamo questo studio, ancorché non nuovo? Perché ci serve per fare una considerazione.

Se quello di Berlusconi del 2008-2011 è stato il miglior governo dal 1996 a oggi, vuol dire che le riforme fatte in quegli anni erano buone, con impatto positivo sull’economia; mentre le riforme dei governi che si sono succeduti dopo sono state spesso inutili, oppure sbagliate, con effetti nulli, oppure dannose, oppure rimaste inattuate (si pensi a tutti i decreti attuativi arretrati che l’esecutivo non riesce a smaltire), oppure controriforme. Se quello di Monti è stato il peggior governo, quindi, le sue sono state o riforme sbagliate o, peggio ancora, controriforme. Da Monti in poi, l’elenco è lungo: i due provvedimenti Fornero su mercato del lavoro e pensioni, che hanno prodotto, rispettivamente, un milione di disoccupati in più e una spesa per esodati superiore ai risparmi derivanti dall’aumento dell’età pensionabile; il blocco delle riforme Sacconi sulla contrattazione decentrata; il blocco della detassazione dei salari di produttività; il pasticciaccio brutto di Imu prima e Tasi poi con riferimento alla tassazione degli immobili (triplicata tra prima del 2011 e oggi), con grave penalizzazione dei proprietari di case e crisi dell’intero settore edilizio, trainante per l’economia; la controriforma della Pubblica amministrazione; il blocco del processo di digitalizzazione, con la controriforma del “super ministro” Corrado Passera; il blocco dell’applicazione del merito nella Pa e nella scuola; il blocco del processo di privatizzazione e liberalizzazione delle Public utilities, come è avvenuto con il referendum contro la liberalizzazione del settore idrico, voluto e sostenuto dalla sinistra a giugno 2011; fino all’abolizione della norma che cancellava il reato di immigrazione clandestina, con tutto quello che ciò comporta, e che vediamo ogni giorno. E l’elenco potrebbe continuare. Tutte non riforme o controriforme.

Tutte controriforme rispetto a provvedimenti che, proprio grazie al governo Berlusconi, di cui scenarieconomici.it riconosce i meriti, avevano collocato il nostro paese nel mainstream europeo e rispetto ai quali negli anni successivi sono state fatte clamorose marce indietro, a danno dello sviluppo e della crescita dell’economia e della società italiane. Non riforme o controriforme volute da governi (Monti e Letta) non eletti, figli dei poteri forti e del conservatorismo sociale, con la benedizione dell’allora presidente della Commissione europea, José Manuel Barroso, e della tuttora imperante cancelliera tedesca, Angela Merkel. Solo e sempre in chiave antiberlusconiana. Allo stesso modo, oggi Renzi governa senza aver ricevuto un diretto mandato democratico, e senza che il suo programma sia stato validato da una vittoria elettorale alle elezioni politiche. Non riforme o controriforme tutte approvate con decreto Legge, con il consenso plaudente del Colle più alto.

Che le riforme del governo Berlusconi fossero buone lo ha persino detto la Commissione europea quando, per esempio, il 24-25 giugno 2011 espresse il suo giudizio positivo sul Def e sul Piano nazionale delle riforme presentati dal governo Berlusconi, o quando espresse giudizio favorevole su tutti gli altri provvedimenti messi in campo per far fronte alla crisi nell’estate-autunno 2011, fino all’ottima valutazione anche della lettera di impegni che il governo italiano ha inviato ai presidenti di Consiglio e Commissione europea il 26 ottobre 2011, in occasione del Consiglio europeo di quel giorno, anche in risposta alla lettera che la Banca centrale europea aveva inviato al governo italiano il precedente 5 agosto.

Ma la stessa Europa che giudicava buone le riforme Berlusconi-Sacconi sul lavoro, Berlusconi-Gelmini sulla scuola, Berlusconi-Brunetta sulla Pa, Berlusconi-Romani sulle liberalizzazioni, Berlusconi-Matteoli sulle infrastrutture non poteva giudicare altrettanto buone riforme che, dopo pochi mesi, presentate via via da governi diversi, andavano nella direzione opposta. Non basta, dunque, dire riforme: occorre entrare nel merito delle stesse. Proprio per questo, Matteo Renzi dica che la sua riforma fiscale non sarà quella che vorrebbe l’ex ministro Vincenzo Visco, ma che deriverà, invece, dalla completa implementazione, nel più breve tempo possibile, noi abbiamo detto cento giorni, perché mille non li abbiamo, della delega fiscale, che porterà alla riduzione delle tasse, come fortemente voluto dal presidente della Commissione finanze della Camera, Daniele Capezzone. Renzi dica che per il mercato del lavoro non serve l’ennesima controriforma, come vorrebbe l’ex ministro Cesare Damiano, mentre occorre riprendere il processo di decentramento della contrattazione e della detassazione dei salari di produttività, come aveva cominciato a fare l’ex ministro Sacconi, i cui meriti sono stati riconosciuti anche dalla Banca centrale europea, con riferimento all’accordo del 28 giugno 2011 con le principali sigle sindacali e le associazioni industriali, che ha trovato poi la sua definitiva realizzazione nell’articolo 8 della manovra cosiddetta “di agosto” del 2011, nonché il superamento dello Statuto dei lavoratori, con particolare riferimento all’articolo 18, e la totale decontribuzione e detassazione delle nuove assunzioni.

