il giornale

Meno bamboccioni, ma “partire” resta un tabù

Meno bamboccioni, ma “partire” resta un tabù

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

La retorica dei «bamboccioni» (o come li chiamava l’ex sottosegretario Michel Martone «sfigati») non è più trendy come un tempo. Eppure la statistica continua a confermare una realtà sotto gli occhi di tutti: ancora molti ragazzi italiani non sono disposti a spostarsi all’estero per ottenere migliori condizioni di lavoro. È quanto emerge dal Global Talent Survey, una ricerca su un campione di oltre 200mila intervistati in tutto il mondo (circa 6mila in Italia) condotta dalla società di consulenza The Boston Consulting Group e da The Network, associazione che riunisce le principali aziende di selezione del personale.

Come detto, il nostro Paese si colloca nei bassifondi della classifica: poco più del 50% del campione ha risposto affermativamente. A farle compagnia ci sono altri Paesi a forte connotazione familistica della società come Argentina, Grecia e Spagna. La situazione macroeconomica, infatti, non è un fattore discriminante: se è vero che in Germania, Usa e Gran Bretagna c’è ancora minore propensione a spostarsi rispetto all’Italia, è altrettanto vero che in il 94% dei francesi e degli olandesi sarebbe felicissimo di lavorare all’estero se ciò comportasse un reddito migliore. Eppure a Parigi e Amsterdam non si sta certamente peggio di Roma. Lo stesso discorso vale per i cittadini degli Emirati Arabi Uniti, nazione tra le più ricche al mondo.

La vicinanza a casa è comunque una condizione necessaria anche per gli italiani che sarebbero disposti a emigrare. A differenza della maggior parte dei Paesi sviluppati, non è l’America la terra promessa dove cercare fortuna, ma la meno distante Gran Bretagna. Gli Stati Uniti vengono solo al secondo posto. In terza e in quarta posizione ci sono la Germania e la Francia. Le economie emergenti come Russia, Brasile, Cina e India sono agli ultimi posti. Fanno eccezione l’Australia (quinta posizione) e il Giappone (settimo). Forse la spiegazione sociologica della minore propensione a lasciare casa risiede nel fatto che per gli italiani un compenso attraente non è tra i fattori principali di scelta. Ciò che conta di più è che il proprio lavoro sia apprezzato, che ci siano possibilità di fare carriera e che si possano avere buoni rapporti con i superiori. Obiettivi non facilmente raggiungibili altrove per una popolazione in età lavorativa che, in media, ha una vera idiosincrasia per le lingue straniere.

La ricerca di The Boston Consulting Group sorprende anche dal lato inverso. Nonostante la crisi economica perenne, infatti, l’Italia continua a essere una delle destinazioni lavorative più apprezzate nel mondo. Si piazza, infatti, al nono posto con il 25% delle citazioni dietro la Spagna (26%) e prima della Svezia. Il nostro Paese si classifica quasi sempre come sesta o settima meta preferita tra i lavoratori delle altre nazioni industrializzate, eccezion fatta per gli statunitensi che la vedono come quarta migliore nazione dove avere un’esperienza lavorativa. Analogamente, tra le città ideali dei lavoratori, al decimo posto, figura Roma (3,5%). Lontanissima dalle prime tre (Londra, New York e Parigi), ma prima di Los Angeles, Tokyo e San Francisco che offrono sicuramente più potenziale di business. Certo, la Capitale piace in tutto il mondo e poi che ne sanno all’estero dell’esistenza di un tal Ignazio Marino?

Se aumenta le tasse lo Stato fa autogol

Se aumenta le tasse lo Stato fa autogol

Francesco Forte – Il Giornale

Il pastore che tosa le pecore rovinandone il vello ottiene meno lana di quello che si comporta con moderazione. Questa antica massima, riguardante gli effetti negativi di imposte con aliquote troppo elevate ha una triste conferma nel gettito delle imposte in Italia nei primi otto mesi del 2014, in confronto ai primi otto del 2013, che registra una flessione dello 0,4 per cento nonostante gli aumenti a raffica attuati dai governi Letta e Renzi.

Mi scuso per i numeri aridi. Ma valgono molto più delle parole retoriche che spesso si leggono in materia fiscale. Non si può attribuire questa diminuzione alla riduzione del nostro prodotto nazionale, che per il 2014 è ora calcolata dagli esperti del nostro ministero dell’Economia nel meno 0,3 per cento per il semplice fatto che nei primi sette mesi non c’è stata complessivamente alcun diminuzione, ma un andamento di crescita zero, che considerando il piccolo aumento dei prezzi che si è verificato, implica una piccola crescita del Pil in moneta corrente.

