il sole 24 ore

Ceto medio impaurito e senza rappresentanti

Ceto medio impaurito e senza rappresentanti

Carlo Carboni – Il Sole 24 Ore

Molti dei difetti della società italiana come il ripiegamento individualista e il cinismo, la molecolarità del tessuto sociale e lo spaesamento “antisistema”, provengono dal suo core, dai ceti medi, impauriti dal virus dell’impoverimento disseminato ai quattro venti dalla prima profonda crisi in epoca globale. Nella nostra società “in bolletta”, non è solo la crisi economica a disgregare orientamenti e status dei ceti medi. Morde anche la crisi politica: una politica che “gira a vuoto”, rigata dalla corruzione e deficitaria com’è dell’”arte della guida”. Lo spaesamento identitario dei ceti medi, in tempi di declino e crisi, non dipende solo dall’erosione dei loro redditi, ma anche dall’assenza di un progetto politico in grado di rilanciarli. Nell’arena politica non c’è traccia di rimedi per risollevarli dal loro sconsolato scivolamento e i famosi 80 euro sono un antiinfiammatorio e non cura la malattia.

La “cetomedizzazione” della nostra società, come la definì a suo tempo De Rita, fu il risultato della forte crescita economica del dopoguerra, impastata con il progetto keynesiano di politica economica e di benessere, che creò la narrazione sociale del “ceto medio di cittadinanza”, intraprendente, istruito e di fatto principale destinatario di servizi di welfare. La formazione di un vasto ceto medio fu la risultante di un dinamismo economico accoppiato a un progetto politico che vedeva nei ceti medi – differenziati tra loro in termini di professionalità e lavoro – un ampio serbatoio di consenso e di lealtà al sistema-paese, un architrave della coesione sociale necessaria alla giovane democrazia repubblicana. A seguito dei cedimenti del modello keynesiano (soprattutto, crescita del debito pubblico), i primi sintomi della disgregazione dei ceti medi furono tematizzati dallo stesso liberismo che ha accompagnato il trentennio di crescita dei mercati finanziari prima della loro crisi. In quel periodo, il progressivo scadimento dei redditi da lavoro fu arginato sia con una sorta di “finanziarizzazione” del ceto medio, stimolandone la propensione a piccoli e medi investimenti finanziari, sia con il credito al consumo, che, com’è noto, fu dilatato a livelli insostenibili. Tuttavia, si trattava pur sempre di un progetto di politica economica e consensuale a favore anche dei ceti medi, tanto che la stessa Margaret Thatcher cercò di attirarli con la narrazione di una mobilità sociale fondata sul merito e sul senso di responsabilità individuale.

Con la crisi, tutto è precipitato e la politica è rimasta muta e incapace di esprimere un progetto economico e sociale all’altezza di tempi impervi. Siamo perciò passati dalla “grande ammucchiata” dei ceti medi dei vecchi tempi keynesiani allo sparigliamento sociale attuale, a una coesione sociale minata da un individualismo liquido e amorale, prigioniero d‘interessi di piccolo cabotaggio. Lo stato di deprivazione (relativa) del benessere, sofferto dalle famiglie a causa della crisi economica, ha fiaccato il loro senso d’appartenenza sociale a un vasto e prospero ceto medio. Nel 2007 (sondaggio LUISS), ancora più del 60% delle famiglie italiane si collocava in uno status sociale medio. Oggi quella percentuale d’appartenenza è scesa a poco più del 40%, scavalcata dal 51% d’italiani che s’identifica con il segmento basso della stratificazione sociale (Demos-Unipolis, 2014).

Si è diffusa la percezione dell’evaporazione di servizi collettivi efficienti, della mortificazione della mobilità in base al merito, delle difficoltà a incassare arrotondamenti finanziari a compensazione di redditi da lavoro in discesa, della disfatta del credito al consumo facile. Da qui nasce il timore che tiene prigionieri non solo i ceti medi, ma un po’ tutti gli italiani, inibendo l’uso di quei piccoli e grandi capitali economici, sociali e culturali di cui è ricco il Belpaese. Il timore diviene paura, quando si percepisce l’immobilismo al comando, l’autoreferenzialità della politica e l‘incapacità della sua immaginazione corrotta di scrivere una pagina nuova per i ceti medi. Eppure competenza, “senso di connessione“ e cosmopolitismo sono tracce di una nuova narrazione per i ceti medi del XXI secolo, investendo sul capitale umano e su un welfare tecnologico-culturale 2.0.

