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Pedinamento video e dossier, il detective incastra i fannulloni

Pedinamento video e dossier, il detective incastra i fannulloni

Giacomo Susca – Il Giornale

«Con questa crisi, mi dica chi può permettersi di pagare qualcuno che non lavora o che fa finta di lavorare… eliminare le mele marce è questione di sopravvivenza. Se rubi lo stipendio, o te ne vai o l’azienda chiude». Il concetto, messo così, è brutale e pare quasi scontato. Però non viene dal politico anticasta o dal tecnico del ministero a caccia di tagli. Parlano i nuovi professionisti chiamati in causa nella lotta all’assenteismo. Sono gli investigatori privati: rappresentano l’ultima frontiera esplorata da quegli imprenditori, ma anche da quei dirigenti di società partecipate, che mai come ora si sentono «abbandonati dallo Stato».

Nel privato il fenomeno dell’assenteismo è più circoscritto rispetto alla giungla del pubblico impiego – i dati dell’Inps dicono che i certificati di malattia trasmessi nel 2013 sono aumentati in questo settore «solo» dell’1,1% rispetto al 2012: in valore assoluto sono stati 11.869.521, con 8,9 milioni di «eventi di malattia», che si traducono in genere dai 2 ai 10 giorni di assenza consecutivi. Ma i responsabili di impresa non hanno più tempo (e denaro) da perdere, per cui hanno preso a farsi «giustizia» da soli, assoldando detective e consulenti di intelligence pur di stanare i fannulloni ancora a libro paga. Se le istituzioni latitano e la morsa dei controlli si allenta, bisogna darsi da fare in proprio.

Le indagini sulle «corna» sono il retaggio di un passato imprigionato ormai quasi solamente in vecchi film; oggi è sufficiente un’occhiata al cellulare e ai social network per smascherare un partner infedele. L’infedeltà e la scorrettezza ben più difficili da individuare e punire sono quelle del dipendente fraudolento o scansafatiche. Il core business delle agenzie investigative, che negli ultimi anni registrano tassi di crescita anche a doppia cifra come dimostrano alcune indagini delle Camere di commercio, si è decisamente spostato sul terreno aziendale. Basta fare un giro sui principali motori di ricerca in internet per rintracciare almeno una cinquantina di società specializzate a Milano e a Roma, ma pure all’interno dei distretti più produttivi, come in Veneto, Toscana, Emilia-Romagna. In tutto il territorio nazionale sono 600-700 le realtà che operano soprattutto in questo specifico ambito.

Dove non arrivano le leggi, l’ispettore Inps o il medico fiscale, è l’investigatore privato a verificare se le astensioni dal lavoro per motivi di salute o personali non nascondano in realtà malcostume e truffe. «Il 40% delle nostre indagini aziendali si concentra sull’assenteismo dei dipendenti. L’obiettivo è raccogliere prove documentali che possano essere utilizzate in giudizio dall’azienda che intende procedere al licenziamento del dipendente per giusta causa, oppure seguire vie extragiudiziali come la richiesta di risarcimenti o di dimissioni», spiega Marzio Ferrario, ceo dell’agenzia Phersei. La Cassazione, con la sentenza 25162 dello scorso novembre, è tornata a occuparsi della materia: ha ribadito che è legittimo il licenziamento del dipendente che, in malattia, «nei giorni di assenza compiva attività logicamente incompatibili con la patologia stessa – come sollevare una bombola a gas, cambiare una ruota, prendere in braccio la figlia». E i giudici hanno sdoganato definitivamente l’utilizzo degli 007: «È legittimo il ricorso a un’agenzia investigativa da parte del datore di lavoro per assumere queste informazioni», naturalmente nel rispetto delle norme sulla privacy.

«Nel 2014 i mandati per contrastare l’assenteismo sono cresciuti del 7%. Si rivolgono a noi aziende italiane, ma anche straniere con interessi commerciali in Italia – raccontano Francesco e Davide Castro, padre e figlio, responsabili dell’agenzia Vigilar Group -. Non possiamo fare i nomi delle aziende per due motivi: sia per il contratto di riservatezza che ci lega al cliente, sia perché si preferisce non far sapere ai propri dipendenti che potrebbero essere “attenzionati” o sorvegliati». Si tratta comunque di grandi gruppi aziende del settore automobilistico, case di moda e di lusso, multinazionali farmaceutiche e dell’energia. Il modus operandi delle agenzie può essere riassunto così: imprenditori e capi ufficio del personale espongono il loro «problema», che corrisponde a un nome e cognome, il lavoratore o la lavoratrice sospettata di fare imbrogli con malattie o permessi.

Dopo una prima fase di indagini preliminari sul soggetto (con l’utilizzo di fonti aperte, compresi colleghi e conoscenti, e altre più strettamente confidenziali), partono i primi sopralluoghi e quindi il «controllo diretto» (anche con il più classico dei pedinamenti), svolti in alcuni casi da una squadra di due o più detective. Vengono scattate foto e girati video per fornire elementi di prova incontrovertibili; infine, gli investigatori riportano l’esito delle indagini in un dossier che potrà essere utilizzato in un’eventuale azione legale. «I servizi di surveillance hanno durata variabile, ma solitamente in 4-5 giorni siamo in grado di fornire un quadro completo della situazione», conferma Davide Castro.

Il risultato è che se ne vedono di tutti i colori: il dipendente assente per malattia che malato non è, ufficialmente influenzato va in palestra o alle terme; c’è chi dice di avere un braccio rotto e poi vince il torneo di tennis in Brianza. E poi ci sono quelli che approfittano dei congedi in virtù della legge 104, ovvero dei permessi retribuiti per assistere un familiare portatore di handicap.
Ma invece di stare accanto alla madre disabile, si concedono una giornata di shopping, vanno al parrucchiere, qualcuno è stato sorpreso a farsi una gitarella in una città d’arte a 500 chilometri di distanza dal domicilio. «Per non parlare di quel “lavoratore” che andava a trovare una escort con una certa frequenza…», ricorda divertito un investigatore romano. In una diversa forma di assenteismo rientrano i casi di dipendenti che sarebbero al lavoro ma in realtà fanno altro, «attività non inerenti all’interesse dell’azienda». Come l’informatore scientifico che non rispetta gli appuntamenti in agenda e si dedica ad altri affari: «Ce n’era uno che passava le giornate a coltivare campi di kiwi…», confida divertito un altro detective. I sospetti «mirati» dei datori di lavoro vengono confermati dalle indagini sul campo nel 90% dei casi. Una singola agenzia con un buon parco clienti e di dimensioni medio-grandi, in un anno può contribuire al licenziamento per giusta causa anche di 50 «furbetti» a vario titolo. Attenzione, non solo semplici impiegati col vizietto di imboscarsi, ma pure top manager. Secondo l’osservatorio sulle investigazioni di Axerta Investigation Consulting, «nell’83% delle indagini svolte il lavoratore tiene un comportamento scorretto, il 92% mette in atto comportamenti che compromettono la guarigione e l’8% si mette in malattia per fare un altro lavoro». Dal punto di vista delle aziende, lo sforzo economico di affidarsi alle agenzie vale «l’impresa» – appunto – in termini di indennità di malattia o di stipendi risparmiati.