La diminuzione delle entrate si spiega con il fatto che il pastore del Pd, sia esso impersonato da Letta con Saccomanni ministro dell’Economia o da Renzi con Padoan nel ministero in questione strappa la pelle al contribuente con aliquote eccessive. La diminuzione dello 0,4 per cento del gettito delle imposte è avvenuta per somma algebrica dell’aumento dell’Iva del 3,8 per cento pari a un miliardo che deriva dall’aumento dell’aliquota ordinaria dal 21 al 22, decretata dal governo Letta e iniziata nel quarto trimestre dello scorso anno e quindi non operativa nei primi sette mesi del 2013 e la riduzione del 19% dell’Ires, l’imposta sulle società, che ha fatto perdere 2 miliardi a cui si aggiungono i 900 milioni in meno nell’imposta sul reddito personale l’Irpef, che ha registrato una diminuzione dello 0,8% e una vistosa diminuzione della cedolare secca sulle rendite finanziarie che arriva al 26 per cento per il risparmio gestito e al 11% per gli altri tipi di redditi di risparmi diversi dal debito pubblico.

Questa imposta è stata aumentata dal governo Renzi dal 20 al 26 per cento e chiaramente molti risparmiatori si sono disamorati di questo investimento, con grave danno per il mondo delle imprese che usano questi soldi per le loro attività produttive. Si dirà che l’aumento è entrato in vigore dal luglio del 2014. Ma il programma di Renzi di aumento di questa tassa era stato da tempo preannunciato e quindi già all’inizio di quest’anno il risparmiatore si è spaventato, Einaudi scriveva che i risparmiatori sono come le pecore in gregge che tendono a stare ferme, ma che quando si spaventano corrono via veloci. Ci sono tanti modi per portare il gruzzoletto all’estero.

Quanto all’Iva il suo maggior gettito è per il fisco un guadagno illusorio. Infatti aumentandola sono calati i consumi e le imprese hanno venduto di meno e ciò ha fatto scendere i loro utili e fatto scendere l’imposta sulle società e quella personale sul reddito e il minor consumo ha anche generato una erosione dell’imponibile Iva perché è aumentata l’economia in nero. Così le nuove elevate aliquote di Letta e Renzi (che oltre all’Iva ha aumentato la Tasi) in aggiunta agli altri aumenti di aliquote a cura del governo Monti (incubatore dei successivi governi Pd) con l’Imu e con l’aumento della cedolare sulle rendite finanziarie dal 12,5 al 20% ha fatto scappare una parte delle pecore, Altre sono dimagrite, altre hanno perso una parte del pelo (bilanci in rosso, fallimenti e chiusure di attività).

Non giova concedere esoneri ai bassi redditi tosando a dismisura coloro che ne hanno un po’ di più. È illusorio ridurre la diseguaglianza sociale creando e accentuando la diseguaglianza fiscale. E così l’operazione 80 euro in busta paga ai bassi redditi accompagnata dalla raffica dei rialzi di aliquote sui piccoli e medi borghesi è stata un’operazione a somma negativa: per tutti perché tutti stanno peggio, come mostrano i dati sulla crisi delle imprese.

Come fare danni semplificando

Come fare danni semplificando

Nicola Porro – Il Giornale

Tutti dicono che vogliono semplificare. È la parola d’ordine. Il problema è che la politica e gran parte della burocrazia sono talmente lontani dalla realtà che spesso le semplificazioni fanno più danni che altro. Non ci credete? Tra poco vi porteremo un caso tipico, concreto, reale. Il punto fondamentale resta di principio: lo Stato ci tratta come sudditi, predisposti alla truffa, e dunque da regolare con decreti minuziosi. È la dittatura della norma. La bestia statuale non molla mai la presa anche quando finge di farlo. Ma andiamo al dunque.

Alla fine degli anni ’80 viene approvata una leggina (la Tognoli) che, tra le altre cose, prevede di realizzare parcheggi interrati su terreni pubblici o privati non edificabili, purché siano vincolati a una casa privata (a distanza non maggiore di un chilometro). In pratica, come fosse una cantina o una soffitta Questo per evitare fini speculativi di investitori che comprassero a tappeto box auto per poi riaffittarli lucrandoci sopra. Beh, insomma, non si può pretendere troppo: la speculazione in un Paese socialista è fumo negli occhi. La seconda condizione è che sul terreno soprastante venga realizzato un parco (con alberi, panchine, verde attrezzato da sottoporre a preventiva autorizzazione del Servizio Giardini) a destinazione pubblica, indipendentemente dal fatto che il terreno sia pubblico o privato. Una legge che sembra avere un senso: il costruttore guadagna, si crea lavoro, si tolgono macchine dalla strada, l’acquirente ha la possibilità di smettere di pagare affitti o impazzire a cercare parcheggio, lo Stato incassa le tasse di tutti quelli che ci lavorano e guadagnano. Il tutto a costo zero da parte del Comune o del contribuente. Non sono previste agevolazioni, finanziamenti: nulla.

