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Quei tedeschi furbetti: affari coi russi in segreto

Quei tedeschi furbetti: affari coi russi in segreto

Gabriele Villa – Il Giornale

A porte chiuse. Nella speranza che non si sappia troppo in giro. Perché le sanzioni vanno rispettate. O almeno dovrebbero venire rispettate. Specie da chi, come la Germania della cancelliera di ferro, è sempre pronto a dare lezioni di comportamento e a bacchettare chi non fa i compiti a casa. Ma a porte chiuse, quando si sperava che nessuno ascoltasse e nessuno vedesse, ecco che una quindicina di imprenditori tedeschi si sono presentati a Mosca per far sapere a chi di dovere che le sanzioni interessano tanto quanto e che interessa loro di più continuare a fare affari. In altre parole: che il business tedesco in Russia continua e continuerà a dispetto della linea dura (di facciata) che Berlino continua a tenere nei confronti del Cremlino.

E così, anche se non si doveva sapere in giro, il quotidiano Kommersant ha spifferato tutto, perché avant’ieri a Mosca si è tenuto una sorta di vertice, un incontro della business community tedesca con il vice premier Igor Shuvalov e il ministro degli Esteri russo, Serghei Lavrov. Secondo Kommersant, l’incontro è stato organizzato dal Comitato orientale dell’economia tedesca, che raggruppa decine di società della Germania attive in Russia, e che ha confermato l’evento senza aggiungere dettagli. «Sono state discusse le relazioni russo-tedesche in campo economico e la via d’uscita dalla crisi attuale. I negoziati sono stati di carattere chiuso e riservato», ha fatto sapere al giornale l’organizzazione. Tra i partecipanti, una quindicina di top manager, tra cui rappresentanti di colossi come Siemens e Wintershall, che «negli ultimi mesi hanno cercato di convincere il governo tedesco a non imporre sanzioni alla Russia, per non danneggiare gli affari», ha spiegato la fonte del quotidiano. Le sanzioni contro Mosca hanno infatti colpito fortemente l’economia tedesca. Secondo l’agenzia di statistica federale tedesca, l’export di Berlino verso Mosca è calato del 26,3% ad agosto. Nonostante le pressioni, la cancelliera Angela Merkel, comunque, ha continuato a ribadire l’irritazione di Berlino con Mosca, soprattutto dopo le elezioni svolte dai separatisti nell’Est Ucraina, e ha insistito che non c’è motivo di revocare le sanzioni Ue.

Resta il fatto che l’atteggiamento, come dire, disinvolto dell’industria tedesca, preoccupa non poco la comunità imprenditoriale italiana in Russia. L’allarme è stato lanciato dal presidente di Confindustria Russia, Ernesto Ferlenghi. «Rispetto ai nostri rapporti con la Russia, di carattere prevalentemente commerciale, quelli della Germania sono per lo più di tipo industriale, quindi hanno una forza maggiore – ha dichiarato Ferlenghi -. Noi abbiamo circa 500 aziende presenti nel Paese, loro 6mila e in più molte joint venture ». Secondo Ferlenghi «a differenza nostra, i tedeschi stanno continuando a portare a casa contratti, perché con le loro agenzie di credito agli investimenti stanno compensando quello che le banche, per via delle sanzioni, non possono fare. In più hanno studiato e capito come applicare le sanzioni, trovando spazio anche per espandersi in fette di mercato, che vanno al di là di quelle coperte tradizionalmente, come i grandi macchinari».

Il caos della Legge di Stabilità: ecco perché non funziona nulla

Il caos della Legge di Stabilità: ecco perché non funziona nulla

Renato Brunetta – Il Giornale

Cronistoria del grande imbroglio di Matteo Renzi.

Aprile/luglio: in principio fu il Def
Matteo Renzi si era da poco insediato a Palazzo Chigi e l’8 aprile il Consiglio dei ministri deliberava questo strano documento. Le stime sulla crescita del Pil in Italia per il 2015 registravano +0,8% e la cifra veniva definita «estremamente prudente e aderente alla realtà». Lo stesso Def conteneva il rinvio del pareggio di bilancio di un anno, dal 2015 al 2016, giustificato dalla grave recessione economica e dai costi delle riforme strutturali. La Commissione europea fu informata delle intenzioni del governo, che proponeva a Bruxelles un piano di rientro incentrato sugli effetti benefici, in termini di crescita, delle riforme, ai tempi ancora neanche abbozzate (non che ad oggi si siano fatti progressi). La risposta della Commissione arrivò chiara a luglio: nein. E nelle raccomandazioni fu scritto: l’Italia faccia «sforzi aggiuntivi» già nel 2014 per rispettare il Patto di Stabilità, ma soprattutto confermi il raggiungimento del pareggio di bilancio nel 2015. Prima clamorosa sconfitta del governo Renzi.

Settembre: la nota di aggiornamento al Def
Il governo Renzi non ha dato alcun seguito alle raccomandazioni della Commissione e, anzi, ha rilanciato. Altro che pareggio di bilancio nel 2016: con la nota di aggiornamento al Def l’Italia lo fa slittare di un altro anno, fino al 2017. Inoltre, vengono riviste al ribasso tutte le stime, e la crescita per il 2015 passa dal «prudente» +0,8% a -0,3%. Storicamente gli aggiustamenti non sono mai stati superiori a qualche decimale. Quest’anno di oltre un punto di Pil. Vuol dire che ad aprile i calcoli erano tutti sbagliati. Seconda figuraccia planetaria.

Ottobre: la legge di Stabilità
Dopo l’approvazione della nota di aggiornamento, il governo cambia di nuovo tutto. Il 15 ottobre viene presentata la legge di Stabilità: la manovra, che all’inizio non doveva esserci, poi doveva essere di 10-13 miliardi, poi di 25, lievita fino a 30 e infine arriva a 36 miliardi: 18 miliardi di minori tasse e 18 di maggiori spese. Manovra coperta per 15 miliardi dal solito pozzo senza fondo della spending review; per 3,8 dal recupero dell’evasione fiscale; per 3,6 da un ulteriore aumento della tassazione del risparmio; per 2,6 dalla tassazione giochi, dalla riprogrammazione dei fondi europei e dalla vendita delle frequenze della banda larga; e per i restanti 11 miliardi in deficit.