Il pregiudizio inganna, ma a volte anche la statistica. Gli studi incrociati tra i paesi Ue e Ocse inquadrano l’Italia, a sorpresa, tra i livelli più bassi di assenteismo. O meglio, succede che da noi è minima l’assenza media ma massimo il differenziale tra pubblico e privato. L’Inps nell’ultimo rapporto certifica che nel 2013 sono stati trasmessi dalla pubblica amministrazione 5.983.404 certificati medici. Considerando che gli statali in servizio sono oltre 3,3 milioni, significa una media di 1,8 certificati a testa, tornati a crescere a un tasso del +27% in due anni. E le prime indiscrezioni sui dati 2014 confermano la tendenza, visto che sono saliti ancora del 9,4%. I dipendenti del settore pubblico si assentano per malattia circa dieci giorni all’anno contro i sei del privato. Qualche meccanismo si deve essere inceppato, visto che almeno fino al 2011 gli effetti positivi della riforma Brunetta si erano visti, avendo portato a una riduzione media dei giorni di assenza per malattia pari al 31,1%. La rivoluzione della legge 133 del 2008, a quanto pare, è già un ricordo e oggi siamo punto e a capo. L’impatto delle misure va esaurendosi col tempo insieme al loro effetto deterrente.

Anche se è guerra di numeri. Il ministero della Pubblica amministrazione ne ha diffusi di nuovi la settimana scorsa, secondo cui le assenze sarebbero calate del 5% nel 2014 ma da questo conteggio restano fuori comparti chiave e ad «alta densità» di assenteismo come la scuola. Ogni anno le indennità di malattia riconosciute alle aziende costano all’Inps qualcosa come due miliardi di euro. E Confindustria ha calcolato che «portando l’assenteismo nel settore della Pa sui livelli più bassi delle imprese private si risparmierebbero oltre 3,7 miliardi di euro di spesa, attraverso un minor fabbisogno di personale». O quanto meno, a parità di costi, un minore assenteismo aumenterebbe l’efficienza e la qualità dei servizi. Numeri da capogiro per abbattere i quali si fa poco o niente.

Esemplare il caso dei vigili urbani di Roma. La magistratura ha aperto un’inchiesta sulla «sbornia di Capodanno» per capire se l’ammutinamento fosse premeditato e se ci sia stata la regia dei sindacati. Uno specchio della difficoltà a prendere provvedimenti incisivi. Ecco un’altra prova: in tutto il 2013 sono 220 i dipendenti della pubblica amministrazione licenziati in seguito a quasi settemila procedimenti disciplinari. Eppure sono appena 99 gli allontanamenti legati ad assenze ingiustificate o non comunicate nei tempi previsti. Altri 1.400 lavoratori (si fa per dire…) se la sono cavata con una sospensione, che si traduce in giornate senza stipendio, più raramente settimane. Finora hanno sempre pagato in pochi (uno ogni 15mila!).

Adesso il governo torna all’attacco brandendo il disegno di legge Madia, che ripropone il licenziamento senza preavviso per la falsa attestazione della presenza in servizio o l’assenza ingiustificata con falso certificato medico. Insomma, si tenta di riscrivere quelle regole che negli ultimi non si è quasi mai riusciti ad applicare. E questo i fannulloni, di Stato e no, lo hanno capito molto bene.

Ecco come uscire dall’euro senza far scoppiare l’Europa

Ecco come uscire dall’euro senza far scoppiare l’Europa

Renato Brunetta – Il Giornale

Yanis Varoufakis. Chi è costui? A volte bastano poche parole, per capire chi si ha di fronte. E la descrizione di se stesso fatta nel suo profilo Twitter ci dice chi è il nuovo ministro delle Finanze greco: «Economista, ho scritto testi accademici per anni senza che nessuno si accorgesse di me, fino a che non sono stato spinto nella scena pubblica dall’incapacità dell’Europa di gestire una crisi inevitabile». E noi diciamo, sempre con poche parole: per salvare la Grecia servono 10-15 miliardi. Così come ne bastavano 50 nel 2010, e la storia avrebbe avuto un corso diverso. Ma oggi gli effetti di scelte sbagliate da parte dell’Europa potrebbero avere effetti ancor peggiori di quelli che abbiamo visto negli anni della crisi, perché ai problemi economici e finanziari si aggiungono possibili guerre molto vicine a noi, dall’Ucraina alla Serbia, fino alla minaccia dell’Isis.

Oggi il nuovo governo greco illustrerà il suo programma al Parlamento. L’Europa, ancora tedesca, chiede che sia diverso da quello con cui Tsipras ha vinto le ultime elezioni. Come può un premier appena eletto seguire un programma diverso? Da quello che Tsipras dirà oggi dipenderanno le decisioni dell’Eurogruppo di martedì e del Consiglio europeo di mercoledì. L’Europa si trova a un punto di svolta. Viva l’euro, viva l’Europa. Ma quella amata dai suoi cittadini, non temuta. Non l’Europa emotiva, della deterrenza, dei drammi (anche solo minacciati) o delle costrizioni ma l’Europa solidale, coesa, unita. Non si pone, almeno per ora, il tema dell’uscita della Grecia dall’euro, ma non per questo non bisogna parlarne né sapere come si fa. Finora ha prevalso la vulgata per cui dall’euro non si può uscire, o salta tutto. Invece basta solo attuare bene la procedura, con i tempi necessari. Senza drammi dalla moneta unica si può uscire. E anche la reazione dei mercati può essere meno dura di quanto si immagini.

Lo prevede l’articolo 50 del Trattato, che rimanda, per la procedura puntuale, all’articolo 218. Una procedura tutta burocratica, di ping pong tra le istituzioni europee, che dura 2 anni. Ma lo Stato che ne fa richiesta è considerato fuori dall’Unione da subito, anche nel periodo in cui la procedura è ancora in corso. Amen. Si può uscire dall’euro restando nell’Unione? La dottrina dice che si può. Ci sono 4 vie alternative: referendum sull’euro; uscita unilaterale mediante modifica dei Trattati; recesso dall’Eurozona in base agli articoli 139 e 140 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue); recesso dai Trattati europei secondo il Diritto internazionale. Quest’ultima è la strada più facile, e basta addurre come unica motivazione il cambiamento delle condizioni economiche e politiche rispetto al momento in cui il Trattato era stato firmato. La Gran Bretagna non ha l’euro ma ha indetto per il 2017 un referendum per uscire anche dall’Unione. Non è escluso, pertanto: che si possa uscire dall’Unione senza uscire dall’euro; che si possa uscire dall’euro senza uscire dall’Unione; che si possa uscire contemporaneamente dall’Unione e dall’euro. È un atto di sovranità che, conformemente alle proprie regole costituzionali, ciascuno Stato può fare. Senza drammi.