Purtroppo abbiamo cercato, un paio di anni fa di semplificare la legge. Sbandierando tale obiettivo il governo ha eliminato il limite di un chilometro, estendendolo a tutto il Comune. Un’idea geniale: chi diavolo si metterà a comprare un box auto a più di un chilometro in linea d’aria dalla propria abitazione per parcheggiare un’auto? Poco male, si dirà: norma inutile, ma non dannosa. Sennonché, la medesima legge di semplificazione ha stabilito che il costruttore prima di ottenere la concessione debba obbligarsi davanti a un notaio a vendere non più a generiche persone, ma a soggetti precisi che vanno indicati in atto. Insomma,occorre per ogni box indicare nome, cognome del futuro acquirente e i dati catastali dell’immobile cui vincolarlo.

Una roba da pazzi. Significa andare sul mercato senza avere neppure il Permesso di Costruire e trovare acquirenti disposti a impegnarsi all’acquisto di un bene futuro che non solo è da costruire, ma per il quale mancano le autorizzazioni. Ovviamente nessuno si impegnerà a una pazzia del genere. I costruttori sono costretti a chiedere a mamma, a nonna, amici e parenti di prestarsi alla farsa di promettere l’acquisto, con l’accordo non scritto che non compreranno mai e che, quando verrà trovato l’acquirente vero, loro rinunceranno all’opzione in favore del cliente finale. Il quale si insospettirà di questo strano passaggio e magari deciderà di non comprare un bel niente. Un bel modo per aiutare un settore in crisi. All’interno del raccordo anulare di Roma (la città che ha maggiori problemi di parcheggio) il prezzo medio di un box sotterraneo è intorno ai 20mila euro. In genere i recuperi dalla Tognoli riguardano aree che (compreso il bagno per i disabili) possono ospitare un massimo di una ventina di parcheggi. Insomma, si tratta di un business che vale meno di mezzo milione di euro. Non esattamente roba da «Sacco di Roma». Eppure trattiamo questa materia come se si stesse urbanizzando la laguna di Venezia.

Ps. Nel centro di Milano a duecento metri dal Duomo, esattamente in piazza Cordusio, ci sono tre enormi palazzi praticamente deserti. Un ex quartier generale di Unicredit e le Poste lo sono già. Anche la sede delle Generali in un futuro prossimo potrebbe andare a occupare il suo grattacielo a Citylife. Si tratta di più di 100mila metri quadrati di immobili a disposizione, vuoti. Nel caso di Unicredit ancora affittati. In un Paese normale si progetterebbe un futuro per quest’area gigantesca e centrale. Si coinvolgerebbero grandi investitori internazionali. Si permetterebbe loro di esporre progetti anche diversi dal semplice utilizzo degli spazi come uffici (la morte civile oggi). Ecco, si farebbe tutto ciò. Invece Milano (e l’Italia) preferisce andare appresso alle palle antimoderniste dell’Expo a chilometri zero e no-ogm.

Il mattone sbriciolato

Il mattone sbriciolato

Vittorio Feltri – Il Giornale

Di questi tempi il mestiere più facile è quello del profeta. Basta dire che va tutto in malora e ci azzecchi sempre, impossibile sbagliare. Lo dimostrano i dati emessi pressoché quotidianamente dalle fonti ufficiali. Gli ultimi – drammatici – giungono dalla Banca d’Italia e sono relativi al crollo dell’edilizia. Il giro d’affari nel settore è diminuito del 30 per cento dal 2008 – inizio della crisi – al 2014, e continua a calare a ritmo sostenuto. Significa che il mattone (anche quale bene rifugio) è stato sbriciolato, causa una politica fiscale dissennata, cui nessuno finora ha cercato di porre rimedio.

Le tasse sulla casa si pagano in ogni Paese (non soltanto) europeo, ce lo ricordano i tassatori in qualsiasi circostanza. Ma nel nostro si cominciano a pagare ancora prima di acquistarla e divenirne realmente in possesso. Mi riferisco all’imposta di registro, che varia dal 4 al 10 per cento del valore dell’immobile, inesistente in altre nazioni. Se si tratta di prima abitazione l’acquirente se la cava con l’aliquota minima; se si tratta di seconda, terza o quarta si salvi chi può: la tariffa è quella massima. Se l’alloggio costa 500mila euro, devi sborsarne 550mila sull’unghia, perché 50mila se li succhia lo Stato. Non dico nulla di nuovo, ma pochi sanno che la tassa di registro così aspra è una specialità tutta nostrana. Le menti ottuse degli occupanti (spesso abusivi) di Palazzo Chigi nel corso degli anni si sono inventate altri balzelli: l’Ici, l’Imu e una serie di ulteriori sigle (un ginepraio in cui è difficile raccapezzarsi) che comunque pesano sul conto finale delle somme da versare ai vampiri fiscali.

