il sole 24 ore

Il suicidio collettivo che l’Italia non può permettersi

Il suicidio collettivo che l’Italia non può permettersi

Adriana Cerretelli – Il Sole 24 Ore

E tre. Mario Draghi si ripete, purtroppo finora invano, per richiamare l’Italia insieme a tutti i ritardatari dell’Eurozona all’urgenza delle riforme strutturali per tornare a crescere.
Per il nostro Paese di nuovo in recessione conclamata e comunque da troppo tempo in forte affanno rispetto ai partner, con tassi di sviluppo dell’1% circa sotto la media europea nell’ultimo decennio, le parole del presidente della Bce suonano come una sorta di ultimo appello in nome e per conto delle ragioni dell’economia, la terza dell’euro, che non può permettersi di far male a sé e agli altri perseverando nella politica degli annunci regolarmente seguita dalla strategia dei rinvii.
Non può perché non crescere significa distruggere imprese e benessere, moltiplicare i disoccupati, rendere insostenibile il debito, violare i patti europei, avviarsi al commissariamento ufficiale Ue, visto che l’uscita dall’euro sarebbe un disastro ancora maggiore dei mali da curare. Che non sono incurabili.

Il primo avvertimento a uscire dalla palude dei veti incrociati per attuare una precisa serie di riforme con allegato calendario era arrivato a Roma nell’estate del 2011: allora Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia, e Jean-Claude Trichet, presidente della Bce, avevano scritto una severa lettera a quattro mani consegnata agli archivi senza grandi risultati concreti, caduta del governo Berlusconi a parte.
L’anno dopo, nel corso di un’altra estate ancora più bollente con l’euro sull’orlo del baratro, Draghi ormai a Francoforte aveva fermato la tempesta sui mercati comunicando ai medesimi che avrebbe preso «tutte le misure necessarie» a garantire la tenuta della moneta unica. In breve, la Bce avrebbe fatto la sua parte fino in fondo ma i governi avrebbero dovuto fare la loro, risanando i conti pubblici e facendo le riforme strutturali.
Ancora una volta l’Italia ha sprecato i due anni di tregua sui mercati guadagnati dalle iniziative di Draghi. Tra l’altro proprio mentre Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna, i Paesi finiti sotto i rigori della “troika” per aver chiesto gli aiuti europei, si auto-riformavano per forza ma ora sono quasi tutti tornati sui mercati e ricominciano a crescere.
L’Italia ha evitato gli aiuti e quindi la troika ma ha anche evitato di fare le riforme: in questo modo non è uscita dal tunnel del commissariamento futuro né è tornata a crescere. Cioè ha fatto la scelta peggiore, la più pericolosa e nefasta. Come cifre e previsioni di Istat, Eurostat, Commissione Ue, Ocse e Fmi continuano a dimostrare.

Ora Draghi ha lanciato il terzo allarme: ignorarlo ancora una volta significherebbe avviarsi al suicidio collettivo. E non perché si debba obbligatoriamente ottemperare a tutte le sollecitazioni in arrivo da Francoforte e Bruxelles ma perché senza riforme, è ampiamente provato, l’economia italiana è condannata a recedere anziché avanzare. Immobilizzata, come Gulliver, dai mille lacci e lacciuoli cui la inchiodano i troppi “lillipuziani” che le girano intorno: politici, burocrati di più o meno alto rango, magistrati più o meno efficienti e illuminati, corporazioni più o meno potenti e determinate…
Riuscirà il governo Renzi dove i suoi predecessori hanno fallito? Non ci sono scorciatoie possibili. La politica degli annunci che si fermano alle parole comincia a innervosire i mercati e i nostri partner europei, ansiosi di vedere i fatti.
In fondo non c’è proprio niente da inventare: la crisi del Pil italiano deriva in larga parte dalla crisi degli investimenti, che a sua volta dipende dalla mancanza di fiducia, e quindi di aspettative positive, in un Paese bloccato da una lunga e pesantissima crisi strutturale. Molto più che debitoria.
Vanno quindi rimossi al più presto tutti gli ostacoli che soffocano o scoraggiano chi fa business in Italia: che si chiamino pubblica amministrazione elefantiaca, leguleia o comunque ostativa, giustizia dai tempi biblici, mercati del lavoro, dei prodotti e dei servizi sclerotici e privi della flessibilità indispensabile per competere su scala europea e globale. E per restituire alle imprese la voglia di rischiare.

La diagnosi è arcinota, la terapia anche: la ripete da anni, inascoltata, la Commissione europea. L’ha ribadita Draghi l’altro ieri. È stata sottolineata con forza tre giorni fa in un editoriale del direttore di questo giornale. Non c’è più tempo da perdere: non solo perché sulla nostra testa pende il rischio concreto dell’apertura entro l’anno di una procedura Ue per mancato rispetto degli impegni presi sui fronti del debito e delle riforme. Non solo perché la nuova Commissione Juncker non si annuncia certo più tenera di quella Barroso.
Non solo perché la Germania della Merkel ha per l’ennesima volta appena risposto picche alla Francia di Hollande che le chiedeva di fare più crescita in Europa: «La Germania è già un motore importante, il più importante, per la crescita dell’Eurozona» ha puntualizzato il suo portavoce. Ma anche e soprattutto perché, se non ricomincia ad auto-generare crescita con le riforme e a recuperare fiducia all’interno e all’estero, l’Italia a poco a poco si auto-distrugge.

Un confine tra passato di crisi e futuro di ripresa

Un confine tra passato di crisi e futuro di ripresa

 Alberto Quadrio Curzio – Il Sole 24 Ore

Il calo del Pil italiano del secondo trimestre conferma una discesa che prosegue dal terzo trimestre del 2011. L’attenuazione del calo sui dati tendenziali trimestrali non basta a tranquillizzare e quindi bisogna che il Governo sia in Italia che in Europa (e con il supporto di tutte le forze produttive) tracci un confine netto tra un passato di crisi e un futuro di ripresa.