Gli italiani in fuga: 82mila emigranti

Gli italiani in fuga: 82mila emigranti

Il Sole 24 Ore

Nel 2013 gli italiani emigrati all’estero sono stati 82mila, il numero più alto degli ultimi dieci anni, il 20,7% in più rispetto all’anno precedente. È uno dei dati che emerge dall’ultimo report Istat su «Migrazioni internazionali e interne della popolazione residente». Un rapporto che evidenzia anche come l’Italia attragga meno gli immigrati. Nel 2013 gli arrivi dall’estero sono stati 307 mila, 43 mila in meno rispetto all’anno precedente (-12,3%).

Italiani in fuga dal Paese, mai così tanti
Il numero di emigrati italiani è stato nel 2013 pari a 82mila unità, il più alto degli ultimi dieci anni. Migrano soprattutto le persone tra i 20 e i 45 anni. Le principali mete di destinazione dei nostri connazionali sono il Regno Unito (13mila emigrati), la Germania (oltre 11mila), la Svizzera (10mila) e la Francia (8mila). Paesi che accolgono oltre la metà dei flussi in uscita: a lasciare il Belpaese sono soprattutto persone tra i 20 e i 45 anni, e oltre il 30% di loro è in possesso di una laurea. La meta preferita dai laureati (3.300) è sempre la Gran Bretagna.

In pochi tornano in Italia
I connazionali che decidono di tornare in Italia sono in numero molto inferiore a quello degli emigranti: nel 2013 i rientri sono 4mila dalla Germania, quasi 3mila dalla Svizzera e circa 2mila dal Regno Unito e dagli Usa. Il saldo migratorio per gli italiani è negativo per 54mila unità, quasi il 40% in più di quello del 2012 nel quale era risultato pari a -38 mila. Tra il 2007 e il 2013 le emigrazioni complessive sono più che raddoppiate, passando da 51mila a 126mila.

Italia attrae meno immigrati: -12,3%
Non solo. Sempre da quanto emerge dall’ultimo report dell’Istat sulle migrazioni internazionali, l’Italia attrae meno gli immigrati. Nel 2013 gli arrivi dall’estero sono stati 307mila, 43mila in meno rispetto all’anno precedente (-12,3%). Sebbene in calo rispetto agli anni precedenti, l’Italia rimane, tuttavia, meta di consistenti flussi migratori dall’estero. La comunità straniera più rappresentata tra gli immigrati è quella rumena che conta 58 mila iscrizioni. Seguono le comunità del Marocco (20 mila), della Cina (17 mila) e dell’Ucraina (13 mila). Gli italiani di rientro dall’estero sono 28 mila, mille in meno rispetto al 2012.

Senza riforme lo scudo Bce non ci salverà

Senza riforme lo scudo Bce non ci salverà

Fabrizio Forquet – Il Sole 24 Ore

La tenuta dello spread BTp-Bund, dopo il declassamento di Standard & Poor’s, non deve ingannare. L’Italia si giova in questa fase dell’attesa del Quantitative easing, dato ormai sui mercati come un’opzione più che concreta. E questa fiducia fa premio su qualunque altra considerazione. Perdere di vista, però, che il nostro Paese resta fortemente a rischio nei giudizi degli investitori internazionali sarebbe un errore madornale. Era la seconda metà del 2010, quando in un’intervista al Sole 24 ore l’allora ministro dell’Economia osservava: «La curva dei tassi italiani è da tempo nella media europea. Oggi è a un tranquillo 127. Detto per inciso i debiti sovrani non sono più tanto di moda sui mercati finanziari». Dopo meno di un anno i tassi italiani avrebbero cominciato la loro corsa fino a portare lo spread al drammatico 575 dell’autunno 2011.

Ieri i decennali hanno chiuso con uno spread a 122, molto vicino a quel 127 che dava tranquillità a Giulio Tremonti, ma oggi come allora non c’è alcuno spazio franco su cui poter contare. C’è il possibile scudo del Qe, ma comprare titoli italiani a dieci anni con un rendimento sotto il 2 per cento resta una scelta tutt’altro che scontata. Perché non scontata è la sostenibilità del nostro debito, senza crescita economica e con una deflazione divenuta ormai realtà. Al di là della scarsa credibilità delle agenzie di rating, che ormai non muovono più i mercati come una volta, il declassamento da parte di S&P’s ha evidenziato un tema che è ormai sulla bocca di tutti nel mondo finanziario: la mancata crescita rischia di rendere davvero il debito pubblico italiano poco sostenibile, malgrado gli avanzi primari e gli esercizi di rigore. Sarebbe un grave errore se, in questa situazione, la politica italiana si adagiasse sotto lo scudo del possibile Qe. Si adagiasse e pensasse di potersi permettere di girare a vuoto per mesi tra tatticismi e agguati parlamentari sui temi del Quirinale e delle riforme istituzionali.