A forza di imposte, il proprietario di quattro mura si è dissanguato, e non c’è più un cane che, avendo risparmiato quattro soldi, abbia intenzione di comprare un quartierino da affittare: non conviene. Di conseguenza i costruttori non costruiscono (o costruiscono poco), muratori e carpentieri rimangono disoccupati, i geometri vanno a fare i poliziotti (se c’è un concorso, e non ce ne sono). E il settore rotola sempre più in basso, al punto da incidere sul Pil (Prodotto interno lordo) per un bel -1,5 per cento. Cifra che indica un fallimento senza precedenti. Del quale occorre ringraziare anche alcuni economisti che se la tirano da esperti quando, viceversa, sono talmente asini da non conoscere le regole elementari del mercato: più tasse e meno soldi circolanti, meno acquisti, meno manodopera, meno benessere. Inoltre i fan del fisco non si sono avveduti di un fenomeno grave che la loro «scienza» ha provocato: il deprezzamento del patrimonio immobiliare sia delle famiglie sia della nazione. Infatti se dieci anni fa un alloggio medio costava 300mila euro, oggi è valutato poco più di 200mila. L’impoverimento del proprietario che eventualmente volesse rivenderlo è palese, e sorvoliamo sulla disperazione di chi a suo tempo accese un mutuo per coprire quei 300mila euro e che ora possiede una casa da 200mila. Chi sgancia la differenza? Una perdita secca. Se la moltiplichiamo per il numero complessivo di case italiane, ecco che il disavanzo sale a dismisura, toccando vertici mostruosi. Chi ci governa, mentre con la mano destra cerca di creare lavoro, con la sinistra lo uccide già nella culla. Qualcuno se ne accorge?

In cinque anni pagheremo oltre 45 miliardi di tasse in più

In cinque anni pagheremo oltre 45 miliardi di tasse in più

Il Giornale

«Oltre 45 miliardi di euro di tasse in più in cinque anni. Le entrate tributarie nel nostro Paese correranno molto più del Pil e aumenteranno, complessivamente, tra il 2014 e il 2018, di 45,7 miliardi di euro». La previsione deriva dal rapporto del Centro studio di Unimpresa, basato sulla nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza. Il gettito raggiungerà quota 487,5 miliardi alla fine di quest’anno e crescerà costantemente, negli anni successivi, fino a raggiungere i 531,6 miliardi del 2018.

Già dalla fine di quest’anno, infatti, lo Stato incasserà 1,6 miliardi in più da imprese e famiglie, «un incremento lieve – sottolinea Unimpresa – lo 0,34% in più, ma che va nella direzione opposta rispetto all’andamento dell’economia, prevista in calo dello 0,3% secondo il Def approvato dal governo». Una doppia velocità che si registra costantemente anche nelle previsioni degli anni successivi. Nel 2015 tasse in crescita dell’1,27%, mentre il Pil dovrebbe salire solo dello 0,5%; nel 2016 rispettivamente tasse +2,68% e Pil +0,8%; nel 2017 gettito tributario in aumento del 2,19% e prodotto interno lordo in crescita dell’1,1%. Chiude il conto il 2018, quando le tasse saranno in aumento del 2,42%,mentre il Pil sarà ben più lento (+1,2%). In tutto, secondo il rapporto, nel quinquennio 2014-2018, le tasse pagate dai contribuenti in Italia arriverebbero a toccare 2.540,1 miliardi di euro.

«Ci sentiamo presi in giro, come imprenditori e come cittadini» afferma il presidente di Unimpresa, Paolo Longobardi. «Si è perso tempo – aggiunge – avevamo segnalato subito, dopo la nascita di questo altro esecutivo delle larghe intese, la necessità di intervenire sul fisco: l’alleggerimento dei tributi è cruciale per sperare di portare il Paese fuori dalla recessione». Invece «i dati dimostrano che il dibattito sulle tasse è solo propaganda», commenta Longobardi, il quale conclude: «In questi giorni ascoltiamo esponenti della maggioranza e del governo di Matteo Renzi avanzare ipotesi di abbattimento del cuneo fiscale, ma il peso delle tasse è destinato a salire e le misure varate in questi ultimi mesi non hanno fatto altro che incrementare il carico sulle famiglie e sulle imprese».