Azzardiamo con qualche perversa malizia un’ipotesi che potrebbe avere più fondamento di quanto sembra. E se Stati con monete diverse dall’euro (si pensi alla Cina, al Giappone, ma soprattutto agli Stati Uniti d’America, in perenne conflitto con la Germania) decidessero di «appoggiare» l’uscita di uno dei paesi dell’Eurozona dalla moneta unica? Chi ci dice che non riuscirebbero a mantenere calmi i mercati? Poniamo, poi, che questo Stato sia la Grecia, presa da noi ad esempio in quanto molto chiacchierata nelle ultime settimane: se Alexis Tsipras e Yanis Varoufakis dimostrano che uscire dall’euro si può, e che in due, tre anni il paese ricomincia a prosperare grazie a una moneta diversa e senza aver subito traumi, che posizione prenderanno i partiti degli altri paesi dell’Eurozona chiamati a votare, magari nel 2018, come l’Italia?

Avevamo accennato ai Trattati. L’articolo 50 del Tfue recita testualmente: «1. Ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall’Unione. 2. Lo Stato membro che decide di recedere notifica tale intenzione al Consiglio europeo. Alla luce degli orientamenti formulati dal Consiglio europeo, l’Unione negozia e conclude con tale Stato un accordo volto a definire le modalità del recesso, tenendo conto del quadro delle future relazioni con l’Unione. L’accordo è negoziato conformemente all’articolo 218, paragrafo 3 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Esso è concluso a nome dell’Unione dal Consiglio, che delibera a maggioranza qualificata previa approvazione del Parlamento europeo. 3. I trattati cessano di essere applicabili allo Stato interessato a decorrere dalla data di entrata in vigore dell’accordo di recesso o, in mancanza di tale accordo, due anni dopo la notifica di cui al paragrafo 2, salvo che il Consiglio europeo, d’intesa con lo Stato membro interessato, decida all’unanimità di prorogare tale termine. 4. Ai fini dei paragrafi 2 e 3, il membro del Consiglio europeo e del Consiglio che rappresenta lo Stato membro che recede non partecipa né alle deliberazioni né alle decisioni del Consiglio europeo e del Consiglio che lo riguardano. 5. Se lo Stato che ha receduto dall’Unione chiede di aderirvi nuovamente, tale richiesta è oggetto della procedura di cui all’articolo 49».

Chiaro. E l’articolo 218 lo è ancor di più. Ne riportiamo solo stralci: «(…) Il Consiglio autorizza l’avvio dei negoziati, definisce le direttive di negoziato, autorizza la firma e conclude gli accordi. (…) La Commissione (…) presenta raccomandazioni al Consiglio, il quale adotta una decisione che autorizza l’avvio dei negoziati e designa, in funzione della materia dell’accordo previsto, il negoziatore o il capo della squadra di negoziato dell’Unione. (…) Il Consiglio (…) adotta la decisione di conclusione dell’accordo: a) previa approvazione del Parlamento europeo (…) ovvero b) previa consultazione del Parlamento europeo. (…). Uno Stato membro, il Parlamento europeo, il Consiglio o la Commissione possono domandare il parere della Corte di giustizia circa la compatibilità di un accordo previsto con i trattati. In caso di parere negativo della Corte, l’accordo previsto non può entrare in vigore, salvo modifiche dello stesso o revisione dei trattati».

Ecco come si esce dall’Unione europea e, perché no, dall’euro. È scritto nei Trattati. Basta applicarli, se si vuole. E se si è forti/credibili abbastanza per farlo. La decisione è tutta politica. Quanto alla Grecia, siamo sicuri che tutto questo non accadrà. Il «problema» greco è oggi, ancora una volta, drammatizzato in termini di immagine, ma è contenuto nella sostanza dei numeri. Il punto è uno e uno solo: l’Europa non deve di nuovo sbagliare. Non c’è tempo da perdere. Si affronti la questione, con freddezza, subito. O sfuggirà nuovamente di mano. In questo caso il precedente c’è: a ottobre 2009, quando è emerso il buco dei conti pubblici di Atene sarebbero bastati poco più di 50 miliardi per risolvere l’emergenza. Invece sappiamo tutti com’è andata.

Errare è umano, con quel che segue. L’Europa oggi è a un punto di svolta. Non si può più insistere con la filosofia (sbagliata) dei compiti a casa. L’Europa oggi deve cogliere l’occasione per cambiare se stessa, realizzando quelle riforme da anni ormai annunciate, ma ferme al palo: l’unione economica, l’unione politica, l’unione bancaria e l’unione di bilancio. Argomenti che si trascinano stancamente a causa delle resistenze sempre dei soliti paesi. E deve cambiare la mission della Bce, oggi anch’essa troppo condizionata dagli interessi dei partner più forti (leggi: Bundesbank), affinché diventi una vera banca centrale (che funga, cioè, da prestatore di ultima istanza per gli Stati), al pari di tutte le altre principali banche centrali mondiali. E smettiamola, una volta per tutte, di farci del male.

Un’intesa sul Capo dello Stato potrà far ripartire il Paese

Un’intesa sul Capo dello Stato potrà far ripartire il Paese

Francesco Forte – Il Giornale

L’elezione di un capo dello Stato, dotato di spessore politico e prestigio internazionale, capace di assicurare l’equilibrio istituzionale e la continuità della legislatura è importante per mettere a frutto i fattori favorevoli che intervengono per l’economia, col ribasso del petrolio assieme alla nuova politica monetaria della Bce. Il centro studi della Confindustria ha rettificato al rialzo le stime del Pil, con un aumento del 2,1 nel 2015 e di 2,5 nel 2016. Il petrolio a 45-50 dollari riduce i costi di produzione e di trasporto. L’acquisto massiccio di titoli pubblici da parte della Bce (chiamato quantitative easing) aumentando l’immissione di moneta nel circuito economico fa scendere il tasso di interesse e il cambio euro/dollaro incrementando l’export. Inoltre accresce i fondi delle banche disponibili per crediti a imprese e famiglie.

La Confindustria fra i fattori favorevoli cita anche il fatto che la domanda interna ha cessato di diminuire. Ma ammette che alle sue stime ottimistiche si può fare una tara per tenere conto delle difficoltà perduranti in Italia. E qui c’è il suono di un’altra campana, quella della Banca di Italia che riecheggiando Draghi, cioè la Bce, avverte che per cogliere i benefici del quantitative easing bisogna avere continuità nelle riforme e nel consolidamento del bilancio pubblico (riduzione del deficit e del debito). Ed ecco, dunque, che l’elezione del capo dello Stato (tema su cui né Confindustria né la Banca centrale si addentrano, per correttezza istituzionale) in un clima di serenità fra le maggiori forze politiche è molto importante, per la svolta verso la crescita del Pil sopra il 2%. Svolta di cui abbiano grande bisogno dopo tre anni di decrescita sia del Pil che dell’occupazione, in un clima di depressione non solo economica, ma anche morale.

Non possiamo permetterci il lusso di elezioni anticipate, con una legge elettorale strettamente proporzionale, quale quella vigente, che, data la pluralità di forze politiche rende incerto il tipo di governo che ne potrebbe venire fuori e precaria la sua durata. Dopo l’abbattimento di Berlusconi per ragioni pretestuose, nei tre anni successivi ci sono stati quattro governi: un governo Monti, un governo Letta, un governo Letta bis e un governo Renzi con quattro differenti formule e composizioni. Ma nel quarto trimestre del 2014 gli ordini d’acquisto di macchinari industriali delle imprese italiane sono aumentati del 19,1% con un aumento della domanda dall’estero del 19,3 e di quella nazionale del 18,1. La domanda estera cresce in funzione del ribasso dell’euro che ci rende più competitivi. La domanda interna di macchinari cresce perché le nostre imprese li stanno ordinando per sostituire quelli vecchi e ammodernarsi, confidando che il peggio sia passato e che valga la pena di investire per il futuro.

