il sole 24 ore

La local tax, scommessa ad alto rischio per i cittadini

La local tax, scommessa ad alto rischio per i cittadini

Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Le tasse sull’abitazione principale sono una delle passioni più intense della politica di questi anni, con il risultato che in sette città su 10 la Tasi sulla casa media è più cara dell’Imu 2012 (e il quadro peggiora se si guarda ai centri minori, dove le detrazioni sono ancora più rare), e che gli appartamenti più modesti sono anche i più penalizzati rispetto al passato. Basterebbe questo per chiedere a partiti e Parlamento di occuparsi d’altro. Al di là della battuta, però, l’ennesima riforma del Fisco sul mattone è indispensabile, perché fra i tanti difetti delle regole scritte pochi mesi fa c’è anche il fatto di non aver saputo guardare più in là del proprio naso: tetti di aliquota e mini-aiuti statali sono stati previsti solo per quest’anno, lasciando campo libero nel 2015 ad aumenti record. Senza modifiche, l’anno prossimo si potrebbe imporre alla prima casa un prelievo del 6 per mille senza detrazioni, il doppio rispetto a oggi.

Anche la fantasia fiscale, però, ha dei limiti, e la «tassa unica» su cui sta lavorando il Governo rappresenta nei fatti un ritorno all’Imu, con aliquote e sconti un po’ più bassi ma con lo stesso impianto. Appurato che soldi per esentare tutte le abitazioni non ce ne sono, la scelta non è sbagliata, perché riporta un minimo di progressività al carico fiscale. Sugli altri immobili, però, il rischio è che la nuova aliquota massima al 12 per mille si traduca in un’altra tornata di rincari, dopo che quest’anno i Comuni hanno potuto arrivare fino all’11,4 per mille. Né si può fare troppo affidamento sulla capacità di discriminare tra i diversi immobili. Da un lato, l’esperienza insegna che quando il sindaco è in difficoltà finanziarie (o non sa tagliare le spese) l’aliquota sale su tutti i tipi di fabbricati. Dall’altro, è difficile sostenere che una casa sfitta – magari perché non si trova un inquilino – “merita” l’aliquota al 12 per mille più di un negozio affittato, ad esempio. La nuova tassa tutta comunale, insomma, è una scommessa sull’autonomia. Purché a perderla non siano i contribuenti.

Il rubinetto che salva le casse dello Stato

Il rubinetto che salva le casse dello Stato

Jean Marie Del Bo – Il Sole 24 Ore

Un Fisco “rubinetto”. Da aprire e chiudere a seconda di quanto è necessario far arrivare nelle casse statali. L’incubo dei contribuenti non è solo la complessità, talvolta naturale, della normativa fiscale. Ma anche la tendenza a usare la valvola tributaria come uno strumento “idraulico” da aprire o chiudere ai seconda delle esigenze dei conti pubblici. Nessuno discute le necessità che possono avere i bilanci statali e quelli locali così come il fatto che l’obbligo generale di solidarietà richieda talvolta di far fronte alle situazioni di emergenza con misure speciali. Contribuenti, imprese e professionisti hanno saputo fronteggiare in passato situazioni difficilissime. Quello che fa riflettere è, invece, la tendenza a vivere in permanenza in una situazione straordinaria, facendo dell’emergenza la regola e svuotando, così, di qualunque significato le parole. Una politica dei due tempi permanente, in cui il sacrificio di oggi si accompagna sempre alla promessa di un nuovo rapporto Fisco-contribuente da attuare domani. E la sensazione è che il domani non arrivi mai. Certo, l’alta infedeltà fiscale non aiuta chi deve muoversi all’interno del sistema fiscale per cercare di dargli ordine e di renderlo meno opprimente. Ma l’evidenza – condivisa anche dall’amministrazione finanziaria – è che serva davvero un cambio di passo. Per evitare che il Fisco sia solo un “rubinetto” che contribuisce a prosciugare le risorse.

Terreni, macchinari e capannoni: il conto delle patrimoniali nascoste

Terreni, macchinari e capannoni: il conto delle patrimoniali nascoste

Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Dall’Imu sui terreni che fino a oggi erano considerati esenti perché montani alle tasse sui capannoni ingigantite dai cambi continui di regole e dai paradossi dei calcoli che trattano i macchinari come il mattone e moltiplicano così la base imponibile, il fisco immobiliare ha ormai scalato la classifica delle tasse «ostili» al contribuente. A spingerlo in vetta è stata la sua caratteristica principale, assunta negli ultimi tre anni: un caos normativo interminabile che si è puntualmente tradotto in rincari, spesso retroattivi, per coprire questo o quel problema di bilancio.