Al contrario vanno fatti subito e bene i decreti attuativi del Jobs act. Tenendo molto presente che l’obiettivo di creare posti di lavoro si centra se si rende davvero più agevole alle imprese assumere, in termini di costi e di regole. Allo stesso modo non va sprecata l’attuazione della delega fiscale per rendere, se non più amico, almeno meno persecutorio il fisco italiano. Vanno portate a casa le modifiche alla manovra con un pacchetto di misure in favore degli investimenti e dell’economia reale, a cominciare dal trattamento fiscale dei grandi macchinari imbullonati (presse, forni…) che solo la irragionevolezza del fisco italiano (e soprattutto locale) può equiparare a beni immobili.

Piuttosto che organizzare manipoli di guastatori pronti ad affossare candidati al Colle, sarebbe un grande messaggio verso il Paese se ogni forza politica contribuisse ad affrontare il nodo delle 8mila società partecipate intorno alle quali ogni giorno si alimenta il malaffare e muore un pezzo di economia italiana. È il buco nero della spending review, tocca interessi trasversali, anche vicini al governo dei sindaci, ma come dimostra l’inchiesta romana è un cancro di cui non può non occuparsi la politica prima che debba farlo la magistratura. Se Renzi davvero non vuole «lasciare Roma – e non solo Roma – ai ladri», sarebbe ora di passare ai fatti sulla dismissione, l’accorpamento e il risanamento di queste società.

Se però la politica italiana è chiamata oggi più che mai a dimostrare responsabilità, c’è davvero da domandarsi sulla ragionevolezza di chi ci guarda da Bruxelles. La rigidità con cui ieri l’Italia è stata richiamata alla correzione dello 0,5% del rapporto deficit/Pil per il prossimo anno è un’offesa al buon senso. Tanto più stridente nel momento in cui è la stessa Banca centrale europea ad aprire a una politica più espansiva. Non basta, dice la Commissione, la correzione prevista dello 0,1%, e già portata un mese fa allo 0,3%: bisogna centrare lo 0,5%. Come dire che va tolta un’altra manciata di miliardi dal rilancio della crescita. E poco importa se alla fine in questo modo si finirà per danneggiare lo stesso obiettivo della sostenibilità dei conti pubblici. Ottusità, che sono ancora più gravi proprio nel momento in cui può aprirsi per l’Europa e per l’Italia una finestra di opportunità. Il rilancio della crescita americana, lo stesso quantitative easing, i margini di competitività offerti da un’opportuna svalutazione dell’euro, i bassi prezzi del petrolio sono tutti fattori che potrebbero dare una spinta all’Europa nei prossimi mesi. Tocca alla politica, europea e italiana, cogliere quei segnali e accompagnarli con politiche e azioni utili a ricreare quell’ambiente di fiducia senza il quale non ci sarà né crescita né stabilità finanziaria.

Sulla spesa tagli finti, sui tributi aumenti veri

Sulla spesa tagli finti, sui tributi aumenti veri

Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Fino a oggi le tasse locali sono state trattate da Governi e Parlamenti come un ramo cadetto della politica fiscale. Per dirla in modo più chiaro, le varie “riforme” che si sono affastellate in questi anni hanno sempre risposto a scopi estranei alla finanza locale, cioè prima di tutto a trovare soldi per puntellare il bilancio statale.

La vicenda dell’Imu, che almeno nel nome pare destinata a concludersi dopo tre anni di sofferenza, è esemplificativa. Fin dall’inizio, questa versione geneticamente modificata della vecchia (e ordinata) Ici ha gonfiato il gettito con l’obiettivo di aumentare le entrate statali, al punto da girare allo Stato quote rilevanti di un’imposta municipale solo nel nome. Questo difetto d’origine si è inevitabilmente riverberato su tutti gli sviluppi dell’Imu, fino all’ultima puntata che interessa in questi giorni i terreni agricoli ex montani (lo raccontiamo nella pagina a fianco). Anche in questo caso, si è partiti dall’esigenza di trovare 350 milioni già spesi dallo Stato con il bonus Irpef, e per raggiungere questo scopo che non c’entra nulla con l’eventuale ricchezza tassabile dei terreni si sono costruiti criteri riconosciuti come irrazionali dallo stesso Governo, che infatti ora annuncia proroghe e correzioni future.