Il Pil trimestrale. Un calo dello 0,2% sul trimestre precedente e dello 0,3% sul corrispondente trimestre del 2013 (con “calo acquisito” del Pil per il 2014 dello 0,3%) è preoccupante, anche perché riguarda tutti e tre macro-settori dell’economia (agricoltura, industria, servizi). La variazione delle domanda interna è nulla mentre la componente estera è negativa per gli effetti della crisi Russia-Ucraina che intaccherà anche i prossimi dati tedeschi. Meglio è andata la produzione industriale che è cresciuta in giugno su maggio e nel primo semestre 2014 sul corrispondente del 2013 ma che non ha compensato i cali del Pil.

La lunga crisi italiana. Per varie ragioni (politiche,economiche,fiscali) siamo rimasti più esposti alla crisi di altri grandi Paesi della Eurozona anche perché la nostra non-crescita ha una storia lunga. Limitandoci agli ultimi 10 anni, dal 2005 abbiamo avuto una crescita media annua molto più bassa dell’Eurozona. Nel quinquennio 2005-09 abbiamo avuto un calo medio annuo di circa lo 0,4% mentre la Uem è cresciuta dello 0,7%. Dunque una differenza di 1,1 punti percentuali in media annua. Sul 2010-14 l’Italia è calata circa dello 0,3% medio annuo mentre la Uem è cresciuta dello 0,7%. Dunque una differenza di 1 punto percentuale annuo. Non sono differenze da poco.

Le cause di questo divario sono state analizzate dall’Fmi, dall’Ocse, dalla Commissione Europea, dalla Banca d’Italia e anche nel Def del Governo presentato alla Commissione europea in aprile. Consideriamo solo tre temi italo-europei interrelati e relativi alle istituzioni e agli apparati, all’economia e agli investimenti, all’Europa e alla crescita.

Le istituzioni e gli apparati. Dal 2005, in 10 anni, abbiamo avuto sei governi (Berlusconi, Prodi, Berlusconi, Monti, Letta, Renzi) mentre negli altri tre grandi Paesi europei (Germania, Francia, Spagna) le successioni sono state quelle delle legislature. Ha ragione Padoan nel ritenere che le riforme costituzionali e istituzionali possono avere un impatto sull’economia dando certezza di durata ai Governi e semplificando i processi legislative. Ma questo non basta perché certezza e fiducia vanno di pari passo con le riforme, purchè siano quelle necessarie. Il che, stando alle osservazioni degli organismi internazionali, non è accaduto in Italia anche se nel decennio 2001-2011 c’è stata una sostanziale continuità dei Governi Berlusconi, salvo la parentesi di Prodi 2006-2008. In Italia troppe riforme epocali sono state solo annunciate, altre buone insabbiate, altre infine sbagliate. È mancata quella continuità realizzatrice che antepone l’interesse nazionale alla partigianeria politica (forte persino dentro i singoli partiti) e alla critica fine a se stessa ma è anche mancato un forte supporto tecnico degli apparati pubblici. Perciò la riforma degli apparati pubblici è essenziale come ci chiede l’Europa per arrivare alla certezza, stabilità e semplicità delle norme, alla rapidità della giustizia, allo snellimento della burocrazia. È infatti evidente che la nostra “macchina pubblica” non è efficiente (anche se ci sono non pochi tecnocrati capaci) causando costi diretti in termini di spesa pubblica e costi indiretti sui cittadini e le imprese. In queste riforme il Presidente del Consiglio Renzi deve mettere molta determinazione utilizzando anche le competenze necessarie per correggere evitando di distruggere.

L’economia e gli investimenti. Le urgenze dell’economia richiedono anche alcune, poche e chiare, accelerazioni. Tutti sanno che l’Italia ha limitatissimi spazi di finanza pubblica a causa dei vincoli europei. Tutti sanno anche che la manifattura italiana esportatrice è stata la rete d’acciaio che ha tenuto insieme la nostra economia (e anche di più) durante la crisi. Non sempre si ricorda però che gli investimenti totali (pubblici e privati) sul Pil (per di più calante!) sono scesi dal 22% del 2007 al 17% del 2013 e che le previsioni indicano una ripresa così lenta che solo nel 2019 ritorneranno al 20%. Cruciale è perciò il rilancio degli investimenti sia nel partenariato pubblico privato sia nelle imprese per creare innovazione, reti e crescita dimensionale delle imprese, infrastrutture. Il Governo, così come quello Letta, ha messo in campo varie misure per l’economia reale (dalla nuova Sabatini, allo sblocca-Italia, alla riduzione del cuneo fiscale, al potenziamento dell’Ace) ma non basta. Per questo ci vuole presso la presidenza del Consiglio una task force di raccordo tra i ministri dello Sviluppo e delle Infrastutture, la Cassa Depositi e prestiti, il sistema imprenditoriale e bancario per massimizzare l’uso delle risorse della Bei e del Quadro Finanziario poliennale della Ue. E anche per orientare agli investimenti delle imprese la liquidità che da settembre verrà dal Tltro della Bce.

L’Europa e la crescita. Padoan ha rassicurato che il limite del 3% del deficit sul Pil non verrà superato senza bisogno di una manovra aggiuntiva. Speriamo che sia così ma in ogni caso riteniamo che si debbano scegliere delle priorità per la crescita che riguardano l’Italia e l’Europa. La nostra priorità è la spending review dove il programma Cottarelli è già ben definito. Forse non si potranno avere i risparmi lordi annui di 7 miliardi nel 2014, di 18 nel 2015, di 34 nel 2016. Basterebbe la metà dei risparmi, purché certa, da riallocare in parte agli investimenti. Poi bisogna passare con la stessa logica a valorizzare i tanti patrimoni pubblici anche per ridurre il debito senza danneggiare il Pil. Sugli investimenti il Presidente del Consiglio deve mettere tutto il suo peso politico sul presidente della Commissione europea Juncker non solo per spostare almeno al 2017 il nostro pareggio strutturale di bilancio (ce lo meriteremmo perché, come documenta Fortis, siamo i campioni europei degli avanzi primari a danno della nostra crescita) come sarà di certo per Francia e Spagna. Bisogna anche spingere (come chiede persino l’Fmi) l’Europa ad una politica espansiva con gli investimenti infrastrutturali e mettere la Germania di fronte alle responsabilità del suo eccesso di risparmio e di vari surplus dovuti non solo alla sue virtù ma anche alla sua miopia.