Vigilessa sorpresa a rubare cacciata ma con buonuscita

Vigilessa sorpresa a rubare cacciata ma con buonuscita

Matteo Basile – Il Giornale

Un diritto da preservare per alcuni. Un totem vecchio di 40 anni da abbattere per altri. Un business per molti. Si scrive «Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori», si legge «Articolo 18». Altro che tutelare i poveri lavoratori indifesi. Spesso, troppo spesso, diventa una scusa per quei furbetti che vogliono approfittarsi delle pieghe della legge e, quando ci sono, di giudici compiacenti per trarne profitto. Ma quanto accaduto a Genova va oltre.

Scordiamoci discriminazioni e comportamenti fuori legge di capi cattivoni, contratti farsa, dimissioni in bianco e ricatti assortiti. Succede che una vigilessa, in servizio nel capoluogo ligure, venga sorpresa a rubare. Nessuna calunnia: era in locale ed è stata immortalata dalle telecamere di sorveglianza mentre frugava dentro una borsa non sua e portava via dei soldi. Immagini che la inchiodano ma in un primo momento i vertici del corpo di polizia municipale non fanno nulla. Fino a che la notizia diventa di dominio pubblico e allora ecco il cambio di rotta: sospensione immediata dal servizio e ritiro dell’arma cui fa seguito il licenziamento in tronco. Ma lei non ci sta, fa ricorso e, udite udite, trova un giudice che le dà ragione. Almeno in parte.

È colpevole ma, in base all’articolo 18, la causa non è infondata. Ma è colpevole, quindi reintegrarla proprio non si può. Allora il giudice decide così: ok al licenziamento ma con una mega buonuscita equivalente a 18 mensilità. Hai rubato? Si. Sei colpevole? Si. Ti cacciano a pedate perché non degna di rappresentare la divisa che indossi? Ni. Perché comunque puoi incassare un anno e mezzo di stipendio senza colpo ferire. E tante grazie all’articolo 18. Nella sua assurdità l’ordinanza emessa dal Tribunale parla chiaro. «I fatti contestati non sono idonei a integrare giusta causa o giustificato motivo, con conseguente illegittimità del licenziamento». Il che significherebbe il reintegro sul posto di lavoro che avrebbe del clamoroso. Ma il dispositivo va avanti e specifica: «Per poter applicare le sanzioni previste in caso di licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo occorre tener conto delle modifiche apportate dalla legge 92 del 2012», vale a dire la legge Fornero che rimodula alcuni aspetti dell’articolo 18. E allora? Ci ha provato e le andata male, arrivederci e grazie? No, ecco la beffa. Niente reintegro sul posto di lavoro ma mega contentino. Diciotto mensilità da corrispondere alla vigilessa dalla mano lesta. Che, per inciso, saranno elargiti dalla collettività in quanto la polizia municipale è sotto diretta giurisdizione del Comune, in questo caso quello di Genova.

Storture da articolo 18 avallate, ovviamente, dai sindacati che in questa causa di lavoro che rasenta il paradosso sono stati in prima fila a sostegno della «povera» lavoratrice. E via con i cattivi pensieri dato che proprio loro, i paladini dei lavoratori bistrattati, per ogni causa di lavoro che va a buon fine (come nel caso in questione) si intascano una bella percentuale di quanto incassato dal lavoratore. Con buona pace di tutti quei lavoratori, privi di ogni tutela contrattuale e ovviamente di articolo 18, che anche se realmente cacciati a pedate senza alcun valido motivo dal proprio datore di lavoro, presentandosi presso un ufficio sindacale si sono sentiti rispondere: «Eh, ci dispiace, ma non possiamo fare nulla». Che strano.

Renzi ha perso le forbici

Renzi ha perso le forbici

Francesco Forte – Il Giornale

Dove è finita la spending review, il taglio delle spese che doveva essere effettuato nella legge di stabilità triennale 2015-2017? Dalla montagna di Matteo Renzi è saltato fuori il topolino. Aveva assicurato un taglio di spese per 16 miliardi. Poi lo ha diminuito a 13. Per il 2015 è di soli 5. Mentre per il 2016 niente riduzioni: sono state infatti approvate le cifre del “bilancio tendenziale”, quello che si forma automaticamente, ossia che i singoli ministeri e Regioni, Province e Comuni hanno preventivato per conto proprio. Con in più una deroga al patto di stabilità degli enti locali che consentirà di sforare il loro deficit in certi (numerosi) casi.