Ancora ottobre: la variazione della nota
Anche in questo caso delle intenzioni del governo viene informata la Commissione europea che chiede correzioni, possibilmente entro 24 ore. La manovra viene ridimensionata di 4,5 miliardi. E con essa il carattere espansivo. Ancora una volta il governo deve rifare i calcoli. E approva la relazione di variazione della nota di aggiornamento al Def. In poco più di 6 mesi conti rifatti 4 volte. Che credibilità può avere un governo così confusionario? Come pretendiamo che reagiscano i mercati?

Legge di Stabilità: aumentano le tasse
Le misure «espansive» pubblicizzate dal premier sono un bluff e non avranno effetti sull’economia. Come già avvenuto ad aprile con il bonus degli 80 euro. Al contrario, aumenterà la pressione fiscale. Ma questo Renzi non lo dice. La legge di Stabilità ha «gittata» pluriennale, e se le tasse diminuiranno di 18 miliardi nominalmente nel 2015, aumenteranno certamente, di fatto, di 12,4 miliardi nel 2016; 17,8 miliardi nel 2017 e 21,4 miliardi nel 2018. Un valore cumulato, in 3 anni, di 51,6 miliardi: più di 3 punti di Pil. Significa che aumenteranno l’Iva fino al 25,5%, benzina e accise. Se a ciò si aggiunge l’aumento della tassazione del risparmio e sulla casa il conto diventa insostenibile. Come faranno i nostri cittadini ad arrivare al 2018? E perché Renzi parla del bonus di 80 euro e dei 18 miliardi di riduzione delle tasse nel 2015 e non dice dell’aumento delle tasse di oltre 50 miliardi dal 2016?

Legge di Stabilità: il taglio dell’Irap lavoro
Di tutto il calderone, due misure della legge di Stabilità andavano bene, ma studiandole, si rivelano anch’esse un imbroglio: il taglio dell’Irap lavoro e la decontribuzione delle nuove assunzioni. La copertura finanziaria per i tagli all’Irap è un aumento dell’aliquota Irap: quella che a maggio era stata ridotta al 3,50%, tornerà al 3,90%. La copertura è stata individuata anche dalla cancellazione di due bonus in vigore: quello che offre alle aziende 12 mesi di tagli sui versamenti contributivi per i contratti di apprendistato prolungati al termine dei tre anni e quello che prevede il taglio del 50% sui contributi per le aziende che assumono lavoratori in disoccupazione da almeno 24 mesi. Al netto della partita di giro i 5 miliardi di sconto Irap si riducono a soli 2,9 miliardi.

Legge di Stabilità: la decontribuzione delle nuove assunzioni
Quanto alla decontribuzione delle nuove assunzioni a tempo indeterminato: considerando lo stanziamento del governo di 1,9 miliardi e il limite di esonero dal pagamento dei contributi pari a 8.060 euro per ogni nuovo assunto, il numero massimo di nuove assunzioni che potranno beneficiare dello sgravio è di 235.732 unità. I contratti a tempo indeterminato attivati nel 2013 sono stati 1.584.516.

Legge di stabilità: bambole, non c’è una lira
I 36 miliardi di minori tasse (18) e maggiori spese (18) della legge di Stabilità daranno origine a mancate entrate o a maggiori spese certe, mentre gran parte delle coperture previste non si realizzeranno. Dei 15 miliardi dalla spending review se ne realizzeranno al massimo 5-6, e per i restanti 10 scatteranno le clausole di salvaguardia; sugli iniziali 11 miliardi in deficit, oggi ridotti a 6, la Commissione europea si pronuncerà a fine novembre e non ne autorizzerà neanche uno; lotta all’evasione fiscale e tassazione giochi registreranno i valori già inseriti nel tendenziale, e non si realizzerà nulla in più di quanto già previsto. Serviranno 20-25 miliardi per finanziare la parte della manovra fatta in deficit o non coperta e scatteranno le clausole di salvaguardia: tagli lineari; aumento di accise; aumento Iva e imposte indirette. La pressione fiscale aumenterà di 1-1,5 punti di Pil, fino a superare il massimo storico del 45%.

Il grande imbroglio
Questa è la realtà nascosta. Con il risultato che, anche dopo le correzioni richieste dall’Ue, i parametri del Patto di Stabilità non saranno comunque rispettati. Il piano di rientro deve essere esteso all’intero triennio e non solo al 2015 come ha fatto il governo. Se si considera il trascinamento sul 2016, infatti, emerge che, a seguito delle correzioni intervenute in termini di deficit strutturale sul 2015 (da -0,9% a -0,6%), tra il 2015 e il 2016 è prevista una riduzione inferiore rispetto allo 0,5% richiesto dai Trattati. Questo non potrà che sollevare ulteriori obiezioni da parte della Commissione europea. In questo contesto, come fa il governo a ostentare sicurezza? È fin troppo facile dedurre che il grande imbroglio della manovra di Renzi avrà effetti nefasti in tema di aspettative dei consumatori, delle famiglie e delle imprese, che non si lasceranno ingannare dall’alleggerimento apparente del prossimo anno, ma guarderanno all’aumento medio complessivo della pressione fiscale. Renzi e compagni hanno creato un imbroglio e l’hanno chiamato stabilità. E i mercati non staranno sereni.

L’addizionale Irpef ci stende: pesa più delle tasse sulla casa

L’addizionale Irpef ci stende: pesa più delle tasse sulla casa

Fabrizio Ravoni – Il Giornale

Regioni e Comuni come Ugolino della Gherardesca. A lui, Dante fa dire: più del dolor potè il digiuno. Per i contribuenti vale la regola analoga: più della Tasi poterono le addizionali. Secondo uno studio degli artigiani di Mestre, gli italiani pagano più di addizionali comunali e regionali che di tasse sulla casa. E la situazione può soltanto peggiorare, visto l’impegno del governo a concedere autonomia fiscale ai Comuni per compensare il taglio dei trasferimenti.

Tra il 2010 e il 2015 le addizionali comunali e regionali aumenteranno in maniera esponenziale, in relazione al reddito. In media, per un impiegato saliranno del 35 per cento; per un operaio e un lavoratore autonomo del 36 per cento; per un quadro del 38 per cento e per un dirigente del 41 per cento. Il loro peso economico è superiore a quello di Tari e Tasi messe assieme. Una famiglia di tre persone pagherà al Comune sotto forma di tasse sulla casa e sui servizi intorno ai 500 euro all’anno. Dalla sua busta paga, però, il combinato disposto di addizionali regionali e comunali ridurrà il potere d’acquisto di un impiegato di 732 euro; quello di un lavoratore autonomo scenderà per le addizionali di 924 euro; quello di un quadro di 1.405 euro. Mentre un dirigente verserà nelle casse degli enti locali 3.583 euro. Solo un operaio pagherà più di Tasi e Tari che di addizionali: 500 euro contro 430.