Su questi due punti fondamentali per l’uscita dell’Italia dalla crisi deve finire l’ambiguità del presidente Renzi e le ipocrisie di Bruxelles, che saluta positivamente qualsiasi riforma venga proposta senza entrare nel merito, purché arrivi da governi proni e supini ai suoi diktat. Ma la via delle riforme deve essere tracciata dalla Germania in casa propria: l’enorme surplus delle partite correnti in quel paese fa male all’Europa intera e impedisce agli altri paesi di rispettare le regole. Per questo la reflazione in Germania, attraverso una grande riforma fiscale che aumenti la domanda interna, è il primo passo da compiere per riportare l’Eurozona a crescere. A ciò si aggiunga un grande piano di investimenti in reti tecnologiche, di telecomunicazione, infrastrutturali, di trasporto e di sicurezza. 300 miliardi di euro, quelli proposti dal presidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, che possono aumentare fino a raddoppiarsi se nel programma sarà coinvolta la Banca europea degli investimenti o si utilizzerà, solo per garanzia, l’oro eccedentario delle banche centrali nazionali. Dati i tassi di interesse al minimo storico, decisi dalla Bce di Mario Draghi giovedì scorso, il momento è straordinariamente favorevole per tutti.

New deal europeo, quindi, reflazione in Germania, riforma fiscale e del mercato del lavoro in Italia, eurobond, project bond, joint-ventures pubblico-privato. E soprattutto, basta ipocrisia o ambiguità: Renzi ha continuato la linea Monti e Letta del «decretismo» forsennato, e ne è rimasto vittima. Cambi verso. Chieda alla Germania di reflazionare, chieda che l’impianto miope ed egoista della politica economica europea, che negli anni della crisi ha distrutto l’Europa, cambi, non solo sul piano economico, ma anche su quello geopolitico. La smetta con la retorica delle riforme, un tanto al chilo, e si concentri innanzitutto su 2, semplici: fisco e mercato del lavoro. Ma nella direzione giusta. E in Europa segua il piano Draghi-Juncker: politica monetaria espansiva, riforme, investimenti e flessibilità. Ne beneficerà l’Italia, ne beneficerà l’Europa, ne beneficerà il governo, ne beneficerà Renzi. Con buona pace dei gattopardi.  

La solitudine di Renzi e le vedove inconsolabili

La solitudine di Renzi e le vedove inconsolabili

Alessandro Sallusti – Il Giornale

Ha sbagliato Matteo Renzi a non andare a Cernobbio, dove il prestigioso Studio Ambrosetti ha organizzato, come ogni anno, il suo forum internazionale con inviti iper selezionati.

Ha sbagliato perché quel paesino sulle rive del lago di Como merita davvero, è uno degli angoli più belli al mondo e i saloni che ospitano gli incontri, quelli del Grand Hotel Villa d’Este, trasudano da un secolo dei sapori della mondanità più esclusiva. Poi uno legge i resoconti di inviati e cronisti e gli viene il dubbio. Piacere della vista a parte, perché mai Renzi dovrebbe mischiarsi con quella compagnia? Prendiamo ieri. A spiegare come gira, e come dovrebbe girare il mondo c’erano, nell’ordine; Jean Claude Trichet, predecessore di Mario Draghi alla guida della Banca centrale europea, cioè l’uomo che non si era accorto che stava per scoppiare la più grave crisi economica di sempre; José Barroso, presidente uscente dell’Europa, un quinquennio di disastri politici al servizio dell’asse Merkel-Sarkozy; Mario Monti, e non aggiungo altro (basta il nome); Romano Prodi, quello che poco più di un anno fa si era imbarcato su un aereo presidente della Repubblica ed era atterrato presidente dei trombati. All’ultimo ha dato forfait Enrico Letta. Peccato. Eravamo tutti ansiosi di ascoltarlo sul tema: come governare un paese a lungo e con Alfano.