Se il risultato fosse una legge di stabilità che genera crescita, questo mancato taglio di spese e questo invito agli enti locali a spendere potrebbero essere accettabili come mezzo per mettere benzina nel motore dell’economia. Ma la previsione di crescita del Pil per il 2015 è meschina: +0,6 per cento contro il -0,3 del 2014, periodo per il quale il premier aveva, sino a pochi mesi fa, assicurato che ci sarebbe stata una crescita grazie agli 80 euro in busta paga. Dunque il governo ammette che la sua legge di stabilità non avrà effetti positivi, nonostante la manovra espansiva che la Bce di Mario Draghi ha già messo in campo e nonostante la svalutazione dell’euro del 10 per cento, misura che dovrebbe stimolare le nostre esportazioni e ridurre le nostre importazioni.

Non si può neppure dire che il mancato taglio delle spese, ossia l’affossamento della spending review del commissario Cottarelli (rispedito a Washington), sia giustificato dall’esigenza di agevolare la riforma del mercato del lavoro, che causa proteste sindacali e divisioni politiche nel Pd. Quest’ultima sta annacquandosi. La Bce ha purtroppo rinviato a dicembre le misure di credito diretto alle imprese perché il disegno di legge delega sul lavoro, già vago, rischia di peggiorare. Draghi continua a dire che senza le riforme l’ampliamento del credito all’economia è poco efficace, perché non c’è abbastanza convenienza a investire. E, insieme alla riforma del lavoro, raccomanda di tagliare le spese per ridurre le imposte.

Invece con la legge di stabilità attuale c’è un rischio di aumento preoccupante delle imposte. Il testo governativo, infatti, viola le regole europee sulla riduzione del deficit di bilancio per il 2015 e per il 2016. Per il 2015 lo sforamento è di 5,5 miliardi di euro. Per il 2016 potrebbe aggirarsi sui 16, in caso di peggioramento. Ciò viene tamponato con l’utilizzo della clausola di salvaguardia, che contempla l’aumento dell’Iva e di altre imposte indirette per 16 miliardi. L’aumento dell’Iva ordinaria dal 22 al 23% può portare nelle casse pubbliche 5 miliardi di euro. Vi è dunque il rischio di una maxi manovra con l’aumento delle aliquote del 10% e del 4%, di accise sulla benzina eccetera.

Eppure il commissario Cottarelli, prima di andarsene, aveva reso pubblico un diligente studio sulle società partecipate dagli enti locali, che sono 7.700, con mezzo milione di dipendenti. Dal documento risulta che i deficit ufficiali di bilancio sfiorano i 2 miliardi. C’è un ulteriore deficit occulto di quasi 18 miliardi ripianato con sovvenzioni degli enti locali. Dallo studio del commissario alla spending review si evince che nel giro di un biennio si potrebbero ricavare risparmi di 4-5 miliardi, pur senza liberalizzazioni thatcheriane. Inoltre, c’è una ampia area di risparmio di spesa che riguarda lo Stato, gli enti previdenziali, le imprese e gli enti del settore pubblico. Cottarelli, nell’autunno del 2013, considerava come obbiettivo minimo una riduzione della spesa di 22 miliardi di euro fra il 2015 e il 2017 e riteneva possibili ulteriori risparmi con scelte politiche.

Renzi ha licenziato Enrico Letta, ha piazzato i suoi nel governo, nelle imprese e negli enti pubblici. Poi ha licenziato Cottarelli, dicendo che i tagli li faceva lui. Però ha abbassando l’asticella a 5 miliardi. E ora paventa la minaccia di nuove imposte per 18 miliardi, sostenendo che con maggiori tagli di spesa creerebbe depressione, mentre è vero il contrario, soprattutto se, insieme a ciò, si riducono in misura sostanziale le imposte sul costo del lavoro delle imprese. Come l’Irap.

E ora spunta lo spettro dell’aumento dell’Iva

E ora spunta lo spettro dell’aumento dell’Iva

Il Giornale

Nuova batosta in arrivo. I conti non tornano. E così per il pareggio di bilancio nel 2017 il governo ha previsto la clausola di salvaguardia da introdurre nella legge di stabilità che ipotizza l’aumento dell’Iva. Che cosa significa? «Una perdita di Pil pari a 0,7 punti percentuali a fine periodo dovuta a una contrazione complessiva dei consumi e degli investimenti per 1,3 punti percentuali e un aumento del deflatore del Pil di pari importo», recita la Nota di aggiornamento al Def trasmessa dal governo al Parlamento. La legge di stabilità, riporta il documento, «conterrà una clausola di salvaguardia automatica con la quale il governo si impegna ad assicurare la correzione necessaria a garantire il raggiungimento del saldo strutturale di bilancio in pareggio a partire dal 2017». In particolare, «è ipotizzata una clausola sulle aliquote Iva e sulle altre imposte indirette per garantire il raggiungimento dell’obiettivo di medio termine per un ammontare di 12,4 miliardi nel 2016, 17,8 miliardi e 21,4 miliardi nel 2017 e nel 2018».