Gli artigiani di Mestre hanno anche fatto le simulazioni categoria per categoria. Eccole. Un operaio con uno stipendio mensile netto pari di quasi 1.290 euro, ha visto aumentare in questi ultimi 5 anni il carico fiscale delle addizionali di 114 euro (+36%). Nel 2015 pagherà 429 euro (- 1 euro rispetto al 2014). Un impiegato con uno stipendio netto di poco superiore ai 1.800 euro al mese, tra il 2010 e il 2015 versa 195 euro in più, pari a un aumento del 35%. L’anno prossimo pagherà 747 euro (+ 15 euro rispetto al 2014). Un lavoratore autonomo con un reddito annuo di 40mila euro ha subito un incremento di imposta di 253 euro (+36%). Nel 2015 il peso delle addizionali sarà pari a 747 euro (+ 15 rispetto al 2014). Un quadro con uno stipendio mensile netto di circa 3mila euro al mese, ha subìto, invece, un aggravio di 403 euro (+38%). L’anno prossimo verserà 1.455 euro (+ 50 euro rispetto al 2014). Un dirigente, infine, con uno stipendio di quasi 7mila euro netti al mese ha visto aumentare il peso delle addizionali di 1.094 euro (+41%). Nel 2015 le addizionali peseranno per un importo complessivo di 3.753 euro (+ 170 euro rispetto l’anno prima).

Secondo Giuseppe Bortolussi, segretario degli artigiani di Mestre, il fenomeno è da mettere in relazione al fatto che «negli ultimi anni le addizionali Irpef hanno subito dei forti incrementi, sia per compensare i tagli dei trasferimenti statali, sia per fronteggiare gli effetti della crisi che hanno messo a dura prova i bilanci delle Regioni e dei Comuni». Eppure contro l’aumento delle addizionali non c’è stata la protesta politica e non, come sulle tasse sulla casa. «La ragione di questo paradosso va ricercata – spiega Bortolussi – nelle modalità di pagamento di queste imposte. Le addizionali Irpef vengono prelevate mensilmente alla fonte, di conseguenza il contribuente non ha la percezione di quanto gli viene decurtato lo stipendio o la pensione. Per il pagamento della Tasi e della Tari, invece, i cittadini devono mettere mano al portafogli per onorare le scadenze e recarsi fisicamente in banca o alle Poste. Operazioni che psicologicamente rimangono ben impresse nella mente di ciascuno». Senza contare il fatto che le tasse sulla casa, in tre anni, sono passate da un gettito di 10 miliardi a uno di 31 miliardi.

Il rimedio antiscioperi: privatizzare i servizi

Il rimedio antiscioperi: privatizzare i servizi

Francesco Forte – Il Giornale

Susanna Camusso, nell’adunata a Roma della Cgli cui partecipa l’anima dura del Pd ha minacciato lo sciopero generale sula legge di Stabilità, come se con questo sistema di potessero creare posti di lavoro e crescita del Pil. Al contrario, Davide Serra, finanziere renziano della prima ora, nella convention della Leopolda cui partecipa l’anima populista- versione british – del Pd, ha chiesto la limitazione del diritto di sciopero dei servizi pubblici. Citando Alitalia e trasporti pubblici, ha detto che una impresa estera che li ha visti perde la voglia di investire in Italia.

La proposta di Serra, alla Leopolda, è stata accolta con imbarazzo, ovattato dal garbo che è nello stile della convention, nel garage che evoca i creativi di internet della Silicon Valley. Nella tesi del Serra c’è del vero. L’attuale regolamentazione dello sciopero di pubblici servizi è cucita su misura della Cgil e dei lavoratori del pubblico impiego, garantiti dai soldi del contribuente. Infatti, si può annunciare lo sciopero nel pubblico servizio, creando la disdetta di viaggi, appuntamenti, udienze, con gravi danni al servizio e al suo pubblico e poi revocarlo all’ultimo minuto, beffando datori di lavoro e pubblico. Si possono concentrare questi scioperi prima dei giorni festivi settimanali e di Natale, Pasqua e altre festività, in modo da creare «ponti lunghi» a beneficio degli scioperanti e danni speciali per il pubblico. Ma ciò è secondario.

Il punto centrale è che quando i servizi pubblici sono privatizzati, con aziende quotate in borsa e senza pubbliche sovvenzioni, i contratti di lavoro aziendali prevalgono su quelli nazionali e sono orientati alla produttività e le imprese possono ricorrere a part-time, lavoro flessibile cosiddetto precario e a partite Iva e lo sciopero nei servizi pubblici lo si fa solo in casi estremi e delimitati. Ciò perché il lavoratore, allora, è al servizio del pubblico, anziché viceversa. Solo così il suo posto di lavoro regge e la sua retribuzione è basata sul risultato di mercato. Non si tratta tanto di limitare lo sciopero dei pubblici servizi quanto di privatizzare i servizi pubblici, dalle ferrovie, alle poste, alle migliaia di imprese di comuni e regioni e di recidere i legami fra politica e imprese e banche. Ma questa spending review e le privatizzazioni nella legge di Stabilità dei leopoldiani non ci sono.

Ecco le riforme urgenti che il governo non sa fare

Ecco le riforme urgenti che il governo non sa fare

Renato Brunetta – Il Giornale

Oggi Renzi è un leader dimezzato. Nel Pd si riconoscono centinaia di migliaia di persone che gridano in piazza slogan terrificanti contro il premier, guidati da leader sindacali e parlamentari militanti nelle sue fila. Come può fare le riforme che la drammatica situazione richiede con assoluta urgenza? Semplicemente, non può. A oggi non ne ha fatta neanche una. Ma questa ambiguità non può durare. L’analisi economico-finanziaria chiede credibilità e forza democratica, che il presidente del Consiglio non ha. Ed è questa la maledizione di Renzi: è leader grazie a un imbroglio e alla pavidità dei suoi compagni di partito. In piazza ormai il re è nudo. È impossibile che un governo sostenuto da un partito diviso a tutto faccia le riforme necessarie per portare l’Italia fuori dalla crisi. E la situazione internazionale rischia di volgere al peggio.