Eppure sono tutti indignati che Renzi non si è presentato ad ascoltare e omaggiare tali maestri. Tutti lo vogliono, il premier. Ieri a piangere era anche il direttore del Fatto Quotidiano, l’amico Antonio Padellaro. Un intero fondo per lamentarsi che il Matteo non sarà alla festa del Fatto che è partita a Forte dei Marmi. Sdegno rafforzato da ben due pagine fitte fitte di Marco Travaglio sulle promesse tradite o rinviate dal suddetto premier.

Manco fosse una bella donna: da Cernobbio a Forte dei Marmi è tutto un lamentìo di sedotti e abbandonati da quel mascalzone fiorentino. Mi faccio due domande. Se l’uomo sta così sulle palle perché lo invitano? Ma soprattutto: che diavolo avrà mai da dire Renzi di così interessante che qui è tutto un disastro? E comunque, se queste devono essere le compagnie, meglio la solitudine, che porta consigli più utili di quelli di Monti e Travaglio, vedove inconsolabili in un fine estate da brivido dentro e appena fuori i nostri confini.

La soluzione impossibile: unire le forze dell’ordine

La soluzione impossibile: unire le forze dell’ordine

Stefano Zurlo – Il Giornale

Sono cinque come le dita di una mano ma ciascuna va per suo conto. In Italia tutte le forze di polizia fanno di tutto e si sovrappongono in un caos inestricabile. Si potrebbe risparmiare tanto, molto e portare a casa risultati importanti, ma per ora parole magiche come razionalizzazione e coordinamento restano lettera morta. Prendiamo il mitico numero unico per le emergenze: dal 1981, più di trenta anni fa, c’è la possibilità di creare le centrali operative unificate, ma finora si è fatto poco o nulla. Più nulla che poco. C’è qualche centrale unica virtuale, all’italiana insomma, con tanto di monitor per uno scambio di saluti interforze, e poi ognuno fa il suo. In compenso l’italia paga per l’inadempienza inammissibile sul punto una sanzione alla Ue di 178mila euro al giorno. E ogni città ha le sue cinque, sei, sette centrali perché in realtà alle cinque forze statali – polizia, carabinieri, guardia di finanza, forestale e penitenziaria – occorre somare la municipale e la provinciale. Con relativo problema del riassorbimento: ora che spariranno le province dove finiranno i relativi agenti? A quanto pare ingrosseranno la Forestale.

Insomma, storia e geografia hanno creato un vero ginepraio. Un labirinto con una duplicazione spaventosa di costi. «Sette forze di polizia – spiega Gianni Tonelli, segretario generale del Sap, uno dei sindacati più rappresentativi della polizia – vuol dire sette caserme, sette uffici per la gestione degli automezzi, sette segreterie, sette caserme e via elencando. Dovremmo procedere con una parziale unificazione che non vuol dire ridurre tutto ad un corpo solo. Questo per la democrazia potrebbe essere un passo indietro, Ma la verità è che si potrebbero abbattere le spese in modo clamoroso e invece ci teniamo una divisione artificiosa che risale all’Ottocento quando nacquero i carabinieri, come polizia militare, e la polizia per l’ordine pubblico». Tonelli dà un paio di dati, sconvolgenti: «Non è vero che i nostri agenti siano pochi; no, sono tanti se non troppi, ne abbiamo uno ogni 190 abitanti, ben più degli altri Paesi europei. In Francia e Germania ce n’è uno ogni 280 abitanti, in Inghilterra addirittura uno ogni 390 abitanti. Eppure omini e risorse si sprecano e si nascondono negli uffici. La riorganizzazione dei servizi non è gradita ai vertici, agli alti papaveri, ai capi che occupano le poltrone più ambite e non vogliono cedere potere e prestigio». Le cifre sono impietose: i carabinieri sono 104mila (ma dovrebbero essere 118mila), i poliziotti 97mila, i finanzieri 68mila, le guardie penitenziarie 45mila. Fanalino di coda le guardie forestali, 7.600.