Questa prassi, intendiamoci, è iniziata anni fa, e all’inizio deve essere sembrata geniale a Governi in cerca di risorse e consensi. In questo modo, infatti, è stato possibile a tanta politica far finta di tagliare spesa pubblica senza aumentare le tasse, dando però ad altri il compito di trovare le risorse per far quadrare i conti. Il gioco, però, ha il fiato corto, i contribuenti l’hanno capito da tempo e la moltiplicazione degli importi e delle complicazioni per pagarli ha azzerato la pazienza. La nuova «tassa locale» ha il compito titanico di affrontare questo problema: anche per dare ai contribuenti la possibilità di capire quali sindaci sono stati vittime del meccanismo, e quali invece l’hanno sfruttato per continuare a finanziare inefficienze sulle spalle degli altri.

Tra luglio e settembre più assunzioni stabili

Tra luglio e settembre più assunzioni stabili

Davide Colombo – Il Sole 24 Ore

Nel suo altalenare ancora molto doloroso il mercato del lavoro del terzo trimestre 2014 manda qualche timido segnale di fiducia. I dati sulle assunzioni e le cessazioni diffusi ieri dal ministero del Lavoro con il sistema delle comunicazioni obbligatorie ci dicono infatti che tra luglio e settembre il saldo è stato positivo (2.474.112 avviamenti di nuovi rapporti di lavoro, +2,4%, contro 2.415.928 cessazioni, +0,9%).

I nuovi impieghi per lavoro dipendente o parasubordinato sono cresciuti di 60mila unità in 90 giorni e – come anticipato dallo stesso ministero venerdì passato in concomitanza con i dati Istat (ottobre tasso di disoccupazione al 13,2%; +0,3% mese su mese e +1% anno su anno) – sono cresciuti più degli altri i contratti a tempo indeterminato (+7,1%, pari a 26.504 unità in più), seguiti dagli apprendistati (+3,8% pari a 2.184 attivazioni) i contratti a termine (+1,8%; 30.721 unità) e le collaborazioni (+1%; 1.540 unità). Ma il bilancio tra attivazioni e cessazioni dei contratti a tempo indeterminato resta a favore di queste ultime: 483.027 i cessati contro i 401.647 attivati, mentre lo stesso saldo resta positivo (146mila unità circa) per i contratti a termine. Quando si leggono questi dati amministrativi bisogna sempre ricordare che i rapporti di lavoro attivati (o cessati) non corrispondono mai con il numero di lavoratori coinvolti, visto che in molti casi la stessa persona ha un rinnovo del contratto a termine scaduto (il 70% dei flussi in entrata e uscita è determinato dai contratti a termine). Così dietro i 2,4 milioni di attivazioni ci sono 1.917.932 lavoratori in carne ed ossa, in gran parte tra i 25 e i 44 anni di età.

Qualcosa di particolare è accaduto, nel periodo, nella scuola, caratterizzata per il 75% da attivazioni a tempo determinato. In questo comparto prima dell’inizio del nuovo anno scolastico sono calati i tempi determinati (-11,2% attivazioni rispetto al terzo trimestre 2013) e si è verificato un forte aumento del tempo indeterminato (+17.176 attivazioni). Nel contempo tra le cessazioni in questo settore emergono oltre 11.000 pensionamenti, con un aumento tendenziale di oltre il 36 per cento.

Guardando ai flussi delle uscite i 2,4 milioni di rapporti cessati hanno riguardato 1.910.394 lavoratori, con un valore medio di cessazioni per addetto pari a 1,26, dato che conferma il forte peso dei contratti a termine. In particolare 743.679 contratti terminati quest’estate hanno avuto una durata inferiore al mese (il 30,8% del totale) e 389.769 oltre l’anno (16,1%). Tra i rapporti di lavoro cessati di brevissima durata si evidenziano poco meno di 370mila rapporti di lavoro con durata compresa tra uno e tre giorni (di cui 276.375 rapporti di lavoro di un giorno, pari all’11,4% del volume complessivamente registrato). Rispetto all’estate del 2013 la contrazione maggiore è stata sui contratti con durata oltre un anno (-2,2%) mentre sono aumentati i contratti cessati di brevissima durata (4-30 giorni ; +8,4%). Sulle cause delle cessazioni i dati di trend fotografano un calo delle dimissioni da parte dei lavoratori (-4,3%, per un totale di 345.698 unità) e dei licenziamenti decisi dai datori (217.725 unità, in diminuzione del 3,3%).