Su cíò gioca il fatto che è emerso un quadro di maggior stabilità politica, dovuto alla tenuta del «Patto del Nazareno». Ciò ha consentito al governo di non impantanarsi nel dissidio fra le correnti del Pd e ha generato la convinzione che la legislatura durerà. Il perdurare della prevedibilità del quadro politico è necessario in generale, per gli investimenti delle imprese e delle famiglie e per le banche per indurle alla cessione alla Bce di titoli pubblici per dare maggiori prestiti all’economia. Un capo dello Stato dotato di spessore politico, di prestigio e di equilibrio, che sia un fattore di coesione ci occorre anche sul piano internazionale, per mettere a frutto i nuovi fattori favorevoli, perché l’Italia deve mediare fra i rigoristi a senso unico di marca tedesca e i lassisti di conio greco. Ci occorre, più che mai, l’unità nazionale e l’immagine di una grande nazione, se vogliamo uscire dalla crisi.

Il compagno non paga i debiti e l’Italia ci rimette 24 miliardi

Il compagno non paga i debiti e l’Italia ci rimette 24 miliardi

Antonio Signorini – Il Giornale

Le promesse elettorali costano e quelle di Syriza non fanno eccezione. Unico particolare: il conto della Tsipranomics rischiano di pagarlo, non tanto gli elettori che hanno portato la sinistra al governo il giovane ex no global, quanto gli altri contribuenti europei. Italiani in testa. Già si può ipotizzare una cifra di quanto ci potrebbe costare il voto ellenico: 24 miliardi di euro. Più di due anni di coperture del bonus Renzi, un anno di gettito delle odiatissime tasse comunali sulla casa, Imu e Tasi, sacrificati sull’altare dell’ennesimo ritorno della sinistra.

Soldi bruciati, è bene precisarlo, non perché le nostre banche o gli investitori privati a un certo punto abbiano deciso di rischiare comprando titoli greci. Come hanno fatto, ad esempio, i tedeschi. L’Italia è esposta verso Atene per 40 miliardi di euro. Ma dentro questa cifra, per nulla irrilevante, ci sono praticamente solo i prestiti bilaterali dell’Italia alla Grecia e poi la quota che paghiamo al fondo europeo salva stati, nelle due versioni Esm ed Efsf. In sostanza, se Tsipras deciderà di rinegoziare il debito, di non pagarlo o di fare qualunque azione unilaterale sui soldi che la Grecia deve al mondo, penalizzerà automaticamente i contribuenti dei Paesi che gli hanno dato fiducia. Italiani in testa. Non il mostro euroliberista che in campagna elettorale il suo partito (insieme all’estrema destra) diceva di volere combattere, né i grandi speculatori della finanza internazionale, ma lavoratori, cittadini e contribuenti francesi, tedeschi e anche italiani. Compresi quelli che domenica sera hanno festeggiato l’ascesa della sinistra estrema al governo della Grecia in nome di un ritorno del «fattore umano».

Più esposti degli italiani, ci sono solo la Germania con 60 miliardi e la Francia con 46 miliardi di euro. I tre Paesi insieme fanno quasi la metà dei sottoscrittori del debito pubblico greco, che ammonta a 322 miliardi di euro. Possono sembrare pochi a noi che viaggiamo sopra i 2mila miliardi, ma quella cifra corrisponde al 177% del Pil ellenico. Quello che colpisce, e non in modo positivo, è che, a differenza degli altri due Paesi europei, l’unico credito che noi vantiamo verso la Grecia è quello degli aiuti, europei e bilaterali.

L’esposizione delle banche italiane sul debito greco, pubblico e privato, è di appena 1,1 miliardi secondo la Banca dei regolamenti internazionali, contro i 22,3 miliardi della Germania. Gli investitori italiani hanno evitato il rischio greco, salvo poi ritrovarlo sotto forma di partecipazione ai piani di aiuto europei e attuazione dei patti tra i due Paesi. Gli investimenti privati italiani sul debito estero preferiscono mete più sicure. Ad esempio, ci sono 43 miliardi italiani in Francia, 55 miliardi sulla Gran Bretagna, ben 96 miliardi sull’Austria e 258 miliardi sui titoli tedeschi (contro 126 miliardi tedeschi in Italia). Unici Paesi, non a rischio ma nemmeno virtuosi, con investimenti italiani, l’Irlanda con 12 poi 20 sulla Spagna e altri 20 sull’Ungheria.

Un ticket greco già lo paghiamo. Il debito dei piani di aiuto non rientra nel computo dei patti Ue, ma ci paghiamo gli interessi. Un impegno preso, al quale potrebbe aggiungersi, se Tsipras realizzerà veramente il suo programma, una perdita netta del credito che vantiamo nei confronti Atene. Il premier greco in pectore ha accennato a un taglio del 60%. Quindi, se il nuovo beniamino della sinistra italiana sarà coerente, dovremo rinunciare a 24 miliardi di euro. Una cifra che vale una manovra, bruciata per il voto di un altro elettorato, di altri contribuenti.

Così la pressione fiscale brucerà l’ossigeno di Draghi

Così la pressione fiscale brucerà l’ossigeno di Draghi

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

Senza una riduzione delle tasse il bazooka anticrisi di Mario Draghi sparerà a salve. È questo il senso di un’analisi condotta dal Centro studi Unimpresa sulla base della Nota di aggiornamento al Def. Il peso delle imposte sulle famiglie e imprese italiane tra il 2014 e il 2018 è atteso attestarsi sempre su una quota superiore al 43% del Pil, un valore decisamente incompatibile con qualsiasi prospettiva di rilancio.

Nei cinque anni dell’orizzonte previsionale del governo Renzi, l’aumento delle entrate tributarie dovrebbe attestarsi a oltre 45,7 miliardi di euro, portando il totale cumulato sopra i 2.540 miliardi. Quest’anno la pressione fiscale dovrebbe attestarsi al 43,4% del Pil (43,5% nel 2014) per raggiungere il picco del 43,6% l’anno prossimo, vista la scadenza delle clausole di salvaguardia su Iva e accise. Per poi registrare una impalpabile diminuzione: 43,3% nel 2017 e 43,2% nel 2018. Anche i valori assoluti fanno paura: la soglia dei 500 miliardi di entrate fiscali sarà avvicinata quest’anno (493,8 miliardi) per essere superata nel 2016 (508 miliardi). «La sola immissione di nuovo denaro in circolazione con il quantitative easing della Bce – spiega il presidente di Unimpresa, Paolo Longobardi – non può bastare a superare la dura recessione dalla quale non si riesce a uscire». Parole da Cassandra? Volontà di smorzare l’ottimismo del ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, che ieri, intervistato da Repubblica , ha preannunciato una revisione al rialzo delle stime di crescita del Pil 2015? Nulla di tutto questo.

