il sole 24 ore

La sconfitta dei privilegi

La sconfitta dei privilegi

Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore

«Alle banche popolari quotate servono regole per un controllo più efficace dell’operato degli amministratori, un maggiore coinvolgimento degli azionisti in assemblea anche mediante deleghe. Come ho già osservato in passato, un intervento legislativo è necessario». «le modifiche statutarie, che pure abbiamo sollecitato, non possono essere risolutive». Era il 31 maggio 2011, e a dirlo era Mario Draghi, allora Governatore della Banca d’Italia. Il “necessario” intervento legislativo adesso è arrivato, indotto, se non “sollecitato”, dal Single Supervisionary Mechanism della BCE. Sette banche popolari di rilevanza sistemica, pur superando tutte lo stress test e l’asset quality review, hanno però dovuto usare il margine di tempo consentito per mettersi a posto: sono per così dire borderline. Per rafforzarsi le banche ricorrono perlopiù alle fusioni: ma se i loro statuti prevedono il voto capitario, solo con delle acrobazie di governance e di poltrone possono ricorrere a quello strumento, anche se sono quotate in Borsa. Il prezzo delle azioni non riflette il valore potenziale della banca, tant’è che basta l’annuncio dell’eliminazione del voto capitario perché i listini prendano il volo. La conseguenza è che abbiamo banche sistemicamente importanti, perlopiù efficienti, con buon radicamento sul territorio, che però risultano borderline nel nuovo panorama della Banking Union.

Il Governo ha deciso di eliminare gli ostacoli al superamento di questa situazione: entro 18 mesi 10 banche popolari, di cui 7 quotate, ma tutte sistematicamente importanti, dovranno diventare società per azioni. E lo ha fatto, perdipiù, con lo strumento del decreto, evidentemente, e a mio avviso giustamente, ravvisando la “necessità ed urgenza” di evitare che possano nascere problemi in quella parte del nostro sistema creditizio ( e magari sperando che in questo modo se ne possano risolvere alcuni, tanto per intenderci tra Siena e Genova). Evidentemente per Francoforte, e quindi per Roma, l’obbligo di trasparenza richiesto a una banca che per dimensione è sistematicamente rilevante, può essere soddisfatto solo con la governance di società per azioni, e non con quella a voto capitario.

C’è la retorica della cooperazione: le banche popolari – scriveva Raffaele Bonanni a proposito delle vicende BPM che mi indussero a dare le dimissioni da consigliere di quella banca– sono “la forma più compiuta di partecipazione al governo dell’impresa, la forma più avanzata di democrazia economica”. E c’è la realtà degli interessi, quelli di associazioni di soci, magari dipendenti e loro famigli, che organizzando e selezionando l’affluenza in assemblea, riescono a controllare il voto. Nel 2011 in BPM il 73% del capitale era in mano di non soci, il 27% in mano di 53.000 soci, di cui il 4% degli 8700 dipendenti organizzati nell’Associazione Amici. Questi controllano il voto in assemblea, hanno un improprio coinvolgimento nelle scelte gestionali, in particolare in quelle su avanzamenti e promozioni, senza nessuna responsabilità o rischio di sanzioni. Il problema di agenzia c’è anche nelle società per azioni, c’è, moltiplicato, nelle piramidi societarie, ma c’è perlopiù la possibilità di conquistare una maggioranza sufficiente a sostituire il management: una possibilità che invece non esiste in caso di voto capitario. Fin quando possono esistere isole felici in cui risparmiatori coscienti di non contare nulla corrono a dare i loro soldi a dipendenti perché la banca sia gestita in modo da dare a loro vantaggi sicuri, ovviamente a scapito della redditività? È nelle realtà di media dimensione che la cooperazione può non essere retorica, dove anzi si può supporre che si sia ancora capaci di assegnare correttamente il merito di credito alle imprese e ai loro progetti: che sono quindi fuori da quanto dispone il decreto del Governo.

Giuste le ragioni dell’intervento, a lasciar sorpresi è il momento scelto: perché non è che siano mancate le occasioni, nei 4 anni dopo il discorso del Draghi italiano e nei 4 mesi dopo il responso del Draghi europeo. Le banche popolari, proprio per le ragioni implicite al voto capitario, possono contare su sostenitori tra tutte le forze politiche rappresentate in Parlamento. Se a suggerire l’intervento del Governo non c’è qualche brutta notizia di cui non si sia ancora a conoscenza, bisogna riconoscere che Matteo Renzi ha dato dimostrazione di grande determinazione prendendo un provvedimento che gli potrebbe alienare consensi proprio mentre in Parlamento hanno e avranno luogo votazioni di decisiva importanza per il futuro del Paese e suo. Consideriamola allora come una dimostrazione di forza, e attendiamo con fiducia la conversione del decreto.

Giungerebbe proprio a tempo. Infatti uno degli scopi del QE che oggi verrà annunciato dalla BCE è di consentire alle banche di erogare maggiori finanziamenti alle industrie. Ma se l’economia non cresce, gli investimenti diventano più rischiosi, più difficile diventa assegnare il merito di credito. Se è vero che molte banche popolari, anche alcune delle grandi, grazie a una maggiore prossimità alla clientela, hanno (ancora) conoscenze e competenze per saperlo fare, è questo il momento per loro di concentrarsi interamente a valorizzarle: libere dai conflitti di interesse tipici delle governance a voto capitario.