Perciò l’Italia ha bisogno di un Commissario europeo forte all’economia reale che, pur nel rispetto “alla Draghi” del ruolo europeo, supporti l’attuale incisività politica di Renzi per evitare a noi e all’Europa un declino lento ma certo.

 

Quella spinta da Francoforte

Quella spinta da Francoforte

Donato Masciandaro – Il Sole 24 Ore

Riforme strutturali per avere mercati più competitivi e Stati più efficienti: è l’unica spinta possibile per ritornare a crescere e dare un senso alla politica monetaria espansiva che la Banca centrale europea ha deciso di proseguire, ma non di accentuare. Perché le condizioni monetarie per tornare alla normalità ci sono. Peccato che manchino tutte le altre politiche economiche. L’assenza di efficienza nei mercati e di efficacia nell’azione pubblica sono i due nodi scorsoi che stanno soffocando l’Unione. È questo il messaggio di Mario Draghi che vale in generale per Bruxelles, ma in particolare per Roma. La Bce fotografa una situazione dell’Unione monetaria Europea in cui la ripresa economica è ancora timida ed instabile. Il termometro è rappresentato da un andamento stagnante sia delle variabili reali – la crescita – che da quelle nominali – l’inflazione. Quale è la diagnosi della nostra banca centrale? È facile. Tutto dipende dallo stato delle aspettative di famiglie, imprese e mercati.

In una situazione normale, una stagnazione con rischio deflattivo può essere attribuito ad un deficit di domanda aggregata. Il deficit di domanda può influenzare le aspettative, attraverso un circolo vizioso che si autoalimenta: il deficit di domanda di oggi implica prezzi calanti per domani, quindi gli operatori hanno incentivo a posticipare le scelte di consumo e di investimento, alimentando il deficit di domanda. In questi frangenti la politica monetaria deve essere normalmente espansiva, per incentivare le decisioni di spesa ed al contempo alimentare le aspettative di inflazione. Purtroppo ancora oggi la situazione in Europa non è normale: il deficit di domanda si intreccia con un eccesso di avversione al rischio, incubatosi prima della Grande Crisi, scoppiato dal 2008 con la crisi finanziaria e consolidatosi negli anni successivi con la recessione economica. L’Europa è in una trappola della liquidità: le iniezioni di liquidità e la crescita dei prezzi azionari non provocano effetti rilevanti e stabili sulle grandezze reali, a partire dalla crescita economica.

L’avversione al rischio spinge a risparmiare – quindi a non consumare – ma non ad investire. La liquidità, sia essa detenuta dalle famiglie, dalle imprese o dalle banche tende ad essere tesaurizzata. Occorrono gli investimenti reali, pubblici e privati, che possono far ripartire la domanda aggregata. È qui il primo nodo scorsoio che l’analisi della Bce mette in luce. Esistono investimenti privati sono lo Stato è in grado di offrire in modo efficace e sistematico i beni pubblici essenziali: dalle istituzioni efficienti – a partire dalla giustizia civile e penale – alle infrastrutture della comunicazione, reale e virtuale. Inoltre occorre riprendere la politica della concorrenza, in tutti i mercati e settori, incluso quello del lavoro, per scogliere completamente il secondo nodo scorsoio, ed essere efficaci anche dal lato dell’offerta aggregata.

L’Italia è un destinatario naturale del messaggio della Bce: il governo Renzi è partito dalla architettura politica, che è la madre delle politiche pubbliche inefficienti, ma non può che essere solo un punto di inizio, se si vuole essere coerenti con il modello sposato dall’analisi Bce. Allo stesso modo la capacità di offrire investimenti pubblici dipende dallo stato delle finanze pubbliche di un Paese. Il presidente Draghi ha fatto notare come i Paesi che avrebbero più bisogno di investimenti pubblici sono proprio quelli che hanno le finanze pubbliche peggiori: alta tassazione unita a pessima qualità della spesa pubblica.

Anche qui la missiva di Francoforte trova un naturale approdo a Roma. L’Italia è un Paese indebitato, con un grosso vantaggio: essere membro dell’Unione monetaria. Grazie a tale appartenenza, può pagare sul proprio debito tassi di interesse, nominali e reali, più bassi. Un vantaggio che purtroppo finora la nostra classe politica ha dissipato. Per un Paese indebitato gli obiettivi del pareggio dei conti, della riqualificazione della spesa e della lotta all’evasione sono indipendenti dall’essere parte dell’Unione, che invece può essere uno strumento per rendere tali obiettivi più credibili, e nel contempo più flessibili in termini di profilo temporale. Purtroppo le voci più miopi nei dibattiti nazionali ribaltano spesso il nesso tra disciplina fiscale e appartenenza all’Unione, ricordato dalla Bce.

La convergenza delle politiche strutturali e fiscali diviene condizione necessaria per far riassorbire stabilmente l’eccesso di avversione al rischio, e tornare ad un sistema economico normale e dinamico. La normalizzazione delle condizioni monetarie, bancarie e finanziarie ha fatto passi in avanti. Mario Draghi ha elencato tutta una serie di segnali incoraggianti, che riguardano la domanda come l’offerta di credito, nonché l’auspicato effetto stabilizzante dell’inizio dell’Unione bancaria. Inoltre aiuta il fatto che la politica della Bce abbia oramai un orientamento opposto a quello intrapreso dalla Fed e dalla Banca d’Inghilterra. Ma i segnali positivi sono tutti reversibili, anche alla luce delle incognite geopolitiche che toccano da vicino l’Unione Europea; purtroppo di nuovo i dibattiti nazionali sembrano orientati dal binocoli alla rovescia. La Bce ha confermato per il secondo mese consecutivo l’orientamento più espansivo della politica monetaria europea dalla sua nascita, nonché una decisione unanime di continuare nel tentativo di normalizzazione. E Bruxelles – nonché Roma – come rispondono?