L’ultimo episodio della saga arriva con l’addio all’esenzione totale per i terreni agricoli in 2mila Comuni, in base al decreto che il ministero dell’Economia ha preparato e che a meno di ripensamenti dell’ultima ora dovrebbe vedere la luce a breve. Il nuovo provvedimento attua un capitolo del decreto Irpef di aprile, che aveva promesso una stretta sulle esenzioni oggi in vigore nei Comuni considerati «montani» dall’Istat con l’obiettivo di raggranellare «una somma non inferiore a 350 milioni di euro». Nel frattempo i mesi sono passati, le regole attuative (che avrebbero dovuto vedere la luce entro il 22 settembre) hanno tardato, ma proprio il fatto che i 350 milioni di euro siano già stati messi a copertura sul bilancio 2014 rende improbabile un altro rinvio.

Nelle loro infinite contorsioni di questi ultimi tre anni, però, le tasse immobiliari hanno raggiunto risultati paradossali anche su contribuenti già abituati a fare i conti con l’Ici. È il caso, in particolare, di capannoni, alberghi e centri commerciali: nel tentativo almeno di ammorbidire i maxi-aumenti che hanno colpito queste categorie produttive, l’ultima legge di Stabilità ha provato la strada della deduzione dalle imposte sui redditi di quanto versato a titolo di Imu e poi di Tasi. Peccato, però, che per far quadrare i conti la deducibilità sia stata ridotta al minimo, con il risultato che mentre il bonus attribuisce uno sconto effettivo del 5,5%, l’ulteriore aumento lineare delle basi imponibili nel 2013 è stato dell’83 per cento, e l’arrivo della Tasi quest’anno ha assestato un colpo ulteriore. Una beffa, che per di più ha escluso ogni aiuto per le imprese in perdita, per le quali la deducibilità si trasforma in un credito d’imposta futuribile. Tutti questi fenomeni si ripresentano ingigantiti sulle imprese che si vedono attribuire la rendita catastale anche ai macchinari come le presse, i forni e gli altri strumenti di lavorazione, e che anche su questi pagano Imu e Tasi. Nel cantiere della manovra dell’anno scorso l’allora ministro dello Sviluppo economico Flavio Zanonato disse che era in- concepibile «far pagare la patrimoniale a un tornio». È esattamente quello che accade.

Ma la ricerca dei problemi fiscali sul mattone non può ignorare l’abitazione principale, oggetto di un dibattito intenso quanto inconcludente da ormai nove anni. Anche in questo caso, il Fisco ha bussato a sorpresa alla porta di contribuenti fino a un momento prima “graziati” dalle vecchie tasse. Lo ha fatto con la Tasi, che a causa dell’assenza degli sconti fissi tipici di Ici e Imu ha presentato per la prima volta il conto anche ai proprietari di abitazioni di valore fiscale molto basso, per questa ragione sempre trascurati dalle vecchie imposte. Il risultato paradossale è stato che dopo un dibattito infinito sul «superamento» delle imposte sull’abitazione principale, milioni di abitazioni principali che non avevano mai versato né Ici né Imu sono state obbligate a pagare la Tasi. Anche in questo caso, nemmeno il calendario ha giocato a favore dei contribuenti, permettendo loro almeno di abituarsi all’idea e di capire con comodo quanto e come pagare.

Vecchi e nuovi balzelli

Vecchi e nuovi balzelli

Salvatore Padula – Il Sole 24 Ore

Che cosa rende una tassa insopportabile? In primo luogo, sicuramente il suo “peso” e qui – come sappiamo – siamo da tempo in gara per il titolo di campioni del mondo. Ma non è solo questo. Una tassa è insopportabile anche quando è complicata, quando è retroattiva e quando è assurda, quando cioè non se ne coglie la logica.

Il peso delle imposte; le complicazioni nelle regole per determinare le basi imponibili e per calcolare i versamenti; il vizietto delle novità e delle modifiche sempre a effetto retroattivo, con crescita esponenziale dell’incertezza per i contribuenti in termini di pianificazione fiscale; le difficoltà di trovare un nesso logico tra la tassa e ciò che la tassa colpisce. Sono quattro caratteristiche che appartengono da troppo tempo al nostro sistema fiscale, passate in eredità da un governo all’altro. Anzi, talvolta vien da pensare che siano proprio questi i difetti che lo contraddistiguono e che continuano a orientarlo. Infinite promesse di cambiare passo, di cambiare verso, di voltare pagina. Ma poi ci si ritrova sempre allo stesso punto.