Le popolari pagano l’incapacità di riformarsi

Le popolari pagano l’incapacità di riformarsi

Marco Onado – Il Sole 24 Ore

È un fatto che le banche popolari abbiano seri problemi di governance grazie all’uso disinvolto che molti istituti (ma non tutti) fanno del voto capitario. È un fatto che la categoria si sia dimostrata incapace di un adeguato processo di autoriforma, visto che i problemi si trascinano fin dai tempi del Testo Unico, quando le proposte della Commissione Draghi vennero stralciate in attesa di una riforma (ça va sans dire) «più complessiva», il classico termine politichese per “calende greche”. E così infatti è stato. A confronto Penelope sembra un operaio tessile cinese.

Diamo atto al Governo di aver finalmente affrontato il problema della governance nelle banche Popolari. Ma da qui a mettere al bando l’assetto cooperativo imponendo per decreto alle popolari oltre una certa soglia dimensionale la forma di società per azioni, corre un abisso. Non solo, in linea di principio, per la soluzione scelta, ma anche perché le motivazioni indicate prestano il fianco a qualche perplessità.

La prima riguarda il divieto della forma cooperativa per l’esercizio dell’attività bancaria per le popolari più grandi. Lasciando ad altri la valutazione sulla legittimità di un intervento a gamba tesa sulla libertà statutaria, va ricordato che in quasi tutti i paesi le cooperative di credito sono una componente importante dei sistema bancario e in particolare di quello più vicino alle esigenze del territorio. Ci sono ovviamente molti esempi negativi, non solo in Italia, in cui il voto capitario serve a costruire roccaforti inattaccabili per il management o i loro danti causa, ma anche casi – come il Regno Unito – in cui si è dovuto costatare che le grandi building societies che a partire dagli anni Ottanta abbandonarono la forma cooperativa si sono lanciate nelle operazioni più spericolate, fino a crollare miseramente al primo stormire della crisi. Northern Rock è solo l’esempio più clamoroso ma non l’unico.

Il punto debole della corporate governance delle banche popolari è l’uso eccessivo e disinvolto del voto capitario, non il voto capitario in sé. Banche che hanno raggiunto dimensioni ragguardevoli e che hanno nell’azionariato investitori istituzionali anche internazionali non possono limitare le deleghe a numeri micragnosi e soprattutto devono raccoglierle in forma trasparente. Senza dimenticare le popolari non quotate (ma con azioni scambiate sistematicamente) che alimentano mercati assai poco trasparenti delle azioni proprie. Sono questi i nodi fondamentali che la categoria ha eluso per troppo tempo e che a questo punto possono giustificare un intervento dall’alto.

Ma perché tanta fretta da scegliere una soluzione così radicale, per di più con lo strumento del decreto? Stando alle dichiarazioni ufficiali, perché in questo modo si favorirebbero aggregazioni che appaiono indispensabili e perché si creerebbero le condizioni per riaprire i rubinetti del credito, che continua a scarseggiare, soprattutto per le piccole e medie imprese. Al mercato naturalmente le aggregazioni piacciono, perché provocano aumenti nel breve periodo dei prezzi azionari e infatti la borsa ha reagito positivamente, ma non diversamente da quanto ha fatto di fronte ad ogni operazione di fusione, comprese quelle che hanno dato frutti velenosi: se non vogliamo scomodare l’Antonveneta, basta pensare all’acquisizione di Abn Amro da parte di Royal Bank of Scotland, salvata solo grazie al pesante salasso del contribuente britannico. La storia delle fusioni insegna che nell’attività bancaria le economie di scala sono assai difficili da conseguire e che al crescere delle dimensioni i costi unitari non scendono necessariamente. Ogni fusione nasce con il suo corredo di promesse di “sinergie”, certificate da ponderosi studi di banchieri di investimento e consulenti vari, tutti profumatamente remunerati, ma il numero delle delusioni è vicino a quello dei successi.

E ancora: abbiamo “troppi banchieri” come dice il Presidente del consiglio? A parte che pare difficile credere che l’eccesso stia tutto nei vertici delle grandi popolari, il problema – in Europa più che in Italia – è quasi l’opposto. Come ha certificato un recente studio della massima autorità di vigilanza (European Systemic Risk Board) il sistema bancario europeo è troppo grande rispetto all’conomia reale (334 per cento del pil, cioè il doppio degli Stati Uniti), soprattutto perché sono cresciute a dismisura le maggiori banche, che si sono alla fine dimostrate troppo grandi non solo per fallire, ma anche per essere gestite correttamente. Insomma: prima di lanciare la grande corsa alle fusioni nelle fasce dimensionali medio-grandi, bisogna almeno pensarci due volte.

Infine, non è detto che le dimensioni siano la soluzione al nodo del credit crunch. La paralisi del credito ha infatti origini strutturali, tanto che assume particolare gravità in tutti i paesi della periferia d’Europa. E comunque, in Italia, proprio la categoria delle popolari è quella che negli ultimi anni ha ampliato il credito in essere. La Banca d’Italia ha invitato più volte le banche popolari (a cominciare dalle grandi quotate) a risolvere i problemi derivanti dalla rigida applicazione del modello cooperativo, puntando su due criteri fondamentali: l’autodisciplina e i meccanismi di mercato. La riottosità della categoria giustifica l’abbandono del primo criterio, ma il secondo, cioè il rispetto del mercato, rimane sacrosanto.