È una vecchia, vecchissima storia italiana. In Francia la polizia sta nelle città, la Gendarmeria nei villaggi. Da noi regna Arlecchino: tutti stanno dappertutto e spesso si fanno concorrenza. E poi ci sono le Fiamme gialle che fanno di tutto un po’: polizia di frontiera, polizia tributaria, polizia giudiziaria, ordine pubblico e tanto altro. Per esempio la notte della tragedia della Concordia il primo video venne girato dai militari delle Fiamme gialle. Dai tempi di Mani pulite, e dal dilagare degli arresti per corruzione delle divise infedeli, si parla di ridisegnare il corpo. Che andrebbe snellito e trasformato in un’agenzia d’élite, formata da laureati ben pagati e superspecializzati. La realtà, a tratti borbonica, è che anche su questo fronte si è perso tempo. Così il governo Renzi, che all’inizio aveva fatto sperare in qualche riforma incisiva, oggi pare ripiegare sul classico, intramontabile blocco degli stipendi. E il cambio di passo resta lontano. «Potremmo tenere due forze nazionali e una locale – conclude Tonelli – e riflettere poi sul futuro della Guardia di finanza, ma mi pare che siamo al palo». E allo sciopero dei servitori dello Stato.

Stipendi assicurati e maxi tutele, i bonus nascosti del posto statale

Stipendi assicurati e maxi tutele, i bonus nascosti del posto statale

Stefano Filippi – Il Giornale

Il governo non aumenterà gli stipendi degli statali perché non ci sono soldi. Gli statali protestano, e sarebbe stato strano il contrario. È uno scandalo nazionale, uno stato datore di lavoro che non premia i suoi dipendenti in attesa da anni di uno straccio di aumento. Le categorie del pubblico impiego, come si dice nel gergo dei sindacati, si mobilitano.Addirittura le forze dell’ordine minacciano scioperi, e questo è molto meno scontato e anche un tantino esagerato.

Tutto vero, tutto giusto. Ma i dipendenti pubblici italiani dovrebbero anche guardare che cosa succede fuori dai loro uffici. Nel mercato del lavoro non protetto dallo stato-mamma succedono cose a loro sconosciute: cassa integrazione, licenziamenti, mobilità, contratti di solidarietà, accordi integrativi ridiscussi o cancellati. Fabbriche che chiudono, professionisti che non incassano, imprenditori che attendono di essere pagati proprio da quello stesso stato tiranno. Il quale ogni mese versa lo stipendio ai dipendenti ma non ne vuol sapere di saldare i debiti con i fornitori.

Se poi gli statali vorranno guardare fuori dai confini dello Stivale, scopriranno che per i loro colleghi le cose vanno perfino peggio. Negli altri Paesi del Sud Europa il blocco delle buste paga è prassi: succede nella Francia della grandeur dimenticata, in Spagna, in Portogallo. La cancelliera Angela Merkel sta seriamente meditando di fare lo stesso con gli statali tedeschi. In Grecia sono stati costretti a fare ben di peggio. Hanno licenziato, sotto il diktat della Troika. E adesso da quelle parti si sente aria di ripresa, quella che da noi non arriva.

In Gran Bretagna ci sono andati giù pesante. Il governo di Londra negli ultimi quattro anni ha lasciato a casa 500mila dipendenti pubblici e ridotto le tasse che servivano a pagare i loro stipendi: ora viaggia a ritmi di crescita che l’Italia si sogna mentre la disoccupazione è al 6,4 per cento, cioè ai minimi dagli ultimi sei anni, e la Banca d’Inghilterra prevede che il tasso di disoccupazione scenda sotto il 6 per cento entro dicembre. Significa che la gran parte degli statali licenziati ha già trovato un altro impiego.

Da noi non funziona così. Impiegati, insegnanti, ministeriali, militari, medici e personale sanitario e via elencando hanno un posto di lavoro che, per fortuna, è ancora garantito. Hanno uno stipendio sicuro che, per esempio, permette loro di ottenere un mutuo senza essere torturati dalle banche. Hanno la tranquillità psicologica di poter pianificare qualche investimento. E la maggioranza degli statali ha beneficiato del bonus mensile di 80 euro che alla fine dell’anno fanno quasi 1.000 euro negati ad artigiani, piccoli imprenditori, professionisti, partite Iva: tutta gente alle prese con la stessa crisi che colpisce gli statali, ma evidentemente sono meno tutelati. E per quanti lo incassano, il bonus è enormemente meglio di un rinnovo contrattuale che, (fonte Sole24Ore ), varrebbe poco più di 200 euro netti all’anno.

La battaglia del pubblico impiego per una busta paga che regga il costo della vita non è priva di ragioni. Alcuni dei privilegi storici di cui gli statali godono sono avviati al tramonto e se il governo decide qualche spremuta fiscale i lavoratori dipendenti non hanno modo di sottrarsi. Poliziotti e carabinieri (ma anche le forze di sicurezza che non possono permettersi di alzare la cresta) sono costretti a operare in condizioni spesso proibitive. Ma è lecito anche interrogarsi se una categoria di lavoratori finora soltanto sfiorata dalla crisi che ha travolto milioni di altri salariati non debba ora farsi carico di qualche sacrificio.