Consumi fermi, investimenti a picco

Consumi fermi, investimenti a picco

Rossella Bocciarelli – Il Sole 24 Ore

L’Istat conferma: nel terzo trimestre del 2014 il Prodotto interno lordo è rimasto in zona negativa e si è ridotto dello 0,1 per cento rispetto al trimestre precedente. La foto dettagliata del paese fornita ieri attraverso i conti economici trimestrali è perfino più scura di quanto già non si fosse capito attraverso la stima-flash. In primo luogo, infatti, la riduzione tendenziale del prodotto nei tre mesi compresi fra luglio e settembre 2014 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente è risultata pari allo 0,5% (nella stima flash si parlava di -0,4 per cento). Di conseguenza, ora, la variazione acquisita dell’attività produttiva per l’anno in corso, vale a dire la crescita che si avrebbe ipotizzando un quarto trimestre a incremento nullo, è pari a -0,4 per cento. Ma il fatto è che i dati di ieri mettono in evidenza la particolare debolezza della domanda interna nel nostro paese: rispetto al trimestre precedente, spiega infatti il comunicato dell’istituto, i consumi sono rimasti fermi mentre gli investimenti fissi lordi sono scesi addirittura dell’uno per cento; le esportazioni dal canto loro sono aumentate dello 0,2% mentre le importazioni sono diminuite dello 0,3 per cento.

C’è poi chi fa notare che lo storico traino della ripresa italiana, ovvero le esportazioni, stavolta ha funzionato poco, penalizzato dalla crescita inferiore alle attese di paesi emergenti ed Europa e dalle sanzioni Ue alla Russia: «Manca una stabilizzazione economica perché non c’è l’apporto del driver più importante, l’export, che avrebbe dovuto innescare la ripresa degli investimenti» commenta Riccardo Barbieri, di Mizuho. Quanto ai consumi, nei dati disaggregati è da notare il miglior andamento della spesa delle famiglie (+0,1%) rispetto a quella pubblica (-0,3%). Da un lato il lieve rialzo dei consumi privati beneficia molto probabilmente della introduzione del bonus da 80 euro per i redditi più bassi, dall’altro pesano l’attuazione della spending review e, a livello locale, del patto di stabilità interno.

In pratica i timori sul rischio deflazione espressi ieri dal ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan sono più che giustificati, oltre che per l’Eurozona, per il nostro paese. A proposito di prezzi impliciti, l’Istat rimarca che il deflatore del Pil è diminuito dello 0,1 per cento rispetto al trimestre precedente. Non bisogna dimenticare, inoltre, che il -0,1 per cento congiunturale del Pil realizzato dal nostro paese si confronta infatti con un aumento dello 0,2% della media di Eurolandia mentre il meno 0,5% tendenziale si misura con un +0,8% tendenziale dell’Eurozona. Insomma, è vero che in tutto il continente l’economia, più che crescere, sta ancora strisciando. Però l’Italia durante l’estate era ancora in recessione e solo per 1’ultimo scorcio dell’anno si incominciano a intravvedere segnali di stabilizzazione per l’attività produttiva, che prima o poi dovrebbe beneficiare della forte contrazione in atto nei prezzi petroliferi.

Intanto, però, anche sul lato dell’offerta i dati Istat relativi all’estate mettono in evidenza che la dinamica congiunturale è stata negativa per il valore aggiunto dell’agricoltura (-0,1%), dell’industria in senso stretto (-0,6%) e delle costruzioni (-1,1%) mentre il valore aggiunto dei servizi è rimasto stazionario. In termini tendenziali (terzo trimestre 2014 su terzo 2013) la caduta più forte è il meno 3,5% del settore delle costruzioni, seguito dal -1,1% dell’industria in senso stretto,dal -1,3% dell’agricoltura e dal meno 0,1% per i servizi.«È l’ennesima conferma di una situazione ancora critica per l’economia italiana» commenta l’ufficio studi della Confcommercio. Sebbene la dinamica dell’attività produttiva sia meno negativa rispetto a quanto registrato tra la fine del 2012 ed i primi mesi del 2013 – è la conclusione – non si scorge una sicura via d’uscita dalla recessione ormai triennale».