Sul piano politico, l’Europa è assediata da conflitti militari ed economici che minano la sicurezza ed espongono il continente alle possibili scorrerie del terrorismo. La Russia sta vivendo un periodo travagliato. Le vicende ucraine hanno alimentato diffidenze che sembravano appartenere a un lontano passato. L’improvvisa caduta del prezzo del petrolio mina l’economia russa, privandola di quei mezzi finanziari che in questi anni hanno consentito di accelerare il processo di modernizzazione economica e finanziaria, dopo il crollo dell’ancien régime. Un’Europa politicamente divisa e incerta non riesce a coprire quel vuoto che gli avvenimenti appena richiamati rischiano di allargare. E tutto ciò determina una crisi di leadership di cui sarebbe sbagliato non cogliere i pericoli.

Sul piano economico-finanziario si assiste a un rallentamento dell’economia reale e a una forte volatilità dei mercati finanziari, con pesanti ricadute su Borse e spread nei confronti dei paesi dell’area euro più indebitati e a vantaggio dei bund tedeschi. Lo stesso Fondo monetario internazionale è stato costretto a rivedere a ribasso le stime sulla crescita dell’economia mondiale al +3,4 dal 3,7%. Secondo i principali osservatori, al centro delle preoccupazioni dei mercati c’è la forte caduta del prezzo del petrolio e delle altre materie prime; lo spettro della recessione e della deflazione in Europa; la crescita del debito (pubblico e privato) della Cina, pari al 250% del Pil e all’intera ricchezza nazionale, cresciuto del 150% solo negli ultimi 6 anni.

In quest’ultimo anno il prezzo del petrolio è sceso da 115 dollari al barile a 85 (quasi -30%), raggiungendo un valore pari a quello di 4 anni fa ma senza aumento della produzione. La caduta è dovuta a carenza di domanda e ai mancati investimenti, come dimostra il calo della produzione elettrica per usi industriali. Fenomeni analoghi, anche se più contenuti, si registrano in tutti i comparti delle commodities. Negli ultimi 6 mesi il prezzo dei prodotti agricoli è sceso in media del 15,5%. Quello delle materie prime industriali del 3,4%.

Negli Stati Uniti la quasi raggiunta autosufficienza nel settore energetico (lo sfruttamento dello shale-oil negli Usa è cresciuto del 13%, il 56% in più rispetto a quanto cresceva nel 2011) ne riduce la dipendenza dall’estero, con un contenimento delle importazioni e impulsi meno espansivi sul resto dell’economia mondiale. Il break-even point è sotto i 70 dollari al barile (ora siamo a 85 rispetto ai 115 di inizio anno, il prezzo è destinato quindi a scendere ancora).

In Giappone si assiste a un primo rallentamento della crescita (che rimane comunque a +7,1% nel secondo trimestre 2014), determinato dall’aumento delle tasse sui consumi (dal 5% all’8%) che ha determinato una forte contrazione della domanda interna. A influire è stata la motivazione del governo, cioè frenare la crescita del debito pubblico giapponese ormai al 240% del Pil.

In Europa il rallentamento complessivo è noto, ormai siamo considerati l’epicentro della deflazione. La produzione industriale è in caduta ad agosto (-1,4% su base annua). In difficoltà ci sono Francia, Italia e Grecia, stremata dal punto di vista sociale e forse pronta per un cambio di leadership a favore dei movimenti antieuropeisti. Anche la stessa Germania ha rivisto la crescita da +1,8% a +1,2% nel 2014 e da +2% a +1,3% nel 2015. In compenso cresce l’attivo della bilancia commerciale dell’Eurozona: 9.200 miliardi di surplus nell’agosto 2014, contro i 7.300 dell’agosto 2013 per la compressione della domanda interna.

All’origine di queste contraddizioni c’è l’artificioso rialzo dell’euro su dollaro e yen e l’austerity contro cui la politica monetaria voluta da Mario Draghi si sta dimostrando poco efficace. Non ci può essere una politica monetaria espansiva e una di bilancio restrittiva. L’asimmetria determina un corto circuito che accentua il «circolo vizioso» che divide l’Europa e favorisce i paesi più forti, che beneficiano di tassi di interesse più bassi, in un gioco a somma negativa. La carenza di domanda effettiva complessiva impedisce anche alle industrie dei paesi più forti di avere un mercato adeguato alle potenzialità della rispettiva offerta. Sono questi squilibri, assieme ai risultati non del tutto positivi, degli stress test sulle banche dell’Eurozona, che accentuano la deflazione e rischiano di mettere a repentaglio la sopravvivenza dell’euro.

Per risalire la china è indispensabile che i paesi più deboli diano priorità alle riforme che aumentino la loro produttività e – solo dopo, non prima – pensino a misure di carattere espansivo per il rilancio dell’economia. Mentre i Paesi più forti devono reflazionare le loro economie: in Germania la spesa per infrastrutture può aumentare fino allo 0,7% del Pil nel 2015 e allo 0,5% nel 2016 senza alcuna violazione delle leggi di bilancio. Al tempo stesso servono interventi della Ue sugli investimenti che vadano oltre il piano Juncker, potenziando a tal fine il ruolo della Banca europea degli investimenti, e riflettendo sull’opportunità di emettere Eurobond per trasformare almeno una parte dei debiti sovrani in obbligazioni europee. È quindi doveroso sostenere le misure non convenzionali che il presidente della Bce intenderà adottare.

Le cose da fare sono tante, in Europa e in Italia. Il governo Renzi ha la forza di farle? L’agenda parlamentare è infernale: Jobs Act, già snaturato al Senato; delega fiscale; Italicum; riforma di Senato, Pubblica amministrazione e giustizia. Ha gli strumenti per farlo? Noi pensiamo che un leader dimezzato non riuscirà a portare a compimento nessuna delle promesse fatte all’Italia e all’Europa. Con questa maggioranza ci sarà sempre una mediazione intollerabile tra il liberalismo (a parole) del premier (che mentendo sostiene di aver tagliato le tasse, e l’altra metà del Pd che vuole la patrimoniale, aggredendo i beni del ceto medio. Questo equivoco deve finire.

Un diktat che merita solo un bel vaffa

Un diktat che merita solo un bel vaffa

Vittorio Feltri – Il Giornale

La lettera minatoria che il presidente della Commissione europea, Barroso, ha inviato a Palazzo Chigi è la dimostrazione plastica che Bruxelles considera l’Italia una scolaretta negligente e, pertanto, ritiene lecito tirarle le orecchie e prenderla a bacchettate con disinvoltura. Può darsi che in assoluto noi meritiamo simile trattamento, perché da anni giuriamo di stare in riga e invece, passando da Berlusconi a Monti e da Enrico Letta a Renzi, non abbiamo fatto altro che sbandare, come certificano i dati economici degli ultimi tre anni, andati via via peggiorando rispetto a quelli registrati in epoca di centrodestra.