Si prenda il nervo scoperto della retroattività delle norme fiscali (per inciso, Il Sole 24 Ore ha calcolato che solo negli ultimi tre anni la deroga alla retroattività ha comportato maggiori tasse e/o anticipi di tasse a carico dei cittadini e delle imprese per oltre 10 miliardi di euro). Proprio ieri il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha ricordato in Parlamento che «la delega fiscale fornisce l’occasione per rivitalizzare i principi dello Statuto del contribuente, con il vincolo di irretroattività delle norme tributarie in sfavore». Bene, ma perché aspettare le delega visto che abbiamo già lo Statuto? Perché non fare subito qualcosa per evitare questa deriva? Tanto più che le ultime settimane, in questo senso, sono state pesanti. Non bastavano le invenzioni del disegno di legge di stabilità che, come sappiamo, riporta per il 2014 l’Irap all’aliquota del 3,9%; o che tassa in misura maggiorata gli investimenti dei fondi pensione o i dividendi percepiti dagli enti non commerciali o, ancora, che introduce per gli eredi una tassazione parziale per alcune tipologie di polizze vita.

L’ultima trovata – per carità, nulla di illegittimo, trattandosi di una norma di legge approvata la scorsa estate – riguarda l’Imu sui terreni nei comuni montani, che con un decreto non ancora pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale costringerà moltissimi proprietari a un tour de force per pagare entro dicembre un’imposta che nessuno aveva preventivato di dover pagare. Per non dire dei capannoni che tra moltiplicatori, aliquote dei comuni e combinazioni di imposte (Imu+Tasi) sono sottoposti a una pressione fiscale assolutamente esorbitante (con l’aggravante dell’indeducibilità dall’Irap e di una deducibilità limitata per le imposte dirette), soprattutto se si considera che si tratta di beni strumentali all’attività delle imprese. Cosa che rende ancor più incomprensibile il motivo per cui alcuni macchinari – presse, forni, magazzini automatici ancorati al suolo – debbano essere trattati alla stregua di un bene immobile assoggettato (due volte) a Imu e Tasi. Il tutto sulla base di una controversa norma che risale a 75 anni fa e che, nonostante gli sforzi di chiarezza della Cassazione, resta uno dei grandi misteri del fisco italiano.

Il fisco pesa sulle costruzioni

Il fisco pesa sulle costruzioni

Michela Finizio – Il Sole 24 Ore

Le tasse sul mattone sono un disincentivo per l’edilizia. A denunciarlo è una ricerca di Assimpredil-Ance, l’associazione milanese delle imprese di costruzione, che fotografa l’impatto del prelievo fiscale sulle operazioni di sviluppo, dalla fase di acquisizione delle aree alla vendita sul mercato delle unità costruite. Ad esempio, su un’operazione del valore complessivo di oltre 22,5 milioni, il Fisco pesa fino al 32% e, considerando solo il gettito a carico dell’impresa, le imposte dovute nel complesso superano il 76% dell’utile lordo generato.

È quanto emerge dall’indagine dei costruttori, che si propone di analizzare nel dettaglio i “conti” di un investimento, prendendo in esame lo sviluppo di 32 appartamenti, 136 box e un’unità commerciale (periodo 2008-2014). Il campanello di allarme, che ha spinto Assimpredil-Ance a realizzare questa ricerca, è scattato davanti ai dati che fotografano l’aumento della tassazione sul possesso di immobili: siamo passati dai 9,2 miliardi di prelievo del 2010 ai 23,2 miliardi del 2012 «e, nonostante la flessione del 2013 legata alla cancellazione dell’Imu sulla prima casa, nel 2014 toccheremo i 26 miliardi di tasse sul mattone», stima il presidente dell’associazione dei costruttori, Claudio De Albertis. «Manca una qualsiasi strategia nella tassazione immobiliare – aggiunge -. L’unica logica è andare a coprire i tagli che vengono fatti agli enti locali. Sull’unica base imponibile, inoltre, si sommano tasse centrali e locali all’interno di un sistema tributario caotico che maschera delle vere e proprie patrimoniali con imposte in nome dei servizi locali». Dai calcoli sul case-study emerge che, a fronte di utili netti per quasi 4,4 milioni di euro generati dall’impresa, sulla stessa operazione l’Erario incassa un gettito di oltre 7,2 milioni. «Se vado a comprimere così le operazioni di rigenerazione urbana come posso sperare che la rinascita del Paese parta dalle città?» commenta De Albertis. Inoltre, oggi è sempre più difficile vendere l’intero stock di abitazioni realizzate sul mercato: oggi in Italia si contano più di 540mila case in vendita, per il 26% di nuova costruzione.