Isee, nella lotteria dei parametri rischiano di perdere tutti

Isee, nella lotteria dei parametri rischiano di perdere tutti

Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Come uno studente svogliato, che la sera prima dell’interrogazione prova con scarso successo ad affrontare in volata secoli di storia ignorati per mesi, la Pubblica amministrazione italiana sta arrivando splendidamente impreparata all’appuntamento con il nuovo Isee. Qui, però, in gioco non c’è un voto in pagella, ma la possibilità di gestire decentemente l’edilizia popolare nelle città con le periferie infiammate oppure l’assistenza ad anziani e famiglie nei territori schiacciati dalla crisi. Non è certo la prima volta che una riforma arriva con l’affanno all’appuntamento dell’attuazione, ma in questo caso inciampare nell’applicazione pratica delle regole approvate ormai 12 mesi fa sarebbe un peccato grave. L’Isee di seconda generazione ha qualche problema, a partire dall’effetto collaterale dell’Imu che aumenta il valore imponibile della casa di proprietà e si riflette anche sull’indicatore, ma se ben attuata offrirebbe più opportunità che incognite.

Il sistema dei controlli automatici promette di spazzare via la pletora delle autodichiarazioni fantasiose che finora hanno permesso a molti di agguantare prestazioni e servizi a cui non avrebbero avuto diritto. I parametri, raffinati rispetto al passato, provano a offrire un’attenzione più puntuale ai bisogni effettivi delle famiglie, con tutele maggiori quando i figli sono tanti o c’è un portatore di handicap. Tutto il sistema, insomma, nasce per distribuire in modo più efficace i soldi pubblici per il welfare, che certo non aumentano allo stesso ritmo in cui crescono i bisogni.

Proprio quest’ultimo fattore rende indispensabile un surplus di impegno per evitare inciampi. Un po’ di aiuti che si spostano da chi è povero solo sulla carta verso i soggetti davvero in difficoltà sarebbero un’ottima notizia, ma un anziano che perde un sostegno solo perché la sua casa vale per il Fisco il 60% in più sarebbe intollerabile. Eppure il rischio c’è. A renderlo concreto c’è anche il fatto che la rete per lo scambio di informazioni fra le diverse pubbliche amministrazioni sembra ancora piena di buchi e che di conseguenza molti Comuni dovranno applicare “al buio” i nuovi parametri. In questo modo, il passaggio al nuovo Isee rischia di trasformarsi in una lotteria, il cui risultato dipende dall’incrocio più o meno fortuito fra i nuovi criteri di calcolo e le vecchie soglie di accesso ai servizi: una lotteria di cui non hanno bisogno le famiglie in difficoltà né i Comuni, lasciati in prima fila a gestire un problema più grande di loro.

Il passo corto dell’Europa, più speranze che soldi

Il passo corto dell’Europa, più speranze che soldi

Guido Gentili – Il Sole 24 Ore

L’Europa non tradirà «i figli e i nipoti firmando assegni che finiranno per pagare loro». Il Presidente della Commissione Jean Claude Juncker, presentando il suo piano per la crescita da 315 miliardi di investimenti, si preoccupa del futuro dei più giovani. E dedica un pensiero politicamente corretto anche al «bambino greco di Salonicco che deve poter entrare in una scuola moderna con il computer». Dunque, niente denari freschi. Ma tante speranze sì. Quella per cui 21 miliardi di capitale iniziale si moltiplicano al pari della fiducia degli investitori privati e ne mobilitano 315, in particolare a favore dei Paesi più sofferenti. O quella per la quale «piacerebbe» a Juncker che siano i Paesi con «più ampi margini di manovra di bilancio» (leggasi Germania) a contribuire di più al costruendo fondo per gli investimenti capace di strappare l’Europa alla stagnazione.