I 1.140 miliardi che la Bce dovrebbe immettere nell’economia di Eurolandia da marzo fino a settembre 2016 avranno, infatti, un impatto limitato sull’economia reale. Confindustria ha accolto la misura positivamente e vede addirittura un incremento del Pil italiano dell’1,8% nel biennio 2015-2016. Gli economisti di Société Générale sono stati più prudenti e credono che quei mille miliardi potranno avere un impatto compreso tra lo 0,2% e lo 0,8% annuo, direttamente proporzionale ala maggiore inflazione che si dovrebbe creare. L’inflazione rende l’ambiente più favorevole a chi si indebita, mentre il quantitative easing contribuisce a mantenere basso il livello dei tassi di interesse, garantendo un flusso continuo di denaro verso gli operatori finanziari. Se a questo si aggiunge il deprezzamento dell’euro nei confronti del dollaro, si può osservare il quadro economico con maggiore serenità.

Il problema è che per sfruttare i vantaggi offerti da una maggiore offerta di moneta (quella immessa dalla Bce con gli acquisti di titoli di Stato) bisogna essere nelle condizioni di potersi indebitare, ossia disporre di almeno un patrimonio minimo da rischiare. Ed è quello che in molti casi manca, perché la pressione fiscale mangia via le disponibilità residue di famiglie e imprese. Quello che ha scritto ieri Renato Brunetta nel suo intervento sul Giornale è solo la logica conseguenza di questo stato di cose: senza una «riduzione delle tasse, soprattutto sulla casa, e una liberalizzazione del mercato del lavoro» sarà difficile se non impossibile che lo stimolo di Mario Draghi si trasmetta all’economia reale. Molto più facile, di questo passo, che il prossimo futuro sia costituito da banche con i bilanci in ordine con poche richieste di prestiti da parte di aziende e cittadini. Cosa volete che cambi per il signor Rossi che vede il suo reddito annuo lordo di 24.500 euro ridursi a soli 11.929 euro, dopo tutte le tasse che è costretto pagare, che oggi il denaro costa zero? Come può pensare di investire odi consumare di più se deve barcamenarsi con 990 euro ogni mese? Renzi dovrà per forza tenerne conto.

Quei bazooka della Bce manomessi dai veti tedeschi

Quei bazooka della Bce manomessi dai veti tedeschi

Renato Brunetta – Il Giornale

Finalmente è arrivato il bazooka. Il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, improbabile Rambo, ha annunciato, infatti, giovedì scorso il lancio di un piano di acquisti di titoli sul mercato secondario da 60 miliardi di euro al mese, a partire da marzo 2015 fino a settembre 2016 (per un totale di circa 1.100 miliardi di euro), salvo continuare se a quella data il tasso di inflazione non avrà raggiunto un livello coerente con l’obiettivo della stabilità dei prezzi (inflazione intorno al 2%).

La strategia per fronteggiare la crisi dell’eurozona adottata dal consiglio direttivo della Bce, presieduto da Mario Draghi è senza dubbio apprezzabile, e vedremo mese dopo mese se l’intervento sarà efficace, le quantità bastevoli, le modalità coerenti. Una sola, amara, riflessione. Se lo stesso sforzo di «acquisto massiccio di titoli» fosse cominciato strategicamente e strutturalmente già nell’estate-autunno del 2011, la storia di questa crisi sarebbe stata diversa.

Fin qui una lettura buonista, e fatta di sole luci, di quanto accaduto. Ma a una lettura più attenta emergono le ombre. Certamente le percentuali di «risk sharing», vale a dire il fatto che il rischio di eventuali perdite sarà per l’80% in capo alle singole banche centrali nazionali, eviteranno che i tedeschi dicano che con i loro soldi si comprano titoli dei Paesi considerati più deboli, ma allo stesso tempo rappresentano una frammentazione della politica monetaria e del sistema finanziario europeo, nonché una sorta di presa di distanze dal debito pubblico dei singoli Stati, e di alcuni in particolare rispetto ad altri. A ciò si aggiunga che la banca centrale nazionale che potrà acquistare il maggior quantitativo di titoli è quella tedesca, vale a dire la banca centrale di quel Paese che meno di tutti ha bisogno che i titoli del proprio debito sovrano vengano acquistati.

Come sempre avvenuto negli anni della crisi, anche in questo caso pensiamo sia stato fatto troppo tardi e troppo poco. E quello che giovedì la Bce ha deciso altro non è che cercare di contrastare con un bazooka da oltre mille miliardi l’effetto nefasto delle misure sangue, sudore e lacrime imposte dal 2008 a oggi ai Paesi dell’eurozona da un’Europa a trazione tedesca. Misure recessive che, oltre all’impatto negativo sulle economie degli Stati e all’allargamento del divario tra Paesi del Nord e del Sud Europa, hanno avuto l’effetto collaterale di blocco della trasmissione della politica monetaria che il presidente della Bce, Mario Draghi, ha cercato di far convergere verso l’impostazione espansiva adottata dalle altre banche centrali mondiali. È così che sono fallite, infatti, le due aste di credito a breve termine al tasso dell’1% alle banche tenutesi il 21 dicembre 2011 e il 29 febbraio 2012 per 1.000 miliardi di euro. Come è fallito il Securities Markets Programme (Smp), vale a dire l’acquisto sul mercato secondario di titoli del debito sovrano dei Paesi dell’area euro sotto attacco speculativo per 213,5 miliardi di euro, di cui circa 103 miliardi di titoli italiani, cominciato a maggio 2010 e terminato a settembre 2012. Lo scorso anno, inoltre, sono state annunciate, da effettuarsi tra giugno 2014 e giugno 2016, otto nuove aste di finanziamento alle banche, simili alle precedenti due del 2011-2012, con una sorta di correzione: gli istituti che prendono in prestito liquidità agevolata dalla Bce devono destinare quelle risorse al credito a famiglie e imprese. Tuttavia, il numero delle banche che ha partecipato al programma si è rivelato fin troppo esiguo, e il totale degli importi assegnati nelle prime due aste è stato pari a 212,4 miliardi di euro: ben inferiore rispetto ai 400 miliardi messi a disposizione dalla Bce. Così come è fallito, infine, ma qui la responsabilità è soprattutto delle istituzioni europee obbedienti ai diktat tedeschi, il Meccanismo Europeo di Stabilità (Mes).

Negli stessi anni in cui la Bce ha provato ad utilizzare almeno sei strumenti di politica monetaria non convenzionale diversi, sbagliandoli tutti e senza produrre effetti significativi in termini di inflazione (obiettivo che è nel suo mandato) e di crescita dell’economia e dell’occupazione nell’area euro, la Federal Reserve, oltre alla riduzione dei tassi di interesse al minimo storico (0%), ne ha messi in campo solo due: da subito, il Quantitative easing, per 4.500 miliardi di dollari tra novembre 2008 e ottobre 2014; e la cosiddetta «operation twist», vale a dire una operazione di vendita di titoli di Stato a breve termine e contestuale acquisto, per lo stesso ammontare (nel caso di specie: 700 miliardi di dollari), di titoli di Stato a lungo termine.