Valuta debole volàno per gli investimenti

Valuta debole volàno per gli investimenti

Giorgio Barba Navaretti – Il Sole 24 Ore

L’euro è debole, care imprese investite! La domanda interna continua a languire, ma raramente si sono verificate condizioni nei prezzi relativi dei beni più favorevoli alle nostre imprese. La svalutazione di oltre il 15% sul dollaro, il crollo del prezzo del petrolio, la stabilità dei prezzi interni e il credito a basso costo porteranno una crescita sostanziale dei volumi di beni venduti all’estero e un miglioramento significativo dei margini di profitto. Gli investimenti in macchinario sono stati negli ultimi tre trimestri del 2014 di 22 punti inferiori allo stesso periodo del 2008: un quarto di macchine da rinnovare o necessarie a espandere la produzione in meno. Se output e margini riprendono, inevitabilmente ripartiranno anche gli investimenti.

Paradossalmente la svalutazione sarà particolarmente benefica grazie agli anni in cui l’euro è stato forte. Nonostante le imprese italiane siano state sottoposte a condizioni competitive durissime, le esportazioni hanno continuato a crescere e i saldi di bilancia commerciale a migliorare già dal 2010. Il che è stato possibile grazie a ristrutturazioni draconiane e investimenti in qualità, tecnologia e marchi. In uno studio del 2008 Matteo Bugamelli, Fabiano Schivardi e Roberto Zizza avevano evidenziato come nei primi anni dell’euro la crescita della produttività fosse stata intensa in quei paesi come l’Italia, e in quei settori che più avevano utilizzato le svalutazioni competitive.

Oggi il sistema produttivo nazionale è radicalmente diverso rispetto al periodo pre-euro, quando le imprese competevano quasi solamente sulle condizioni di costo. Se dunque allora le svalutazioni erano indispensabili per la sopravvivenza del sistema, oggi sono una spinta per imprese che starebbero in piedi lo stesso. E queste imprese, proprio perché della svalutazione possono fare a meno, sono anche quelle più in grado di approfittarne. Infatti, i prodotti di alta qualità o basati su tecnologie particolari o con un marchio forte sfruttano solo marginalmente l’opzione di abbassare i prezzi in valuta estera. La svalutazione garantisce soprattutto un aumento dei margini di profitto, oltre e più che un aumento dei volumi esportati. E questi profitti devono essere utilizzati per quegli investimenti necessari a rafforzare ancor più la loro competitività globale.

La svalutazione, comunque continua ad avere un effetto benefico anche per le imprese meno efficienti. Il paradosso italiano del crollo dell’output industriale accompagnato dalla crescita dell’export durante gli anni dell`euro forte e della crisi è spiegabile solo in termini di eterogeneità delle imprese. Da un lato le imprese più avanzate crescevano all’estero, mentre quelle più deboli subivano in pieno il calo della domanda interna e l’euro forte. Ora quelle di questo secondo gruppo che sono riuscite a sopravvivere troveranno con la svalutazione un nuovo traino per riprendere a crescere con prezzi più competitivi all’estero.

Il fisco italiano nelle banche svizzere

Il fisco italiano nelle banche svizzere

Marco Mobili – Il Sole 24 Ore

Scambio di informazioni su tutte le imposte di qualsiasi natura e denominazione. In nessun caso sarà possibile negare informazioni in possesso di banche, intermediari finanziari o fiduciari. La richiesta di dati e notizie da parte del Fisco potrà riguardare soltanto atti e informazioni bancarie successive alla firma dell’accordo e si potrà concentrare su singoli contribuenti così come su specifici gruppi di soggetti. Ma in quest’ultimo caso solo sulla base si specifici comportamenti “fiscali” e non che li accomunano, ma mai sulla base dei loro dati identificativi. Non solo. Per i lavoratori transfrontalieri stop ai ristorni dalla Svizzera ai comuni italiani, a rimborsare le casse dei sindaci di confine sarà direttamente Roma. Come? Con un cambio di tassazione ancora tutto da scrivere ma che nella sostanza prevederà un prelievo elvetico del 60/70% e uno tutto made in Italy sulla parte restante del reddito del lavoratore.

L’accordo
Sono queste le principali novità dell’accordo fiscale raggiunto ieri tra Italia e Svizzera dopo tre anni di trattative. Un accordo fiscale che certamente per l’Italia rappresenta anche una spinta e una facilitazione all’adesione alla voluntary disclosure da parte di contribuenti italiani che hanno capitali nei 26 Cantoni elvetici. La firma vera e propria dell’accordo tra i ministri delle Finanze arriverà a metà febbraio, comunque sia prima del 2 marzo come prevede la disciplina sul rientro dei capitali e dunque con la possibilità di evitare il raddoppio delle sanzioni e il raddoppio dei termini dell’accertamento (si veda il servizio qui in basso). A presentare ieri alla stampa i contenuti e la struttura dell’accordo è stato Vieri Ceriani, consigliere per le politiche fiscali del ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, che dopo tre anni di negoziato “benedice” l’accordo definendolo «epocale» e in grado di «fornire strumenti di contrasto dell’evasione fiscale impensabili fino a qualche anno fa».

Quattro capitoli
Sono in tutto quattro i capitoli dell’accordo Italia-Svizzera. Oltre allo scambio di informazioni con la modifica della Convenzione contro le doppie imposizioni l’accordo prevede una vera e propria road map che dovrà portare nei prossimi mesi e con steap successivi: alla definizione di una nuova tassazione per i lavoratori transfrontalieri; all’uscita della Svizzera dalle black list; alla definizione di una serie di questioni che riguardano Campione d’Italia, l’enclave italiana in territorio svizzero, dall’indeducibilità dell’Iva elvetica alla circolazione dei beni. Ma andiamo con ordine.