E’ ora che lo stato torni a investire

E’ ora che lo stato torni a investire

Alessandro Zeli – Il Sole 24 Ore

Gli squilibri generati sui mercati esteri e quindi i disavanzi del settore privato si scaricano infatti, con l’acuirsi della crisi, sul bilancio pubblico. I canali attraverso i quali si innesca la crisi del debito sono da una parte la diminuzione delle entrate dovuta al calo delle attività e dall’altra l’aumento per la spesa per il sostegno alla disoccupazione e alle perdite bancarie. Il debito raggiunge via via traguardi sempre maggiori accelerando negli ultimi anni anche a causa della politica pro-ciclica dei tagli alla spesa e di aumento delle entrate raggiungendo e superando la soglia dei 2000 miliardi di euro. La crescita del debito deriva, naturalmente, dall’aumento dell’indebitamento (grafico 1) che nonostante le politiche deflattive del governo Monti tende a crescere anche negli ultimi anni a causa soprattutto della componente legata alla spesa per interessi.

Se si analizzano più in dettaglio le varie componenti delle uscite, escludendo dall’indebitamento le spese per interessi, le tendenze possono sottolineare aspetti diversi (grafico 2). Come si può notare dal grafico ormai il bilancio dello Stato si trova stabilmente in una situazione di avanzo primario con l’eccezione del 2009 dovuta all’approfondirsi della prima fase della crisi. Le politiche di contenimento della spesa sono, pertanto, sempre più finalizzate al servizio del debito creando un circuito redistributivo che va dal contribuente (o dal beneficiario dei trasferimenti statali) verso i creditori (nazionali ed esteri) dello Stato, ossia il sistema finanziario. È interessante notare come il governo Monti abbia garantito i creditori esteri facendo scendere la percentuale di titoli del debito in loro possesso da circa la metà a circa un terzo del totale.

Le dinamiche comparate della spesa primaria e della spesa per interessi mettono ancor più in evidenza il divaricamento in favore di queste ultime. La spesa primaria e, quindi, tutte le spese dello Stato per la sua organizzazione e le spese per i trasferimenti alle famiglie (pensioni, sanità, welfare) per la prima volta, negli ultimi tre anni diminuiscono. Questo testimonia, ulteriormente, che la crescita del debito primario è stata messa sotto controllo. Gli interessi passivi registrano, invece, una dinamica accelerata rispetto al resto della spesa con una tendenza ad un’ulteriore crescita proprio negli anni del rigore montiano per effetto della manovre di tagli pro-ciclici che hanno diminuito la spesa e quindi anche il gettito creando una situazione di “sovraggiustamento”.

Il peso del servizio del debito tende ad aumentare per via della diminuita credibilità del Paese a restituirlo, tuttavia la credibilità è una medaglia che presenta due facce in sé contradditorie. Da un lato, in un’ottica di breve che si può definire finanziaria-speculativa, si esigono sempre maggiori tagli alla spesa primaria per poter avere maggiori disponibilità per il pagamento degli interessi con effetti depressivi sulla domanda interna, dall’altra, con un’ottica di lungo che si può definire di economia reale, lo spread, e quindi il livello tendenziale dei tassi sul debito, tende ad aumentare in assenza di prospettive di crescita, quest’ultima depressa, appunto, dal calo di domanda.

Il Paese si trova, pertanto, stretto tra le due braccia di una tenaglia: la prima data dalla perdita di capacità produttiva e quindi in prospettiva di piena ripresa e pieno utilizzo dei fattori produttivi dovuta alla perdita di competitività all’interno dell’area Euro e, l’altra, dal drenaggio di risorse sempre più cospicue verso i finanziatori del debito: interni ed esteri.

In conclusione manca un mix di politica economica a livello europeo tale da poter risolvere i reali problemi di competitività della nostra economia. La politica monetaria guidata dalla Bce ha svolto il compito di fermare la crescita dello spread (almeno per il momento) e di tenere i tassi a livelli molto bassi. La politica fiscale, da parte sua, non può avere come scopo solo i tagli di spesa (cui peraltro il nostro Paese ha ottemperato meglio e prima di altri, in possesso di ranking e credibilità anche superiore al nostro). È arrivato il momento di ricostituire un programma di investimenti pubblici per indirizzarli sia verso un reale recupero della competitività, sia verso un sostegno della domanda interna e della capacità di spesa di imprese e famiglie.

Riforma del Senato, Draghi, Alitalia: tre fotografie della crisi

Riforma del Senato, Draghi, Alitalia: tre fotografie della crisi

Stefano Folli – Il Sole 24 Ore

La riforma del Senato – la riforma Renzi – che supera, sia pure con affanno, il primo passaggio parlamentare. Mario Draghi che indica i ritardi nelle riforme strutturali dell’economia e accenna a “cessioni di sovranità”. I dipendenti Alitalia che si astengono in massa dal lavoro recapitando certificati medici di comodo. L’Italia di oggi è racchiusa drammaticamente in queste tre foto.

Nonostante le apparenze, c’è un filo che lega questi tre momenti diversi fra loro. La riforma del Senato, a cui Renzi ha legato fin troppo la sua immagine, simboleggia lo sforzo generoso di puntare sul riassetto istituzionale (insieme al Titolo V e alla giustizia) come biglietto da visita della nuova Italia giovane e dinamica. Ottimo proposito, magari anche vincente nel lungo periodo, ma dagli esiti pratici per adesso poco significativi. Anche perché il cammino di queste riforme non sarà breve.

Il premier ritiene giustamente che nel progetto innovatore ci sia un dividendo psicologico da incassare subito, trasmettendo agli italiani l’idea di una marcia inarrestabile. È vero, quasi sempre il messaggio efficace è quello che incrocia la psicologia di massa e Renzi nei suoi primi mesi si è rivelato un maestro nel suscitare speranza. Adesso però il quadro si è ribaltato e la stessa riforma del Senato arriva con qualche giorno di ritardo. Si è detto che i dati sulla recessione segnano la rivincita dei realisti sui sognatori. Se è così, Renzi non ha altra strada se non diventare ancora più sognatore e mostrarsi altrettanto determinato a procedere sulla via delle riforme. Ogni altra scelta apparirebbe una resa.