L’immediatezza, la determinazione strategica, la semplicità, il coraggio e, se vogliamo, la ruvidezza del cow-boy americano ha vinto alla grande rispetto alla timidezza, l’incertezza e gli opportunismi egoistici europei. Nulla di nuovo sotto il sole. Nell’Unione europea, infatti, al contrario di quanto avvenuto negli Usa, la risposta alla crisi della moneta unica è stata sempre insufficiente, tardiva, ma, soprattutto, costosa e, guarda caso, sempre a favore di un unico Stato egemone: la Germania. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.

In questo contesto, quella di giovedì è una sorta di «ultima spiaggia». La Bce ha sparato l’ultimo colpo a sua disposizione: dopo non vi saranno ulteriori reti di salvataggio. Tanto più che nelle sue decisioni, Mario Draghi ha preferito il più ampio consenso, cedendo alle pressioni, alla miopia e all’egoismo tedesco e «annacquando» il bazooka, piuttosto che il conflitto, che, al contrario, avrebbe rafforzato la potenza di fuoco della sua nuova, e ultima, arma. Il suo sforzo, inoltre, appare già indebolito dal comportamento post-decisione dei rappresentanti della Bundesbank. È qui il vero problema. Basta con la teoria delle riforme «sangue, sudore e lacrime» di cui avrebbero bisogno gli Stati del Vecchio continente, perché a cambiare, invece, dovrebbe essere prima di tutto la «mission» della Bce e l’architettura istituzionale dell’Unione europea. Finiamola con la retorica dei «compiti a casa».

Di questa complessa situazione occorre tener conto sia al fine di un giudizio sui vari protagonisti della vicenda, sia per individuare i possibili sviluppi. Con ogni probabilità l’euro tenderà a svalutarsi ancora. Le conseguenze per le esportazioni europee in generale, e italiane in particolare, saranno positive. Ma per il resto? Dipenderà dal giudizio comparato dei mercati sulle diverse economie. Se una parte della maggiore liquidità continuerà a defluire verso Wall Street, il resto cercherà i migliori rendimenti europei. Sui mercati vi saranno, pertanto, movimenti al rialzo e al ribasso, con conseguenti perdite o guadagni.

Come reagire di fronte a questi rischi? Cambiare la politica economica dell’Italia, per cambiarla in Europa. In questa corsa contro il tempo occorrerà che l’Italia faccia sul serio per riempire il programma di governo degli adeguati contenuti: a partire dalla riforma fiscale e dal Jobs act, fino a cancellare la suicida politica sulla tassazione degli immobili fin qui adottata. Poche cose, dunque: riduzione delle tasse, in particolare sulla casa; liberalizzazione del mercato del lavoro; riforma della burocrazia; riforma della scuola. Sono obiettivi realistici? Lo vedremo nei prossimi giorni. Draghi-Rambo ha fatto il possibile, ma il rischio che l’Europa si assume nell’immissione di denaro fresco per acquistare titoli di Stato è solo del 20%. Ancora una volta troppo poco e troppo tardi. Prima adotteremo in pieno il modello cow-boy della Federal Reserve, meglio sarà. Altro che bazooka caricato ad acqua.

Finalmente risale il Pil, ma brinderemo tra 20 anni

Finalmente risale il Pil, ma brinderemo tra 20 anni

Nicola Porro – Il Giornale

Ieri il direttore generale della Banca d’Italia ha detto che la nostra ricchezza nel primo trimestre di quest’anno dovrebbe crescere. Salvatore Rossi ha anche sostenuto che potrebbe essere il primo di una serie di dati positivi che ci potrebbero accompagnare fino al 2016. Meglio di niente. Ma è ancora presto per brindare.

Prima considerazione. Tra il 1995 e il 2007 l’Italia è cresciuta ad un tasso medio dell’1,5 per cento. Poi, dopo la crisi americana dei subprime, il disastro (con una relativa calma nel biennio 2010-2011). Si può dire che dal 2008 al 2014 abbiamo bruciato ricchezza per più di 300 miliardi, tra mancata crescita e la riduzione del Pil vera e propria. Roba da far tremare i polsi. Fortunatamente gli italiani hanno accumulato, forse proprio grazie al debito pubblico, un’enorme ricchezza privata. Che oggi stanno usando per tamponare la crisi. Per recuperare questo salasso dovremmo crescere ad un tasso del 2,5 per cento annuo per i prossimi venti anni. Neanche uno stuntman del gioco d’azzardo ci metterebbe un euro sopra. Insomma è difficile pensare che quel che abbiamo perso si possa recuperare nel medio periodo. I tassi di crescita di cui si parla in Bankitalia (o quelli più ottimistici del governo) sono più vicini all’1 per cento che al 2. E per di più nessuno scommette che ciò possa avvenire ininterrottamente per i prossimi 80 trimestri (cioè i venti anni di cui sopra).

Seconda considerazione. Ci sono delle congiunzioni astrali piuttosto buone a saperle sfruttare. Intanto il cambio euro-dollaro (compresi i cross con il franco svizzero e le molte monete che molleranno tra poco) è sceso a livelli che rende molto competitiva l’industria italiana. E ciò avviene proprio nel momento in cui comprare petrolio (cioè energia per far girare le fabbriche) è particolarmente conveniente. Il combinato disposto di euro svalutato (come una liretta qualsiasi) e petrolio sotto i 50 dollari rappresenta un sogno per chiunque produca nel Belpaese. Nel passato alla svalutazione della nostra moneta corrispondeva un incremento della bolletta energetica. A ciò si aggiunga una tenuta dei prezzi (addirittura si parla di deflazione) che potrebbe essere manovrata per il verso giusto. Ops. Dimenticavamo: mai come in questo periodo i tassi di interesse sono stati ridicolmente bassi.

Sintesi finale. Quel che manca è un catalizzatore. Un lievito per far girare tutto nel verso giusto. Gli ingredienti sono buoni, di prima qualità. E sette anni di recessione (con alti e bassi) hanno spinto in giù la molla della nostra economia, pronta a scattare. Serve fiducia. La parola magica. Fiducia dei consumatori che riprendano a spendere, e fiducia delle imprese che riprendano a investire. Sergio Marchionne ha fatto entrare proprio ieri, a Melfi, 300 nuovi operai. Può essere un primo segnale. La politica, il governo deve alimentare un percorso virtuoso, fatto di regole certe (per investire), meno burocrazia (per lavorare) e meno tasse (per competere). La politica non può far molto perché le fabbriche producano meglio, ma purtroppo ha fatto davvero troppo perché esse si fermino. Quel che ora manca è dunque un elemento impalpabile ma pesantissimo.

La riforma del versamento Iva nuova tagliola per le imprese

La riforma del versamento Iva nuova tagliola per le imprese

Antonio Signorini – Il Giornale

Le imprese sono sempre più a secco di liquidi e le scelte del governo rischiano di aggravare la loro situazione, invece di migliorarla. I ritardi nei pagamenti pubblici e privati – ha certificato ieri la Cgia di Mestre – pesano sul fatturato delle aziende per 34 miliardi di euro. Un male antico, quello delle fatture non saldate da committenti statali o da aziende, al quale rischia di aggiungersi il peso delle nuove norme sul pagamento dell’Iva.