Doppia imposizione
L’accordo raggiunto con Berna modifica da subito il trattato bilaterale esistente contro la doppia imposizione sulla base dell’attuale strandard Ocse. Trattandosi di una modifica legale – ha spiegato Ceriani – dovrà essere sottoposto alla ratifica dei rispettivi Parlamenti. E compatibilmente con le procedure elvetiche questo dovrà accadere tra non meno di 18 mesi.

Passepartout per il Fisco
I due passepartout per gli ispettori del Fisco italiani sono lo scambio di informazioni finanziarie su tutte le imposte, di qualsiasi natura e senza possibilità di vedersi opporre il segreto bancario. E soprattutto il fatto che la richiesta può finalmente partire direttamente dall’agenzia delle Entrate. Armi più efficaci nel contrasto all’evasione – ha sottolineato Ceriani – rispetto non solo alle attuali procedure che vedono il Paese elvetico rispondere soltanto quando si muovono le procure, ma anche rispetto allo stesso scambio automatico di informazioni al quale la Svizzera ha già dichiarato di volersi adeguare sulla base del negoziato in corso con la Ue e comunque a partire dal 2017.

Controlli non retroattivi
Dal momento della firma dell’accordo tra il ministro Padoan e il suo omologo svizzero, Eveline Widmer-Schlumpf, gli ispettori del Fisco avranno, dunque, piena visibilità sui conti in Svizzera dei contribuenti italiani. In ogni caso, però, nel protocollo è espressamente previsto che non ci sarà retroattività per gli accertamenti del Fisco su eventi e circostanze antecedenti la firma dell’accordo e dunque prima della metà del prossimo mese di febbraio. Comunque sia le Entrate avranno la possibilità di chiedere le informazioni sui contribuenti italiani alla Svizzera comunque molti mesi prima rispetto alla ratifica degli accordi che, come detto, non arriverà prima del 2017.

L’uscita dalla black list
Lo scambio di informazioni secondo lo standard Ocse rappresenta, comunque, il primo passo che dovrà portare la Svizzera a uscire dalle cosiddette black list, a partire da quella sulle controllate estere (Cfc) o quella sulla deducibilità dei costi in Paesi “canaglia”. Due temi, questi, che comunque saranno rivisti a tutto campo nella delega fiscale e nel decreto annunciato per febbraio nel capitolo sulla fiscalità internazionale. Allo stesso tempo dopo lo scambio di informazioni i due Paesi potranno condividere nuove indicazioni sulla concorrenza fiscale.

I frontalieri
L’altro tema caldo dell’accordo e che terrà banco nei prossimi mesi è la nuova tassazione dei lavoratori transfrontalieri. L’obiettivo è quello di intervenire a invarianza di carico fiscale e progressivamente adeguarlo su principi di equità: «Non è pensabile che un lavoratore che risiedee e lavora a 20 chilometri dalla Svizzera paghi più imposte di un lavoratore che risiede a venti chilometri, ma che lavora in un Cantone svizzero», ha sottolineato Ceriani. L’idea su cui sarà formalizzato l’accordo resta quella di uno splitting fiscale rivisto e corretto. Dove non sarà più la Svizzera a restituire una quota del prelievo effettuato sui redditi dei lavoratori transfrontalieri ai Comuni di confine. A farlo sarà Roma. In sostanza il datore di lavoro svizzero continuerà a prelevare il 60% a titolo di tasse dai redditi del dipendente residente in Italia, mentre la parte restante sarà tassata direttamente da Roma. Il meccanismo potrebbe prevedere di riconoscere al lavoratore una deduzione dal reddito imponibile pari alla quota prelevata dall’Erario elvetico e dunque tassare solo il restante 40%. Il tutto a due specifiche condizioni: la prima – ha spiegato Ceriani – è che i Comuni dovranno ricevere le stesse somme che incassavano prima dell’accordo dalla tassazione elvetica dei circa 64mila transfrontalieri (si parla di circa 70 milioni); la seconda è che tutto partirà soltanto dopo che la telematica consentirà di semplificare la vita ai contribuenti. Questi saranno obbligati sì a due dichiarazioni dei redditi, una svizzera e una italiana, ma almeno quella targata Roma sarà interamente precompilata.

Cambio insostenibile con l’Europa ferma

Cambio insostenibile con l’Europa ferma

Marco Onado – Il Sole 24 Ore

Non sempre i tappi che saltano fanno allegria. L’improvvisa decisione della Banca centrale svizzera di abolire il tetto al cambio con l’euro ha provocato un terremoto sui mercati e suscita pesanti interrogativi sulla capacità della politica monetaria di influire sui livelli dei cambi nelle condizioni odierne dei mercati finanziari.

Vi erano molte ragioni di buon senso alla base della decisione, nell’agosto 2011, di evitare un eccessivo apprezzamento del franco svizzero, da sempre considerato bene-rifugio per eccellenza. Eliminando la probabilità di un guadagno in conto capitale sul cambio a breve e mantenendo bassi i tassi di interesse interni (addirittura introducendo tassi negativi nel dicembre scorso), si sperava di porre un freno a movimenti di capitale considerati – non senza ragione – destabilizzanti. L’eterogenesi dei fini ha portato la Bns ad acquistare grandi quantità di titoli in euro, riducendo le pressioni sul mercato dei titoli pubblici dei Paesi periferici e togliendo quindi le castagne dal fuoco alla Bce il cui quantitative easing era ancora in attesa del via libera.