Ammesso e non concesso che siamo asini, non si capisce comunque perché l’Ue si arroghi il diritto di darci la pagella secondo pregiudizi, e non giudizi, che prescindono dalla conoscenza dei fatti. In altri termini, più crudi, se la Germania e i suoi camerieri scodinzolanti non apprezzano la politica romana sono liberi sì di criticarci e, al limite, di buttarci fuori dal club burocratico in cui guazzano, ma non di recapitarci una missiva dai toni ultimativi, sgradevoli, maleducati e arroganti, degni del Quarto Reich, anzi del Terzo. Essi ci hanno invitato perentoriamente a rispondere entro 24 ore al loro diktat in cui si dice che la nostra manovra (legge di stabilità) fa praticamente ribrezzo ed è quindi necessario correggerla, altrimenti…

Altrimenti che? Cosa fate, ci cacciate? Provateci, fessacchiotti. Senza Italia nel mucchio selvaggio di 28 Paesi, in cerca di una unione fittizia, salterebbe per aria non solo la Ue, ma anche la moneta unica difesa con spocchia dagli affamatori del popolo, cioè banchieri, finanzieri e loro utili idioti, tra cui economisti da talk show. Ecco perché ci auguriamo che Matteo Renzi (costretti ad affidarci a lui, già siamo nelle sue mani, oddio in che mani siamo), attingendo una tantum all’aulico linguaggio di Beppe Grillo, e rivolgendosi a Barroso e complici, pronunci il classico vaffanculo. Quando ci vuole, ci vuole.

Non ci vengano a dire lorsignori di Berlino e Bruxelles che se disubbidiamo agli ordini saremo commissariati, come se il nostro Paese fosse una colonia dei tognini. Manderanno in trasferta a Roma i commissari? Li accoglieremo nel migliore albergo. Va bene l’Excelsior di via Veneto? Ok. Qui rimpinzeremo gli ospiti di spaghetti all’amatriciana e di pizza e, l’indomani, li caricheremo sulle auto blu invendute rispedendoli a casa, oltre frontiera. Ce la siamo sempre cavata da soli nei momenti più tragici, compresi due dopoguerra mondiali e una tentata rivoluzione dei brigatisti rossi (indimenticabili quanto portentosi coglioni), vi pare che ci possano far tremare le ginocchia quattro contabili avvezzi a misurare la lunghezza degli zucchini e a disporre la distruzione delle arance siciliane? Andate all’inferno.

Noi con la politica dei piccoli passi (da gambero) ci eravamo guadagnati una buona posizione, poi siete arrivati voi menagramo con l’euro fasullo e coniato non per aiutare il popolo europeo, che non esiste (esistono tanti popoli europei privi di un denominatore comune), e ci siamo lasciati infinocchiare, affascinati dall’idea di appartenere a una élite che avesse in tasca le stesse banconote. Prodi e Ciampi, nel predisporci a essere presi in giro, ci misero del loro, ma sorvoliamo per rispetto della terza età (cui mi avvicino). Constato che Renzi non usa le buone maniere ma preferisce la pressa delle rottamazioni rapide. Lo preghiamo vivamente di non intimidirsi davanti a un portoghese (vocabolo che da noi ha un significato giustamente sinistro) e di apprestarsi piuttosto a mandarlo a quel Paese, il suo, dove troverà altri portoghesi più malleabili di noi. Chiaro il concetto?

Caro presidente Renzi, lei che ha fatto fuori le cariatidi del Pd in pochi mesi, non faticherà a far secco anche questo intruso, Barroso, un nome che evoca quello di un calciatore, anzi di vari calciatori, tutti modesti. Ci aspettiamo da lei un atteggiamento dignitoso, un atto di coraggio che riaffermi la nostra sovranità nazionale a costo di sfidare il Quarto Reich che, senza di noi, farebbe la fine del Terzo, sul serio. Un’ultima osservazione prima di chiudere. L’Ue si è risentita perché Padoan, ministro dell’Economia, ha pubblicato la lettera minatoria sul sito del proprio ministero. Ma da quando in qua gli atti ufficiali in democrazia rimangono segreti? Ha fatto benissimo Padoan a divulgarla. Chi lancia il sasso e nasconde la mano è un vile; chi ambisce perfino a nascondere il sasso è un pistola.

P.S.: Presidente Renzi, le rammento che nel 2011 Berlusconi ricevette una lettera dalla Ue e, non avendola rispedita al mittente con un circostanziato vaffa, fu sfanculato. Politico avvisato, mezzo salvato.

Usare il bancomat non è più reato

Usare il bancomat non è più reato

Nicola Porro – Il Giornale

Negli ultimi 10 anni esagerare con il Bancomat era davvero rischioso. Non tanto perché si rischiava di finire in rosso in banca, quanto perché si era certi di finire soffritti dall’Agenzia delle entrate. Facciamo un passo indietro. Gli uomini di Attilio Befera (oggi è stato sostituito come ben sapete da Rossella Orlandi) nei confronti dei tanto odiati lavoratori autonomi, e in particolare dei professionisti, si erano dotati di un bazooka. Chiunque dal primo gennaio del 2005 si fosse permesso di utilizzare il Bancomat avrebbe dovuto dimostrare a chi erano destinati i contanti. Una roba da pazzi. Ma credeteci, vera. In caso di accertamento, gli uomini del fisco si presentavano dal lavoratore con un foglio elettronico con su scritti tutti i Bancomat e prelievi cash fatti negli ultimi cinque anni. In modo del tutto arbitrario sostenevano che una percentuale potesse essere giustificata dal tenore di vita e dalle spese più spicce (sigarette, caffè, mance che si possono presumere pagate in contanti), ma sul resto era necessaria una prova dell’utilizzo da parte del povero contribuente. Una prova chiaramente diabolica. Ma ancora più diabolico era l’atteggiamento del fisco.