La Banca Europea per gli Investimenti (Bei) deve mantenere il suo rating da “tripla A” e non può assumersi rischi, ha precisato il vicepresidente della Commissione Jyrki Katainen. D’altra parte, la Cancelliera tedesca Angela Merkel approva «in linea di principio» il piano ma si riserva già una verifica appuntita dei progetti. E non è ancora certo che l’eventuale contributo dei singoli stati nazionali sia escluso dal calcolo del deficit e del debito ai fine del rispetto del Patto di stabilità. Insomma la vecchia «nonna Europa», per stare alla tagliente definizione di Papa Francesco, fa il passo che può. Quello corto, e ancora tutto da scrivere prima nei regolamenti e poi nell’economia reale, ma che consente di dire è «il primo» della svolta dopo l’austerity. Alle sue spalle, in tema di azioni pro-crescita, il fallimento dei piani del 2008 e del 2012. Ci si augura che non finisca così. Cosa può fare l’Italia? Primo: battersi a Bruxelles per riempire quanto più possibile i buchi del progetto le cui incognite sono pari alle sue ambizioni. Secondo: far scattare i piani relativi ai 40 miliardi subito “bancabili” co-finanziabili con la Bei di cui ha parlato il ministro Pier Carlo Padoan. Sarebbe già questo un gran risultato.

Se il fisco manda il scena il teatro dell’assurdo

Se il fisco manda il scena il teatro dell’assurdo

Il Sole 24 Ore

A volte sembra che il fisco italiano sia al centro di una grande rappresentazione teatrale, seppure con un numero piuttosto ristretto di protagonisti. Facciamo l’esempio di un primo atto, con tre scene ambientate nei primi mesi del 2014.

Gli amministratori di un ente non commerciale (una fondazione, un trust) incontrano il loro commercialista: l’ente possiede una partecipazione in una società italiana che intende distribuire dividendi. Il commercialista non ha dubbi: l’ente tasserà il 5% del dividendo incassato, e dato che l’Ires è al 27,5, il livello di tassazione finale sarà pari all’1,375 per cento. Forti di questa risposta, gli amministratori decidono di dare parere favorevole alla partecipata, che distribuisce i suoi dividendi.

Nella seconda scena, a maggio 2014, una società estera si rivolge a un commercialista italiano per pianificare investimenti produttivi nel nostro paese. Tra le varie domande rivolte al consulente, una riguarda l’Irap. Puntuale la risposta: grazie a un decreto appena entrato in vigore (il Dl 66/14), l’aliquota Irap è ridotta al 3,5 per cento. L’impresa straniera decide di costituire una società in Italia, e inizia a lavorare.

Nella terza scena, è autunno inoltrato. una compagnia di assicurazione contatta gli eredi di un proprio assicurato, appena defunto, beneficiari di una polizza sulla vita. Questi chiedono se dovranno pagare imposte sulle somme che riceveranno e il funzionario della compagnia li rassicura: tutte le somme saranno esenti da imposta.

A questo punto si passa al secondo atto: le cose si capovolgono e tra i protagonisti va in scena un dialogo cosi surreale da far impallidire Samuel Beckett e il suo teatro dell’assurdo.

Prima scena. Siamo agli inizi del 2015. Gli eredi del titolare della polizza hanno appena ricevuto la liquidazione delle somme dalla compagnia di assicurazione, e hanno subìto una ritenuta che non si aspettavano. La compagnia spiega che ha dovuto liquidare l’Irpef su una parte dei capitali. Aveva spiegato loro che erano tutti esenti, e a quel tempo era così; poi, pero,è arrivatala legge di stabilità per il 2015 e ha cambiato le regole. Anche per i contratti stipulati prima del 2015.

Seconda scena. Alla scadenza delle dichiarazioni dei redditi, gli amministratori della fondazione si presentano dal commercialista, pronti a pagare l’1,375% dei dividendi. Il consulente, però, presenta ben altro conteggio: l’Ires è diventata il 21.3785% dei dividendi, perché la tassazione ora agisce sul 77,74% di quanto percepito. Agli amministratori sbigottiti spiega che non è un errore, e che anche la vecchia risposta non era sbagliata: è la legge di stabilità per il 2015 che ha cambiato la tassazione. Dal 2014.

Terza scena. L’amministratore estero della società costituita in Italia verifica con il consulente il calcolo delle imposte per il 2014 e gli fa notare un piccolo errore: ha applicato l’Irap al 3,9% anziché al 3,5%, dimenticandosi della risposta che lui stesso aveva dato un anno prima. Il consulente ha l’ingrato compito di spiegare a un cittadino di un altro paese che entrambe le risposte sono giuste. Lo farà in modo tecnicamente ineccepibile, argomentando che le aliquote sono state modificate dalla legge di stabilità per il 2015. Dal 2014.