Il problema è che l’immagine del riformatore adesso è scalfita da un senso di impotenza, anche per la debolezza del disegno complessivo. Prendersela con il giovane premier sta diventando uno sport nazionale, secondo un costume molto italiano. Peraltro i fatti dicono che forse era sbagliata la scala delle priorità. E qui si inserisce l’intervento di Draghi, giudicato come uno spietato richiamo alla realtà, cioè alle vere riforme che dovrebbero essere al centro dell’azione di governo. Ieri sera alla “Sette” il premier è stato lesto a dichiararsi d’accordo con il presidente della Bce: è la mia linea, ha detto, anch’io voglio più riforme e più incisive. Reazione politica ovvia, ma dietro la quale s’intravede il secondo livello della crisi. Se l’Italia non riesce a sollevarsi da sola, l’Europa non permetterà che vada alla deriva e gli interventi potrebbero essere molto decisi. Certo, come osserva Renzi, Draghi non ha citato l’Italia quando ha evocato la «cessione di sovranità». Ma tutti quelli che dovevano capire hanno capito.

Infine c’è la terza istantanea: la più inquietante, se non la più tragica. Quei certificati di malattia presentati in massa dai dipendenti dell’Alitalia, grazie alla complicità di medici meritevoli di una rapida inchiesta, sono anch’essi un simbolo, al pari delle valigie abbandonate di chi non riesce a partire o arrivare. È il simbolo di un’Italia ottusa che si è già estraniata dal mondo.

Contro questa Italia chiusa nel suo micro-corporativismo non c’è argomento che tenga. Né il riformismo solitario e magari un po’ velleitario di Renzi, né il richiamo severo di Draghi alla dimensione europea. Non vale la politica-spettacolo che si attira tante critiche, ma almeno prova a comunicare con i cittadini, sia pure attraverso un codice populista. Tanto meno vale l’analisi delle cifre o l’appello alla verità austera dei numeri. Ai sanfedisti dell’Alitalia è inutile proporre la distinzione fra sognatori e realisti. Il loro disprezzo per le regole della vita civile è palese e coincide con il disprezzo verso i viaggiatori. È un segmento d’Italia che crede di essere più forte, come pensavano di esserlo i controllori di volo messi alla porta da Reagan.

Ma quale Paese vuole Renzi?

Ma quale Paese vuole Renzi?

Roberto Napoletano – Il Sole 24 Ore

«Ma Renzi le cose le fa o non le fa?». Questa è la domanda di oggi. Dopo il 40,8% nell’urna, un risultato politico storico che ha dato forza alla speranza, è arrivato il meno 0,2% del pil che segue il meno 0,1% del trimestre precedente e fa ripiombare l’Italia in recessione, con una stima annua di meno 0,3%. Alla domanda che tutti si pongono, dai vecchi saggi dell’Europa alla comunità degli investitori, imprese, famiglie, giovani, da ieri non fa più seguito la positiva attesa di qualche mese fa, ma un’aspettativa di semplice attesa. La capacità di Renzi e del suo ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, deve essere quella di agire, alla voce fatti, prima che questa aspettativa neutra si trasformi in un sentimento comune (pericolosissimo) di attesa negativa. Potremmo dire (Ritorno alla realtà, 16 maggio, Il coraggio della verità, 11 luglio) che siamo stati facili profeti, ma non lo faremo. Abbiamo l’interesse esattamente contrario: sappiamo quanto sia vitale che il Paese riparta, lo vogliamo come italiani, sappiamo che qui ci sono le competenze per cambiare con le proprie teste e con le proprie mani.

Servono investimenti interni ed europei, pubblici e privati, quelli veri, quelli possibili, non la farsa dei 43 miliardi annunciati all’Expo parlando dello sblocca-Italia. Serve un disegno di sviluppo condiviso che metta al centro l’investimento e Renzi deve dimostrare di averlo e di essere capace di realizzarlo. Mille giorni, bene, ma per fare che cosa? Chi ci osserva da fuori vuole capire se l’Italia è in grado di gestire situazioni difficili e la risposta non può non essere un disegno organico di azioni che riguardano l’economia e vengono comunicate e attuate in tempi certi. Con le risorse destinate al bonus di 80 euro, si poteva dare una scossa seria agli investimenti scegliendo la strada prioritaria di abbassare in modo significativo l’Irap, gli investimenti “producono” lavoro e consumi, ciò di cui si ha più bisogno. Non si è fatto e oggi i dati dell’Istat certificano che è, soprattutto, la caduta degli investimenti ad averci riportato in recessione. La linea di provvedimenti del fare del governo Letta (bonus per l’edilizia e altro) va proseguita e rafforzata. Non pensate che siano piccole cose, il pil si nutre di bonus che si ripagano. Si agisca, come promesso, su mercato del lavoro, riforma fiscale, macchina dello Stato e giustizia, a partire dalle due emergenze assolute che sono il civile e l’amministrativo. Sulla spending review si operi non con la logica del taglione (tolgo da qui e metto lì) ma con quella di un recupero di efficienza che riduca stabilmente i costi dello Stato. Queste sono le priorità, non le riforme istituzionali, che sono ovviamente importanti, ma vengono un attimo dopo e vanno messe a punto in Parlamento, consentendoci di uscire dalla trappola del bicameralismo perfetto evitando nuovi gattopardismi su ruolo e peso delle Regioni. L’urgenza è l’economia e guai se i mercati si dovessero convincere che chi ci governa sottovaluta. Il tema del debito pubblico e delle privatizzazioni si affronti con pragmatismo senza lasciare nulla di intentato, ricordandosi, però, sempre che la via maestra è quella di recuperare la strada della crescita.

Sia chiaro: la metà dei problemi non è colpa nostra. I troppi focolai di crisi geopolitica (Russia-Ucraina, Israele-Palestina, Siria, Iraq, Libia) frenano la crescita mondiale e chiudono fette di mercato per le nostre esportazioni, ma anche per quelle tedesche. Il vero rischio che corre l’Europa è quello di non prendere atto che, così com’è, la Germania non riesce ad essere una forza propulsiva per sé e per gli altri, manca il traino del suo mercato interno. Oggi, però, la Commissione è in stallo, la Bei non funziona come dovrebbe, la politica monetaria ha fatto e farà tutto il possibile per evitare la deflazione iniettando tanta liquidità in giro, ma perché la ripresa riparta ci vuole almeno una domanda potenziale. Per questo l’Europa sarà chiamata, nei tempi che riuscirà a darsi, a promuovere con forza un vero New Deal, dovrà dotarsi di un esercito e di una politica estera comuni. Per noi e per la nuova Europa in costruzione sarà vitale che il governo Renzi raddoppi gli sforzi e alimenti un circolo virtuoso di investimenti-aspettative-fiducia che si trasmette alle imprese e alle famiglie facendo sì che ritorni la voglia (sana) di spendere. Si deve percepire che ci sono il disegno e la reale volontà di attuarlo uscendo dalla logica del colpevole (l’Europa, la banca, il burocrate e così via) che aumenta i voti nell’urna, ma non risolleva l’economia.