Mettiamo che il poveraccio avesse prelevato, in cinque anni, 10mila euro (ma per un reddito medio potrebbe essere ben di più) e che gli uomini del fisco gli abbuonassero 4mila euro. Il resto, e cioè 6mila euro, veniva considerato dal fisco come ricavo aggiuntivo, non dichiarato e dunque evaso, da parte del lavoratore autonomo. Secondo il principio che il nero genera il nero (cosa peraltro vera), per dieci anni professionisti e autonomi hanno pagato imposte su prelievi fatti con il Bancomat di cui non sono stati capaci di giustificare l’utilizzo. Se uno sprovveduto, dotato di buon reddito e sicuro di essere fiscalmente a posto, si fosse azzardato a giocare e perdere a poker o fare regali in contanti a sue amiche (sì, certo, non molto elegante, ma saranno fatti suoi) o a parenti o a figli, per più di 50mila euro l’anno, rischiava addirittura di finire in carcere per superamento delle soglie di evasione ai fini della rilevanza penale. Ai signori del fisco si dovevano giustificare anche le mance, se cospicue. Insomma, un inferno fiscale. E soprattutto un principio da Stato di polizia.

Ovviamente chi è stato colpito da simili indagini ha fatto ricorso. Ma la Cassazione per una buona serie di casi ha dato ragione all’impostazione del fisco. In effetti, dal punto di vista legale, l’Agenzia era blindata da un codicillo contenuto nella Finanziaria del 2005 (governo Berlusconi). Fino a quando un contribuente si è rivolto alla Commissione tributaria regionale del Lazio che, nel 2013, bontà sua, si è rimessa addirittura alla Corte costituzionale dubitando della legittimità di questa norma, che anche a un bambino sembra folle. Siamo così arrivati ai giorni nostri e alla decisione della Corte che, pochi giorni fa, con la sentenza numero 228, ha giudicato incostituzionale la procedura e questa diabolica presunzione legale. Evviva. Sono passati solo dieci anni. E molti professionisti hanno già subito la gogna dell’evasione e pagato la sanzione conseguente. Finalmente un giudice, a Roma, ha stabilito che quell’assurda presunzione sui prelievi di contanti come costituzione di ricavi in nero sia stata lesiva del principio di ragionevolezza e capacità contributiva.

Alla fine viene da pensare sulla qualità del percorso legislativo in questo Paese. E qualche brivido corre lungo la schiena pensando all’ultima finanziaria (ora si chiama legge di Stabilità). Siamo piuttosto certi che l’idea di tassare la liquidità prelevata con i Bancomat non sia stata un’idea di Silvio Berlusconi all’epoca al governo. Eppure sono dieci anni che professionisti e autonomi pagano per questa scellerata previsione normativa.

All’interno della Finanziaria del 2005 fatta di un solo articolo e 572 commi, al comma 402 era previsto: le parole da «a base delle stesse» alla fine del periodo sono sostituite dalle seguenti: «o compensi a base delle stesse rettifiche e accertamenti, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili, i prelevamenti o gli importi riscossi nell’ambito dei predetti rapporti od operazioni». Non state a perderci la testa: arabo. All’epoca, c’è da giurarci, l’astrusa previsione normativa fu presentata dagli uffici ministeriali come norma fondamentale per combattere l’evasione fiscale. E giù tutti ad applaudire. Ecco, quando vi dicono, come purtroppo si scrive anche nell’ultima legge di Stabilità, che sono previste nuove e più dure norme per combattere i furbetti, state certi che la fregatura è per tutti.

Un’altra tempesta perfetta rischia di travolgere l’Europa

Un’altra tempesta perfetta rischia di travolgere l’Europa

Renato Brunetta – Il Giornale

Se anche Paul Krugman fatica a capire come andrà a finire la «faccenda» dell’euro, o meglio, come farà a finire in modo non catastrofico, e si spinge fino a ipotizzare/auspicare l’uscita di paesi fondatori, come la Francia, dall’Unione europea e dalla moneta unica, vuol dire che la situazione è non poco compromessa. Che ormai le abbiamo provate tutte senza risultato, tanto in termini di politica economica quanto in termini di politica monetaria.

In politica economica si è sbagliata la linea: si pensi alla dottrina calvinista dei «compiti a casa» e alle ricette «sangue, sudore e lacrime» imposte ai paesi sotto attacco speculativo dall’Europa a trazione tedesca. Le misure di politica monetaria, invece, si stanno rivelando inefficaci, o meno efficaci del previsto. Siamo nel momento di maggiore debolezza non solo dell’Europa politica, ma anche della Bce, sempre più bloccata dai veti della Bundesbank, di cui gli operatori sono perfettamente a conoscenza e su cui cominciano a speculare. Dopo 2 anni e mezzo di attesa, i mercati dicono «vedo» al «faremo di tutto» di Mario Draghi del luglio 2012. Se la risposta non sarà immediata e forte l’Eurozona avrà finito le munizioni. E, questa volta sì, l’euro potrebbe implodere davvero.

La Germania dovrebbe ridurre il suo surplus della bilancia commerciale, aumentare gli investimenti e la domanda interna, magari facendo un po’ di deficit, ma non lo fa. La Francia dovrebbe dimostrarsi un po’ meno sfrontata nei confronti delle regole europee, indebolite dal suo atteggiamento sprezzante, ma non lo fa. E l’Italia sta perdendo la sua grande occasione di mediazione e sintesi: dimostrare a Germania e Francia che la verità sta nel mezzo, che le regole di bilancio si possono rispettare, utilizzando al meglio i margini di flessibilità già previsti dai Trattati. Basta essere credibili facendo le riforme che generano crescita e garantiscono un percorso di rientro da eventuali lievi discostamenti dai parametri di Maastricht.

Il vuoto di leadership lasciato dall’Italia è stato, quindi, ancora una volta, colmato dalla Germania. Giovedì, parlando davanti al suo Parlamento, Angela Merkel lo ha detto in maniera esplicita: la tempesta sui mercati, innescata mercoledì 15 dalla Grecia, è il risultato del mancato rispetto, da parte di alcuni paesi dell’area euro, delle regole del Patto di stabilità e crescita. La calma in Europa c’è stata solo quando le regole non sono state violate. La Germania è riuscita a coordinare disciplina di bilancio e crescita, e anche gli altri paesi devono fare lo stesso. La Cancelliera si è poi riservata di chiedere un rafforzamento della disciplina di bilancio già al prossimo Consiglio europeo del 23-24 ottobre a Bruxelles. Che significa ricadere nel circolo vizioso.