Insomma, la stangata sui consumi è assicurata. Ed è subito rivolta tra le associazioni di categoria, da Confcommercio a Confesercenti. «Un eventuale nuovo inasprimento della pressione fiscale, già a livelli da record mondiale, attraverso l’ennesimo aumento delle aliquote Iva e delle imposte indirette, acuirebbe la crisi strutturale che caratterizza il sistema Italia», ha affermato il presidente di Confcommercio, Carlo Sangalli. «In Italia è stato commesso l’errore di aumentare la pressione fiscale in un contesto già depresso. I margini delle imprese – ha sottolineato – sono al limite della sopravvivenza, i redditi e la ricchezza delle famiglie hanno subito una riduzione di entità senza precedenti nella nostra storia economica». «Mantenere il raggiungimento del pareggio di bilancio è un obbligo – ha aggiunto Sangalli -, ma è altrettanto evidente che per raggiungere questo obiettivo la via da seguire è tagliare la spesa pubblica improduttiva, visto che ci sono circa 80-100 miliardi di spesa ritenuti aggredibili».

Il ricorso alla clausola di salvaguardia è stato bocciato senza mezzi termini anche dalla Confesercenti. «Sarebbe una mossa sbagliata, non è questa la strada», ha detto il presidente Marco Venturi, che ricorda come la categoria si sia già lamentata per i due precedenti aumenti dell’Iva al 21% e al 22%. «In una situazione di crisi, con i consumi che vanno male e il commercio in fortissima difficoltà, se l’Iva dovesse aumentare, le famiglie sarebbero indotte a stringere ancora di più i cordoni della spesa. E se non ci sono i consumi si potrebbe verificare un’ulteriore frenata della crescita». Occorre piuttosto, secondo Venturi, «creare condizioni di fiducia, altrimenti si rischiano ripercussioni anche sul mercato del lavoro e dell’occupazione». Quanto alla possibile disponibilità del Tfr in busta paga Venturi commenta «non so a cosa possa servire se non a pagare più Iva».

Fortemente critici anche gli esponenti di Forza Italia e Ncd. «La clausola sull’Iva salvaguarda la Ue, salvaguarda il governo, ma non le tasche dei cittadini», ha scritto su Twitter il deputato di Fi Luca Squeri. Sulla stessa lunghezza d’onda Raffaello Vignali, responsabile Sviluppo economico del Ncd: «L’Ue smetta di guardare solo ai bilanci pubblici. L’ipotesi di una clausola di salvaguardia da inserire nel Def resta un’eventualità preoccupante, un clamoroso autogol per il Paese».

L’ultimo salvagente rimasto

L’ultimo salvagente rimasto

Giuseppe De Bellis – Il Giornale

Basta, ha detto ieri la Francia. A se stessa, alla Germania, all’Europa. Basta con l’ossessione del rigore. Il governo di Parigi ha annunciato che sforerà ancora il rapporto deficit-Pil, quello che per i trattati europei deve essere massimo al 3%, una percentuale che per noi è diventata un incubo fatto di manovre su manovre, ovvero tasse su tasse. Ecco, la Francia quest’ anno chiuderà al 4,4% e ha rimandato il rientro sotto la soglia al 2017.

È la rottura di un argine che ha tenuto finora, di un fronte rigorista che praticamente tutti (tranne l’Italia di Berlusconi e in parte quella di Renzi) in Europa non avevano il coraggio di contrastare. Lo fa la Francia, che per anni ha fatto da spalla alla Germania della Merkel: ve lo ricordate l’asse franco-tedesco? Parigi ha cambiato idea da un po’ sotto la spinta della crisi e del conseguente calo di popolarità del presidente Hollande, arrivato oggi a un imbarazzante 13%. E sarà di sicuro questa la principale motivazione che spinge la Francia, ma resta il fatto che Parigi ieri ha lanciato una carica di dinamite sull’Europa: un governo tassatore che dice «noi non chiederemo più un solo sforzo ai francesi». La Germania ha reagito all’istante, la Merkel ha minacciosamente detto: «I Paesi facciano i loro compiti». Sprezzante, nervosa, irritata. Non se l’aspettava. Ce l’aspettavamo noi, invece, e da tempo, quando speravamo che il grido di dolore dei Paesi arrivasse dall’ltalia ma né Monti, né Letta si sono sognati di dire quel «basta». Di che cosa avevano paura? E di che cosa dovrebbe avere paura oggi Hollande? Delle dichiarazioni da maestrina della Merkel? Che può accadere? Commissarieranno la Francia? Sarebbe la fine dell’Europa.