Ma sia la mancata ripresa europea e soprattutto la crisi russa rendevano sempre più difficile difendere un tasso di cambio insostenibile rispetto ai movimenti potenziali di capitali. Le crisi degli anni Novanta hanno insegnato che nessuna banca centrale può contrastare flussi che assumono sempre dimensioni multiple rispetto alle riserve che essa può mettere in campo. È stato così per i Paesi del Sud-Est asiatico, quando il flusso di capitali si è improvvisamente invertito; è stato così per Messico e Argentina che avevano ancorato la loro moneta al dollaro. E non può che essere così nelle condizioni odierne, visto che la dimensione complessiva dei movimenti a breve è cresciuta enormemente e il mercato dei cambi, secondo gli ultimi dati della Banca dei regolamenti internazionali, attiva ogni giorno scambi per 5mila miliardi di dollari, pari a circa un terzo del Pil mondiale, ovviamente annuale (erano 3,3 nel 2007, cioè prima della crisi). E poiché fra il 5 e il 6 per cento di questa frenetica attività di trading riguarda il franco svizzero, l’impegno della Bns a non sforare il tetto del cambio euro-franco non era più credibile.

La Banca centrale svizzera ha colto i mercati di sorpresa, ma proprio la decisione clamorosa mette a nudo le criticità della strategia di stabilizzazione adottata nel 2011. In primo luogo, perché ha inferto un duro colpo alla credibilità della stessa banca centrale, visto che solo un mese fa essa aveva baldanzosamente dichiarato che il tetto sarebbe stato difeso «con la massima determinazione». Poi, perché ha confermato ex post la strategia di investire sul franco svizzero come bene-rifugio: chi ha investito negli ultimi tre anni mette a segno da ieri guadagni in conto capitale di tutto rispetto. Infine perché sacrifica pesantemente gli interessi dell’economia svizzera ai problemi del cambio. Non a caso, la Borsa ha segnato pesanti perdite, soprattutto per le imprese più orientate all’export: i mercati europei rappresentano infatti metà del commercio estero svizzero. Niente male come bilancio.

La lezione più generale che deriva dai fatti di ieri è che l’economia mondiale e in particolare la finanza non hanno ancora trovato il modo per affrontare gli aspetti macroeconomici della globalizzazione e dei movimenti internazionali di capitali. Alla base dei problemi della Svizzera (prima con l’introduzione del tetto, poi con la sua improvvisa abolizione) sta il potenziale destabilizzante dei movimenti di capitale a breve in un mondo interconnesso, ma con politiche monetarie non coordinate fra loro per effetto degli inevitabili sfasamenti dei cicli.

I global financial imbalances, cioè la polarizzazione del mondo fra Paesi in permanente surplus di parte corrente (Cina e Germania in testa) e quindi esportatori di capitali e Paesi che si trovano nella condizione opposta (Stati Uniti e alcuni Paesi della periferia dell’eurozona) sono stati una delle cause fondamentali della crisi e da allora si sono ridimensionati, ma non in modo decisivo e continuano ad essere il primo alimento di flussi di capitale a breve troppo grandi rispetto alla capacità di contrasto di autorità nazionali. E ovviamente lo sfasamento ciclico amplia i differenziali dei tassi d’interesse e l’intensità dei flussi di capitale.

Il Fondo monetario internazionale ha documentato in un recente rapporto triennale il problema della fragilità del sistema finanziario internazionale e della trasmissione dei problemi da un Paese all’altro. È sempre il problema che si ponevano i padri fondatori del nuovo ordine monetario di Bretton Woods, che diede origine appunto all’Fmi, oltre che alla Banca mondiale. Come ha affermato Paul Krugman, commentando quel rapporto, si ripropone oggi il problema di assegnare al Fondo un ruolo almeno di sorveglianza e di monitoraggio sugli squilibri macroeconomici di ciascun Paese, che danno origine alla trasmissione di spinte destabilizzanti verso l’esterno. Una funzione di vigilanza preventiva, per così dire, basata solo sulla moral suasion nei confronti dei singoli Paesi. Ma fra l’enunciazione di questo principio, che pure non contrasta con lo statuto del Fondo (alla fine, dice Krugman, il Fondo è nato per fare il pompiere delle crisi e prevenire è meglio che curare) e la sua applicazione c’è un oceano intero di difficoltà politiche. E così le cause profonde della crisi non vengono affrontate e le banche centrali sono costrette ad andare avanti in ordine sparso, correndo tutti i rischi del caso come si è visto ieri a Zurigo.

Investimenti fuori dal deficit per 3,5 miliardi nel 2015

Investimenti fuori dal deficit per 3,5 miliardi nel 2015

Giuseppe Chiellino – Il Sole 24 Ore

Le nuove linee guida della Commissione europea sulla disciplina di bilancio che dovrebbero rendere più flessibile la governance economica e spingere l’Europa verso la ripresa, per l’Italia contengono una notizia buona e una meno buona. La prima è che per beneficiare della cosiddetta “clausola degli investimenti” non sarà più necessario rispettare la regola di riduzione del debito pubblico. E questo è decisamente un passo avanti. Resta però l’altro vincolo, ed ecco la notizia meno positiva , rappresentato dal limite del 3% del rapporto deficit/pil. In parole povere, gli Stati membri potranno escludere dal computo del deficit gli investimenti realizzati per cofinanziare progetti europei dei fondi strutturali o dei programmi Connecting Europe, TEN, disoccupazione giovanile e del nuovo fondo EFSI. Questo però non significa che sarà consentito sforare il fatidico tetto del 3%. Sarà tollerato soltanto un «temporaneo scostamento» dall’obiettivo a medio termine del pareggio di bilancio.