Ma questa è solo l’interpretazione tedesca della bufera finanziaria. C’è, infatti, chi la vede in maniera opposta: il crollo delle borse e il balzo in alto degli spread della scorsa settimana è dipeso dagli ennesimi dati negativi sull’andamento dell’economia nell’area euro, Germania inclusa. Recessione e deflazione sono il risultato delle politiche economiche sbagliate adottate negli anni della crisi e le istituzioni europee, pur avendo compreso l’errore, non accennano a cambiare rotta, anzi perseverano nel «sangue, sudore e lacrime». In un contesto come questo, in cui le politiche economiche dei paesi dell’Unione sono tutt’altro che coordinate tra loro e in cui, nel vuoto decisionale lasciato dalle istituzioni europee, l’unico paese che prende in mano la situazione è sempre e soltanto la Germania, portando l’Europa sulla strada sbagliata, neanche la Bce è più in grado di assicurare la calma sui mercati. Quello che emerge dalle decisioni di politica monetaria degli ultimi mesi, infatti, è che anche all’interno della Banca centrale europea sta prevalendo la linea tedesca.

L’ultima «zampata» di Mario Draghi risale ormai a quasi sei mesi fa, poi non è più riuscito a incantare i mercati. Proprio perché alla conferenza stampa mirabolante di giugno scorso, in cui annunciava un grande piano di 400 miliardi di finanziamenti agevolati alle banche, da destinare esclusivamente alla concessione di credito a famiglie e imprese, e un grande piano di acquisto di Abs (titoli obbligazionari che «impacchettano» prestiti a privati e imprese), per alleggerire i bilanci delle banche, non è seguito, al contrario di quanto prevedevano tutti, un programma di acquisto di titoli di Stato sul modello del quantitative easing americano, ma una clamorosa marcia indietro.

Se negli ultimi anni gli errori di politica economica sono stati compensati dalle misure di politica monetaria della Bce e l’Europa ha potuto beneficiare di un periodo di calma apparente sui mercati, si pensi al whatever it takes di luglio 2012, oggi la ritrovata incertezza e la debolezza della Bce scoprono la realtà vera: la moneta unica è una costruzione imperfetta e al suo interno i singoli Stati nazionali non sono in grado di camminare con le proprie gambe.

Il momento in cui tutto questo avviene non è dei migliori: il prossimo 26 ottobre saranno resi noti i risultati degli stress test di 124 banche europee (di cui 15 italiane) e i rumors non lasciano prevedere nulla di buono. Pare che già alcune delle vendite di Borsa della scorsa settimana siano state causate dal fatto che si dia quasi per certo il fallimento dei test di molte banche, non solo italiane. Inoltre, il 17 settembre la Fed ha ridotto ulteriormente la sua iniezione mensile di liquidità sui mercati, annunciando che gli acquisti di ottobre, pari 15 miliardi di dollari, potrebbero essere gli ultimi. Con meno soldi in circolazione le scelte di portafoglio dei gestori diventeranno più selettive e i primi titoli che saranno smobilizzati saranno quelli dei paesi europei considerati più deboli (come, per esempio, l’Italia, se continua a non fare le riforme). Al primo segnale di incertezza, di debolezza o di comportamenti opportunistici, inoltre, ricomincerà la corsa al Bund tedesco, considerato «bene rifugio», con il relativo aumento degli spread. Anche di questo la scorsa settimana abbiamo avuto già un assaggio.

La prossima riunione del comitato operativo della Fed è in agenda per il 29 ottobre. Solo allora sapremo se la linea della presidente Janet Yellen verrà confermata, o se prevarranno le istanze del presidente della Federal Reserve di Saint Louis, James Bullard, che, invece, preme per il prolungamento del quantitative easing . Il consiglio direttivo della Bce si riunirà il 5 novembre. Deciderà quello che i mercati si aspettano, vale a dire l’allentamento monetario, o prevarrà l’attendismo degli ultimi mesi, che, come abbiamo visto, ha neutralizzato l’accelerazione di giugno, e le borse precipiteranno ancora più giù? Un tale evento nefasto troverebbe l’Italia in mezzo al guado.

L’Italia manca di credibilità sul piano internazionale e dei mercati. L’esecutivo si regge su una maggioranza di partito e non su una maggioranza parlamentare. Nel paese protestano tutti, incluse le Regioni, governate da rappresentanti dello stesso Pd che è a palazzo Chigi. La finanza pubblica è fuori controllo e le previsioni macroeconomiche del governo appaiono fin troppo ottimistiche agli occhi di tutti. La legge di Stabilità presentata mercoledì va nella direzione opposta rispetto a quella auspicata dalla Commissione europea e dagli organismi internazionali. In controtendenza rispetto all’attuale mood dei mercati, come l’abbiamo descritto. Più che domare la tempesta, e cogliere l’occasione per assumere un ruolo di leadership in Europa, Matteo Renzi sembra fare di tutto per esserne travolto. Davvero vuol passare alla storia come colui che ha affossato l’Italia e, con l’Italia, l’euro?

Imprese, stangata di fine anno: arriva una tassa ogni due giorni

Imprese, stangata di fine anno: arriva una tassa ogni due giorni

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

In 61 giorni lo Stato si farà un’abbuffata di tasse e balzelli da 91 miliardi di euro a spese di famiglie e imprese. È quanto ha rilevato la Cgia di Mestre. A novembre e dicembre i contribuenti saranno impegnati in un vero e proprio tour de force per assolvere a una serie di obblighi fiscali che prosciugheranno le casse del sistema-Italia. Giusto per fare qualche esempio, si tratta del versamento delle ritenute Irpef dei dipendenti, delle ritenute per i lavoratori autonomi e dell’Iva. A queste si aggiungeranno gli acconti Irpef, Ires e Irap, il versamento dell’ultima rata dell’Imu e della Tasi per un totale di 25 scadenze fiscali che, escludendo sabati e domeniche, significano una tassa da pagare ogni due giorni.

«Una pioggia di scadenze che potrebbe mettere in seria difficoltà moltissime piccole imprese a causa della cronica mancanza di liquidità», osserva il segretario della Cgia di Mestre, Giuseppe Bortolussi, ricordando che «la fine dell’anno è un periodo molto delicato per le aziende perché, oltre all’impegno con il fisco, devono corrispondere anche le tredicesime ai dipendenti». Visto il perdurare della crisi, «questo impegno economico costituirà un vero e proprio stress test», aggiunge. L’unico politico a raccogliere l’appello di Bortolussi è stato Lorenzo Cesa, segretario dell’Udc. L’eccesso di tasse «rischia di mettere definitivamente in ginocchio il Paese», ha commentato formulando «l’auspicio è che il governo intervenga a stretto giro per alleggerire il carico fiscale, apportando anche dei miglioramenti alla bozza della legge di Stabilità». La priorità, ha concluso, è «salvare le nostre Pmi o la crescita resterà un miraggio».