Renzi liquida Cottarelli, Legge di Stabilità ora in forse

Renzi liquida Cottarelli, Legge di Stabilità ora in forse

Dino Pesole – Il Sole 24 Ore

Senza tagli alla spesa, o in presenza di un drastico ridimensionamento, la prossima legge di stabilità perderebbe la sua principale fonte di finanziamento, rendendo di fatto impossibile onorare tutti gli impegni in lista di attesa. Si va dalla stabilizzazione del bonus Irpef, ai nuovi capitoli di spesa che sarà necessario affrontare (dal costo delle missioni internazionali al finanziamento di altre spese inderogabili), per finire con gli impegni già contenuti nella legislazione vigente. Dulcis in fundo, la necessità di garantire – come chiede Bruxelles – che il deficit strutturale venga ridotto già dal 2015 in modo da garantire il rispetto dell’obiettivo di medio termine, in sostanza il pareggio di bilancio. La somma dei diversi addendi fa salire l’importo complessivo della manovra d’autunno nei dintorni dei 20 miliardi. E sono almeno 14 miliardi i tagli strutturali alla spesa corrente da realizzare tutti con la prossima legge di stabilità, che salgono a 17 miliardi se si aggiungono gli impegni finanziari già assunti dal governo Letta, quando ancora devono essere realizzati i tagli da 2,6 miliardi inseriti sotto forma di copertura di parte del bonus Irpef per l’anno in corso. La mission che attende il Governo è questa, e la partita si annuncia a dir poco complessa, ora che i dissensi tra il commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, Palazzo Chigi e parte del Parlamento sono emersi in tutta la loro evidenza.

Impensabile realizzare interventi di tale portata senza l’apporto decisivo dell’azione complessiva di razionalizzazione della spesa pubblica, che comunque dovrà garantire risparmi strutturali e a regime per non meno di 32 miliardi. Il punto di rottura e il vero banco di prova per la tenuta del governo è proprio qui, su questo terreno, perché va a investire frontalmente scelte politiche (non certo indolori, anche sul fronte del taglio delle agevolazioni fiscali), da adottare e difendere in Parlamento, quando in autunno Camera e Senato saranno chiamate ad approvare un così consistente piano di revisione dei meccanismi stessi che presiedono alla formazione della spesa. Il ruolo di Cottarelli, o di chi sarà chiamato a sostituirlo, è tutt’altro che secondario, e non si limita a un semplice esercizio ricognitivo.

Si tratta – ed è quello che lo stesso Cottarelli si accingeva a fare – di indicare con precisione dove e come far scattare il bisturi dei tagli selettivi. Così da creare di conseguenza gli spazi finanziari per ridurre le tasse sul lavoro. Ma se si esclude – per evidenti ragioni politiche e di consenso – di intervenire in settori nodali come la sanità (materia di intese bilateraili tra governo e Regioni all’interno del Patto della salute), la previdenza (argomento ad alta valenza politico-elettorale), se il disboscamento delle municipalizzate si riduce a una semplice azione di “manutenzione”, dove intervenire? Possibile ipotizzare che si agisca in via esclusiva sul fronte degli acquisti di beni e servizi, settore in cui magna pars è costituita proprio dalle spese sanitarie? Possibile intervenire senza riaprire il dossier dei costi e fabbisogni standard? Se poi – come ha denunciato lo stesso Cottarelli – si prenotano ex ante risparmi ancora da realizzare per finanziare nuova spesa corrente (la cosiddetta «quota 96» per 4mila insegnanti), il vero rischio è che la stessa mission della spending review venga vanificata, aprendo di fatto la strada alla vecchia, abusata prassi dei tagli lineari. Ecco perché il vero nodo è tutto politico, e non sarà agevole districarlo. Sono interrogativi che andranno sciolti in fretta, la cui soluzione va oltre la «questione personale» che sta dietro il caso Cottarelli, come definita ieri dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Delrio. L’impegno – fa sapere Delrio – è a continuare sulla spending review «senza nessun problema. È un obiettivo del governo e non dipende dalle persone che la conducono». E il premier Matteo Renzi aggiunge: la spending si farà anche senza Cottarelli.

Il punto è che dal lato del deficit non vi sono margini. In attesa che l’Istat renda noti, il prossimo 6 agosto, i dati relativi al Pil del secondo semestre, al ministero dell’Economia si stanno già facendo i conti con una previsione di crescita che – se andrà bene – risulterà almeno dimezzata rispetto alle stime del Def di aprile (0,8%). Ne consegue che il deficit nominale scivolerà di fatto verso il limite massimo del 3%, contro il 2,6% previsto in primavera. Ogni ulteriore sforamento imporrebbe il ricorso a una manovra correttiva dei saldi di finanza pubblica, che a ottobre con ogni probabilità dovrebbe concretizzarsi in aumenti d’imposta. Ipotesi da scongiurare, per non aggravare ulteriormente gli andamenti attuali dell’economia reale. Scenari che impongono massima vigilanza e determinazione, anche nel caso in cui possa venire in soccorso una minore spesa per interessi grazie al calo dello spread.

Se il lavoro esclude gli «azionisti del futuro»

Se il lavoro esclude gli «azionisti del futuro»

Alberto Orioli – Il Sole 24 Ore

Chi il Jobs act lo ha fatto sul serio oggi confida in una crescita del Pil del 4 per cento. L’Italia del Jobs act per ora solo “parlato” fa i conti con i dati in chiaroscuro del mercato del lavoro. E supera di un punto il tasso medio di disoccupazione europeo (siamo al 12,3%) mentre la Germania si ferma al 5%, livello, come avrebbe detto Paolo Sylos Labini, «fisiologico» o addirittura frizionale.