Quanto vale, allora, per l’Italia la decisione presa ieri a Strasburgo e dibattuta dai tempi del governo Monti, al netto dei futuri- e per ora ipotetici – investimenti nazionali al fondo EFSI? Secondo le stime della banca dati della Commissione, per il 2015 l’importo complessivo di cofinanziamento già previsto nei programmi è pari a poco più di 3,5 miliardi di euro, quasi tutti per la programmazione 2007-2013. Solo pochi spiccioli (11 milioni) riguardano il periodo 2014-2020 di cui nei prossimi giorni Bruxelles dovrebbe approvare una dozzina di programmi italiani. In percentuale sul Pil stiamo parlando dello 0,2 per cento. In valore assoluto è di gran lunga la cifra più importante tra i 28 paesi dell’Unione che in totale quest’anno cofinanzieranno progetti europei per 13,8 miliardi. Al secondo posto c’è la Francia con meno di 1,8 miliardi, seguita dalla Spagna (1,4 miliardi), dal Regno Unito (1,1 miliardi) e dalla Germania, appena sotto il miliardo e poco sopra la Polonia, primo paese beneficiario dei fondi strutturali europei che però ha dimostrato finora di saper spcndere bene. Per gli anni a venire le cifre varieranno parecchio. Fino al 2020, la nuova programmazione prevede per l’Italia 39 miliardi di cofinanziamento ma è prevedibile che le risorse si concentreranno nella seconda parte dei 7 anni di programmazione. L’applicabilità delle nuove linee guida sarà tutta da veríficare. Per l’Italia molto dipenderà dalla capacità di regioni e ministeri di spendere le risorse disponibili, pari solo per quest’anno ai 3,6miliardi di euro (si veda il Sole 24 Ore del 9 gennaio).

Da queste valutazioni emerge un paradosso. Stando alle cifre, infatti, l’Italia potrebbe essere il principale beneficiario del nuovo corso che sta assumendo la disciplina di bilancio comunitario. Ma solo per demerito proprio e per i ritardi accumulati negli anni scorsi. Quei 3 miliardi e mezzo, infatti, fanno parte dei 13,6 miliardi che restano ancora da spendere e che, come ha ricordato il sottosegretario Graziano Delrio a questo giornale, devono essere necessariamente spesi entro la fine dell’anno, pena il disimpegno automatico della consistente quota comunitaria.

Il cammino quindi non è tutto in discesa. E non solo per le difficoltà tutte italiane di utilizzare le risorse comunitarie. La decisione di ieri della Commissione, infatti, è un passo importante e cercato da tempo dall’Italia, ma per beneficiare della “nuova” clausola degli investimenti è necessario che i conti pubblici superino il nuovo”esame” comunitario, fissato a marzo, quando Bruxelles dovrà valutare la legge di stabilità nella versione definitiva e soprattutto l’attuazione delle riforme strutturali. La Commissione dovrà decidere se è necessario proporre al Consiglio europeo l’apertura di una procedura contro l’Italia per il mancato rispetto della regola di riduzione del debito. Se ciò dovesse accadere l’Italia si ritroverebbe nel cosiddetto “braccio correttivo” del Patto di stabilità e di crescita, perdendo così il diritto di scorporare il cofinanziamento degli investimenti dal deficit. Per ora però il bicchiere è mezzo pieno.

Il Mef “resuscita”, Tosap, Cosap e pubblicità

Il Mef “resuscita”, Tosap, Cosap e pubblicità

Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Il dipartimento Finanze mette una pezza a una dimenticanza della politica e con la risoluzione 1/Df/ 2015 diffusa ieri fa rivivere le vecchie tasse, canoni e imposte su occupazione del suolo pubblico, pubblicità e pubbliche affissioni. L’intervento ministeriale chiude un buco da almeno un miliardo all’anno, ma visto che questi soldi devono arrivare dai contribuenti servirà forse far seguire a questo primo passo un nuovo puntello normativo per evitare una nuova ondata di carte bollate: le occasioni del resto non mancano, a partire dal Milleproroghe in corso di conversione alla Camera (ieri sono state respinte le pregiudiziali di costituzionalità).

Il problema nasce infatti proprio da una mancata proroga (segnalata sul Sole 24 Ore del 23 dicembre scorso), perché a differenza dello scorso anno la legge di stabilità non si è preoccupata di confermare anche per il 2015 i vecchi sistemi di prelievo su occupazione del suolo pubblico e pubblicità. Queste voci, che oltre a Tosap e Cosap comprendono infatti anche l’imposta sulla pubblicità, il diritto sulle pubbliche affissioni e il canone per l’autorìzzazione all’installazione dei mezzi pubblicitari (Cimp), sarebbero dovute uscire di scena dal 1° gennaio scorso, per essere sostituite dall’«Imu secondaria» prevista dal federalismo fiscale nel 2011 ma mai attuata. La manovra si è concentrata prima sulla «local tax», che con il canone unico avrebbe superato il problema, ma dopo il temporaneo accantonamento della riforma non si è preoccupata troppo delle conseguenze.

Per partire davvero, e arricchire la già fitta lista di acronimi del Fisco locale, l’«Imus» avrebbe però bisogno di un regolamento applicativo (lo chiede l’articolo 11 del Dlgs 23/2011, il provvedimento sul «federalismo municipale» che l’ha istituita) con la «disciplina generale» della nuova imposta la sua articolazione a seconda del tipo di occupazione, della classe demografica del Comune e così via. Senza questo provvedimento, argomenta il dipartimento Finanze in risposta a un quesito dell’Anacap (l’associazione che riunisce le aziende concessionarie dei servizi di riscossione degli enti locali), l’Imu secondaria non può partire, perché i Comuni hanno un’autonomia tributaria, ma questa può esercitarsi solo nei limiti fissati dalla legge statale (articolo 52 del Dlgs 446/1997). Se l’Imu secondaria non può partire, i vecchi tributi non possono andare in pensione, anche perché a differenza dell’imposta di soggiorno (che i Comuni hanno potuto istituire anche senza decreto attuativo) questi prelievi sono obbligatori.