Il cosiddetto reverse charge deciso dall’ultima legge di Stabilità prevede che l’Iva sia versata allo Stato direttamente dall’acquirente. Una partita di giro per quei settori che hanno un equilibrio nel tempo tra merci acquistate e quelle vendute. Ma non per tutti. Da qualche giorno arrivano al governo, ad esempio, gli allarmi del settore del latte e da quello della grande distribuzione. In questo caso il reverse charge farebbe aumentare il credito Iva già enorme (si parla di un miliardo di euro) drenando liquidità a un settore che già non se la passa bene. Tra i possibili effetti, difficoltà a pagare i fornitori di latte e un ulteriore spostamento degli acquisti verso il latte estero. Nella stessa situazione la grande distribuzione organizzata, le cui imprese diventeranno ancora di più dipendenti dai rimborsi Iva, quindi da crediti verso lo Stato.

E su questo fronte ancora non c’è da rallegrarsi. In Italia ben 3,4 milioni di imprese, pari al 76 per cento del totale nazionale, soffrono di problemi di liquidità riconducibili al ritardo nei pagamenti, ha calcolato ieri la Cgia di Mestre. I mancati incassi, sia su crediti verso il pubblico sia verso il privato, hanno comportato perdite di 35 miliardi di euro e 1,7 milioni di imprese, il 39 per cento del totale, hanno segnalato che a causa di questa criticità non hanno potuto effettuare assunzioni, mentre 900mila aziende (pari al 20 per cento) hanno valutato la possibilità di licenziare in ragione di problemi conseguenti al ritardo dei pagamenti. Infine, 700mila imprese (pari al 15 per cento del totale nazionale) si trovano sull’orlo del fallimento.

«Le cause di queste criticità – segnala il segretario della Cgia Giuseppe Bortolussi – vanno ricercate nei tempi medi di pagamento effettivi presenti in Italia che intercorrono nelle transazioni commerciali sia tra imprese e Pubblica amministrazione, sia tra imprese private. Nel primo caso, i giorni medi necessari per il saldo fattura sono 165; nel secondo caso, invece, si arriva a 94 giorni». Il primo cattivo pagatore, insomma, ancora una volta è lo Stato. E «in entrambe le situazioni siamo maglia nera quando ci confrontiamo con i nostri principali partner dell’Ue».

È dall’ottobre scorso che il ministero dell’Economia non aggiorna i dati sul rimborso dei debiti della Pa. Segnalano che i debiti pagati dallo Stato e dalle Autonomie locali ammontano a 32,5 miliardi di euro. «Se si considera che nell’ultimo biennio sono stati messi a disposizione circa 56,3 miliardi di euro – spiega la Cgia – l’incidenza dei pagamenti effettuati sul totale è pari al 57,7 per cento. C’è stato un rallentamento, che ieri il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha spiegato in un’intervista al Sole24Ore . «Il problema è legato ai crediti per la spesa in conto capitale, dove dobbiamo tener conto dell’impatto sul deficit. Eppoi con alcune ragioni continuano ad esserci problemi. Si stanno comunque sbloccando nuove tranche». In sostanza, non si pagano i debiti per non incidere sul deficit e sforare i limiti europei.

Tutti i trucchi del fisco per spiare la nostra vita

Tutti i trucchi del fisco per spiare la nostra vita

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

«Chi non ha nulla da nascondere non ha nulla da temere».Lo diceva anche George Orwell nel suo capolavoro “1984”. Il problema è che, quando la fantasia diventa realtà, l’essere esposti al controllo di un «altro»›, in grado di giudicare costantemente le nostre azioni e la nostra vita, è un incubo che rende ancor più insopportabile la nostra quotidianità. Eppure, in materia fiscale, lo Stato italiano si è dotato di una strumentazione tale da far impallidire anche il Grande Fratello di orwelliana memoria. Ogni momento della nostra vita, dal 2015 (e quindi con 31 anni di ritardo rispetto alle previsioni) può essere passato al setaccio. Non che si tratti di un controllo tipo l’agente della Stasi protagonista de “Le vite degli altri”, ma gli assomiglia molto. A voler essere meno enfatici, si può tranquillamente affermare che dallo scorso primo gennaio il cittadino italiano medio è sottoposto allo stesso «trattamento» di un qualsiasi imprenditore o commerciante, cioè a uno studio di settore onnipervasivo che misura se le sue entrate e il suo tenore di vita siano «congrui», cioè se non vi sia qualche risorsa segreta che viene sottratta al fisco, una discrepanza nascosta, un lato oscuro junghiano. Merito della Legge di Stabilità che consente ai funzionari dell’Agenzia delle Entrate di poter incrociare i dati di 128 banche dati pubbliche e verificare eventuali «anomalie» tra spese effettuate e reddito dichiarato. Mentre questo tipo di controlli, fino all’anno scorso, era riservato a soggetti a rischio-evasione, dal 2015 siamo tutti sulla stessa barca.

Ma quali sono queste 128 banche dati? C’è di tutto e di più: l’anagrafe dei Comuni, il catasto, il Pubblico registro automobilistico, gli archivi dell’Inps (non solo le assunzioni di dipendenti per le aziende ma anche quelle di colf e badanti), le Scia (segnalazioni certificate di inizio attività, di prammatica per le ristrutturazioni), i verbali delle ispezioni della Guardia di Finanza e così via. Ma la parte più importante è l’accesso ai nostri conti correnti. Non che l’Agenzia delle Entrate non potesse monitorare già da prima i nostri movimenti: il Sistema interscambio dati varato nel 2013 obbliga le banche a trasmettere i saldi all’inizio e alla fine dell’anno solare. Ora, anche la giacenza media dovrebbe essere oggetto di indagine e se si discosterà in modo significativo da quelle che sono le evidenze dei nostri 730, partiranno i controlli. Soprattutto se le nostre spese sono tracciabili (con assegni e carte di credito) e inducono a ritenere che il nostro tenore di vita sia superiore a quello che potremmo permetterci. Facciamo due esempi molto pratici.

Basta prendere l’ultima circolare dell’Agenzia delle Entrate. Si chiede agli intermediari finanziari, cioè alle banche, di fornire i dati sugli interessi passivi applicati ai contratti di mutuo, cioè la spesa che, per quanto riguarda la prima casa, si porta in deduzione dal 730, cioè si sottrae alla nostra base imponibile. Nel file che gli istituti di credito sono tenuti a inviare ci sono le generalità del contribuente, l’importo del mutuo, il numero di rate pagate e l’ubicazione dell’immobile. Se vi fosse qualche incongruenza, le Entrate possono benissimo guardare il catasto giacché l’Agenzia del Territorio è stata accorpata nell’ente guidato da Rossella Orlandi, A questo punto, se sbaglieremo la nostra dichiarazione o se vorremo cambiare qualcosa nel 730 precompilato che da quest’anno arriverà a casa potrebbe iniziare anche per noi la via Crucis che commercianti e professionisti conoscono molto bene. A quel punto nulla vieta di verificare, in base al prestito della banca, se il prezzo pagato per la casa sia corrispondente al valore di mercato e se effettivamente una tale spesa fosse alla nostra portata. Se troppo basso, si potrebbe ipotizzare che fosse da ristrutturare. Ma abbiamo portato in detrazione quelle spese? E se non è stato fatto, è perché qualcosa è stata pagata in nero? E se, invece, fosse stata la compravendita ad avere qualche lato oscuro? Sono domande che si pongono in linea teorica: l’Agenzia delle Entrate non ha personale a sufficienza per passare al setaccio tutti questi minimi dettagli, ma è chiaro che se il sistema segnalasse potenziali anomalie, allora potrebbero essere dolori.