Forse si è fermata l’emorragia di posti di lavoro, ma non c’è ancora una netta inversione di tendenza. Sono una goccia quei 50mila nuovi occupati registrati a giugno a fronte dei 31mila giovani in più che, invece, hanno perso il posto. E, in termini qualitativi, segnala un Paese non ancora in grado di dare risposte agli “azionisti del suo futuro”, i giovani appunto. Né vale la controdeduzione secondo cui il dato può essere in qualche modo “positivo” perché aumenta il numero di persone che si affacciano sul mercato avendo aspettative positive sul l’evoluzione dell’economia. Purtroppo la quota di inattivi tra i 15 e i 64 anni resta invariata, con un tasso monstre del 36,3 per cento (che diventa del 73,2% tra i giovani con un record di 4,3 milioni che non cercano nemmeno un’occupazione).
Ha detto bene ieri il ministro Pier Carlo Padoan. Serve uno sforzo in più per la crescita perché la situazione sta peggiorando. L’inflazione allo 0,1% conferma un’economia stagnante e congelata nella paura del futuro. Lo zerovirgola con cui il Pil chiuderà l’anno è preoccupante. I mercati si sa quanto siano rapidi nel “cambiare verso” e l’autunno potrebbe riservare sorprese. La risposta può venire dal l’Europa, come auspica il Governo italiano, se davvero al prossimo Ecofin verranno programmate azioni di investimento pubbliche e private. Ma non può non venire anche dall’Italia.

Lo sforzo fatto dal buonsenso del ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, ha dato risposte utili sui contratti a termine e sull’apprendistato; ma non si può realisticamente confidare su poche misure spot e di tipo ordinamentale (seppur importantissime) per cambiare verso alla crescita dell’intera economia.
L’aver rinviato la discussione sulla delega-lavoro, già viziata dal peccato d’origine della genericità, non ha giovato all’azione di incisività della politica economica, soprattutto perché è stata travolta (e oscurata) dal dibattito estivo sulle riforme istituzionali, tanto rissoso quanto lontano per i cittadini. Gli sforzi di rilancio dell’azienda Italia passano per ora soltanto dalla tenacia delle imprese impegnate a conquistare mercati nel mondo. Ma non bastano a compensare le migliaia di casi di crisi aziendali finora tamponate con un sistema di ammortizzatori sociali tradizionali o in deroga, insostenibile, alla lunga, rispetto al sistema fiscale.

È come se si faticasse a prendere coscienza che servono azioni vere di politica industriale: non basta l’enunciazione affidata a poco più di un tweet sulla volontà di facilitare la rivoluzione digitale e di immettere forti misure di innovazione del modello produttivo. Servono investimenti mirati, scelte strategiche costose per le quali, tra l’altro, le risorse – come ha detto ancora ieri lo stesso Padoan – non sarebbero di difficile mobilitazione: come del resto è stato fatto negli Usa dove la “obamanomics” ha riscoperto e rilanciato, con dovizia di mezzi, la vocazione manifatturiera di un Paese immenso coniugandola con un colossale disegno di conversione alla sostenibilità e al rispetto ambientale. Puntare sul trasferimento tecnologico dal mondo dell’accademia (o della ricerca astratta) a quello dell’industria è vincente, così come sono stati vincenti provvedimenti settoriali come i bonus per ciò che ruota sul business della casa.

Tentativi, mezze-scelte, azioni contingenti: non si ha la sensazione di un disegno organico, di quella «visione» che invece Matteo Renzi rivendica (lo ha fatto anche ieri) spesso come dato acquisito. Tanto più che anche quei tasselli finiscono per essere sparigliati dalle scelte “vecchio stile” operate dal Parlamento, come è accaduto per il parziale smontaggio della riforma Fornero e per le moltissime micro-norme di spesa che si sono affastellate fino a bruciare il tesoretto dei tagli già realizzati. Carlo Cattarelli ha messo sul tavolo il problema dei problemi: se i tagli, già assai meno di quelli che servirebbero per rendere più efficiente la macchina pubblica e ridurre il perimetro malato dell’economia di Stato, vengono vanificata con nuova politica di spesa, si bruciano le uniche risorse utilizzabili per raggiungere il principale obiettivo di politica economica: ridurre le tasse sul lavoro (sia per l’impresa sia per i lavoratori).
È questa la vera politica per l’occupazione: il ridisegno del carico fiscale sugli onesti che oggi rappresenta un record mondiale e azzera la possibilità di investire nel futuro, di agire sulla domanda interna, di creare quel meccanismo virtuoso tra redditi, spesa, investimenti, occupazione. È questa l’unica “catena del valore sociale” che fa girare correttamente l’economia e crea il lavoro. Quello vero.