Cinquecentomila pensionati-lavoratori in più

Cinquecentomila pensionati-lavoratori in più

Davide Colombo – Il Sole 24 Ore

Qualche giorno fa il Centro studi di Confindustria ha rilevato come negli anni della crisi il numero di occupati più anziani (tra i 55 e i 64 anni) sia aumentato mentre diminuiva quello dei più giovani (25-34enni): il primo è cresciuto dí 1,1 milioni e il secondo è sceso di 1,6 milioni. Un incremento del 8,9% ,tra il 2007 e il 2013, che è il quarto più sostenuto dopo quello registrato negli stessi anni in Germania (12,2%), Polonia 00,9%) e Paesi Bassi (+9,2%). Nonostante questo incremento di lavoratori senior, si faceva notare nell’analisi firmata da Giovanna Labartino e Francesca Mazzolari, il tasso di occupazione italiano resta basso per queste fasce di età: 42,7% contro il 59,8% inglese, il 60,8% dei Paesi Bassi, il 63,5% della Germania.

In uno studio presentato in un recente convegno sui temi della previdenza in Senato, un giovane ricercatore dell`Università la Sapienza diRoma, Fabrizio Patriarca, ha fatto un passo in più mettendo in fila i numeri che fotografano la crescita dei pensionati (percettori di una pensione previdenziale) che durante la crisi hanno deciso di continuare a lavorare. I risultati sono sorprendenti. Tra il 2007 e il 2012 i pensionati oltre i 60 anni che lavorano sono aumentati di 556mila unità. Secondo i dati Istat proposti da Patriarca nel 2012 i pensionati che lavorano sono arrivati a quota 1.976.810 e i 556mila in più sono cosi distribuiti: 241mila (+12,6%) di età compresa tra i 60 e i 64 anni e 315mila ultrasessantacinquenni (+3%).Guardando alle fasce di età si scopre che due anni fa lavorava il 27,7% dei pensionati di età compresa tra i 60 e i 64 anni, praticamente uno su tre. Mentre il rapporto si fermava al 12,6% tra i 65-75enni e al 3,1% per gli over 75.

Altra evidenza interessante: i tassi di occupazione dei pensionati crescono al crescere del loro reddito, il che significa che il cumulo tra pensione e reddito da lavoro non rientra nelle strategie adottate per rafforzare deboli poteri di acquisto durante la crisi. Infatti si passa da un 10,2% di pensionati over 60 che lavorano sul totale dei pensionati con classe di reddito tra i 500 e i 2mila euro al mese al 13,5% di quelli con redditi tra 2 e 3mila euro al mese fino al 23,9% per chi sta sopra i 3mila euro al mese. In questa fascia alta, dunque, un pensionato over 60 su quattro continua a lavorare. I dati raccolti da Patriarca su fonti Istat, Inps e ministero del Lavoro rappresentano naturalmente una stima per difetto, che non comprende i pensionati che lavorano in nero.

Il quadro che esce dai due studi ci ripropone l’immagine di un mercato del lavoro fitto di contraddizioni: un basso tasso di occupazione dei 55-64enni rispetto ai paesi con politiche attive assai più strutturate, un elevatissimo tasso di disoccupazione giovanile e un esercito di pensionati che continua a lavorare (il 12,3% sui 16,1 milioni contabilizzati dall’Inps nel 2012). I nuovi requisiti pensionistici in vigore dal 2012 faranno salire ancora di più, nei prossimi anni, il tasso di occupazione di questa fascia di età che è in realtà in crescita dal Duemila visto che le coorti che entrano nella classe degli over 55enni sono caratterizzate da una scolarizzazione più elevata che ne ha ritardato l’ingresso nel mercato del lavoro e in futuro ne ritarderà l’uscita.

La certezza calpestata del diritto tributario

La certezza calpestata del diritto tributario

Enrico De Mita – Il Sole 24 Ore

Lo schema di decreto legislativo sull’abuso del diritto – ora impigliato nella vicenda della contestata soglia di punibilità del 3% – porta nel titolo il riferimento alla «certezza del diritto». È stato detto che questo provvedimento dovrà lasciare all’interpretazione «uno spazio minimo quasi nullo». È un’affermazione, questa sullo spazio minimo quasi nullo, che va chiarita, perché secondo un’opinione diffusa la certezza del diritto è quella che non lascia alcun spazio all’interpretazione. Ora, il diritto tributario è un diritto come tutti gli altri. Sicché non si può stabilire a priori quanta parte di esso resti affidata alla interpretazione.