È un po’ quello che succede con i famigerati controlli a tappeto della Guardia di Finanza. Ipotizziamo che un cittadino alla guida di un bel Suv venga fermato a un posto di blocco: patente, libretto e carta d’identità. I solerti finanzieri inviano i dati alla loro centrale operativa e all’Agenzia delle Entrate. A quel punto, se il proprietario risulta aver dichiarato un reddito di qualche decina di migliaia di euro, saranno lacrime e stridore di denti. Idem per i mezzi di lusso che risultano proprietà di aziende: la Finanza controlla il reddito dell’impresa. Se la vettura è intestata a un parente o a un amico, il controllo viene eseguito sul reddito dei proprietari. Motivo per il quale negli anni scorsi molti benestanti hanno rinunciato al «macchinone» per non avere seccature. E pensare che questa innovazione avrebbe pure uno scopo nobile: evitare che si acceda in maniera fraudolenta alle prestazioni sociali che prevedono diverse tariffe a seconda delle fasce di reddito, come l’iscrizione all’asilo o la retta universitaria, se l’indice di situazione economica equivalente – Isee – della propria famiglia è basso. Il fatto è che la politica fiscale di Matteo Renzi è tutta impostata sulle teorie dell’ex ministro Vincenzo Visco (lo ricordate? Pubblicò su internet i redditi degli italiani), l’uomo per il quale tutti sono evasori. E contro l’evasione per Visco & C. non c’è che un rimedio: il terrore.

Il futuro è fatto di monitoraggi. Così come nei sogni dell’ex ministro che si tramuteranno nei nostri incubi. Anche quelle che il governo sta presentando come «rivoluzioni» non sono che trappole mortali per la nostra libertà. Prendete l’abolizione dello scontrino fiscale. Che c’entra con il Grande Fratello? Centra, c’entra. Prossimamente non ci sarà più bisogno di quel pezzettino di carta: le transazioni saranno inviate direttamente all’Agenzia delle Entrate che ne terrà conto per le nostre dichiarazioni precompilate. Ad esempio, se stiamo acquistando un farmaco,non ci sarà bisogno di portare con sé il tesserino sanitario perché, se paghiamo con il bancomat, l’Agenzia delle Entrate risale a noi e detrae la spesa dal nostro 730. Ecco, il trucco è tutto lì: disincentivare l’uso del contante e tracciare tutte le transazioni economiche.

Eppure c’è chi non si sorprende di questo cambiamento. «Per i funzionari dell’Agenzia non cambierà assolutamente nulla», spiega Sebastiano Callipo, segretario generale di Confsal-Salfi, il principale sindacato dei dipendenti delle Entrate. «Lo scopo è aumentare l’autotassazione – aggiunge – facendo capire, con il sorriso, al contribuente che sappiamo tutto di lui e oltre un certo limite di evasione non può andare, ma questo schema non funziona con un sistema fiscale che finisce con l’accanirsi su lavoratori dipendenti e pensionati». Il sospetto che, in realtà, dietro tutte queste innovazioni ci sia solo la volontà di aumentare il gettito diventa così una certezza. «La verità – afferma Callipo – è che lo Stato vuole dalle Entrate più di 20 miliardi e dobbiamo trovarli. Per questo motivo, ci sta trasformando da controllori in consulenti fiscali che devono spiegare ai cittadini che è bene dichiarare più tasse».

Pugno di ferro con i medici complici dei fannulloni

Pugno di ferro con i medici complici dei fannulloni

Gaetano Ravanà – Il Giornale

Come si fa a farsi riconoscere la legittimità del ricorso alla legge 104 (quella che regolamenta i permessi retribuiti per l’assistenza a un familiare) con la complicità di un medico? Per la procura agrigentina basta una spirometria realizzata dallo stesso medico che soffia nello strumento clinico in assenza del paziente, in modo da fare apparire una patologia in realtà inesistente. Oppure, dare dei consigli prima di una radiografia per la postura da assumere al fine di fare emergere difetti che non ci sono.

Questo è quello che per gli inquirenti si è verificato in decine e decine di casi nella provincia agrigentina. Oltre 150 persone, dietro il pagamento di tangenti, avrebbero ottenuto il riconoscimento della 104. Un’inchiesta che ha portato all’emissione, nel settembre dello scorso anno, di diverse ordinanze di custodia cautelare. Le manette ai polsi sono scattate per medici e intermediari. Oltre cento persone sono finite nel mirino della magistratura, ma l’inchiesta è andata avanti e la magistratura agrigentina, con in testa il procuratore Renato Di Natale e l’aggiunto Ignazio Fonzo, ha puntato l’attenzione sul mondo della scuola, dove il fenomeno ha assunto connotati molto sospetti. È stato un comitato spontaneo di insegnanti che si è costituito per fronteggiare il fenomeno della 104 a presentare una denuncia al Tribunale agrigentino. Diversi docenti non riuscivano mai ad ottenere il trasferimento, pur avendo i numeri, perché proprio per l’autorizzazione all’utilizzo della 104 ad altri colleghi venivano di fatto, ogni anno, scavalcati nella graduatoria.

Analizzando le carte che il Provveditorato agli Studi di Agrigento ha consegnato agli agenti della Digos, sono saltate fuori un paio di situazioni ritenute coincidenze «strane» e necessarie di approfondimento. Nella città di Sciacca, in particolare, su 140 tra docenti, impiegati in segreteria e operatori scolastici, 90 hanno la 104, circa il 70 per cento. In un’altra scuola, sempre nell’Agrigentino, su un organico di undici bidelli, tutti quanti hanno beneficiato della legge 104, vale a dire il cento per cento. Ma da quanto trapela da ambienti investigativi e anche da quelli di Provveditorato e Inps, ci sarebbero tante altre situazioni «sospette». La procura ha già anticipato un nuovo filone che potrebbe portare a un numero di indagati da capogiro. Per iniziare sono 280 le persone, in gran parte insegnanti, ma ci sono anche dipendenti e funzionari di altre pubbliche amministrazioni, che risulterebbero indagate. Si scopre che altri certificati medici sarebbero stati costruiti ad hoc per ottenere il trasferimento a casa.

Questo nuovo scandalo va a sommarsi alla vicenda della malattia di massa dei vigili urbani di Roma e dei netturbini di Napoli nella notte di Capodanno. La complicità dei medici sta alla base del tutto e, proprio per questo motivo il Governo entro febbraio modificherà le norme del lavoro nel pubblico impiego. I controlli sui certificati di malattia verranno potenziati e non verranno più assicurati dalle Asl ma direttamente dall’Inps. La stessa procedura dovrebbe essere estesa anche all’iter per il riconoscimento della legge 104.