La confederazione degli artigiani mestrini si è poi peritata nel determinare il numero complessivo delle gabelle e, tra queste, nell’individuare le più astruse. Il risultato è parzialmente sorprendente. «Tra addizionali, bolli, canoni, cedolare, concessioni, contributi, diritti, imposte, maggiorazioni, ritenute, sovraimposte, tasse e tributi, gli italiani ne pagano un centinaio», annota l’Ufficio studi della Cgia. Nella piccola galleria degli orrori fiscali, invece, si possono annoverare: l’addizionale regionale all’accisa sul gas naturale (una tassa sulla tassa) e l’imposta provinciale di trascrizione (una particolarità italiana che consiste nel versare un tributo alle Province per l’acquisto di un’auto nuova). Nell’elenco si trovano anche astrusità come l’imposta sulle riserve matematiche, cioè la tassazione dei fondi che le compagnie di assicurazione devono accantonare per garantire le polizze. Nell’epoca del commercio globale, poi, esistono ancora i dazi doganali che si chiamano «sovraimposta di confine» e si applicano al gas, agli spiriti, ai fiammiferi, ai sacchetti di plastica non biodegradabili, alla birra e agli oli minerali.

Quando, invece, si passa ad analizzare il gettito il catalogo si riduce di molto. Le prime dieci imposte (Irpef, Iva, Ires, Irap, imposta sugli oli minerali, Imu, imposta sui tabacchi, addizionale Irpef regionale, ritenute sugli interessi e altri redditi da capitale e imposta sul lotto) hanno garantito l’anno scorso oltre l’83 per cento del gettito tributario per complessivi 405,6 miliardi su un totale di 485,3. Secondo la Cgia, nel 2014 tra imposte e tributi lo Stato e le autonomie locali incasseranno 487,5 miliardi, con un lieve incremento rispetto al 2013. Ma se si computano anche i contributi sociali, di poco superiori ai 216 miliardi, quest’anno il gettito fiscale complessivo sfiorerà i 704 miliardi di euro. Una cifra da capogiro che mette in evidenza come il costo della macchina statale non sia più sostenibile se, per finanziarlo, gli italiani vengono tosati come pecore.

Sanità e dipendenti, tutti i tagli possibili per le Regioni sprecone

Sanità e dipendenti, tutti i tagli possibili per le Regioni sprecone

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

«Discuto con tutti, ma le Regioni facciano la loro parte perché hanno qualcosa da farsi perdonare». Il premier Matteo Renzi non vuole toccare l’impostazione della Legge di Stabilità, ma dovrà fare i conti con un mostro a venti teste (21 se includiamo il superautonomo Alto Adige). Quei 4 miliardi di tagli previsti sono stati proprio maldigeriti, anche se, a conti fatti, si tratterebbe di solo di risparmiare 2 miliardi in quanto le dotazioni per il Fondo sanitario nazionale che viene ripartito tra gli enti locali è stato aumentato di 2 miliardi per l’anno prossimo.

Ed è proprio da quei 110 miliardi che l’anno prossimo saliranno a 112 che si potrebbe partire per tagliare qualche spreco. Non foss’altro perché tale maxistanziamento finisce sempre per rivelarsi insufficiente, tant’è vero che alla fine del quarto trimestre 2013 – sia che fossero sotto piano di rientro sia che non lo fossero – le Regioni hanno accumulato altro deficit sanitario per circa un miliardo, un terzo dei -3 miliardi del 2012. Tra il 2002 e il 2013 la spesa sanitaria è cresciuta in media del 3% annuo a fronte di un incremento medio annuale del Pil dell’1,7 per cento. Non c’è stata, perciò, proporzionalità tra le due variabili. Anche se è in lenta discesa il costo del personale sanitario ammonta ancora a 36 miliardi, mentre l’acquisto di beni e servizi (ivi inclusa la farmaceutica) è in costante aumento e l’anno scorso ha toccato quota 29,2 miliardi. Se una sanitaria perugina (lo hanno testimoniato Le Iene mercoledì scorso) vende un plantare per bambini a 69 euro a un privato e a 172 euro alla Asl? Ci sarà un motivo se una colonscopia costa circa 103 euro in tutta Italia e ben 175 in Val d’Aosta? La risposta sarebbero i famosi costi standard, ovvero l’allineamento ai criteri di economicità dei servizi, ma chissà perché in ambito sanitario hanno fatto quasi tutti orecchie da mercante.

I governatori non riescono inoltre a fare molta economia nemmeno sul personale dipendente. Secondo uno studio di Confartigianato, oltre 25mila dipendenti sono di troppo (la sola Sicilia ne conta 19mila, più di quelli del governo britannico), un surplus che costa 2,5 miliardi di euro. Ancor più severa è stata Confcommercio che non ha misurato solo i costi del sistema-Regioni, ma anche la loro produttività. Ebbene, prendendo come esempio la virtuosa Lombardia con 2.651 euro di spesa pro-capite (il livello più basso a fronte di buoni servizi e il 23% di personale in meno rispetto alla media italiana), si potrebbero risparmiare ben 82,3 miliardi di euro. Un quarto di questo sbilancio si concentra in Sicilia (13,8 miliardi) e in Calabria (6,4 miliardi), anche se la spesa pro capite più elevata è quella di Trentino (3.669 euro) e Valle d’Aosta (5.400 euro, oltre il doppio di Milano & C.). Sì, c’è molto da farsi perdonare se, ad esempio, la Regione Calabria ha buttato decine di milioni in assegnazione di incarichi dirigenziali e di contratti di consulenza a soggetti privi dei requisiti necessari.

E va ancora peggio se si considera la giungla delle oltre 400 partecipate regionali. Oltre 100 milioni di perdite, 1,5 miliardi erogati a vario titolo e una decina di miliardi di indebitamento a carico della collettività. Non fossero poco più che stipendifici avrebbero anche un senso, ma se si ricordano i fallimenti dei corsi di formazione e il proliferare di competenze, soprattutto in ambiti strategici come il turismo non se ne può uscire soddisfatti. Ecco, i governatori hanno tutti moltissimo da farsi perdonare. Nessuno, però, lo ammetterà mai: molto più facile aumentare le addizionali.