I principi sono sempre gli stessi. Il tema della certezza del diritto come tema di carattere generale è stato accantonato. Altri temi hanno preso il suo posto come quello dell’affidamento. Perciò non serve a niente scrivere in testa a una legge che essa risponde alla certezza del diritto. È solo uno slogan e il riferimento a questa esigenza può creare degli equivoci se non correttamente inteso. C’è un profilo pacifico del tema che riguarda tutte le leggi tributarie: il numero delle leggi e la loro stabilità nel tempo. Questo è il tema. La semplificazione è un metodo che vuol dire tutto il contrario di una legislazione a getto continuo. La certezza del diritto non può essere data da una legislazione che per la sua immensità è inconoscibile. C’è l’esigenza nel nostro ordinamento (come in quello tedesco) di un codice tributario nel quale le leggi siano semplici e chiare, altrimenti si resta condannati a una legislazione scritta con la mentalità delle circolari e che, per la sua minuziosità, penalizza non solo i contribuenti ma la stessa amministrazione. Ma è la prassi delle circolari che aggrava la situazione, quando introduce nell’ordinamento un’interpretazione distorta, con limitazioni e distinzioni che non hanno fondamento e che contrastano con lo spirito delle leggi. E l’emanazione di una circolare vuol dire certezza di atti d’accertamento conseguenti. Quindi l’aspirazione ad uno spazio minimo, quasi nullo per l’interpretazione, non è una prospettiva plausibile. Di fronte alla locuzione «sostanza economica», l’Amministrazione non rinuncerà a spiegare, con una circolare, che cosa si intende per sostanza economica nell’abuso del diritto. Lo slogan con cui è stata presentata la legge, la certezza del diritto, risulta vanificata dalla legge stessa.

Volendo dare un contenuto proprio alla certezza del diritto, questa vuol dire ripugnanza delle nuove regole senza abrogazione espressa delle precedenti nell’ordinamento legale. Il diritto ha il compito di garantire soprattutto comportamenti sociali rendendo prevedibili valutazioni per il futuro nel processo economico di alto valore costituito dalla sicurezza. Nel diritto tributario, con il forte prevalere delle garanzie costituzionali, perdono di autorità il metodo dell’interpretazione teleologica e della giurisprudenza degli interessi. Al loro posto è subentrata una concezione delle fattispecie legali dirette a garantire l’applicazione perequatrice delle leggi tributarie. La nostra giurisprudenza della Cassazione ha imboccato questa strada quando ha inventato la nozione di abuso del diritto con una interpretazione teleologica e perseguito in modo improprio la tutela dell’interesse fiscale. È sufficiente il provvedimento sull’abuso del diritto a neutralizzare questa tendenza della nostra giurisprudenza? Solo il tempo potrà dirlo.

Assenteismo PA, costo 3,7 miliardi

Assenteismo PA, costo 3,7 miliardi

Nicoletta Picchio – Il Sole 24 Ore

Un risparmio di 3,7 miliardi di euro, a cui si aggiungerebbe, come conseguenza, una maggiore efficienza e qualità dei servizi. È un traguardo che si potrebbe raggiungere nel settore pubblico portando l’assenteismo allo stesso livello del settore privato. Sono i calcoli di un’analisi del Centro studi di Confindustria: nel 2013, anno preso in esame, i dipendenti del settore pubblico hanno totalizzato in media 19 giorni di assenze retribuite, secondo i dati della Ragioneria generale dello Stato, 6 in più di quanto rilevato nel mondo Confindustria per un gruppo di dipendenti comparabile. L’assenteismo nel pubblico risulta quindi del 46,3% più alto rispetto ai 13 giorni di assenze retribuite rilevate dall’indagine per gli impiegati delle imprese associate a Confindustria con oltre 100 addetti (gruppo che per qualifica e dimensione è comparabile al pubblico impiego). Portarlo al livello di quello privato comporterebbe un risparmio di 3,7 miliardi, attraverso un minor fabbisogno di personale.

Nello studio del Csc, messo a punto da Giovanna Labartino e Francesca Mazzolari, emerge che l’incidenza delle assenze nel mondo Confindustria è in calo: il peso delle ore di assenza sulle ore lavorabili si è attestato nel 2013 al 6,5% ; 0,5% in meno rispetto al 7% dell’anno precedente. L’incidenza rimane più alta nelle imprese più grandi, 7,2 in quelle con più di 100 addetti; 4,5% in quelle fino a 15. La malattia non professionale, cioè l’influenza, è il motivo di assenza più frequente (3,1% delle ore lavorabili) seguito dai congedi parentali e matrimoniali (1,3%) e dagli altri permessi retribuiti, che includono i permessi sindacali e quelli per visite mediche o di accompagnamento parentale (un altro 1,1%). Nel settore pubblico nel 2013 ai 10 giorni di assenza procapite per malattia se ne sono aggiunti 9 di altre assenze retribuite. L’indagine di Confindustria sul lavoro nel 2013 allarga il raggio anche alla diffusione dei contratti aziendali e dei premi variabili. Nell’industria in senso stretto nel 2013 due lavoratori su tre erano coperti da un accordo aziendale; una quota che sale a 5 lavoratori su 6 nelle imprese associate con almeno 100 dipendenti. La contrattazione aziendale è meno diffusa nei servizi, dove i lavoratori coperti erano il 56,9% (68% nelle imprese più grandi).

Analizzando in particolare le imprese industriali la quota con contratto aziendale passa dal 34,4 e 34,3% del Nord-Ovest e del Nord-Est al 28,1% del Centro, Sud e Isole. In ogni caso la contrattazione di secondo livello è aumentata rispetto al 2012: in base ai dati di un campione, la quota che ha applicato un contratto aziendale è cresciuta dal 26,8% al 30,1% e la percentuale dei lavoratori coperti dal 60,5% al 62,6 per cento. Per quanto riguarda i premi variabili sono stati erogati dal 70,5% delle imprese con contrattazione di secondo livello e dal 31,7% di quelle senza. La copertura dei premi variabili cresce con la qualifica: 52,5% tra gli operai, 56,3% tra gli impiegati e 63,4% tra i quadri. L’incidenza sulla retribuzione è mediamente simile e si attesta sul 5 per cento. Tra i dirigenti, solo poco più di un quarto li riceve ma, se erogati, rappresentano mediamente il 15,6% della retribuzione media annua lorda.