Il potere contrattuale è direttamente proporzionale al coraggio. Renzi aveva cominciato le sue trattative con Bruxelles e Berlino, poi s’è fermato. Hollande l’ha superato, forse per disperazione. Ma l’ha fatto. Ci si può aggregare, distruggendo prima le resistenze di sindacati e mezzo Pd: la riforma del lavoro subito per muovere il Paese e dire all’Europa: «Adesso basta anche per noi». È paradossale che Parigi, cioè il governo più di sinistra d’Europa, faccia la cosa più liberale d’Europa: smettere di chiedere ai cittadini di salvare lo Stato. Dev’essere lo Stato a salvare i cittadini. I propri, prima che quelli europei. Forse vale la pena di salvare gli italiani.

E sul Tfr in busta paga scoppia la rivolta bipartisan

E sul Tfr in busta paga scoppia la rivolta bipartisan

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

Il Tfr in busta paga? È la «politica dell’uovo oggi» mentre «la gallina sta morendo a causa della crisi». Il copyright è di Renata Polverini, deputata di Forza Italia ed ex segretario dell’Ugl. Toni forti ma che spiegano come il nuovo fronte aperto dal premier Matteo Renzi rischi di trasformarsi in un boomerang. La paura di finire politicamente stritolati dalla crisi è tanta. Lo dimostra la premessa alla Nota di aggiornamento del Def del ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan. «In termini cumulati, la caduta del Pil in Italia è superiore rispetto a quella verificatasi durante la Grande depressione del ’29», scrive.

Il fine giustifica i mezzi, quindi? Per ora, l’unica certezza è che, dopo lo scontro sull’articolo 18, gli avversari di Renzi, come Susanna Camusso e Pier Luigi Bersani, hanno trovato altre munizioni da sparargli contro. In più, il presidente del Consiglio potrebbe alienarsi le simpatie di coloro che lo hanno sponsorizzato o che, per lo meno, non gli sono pregiudizialmente ostili. È il caso dell’Alleanza delle Cooperative, formata da LegaCoop (la «patria» del ministro Poletti), Confcooperative e Agci. «Così indeboliamo ancora di più le imprese», ha detto Mauro Lusetti, numero uno delle cooperative rosse. I numeri li ha snocciolati il leader di Confcooperative, Maurizio Gardini. «Sono interessate – ha chiosato – oltre il 90% delle imprese cooperative e il 30% delle persone occupate, circa 400mila, perciò parliamo di risorse importanti: 160 milioni». Occorre ricordare che il progetto mirato allo sblocco delle «liquidazioni» è ancora in fase embrionale. Non ci sono certezze sulle modalità e, soprattutto, sulla tassazione che sarà applicata. Né, tantomeno, si sa se gli istituti di credito utilizzeranno i prestiti Tltro della Bce per finanziare le imprese che perderanno questi preziosi accantonamenti. Si sa, però, che per queste ultime sarebbe comunque una tragedia.

Fidarsi di un governo che non rispetta gli impegni, infatti, è molto difficile. «Le cooperative a fine 2013 vantavano un credito verso la Pa di 12 miliardi di euro e ne risulta pagato circa il 40%», ha concluso Gardini evidenziando come manchino ancora 7,5 miliardi circa. L’Alleanza delle Coop ha inoltre ricordato come il 10% delle associate nel secondo quadrimestre abbia ricevuto richieste di rientro sui fidi da parte delle banche. E i prestiti continuano a costare parecchio. Secondo il Centro studi ImpresaLavoro, l’erogazione del Tfr costerebbe alle pmi 9,8 miliardi di euro. Per recuperare queste risorse, ovviamente, ci si dovrebbe rivolgere al mondo del credito che applica tassi medi dell’8,94% annuo con un aggravio di costi di 876 milioni di maggiore spesa per interessi. Insomma, per dare ai lavoratoti al massimo 100 euro in più ogni mese senza confermare il bonusda 80 euro al superamento della soglia di reddito massimo (26 mila euro annui lordi), si può correre il rischio di affossare definitivamente il sistema imprenditoriale come denunciato dal presidente di Confcommercio Carlo Sangalli.

La mossa, infine, non migliora i rapporti del premier con la sinistra. «Sono soldi dei lavoratori», dicono all’unisono Susanna Camusso e Pier Luigi Bersani puntualizzando che il Tfr non è un regalo. La leader della Cgil ha messo l’accento sulla libertà di scelta per i lavoratori, anche quella di destinare le risorse alla previdenza integrativa. L’ex segretario Pd, in perenne polemica con Renzi, ha rilevato che «bisogna sempre esser cauti quando ci si mangia oggi le risorse di domani», alludendo alla possibilità di detassare ulteriormente i versamenti ai fondi pensione complementari. Il fatto che non si tratti di pretesti ideologici, ma di problemi concreti rende l’idea di quanto impervia sia la strada di Renzi.