Cala il sipario sullo sconcertante finale. Vladimiro ed Estragone (i personaggi di Beckett) sono ancora in scena a domandarsi cosa sia successo e ad aspettare come sempre Godot, che non arriverà mai. E Godot è un fisco leale che non si permetta di cambiare le regole del gioco retroattivamente, cioè quando i giochi sono già iniziati.

Abuso del diritto, prima prova al fisco

Abuso del diritto, prima prova al fisco

Marco Mobili e Giovanni Parente – Il Sole 24 Ore

Abuso fìscale o elusione solo a tre condizioni: assenza di una vera e propria sostanza economica delle operazioni effettuate dalle imprese; realizzazione di un vantaggio fiscale indebito; il vantaggio è l’effetto essenziale dell’operazione. Ma non è tutto. L’onere della prova di una condotta abusiva o elusiva sarà a carico dell’amministrazione finanziaria. In pratica, il fisco dovrà indicare all’impresa le norme che sono state aggirate e i vantaggi fiscali non consentiti che sono stati realizzati. Mentre spetterà al contribuente dimostrare poi al fisco l’esistenza delle «ragioni extrafiscali» che giustificano le operazioni effettuate. È quanto prevede la bozza del decreto attuativo della delega fiscale sulla «certezza del diritto» che il governo vorrebbe approvare la prossima settimana in Consiglio dei ministri.

Salvo ulteriori ripensamenti e una volta concluso il confronto interno all’amministrazione finanziaria sull’esatta definizione di frode fiscale e del nuovo regime sanzionatorio penale, il decreto sulla certezza del diritto si comporrà di tre parti. La prima sulla definizione di abuso del diritto ed elusione fiscale che, come recita l’articolo 1, diventa parte integrante dello Statuto del contribuente. La seconda rivede il sistema sanzionatorio penale: dalle norme sull’emissione e sull’uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti alle dichiarazioni fraudolente e a quelle infedeli o ancora all’omesso versamento. C’e poi il raddoppio dei termini dell’accertamento secondo cui questo scatta a condizione «che la denuncia sia presentata o trasmessa entro la scadenza ordinaria dei termini». La terza parte codifica le regole per misurare, gestire e controllare il rischio fiscale per i grandi contribuenti.

Dopo anni di attese, sentenze e contrasti tra imprese e amministrazione finanziaria vengono definiti i confini dell’abuso del diritto in linea con la raccomandazione della Commissione Ue sulla pianificazione fiscale aggressiva (2012/772/Ue del 6 dicembre 2012). Abuso ed elusione fiscale vengono uniformati in un unico istituto in relazione a tutti i tributi. Anche nei confronti di quelli non ancora armonizzati a livello comunitario. In sostanza dopo l’entrata in vigore del decreto attuativo si potrà parlare indistintamente di abuso o di elusione fiscale.

Secondo la bozza del decreto attuativo, oltre ai tre presupposti che configurano un abuso, vengono definiti come vantaggi tributari indebiti quelli che il contribuente realizza per effetto dell’operazione priva di sostanza economica. È necessario che il perseguimento di tale vantaggio deve essere stato lo scopo essenziale della condotta del contribuente. Allo stesso tempo il Dlgs dovrebbe definire non abusive le operazioni giustificate da «non marginali, valide ragioni extrafiscali, anche di ordine organizzativo o gestionale che rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa ovvero dell’attività professionale del contribuente». Impresa o professionista potranno, comunque, ottenere legittimamente un risparmio di imposta esercitando la propria libertà di iniziativa economica e scegliendo tra gli atti, i fatti e i contratti quelli comunque ritenuti meno onerosi sotto il profilo impositivo. Il solo limite indicato dal decreto attuativo a questa libertà “di movimento” è dettato dal divieto di perseguire un vantaggio fiscale indebito.

Altro passaggio chiave della bozza di Dlgs è l’atto di accertamento esclusivamente dedicato all’abuso, che gli uffici del fisco dovranno motivare «a pena di nullità» proprio in relazione alla condotta abusiva o elusiva del contribuente. In sostanza eventuali altri addebiti contestati al contribuente dovranno viaggiare separatamente con altro atto. In questo modo l’abuso del diritto non potrà più in alcun modo essere contestato d’ufficio dal giudice tributario. Puntando così a un riequilibrio in direzione del pieno diritto alla difesa del contribuente. Inoltre l’abuso non potrà mai essere invocato in caso di frodi fiscali o comportamenti penalmente rilevanti.