L’obiettivo: tagliare di un terzo l’Iva che sfugge

L’obiettivo: tagliare di un terzo l’Iva che sfugge

Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Tagliare di almeno un terzo il tax gap dell’Iva, cioè quel complesso di evasione vera e propria e di mancati pagamenti per errori o crisi di liquidità che ogni anno sottrae all’Erario tra i 35 e i 40 miliardi di euro, a seconda dei calcoli. È l’«obiettivo di medio periodo» scritto nel Rapporto sulla lotta all’evasione che il Governo deve presentare al Parlamento: un obiettivo che servirebbe a riportare l’Italia «nella media dei Paesi europei» fra i quali oggi primeggia per i mancati incassi nell’imposta sul valore aggiunto.
Il primato italiano è scritto nelle analisi comparative sull’evasione appena prodotte dall’Unione europea, dove si legge che il gap italiano dell’Iva non teme confronti né in valore assoluto (la Francia secondo le stime, relative al 2011, ha “perso” 32,2 miliardi all’anno, la Germania 26,9 e il Regno Unito 19,5) sia in rapporto al Pil, perché il gap italiano (2,3% del Pil) doppia abbondantemente quello attribuito a Germania e Regno Unito (rispettivamente 1% e 1,1%) e supera di slancio quello registrato in Francia (1,6%). Questo accade perché il nostro Paese non riesce a incassare più di un quarto dell’«Iva potenziale», con una performance che si tiene lontanissima da quella dei principali Paesi europei (si veda il grafico qui a fianco): peggio di noi fanno solo la Grecia e alcuni Paesi dell’Est Europa.
La nostra amministrazione finanziaria muove qualche obiezione al merito di queste graduatorie europee, perché l’Italia è «Paese leader in campo internazionale per quanto riguarda la metodologia di stima del sommerso», e il confronto rischia paradossalmente di premiare gli Stati che sono meno attenti in questo campo e di conseguenza calcolano un’evasione minore. È lo stesso Rapporto, però, a riportare questi dati, e soprattutto a riconoscere l’esigenza di riportare l’Iva a un livello «europeo» di riscossione effettiva.
Per combattere il fenomeno bisogna prima di tutto capirne le cause, e da questo punto di vista arriva per la prima volta un’ammissione interessante. «È possibile – si legge nel documento – che l’aumento dell’aliquota ordinaria tenda a produrre, mediante la crescita della pressione fiscale effettiva, un innalzamento del tasso di evasione». Come denunciato da alcuni analisti, quindi, gli incrementi che hanno spinto l’Iva ordinaria dal 20% al 21% il 16 settembre 2011 e al 22% dal 1° ottobre 2013 per effetto di diverse clausole di salvaguardia contenute nelle manovre anticrisi rischierebbero di avviare un circolo vizioso in cui i problemi di finanza pubblica aumentano l’Iva, ma l’aumento dell’Iva alimenta a sua volta le difficoltà del bilancio statale. Il rischio si acuisce proprio nelle fasi di crisi, che oltre a ridurre la domanda interna determinano «un clima di incertezza e sfiducia» che costituisce «il terreno favorevole per l’acuirsi di pratiche evasive». Anche così si spiega il rialzo del gap Iva registrato dalle serie storiche dal 2010, dopo le discese quasi costanti nel 2004-2007 e nel 2008-2010.
Al di là di queste oscillazioni, però, il problema è strutturale e chiede soluzioni. Il Rapporto, come previsto, punta le proprie carte sulla tracciabilità dei flussi e in particolare sulla fattura elettronica, che dai rapporti con la Pa si potrebbe estendere alle transazioni fra imprese «in ragione dei risparmi gestionali che ne possono derivare». Da attuare, poi, rimane l’erede del vecchio elenco clienti-fornitori, cioè la comunicazione quotidiana al Fisco delle fatture da parte delle partite Iva (articolo 50-bis del Dl 69/2013). Si tratta di un’opzione, in calendario dal 1° gennaio prossimo, ma se le sue modalità attuative offriranno a chi la sceglie semplificazioni importanti su altri fronti potrà tessere una rete fitta di informazioni utili al Fisco.

Si vince o si perde tutti insieme

Si vince o si perde tutti insieme

Alfonso Ruffo – Il Sole 24 Ore

Se tutto va bene siamo rovinati. Cinquant’anni di politiche straordinarie, speciali, di vero o presunto favore, sono stati gettati al vento da una crisi che nel Mezzogiorno dura da sei anni senza interruzioni, promette di resistere anche per i prossimi due e viene paragonata alla Grande Crisi che negli anni Trenta del secolo scorso atterrì l’America. Il risultato è che il divario tra il Nord e il Sud riprende ad allargarsi facendo dell’Italia il Paese con l’economia duale più marcata al mondo, con differenze così forti da un luogo all’altro da rendere la media nazionale un puro dato statistico. Insomma siamo in presenza di due realtà economiche diverse e distanti. Il Rapporto Svimez presentato ieri è in proposito molto eloquente: «Sei anni di recessione ci lasciano un’Italia ancora più divisa e diseguale». Insomma, il Mezzogiorno affonda porta in basso con sé un Centro-Nord che avrebbe ripreso a galleggiare nonostante il perdurare dei marosi. Si spiega così come sia possibile che l’economia italiana nel 2013 sia stata battuta in peggio in Europa solo dalla disgraziata Grecia e dalla piccola Cipro. Le regioni meridionali si avvitano in un circolo vizioso che rischia compromettere qualsiasi capacità di ripresa per una vera e propria dissoluzione della base materiale della crescita come il crollo degli investimenti, in particolare di quelli industriali che risultano dimezzati, fa ragionevolmente temere. La Svimez parla senza mezzi termini di eutanasia.
Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: i due terzi dei nuovi disoccupati si concentrano al Sud dove i posti di lavoro precipitano al livello di quaranta anni fa e solo un giovane su quattro trova impiego. Il prodotto pro capite torna alla consistenza del 2003 nonostante il progressivo calo degli abitanti. I consumi vanno a tappeto. E non solo quelli voluttuari, come sarebbe naturale, ma anche quelli di prima necessità come gli alimentari. Non è un caso che sia raddoppiato il numero delle famiglie cadute in povertà. Cala la spesa per l’istruzione e per la cura della persona con particolare evidenza su scarpe e vestiti. Chi può abbandona il campo. Sono sempre di più i giovani capaci che lasciano i luoghi di origine e cercano fortuna altrove. Naturalmente non mancano le dovute eccezioni, imprenditori coraggiosi piantati al Sud ma abituati a confrontarsi col mondo; pronti a innovare, sperimentare, conquistare spazio e fatturato. Non hanno nulla da invidiare ai colleghi di qualsiasi parte del globo ma per esistere sanno di diversi sacrificare più degli altri. La preoccupazione è seria. Tanto più che l’interdipendenza tra le due parti del Paese, tra il Sud che sembra afferrato dalle sabbie mobili e il Nord che vorrebbe rimettersi a correre, è più forte di quanto si possa immaginare dal momento che il 75% della produzione settentrionale è ancora rivolto al mercato interno. Il destino dell’Italia è uno. Si vince o si perde tutti insieme. Sullo sfondo ci sono sempre e ancora i fondi europei della vecchia e nuova programmazione che le Regioni dovrebbero imparare a usare bene per migliorare la dotazione d’infrastrutture, materiali e immateriali, e innalzare la capacità di competere.