L’effetto perverso per chi non vende. In base ai calcoli dell’ufficio studi Assimpredil-Ance, se l’impresa trovasse acquirenti solamente per il 50% delle unità costruite dovrebbe pagare ancora più tasse a causa delle imposte sull’invenduto. Sui beni merce, infatti, in molte città viene applicata oltre all’Imu anche la Tasi. A Milano, ad esempio, sulle unità senza acquirenti nel 2014 sarebbe prevista un’aliquota Tasi del 2,5 per mille: nella simulazione elaborata da Assimpredil-Ance, se l’invenduto fosse pari al 50% il prelievo Tasi sarebbe di circa 10.750 euro; in caso di nessuna unità venduta salirebbe a 21.500 euro. «Il paradosso è che, in pratica, l’impresa in difficoltà viene penalizzata dal Fisco», sintetizza il presidente dei costruttori milanesi.. A rappresentare il primo deterrente all’attività di sviluppo immobiliare sono i costi legati all’acquisizione delle aree: al momento dell’investimento («quando, cioè, l’impresa si espone di più», sottolinea De Albertis) il costruttore si trova subito a dover affrontare un’imposizione considerevole. Nel caso specifico, ad esempio, a fronte di 9,5 milioni di euro investiti per acquistare i terreni l’impresa è chiamata a pagare subito oltre 1,9 milioni di euro di imposte (tra registro, ipotecaria, catastale, oneri di costruzione e imposta sostitutiva sul mutuo). «Non c’è da meravigliarsi che la propensione all’investimento sia al minimo», commenta De Albertis. I permessi di costruire, infatti, sono in picchiata del 70% rispetto ai periodi pre-crisi, in base agli ultimi dati Istat (2012 sul 2005).

Ad influire, poi, in modo differente in ogni singola operazione immobiliare sono diversi fattori: gli oneri di urbanizzazione sono molto diversi sul territorio, così come le aliquote delle imposte locali; il valore di investimento e i costi di costruzione sono legati alle disponibilità dell’impresa; l’assorbimento delle unità costruite sul mercato dipendono dalla congiuntura. In un mercato immobiliare fermo, affaticato da compravendite ancora al ribasso (-1% su base annua nel secondo trimestre 2014), l’offerta residenziale pesa sui bilanci delle imprese edili che faticano a trovare acquirenti: in media ci sono 15,8 case invendute ogni mille unità abitative presenti sul territorio nazionale (dati Scenari Immobiliari). «È illogico che la tassazione sia legata al valore dell’immobile e prescinda dalla situazione patrimoniale del contribuente o dal reddito che produce l’immobile», conclude il presidente dei costruttori, suggerendo innanzitutto l’eliminazione dell’imposta di registro sulle cessioni di terreni da parte dei privati e del prelievo Imu più Tasi sui beni merce.

In busta paga la crisi non è uguale per tutti

In busta paga la crisi non è uguale per tutti

Francesca Barbieri – Il Sole 24 Ore

Direttore generale, responsabile corporate banking, informatore scientifico del farmaco e capo turno. Sono questi i “vincitori” delle quattro categorie del borsino delle professioni realizzato da Od&M, la società specializzata in Hr consulting di Gi Group, su un campione di oltre 420mila profili retributivi per altrettanti dipendenti del settore privato. L’obiettivo? Individuare in un momento di crisi del mercato del lavoro italiano quali sono le attività che offrono gli stipendi migliori. Nel borsino, però, non si considera solo l’andamento dei cinque “mestieri” meglio retribuiti, ma si mettono sotto la lente anche quelli meno pagati. Il tutto distinto per quattro livelli di inquadramento, dall’apice fino alla base della piramide aziendale: dirigenti, quadri, impiegati e operai. Sui gradini inferiori alla media si rintracciano le figure It, insieme a quelle tradizionali di staff e ai profili poco specializzati.

I dirigenti
A livello apicale si registra un gap del 62% tra i poli opposti sulla scala retributiva, con uno stipendio medio di 112.340 euro lordi l’anno. I direttori generali guadagnano 133mila euro contro gli 82mila dei responsabili di manutenzione dello stabilimento (ultimi in classifica). Tra le cinque professioni più pagate prevalgono le posizioni di direttore, mentre all’opposto troviamo i responsabili dei sistemi qualità, dell’area tecnica, dello sviluppo software, della manutenzione e il project leader It. Ma considerando il trend degli ultimi 5 anni emerge che le funzioni che hanno visto la crescita più timida sono quelle meglio retribuite, mentre hanno evidenziato una dinamica positiva quelle più in basso, in particolare l’ultima in classifica – il responsabile manutenzione di stabilimento – ha visto aumentare la propria retribuzione di oltre il 10%. Nel 2014, poi, sono cresciuti di più il direttore pubbliche relazioni (+8,8% sul 2013) e il country manager (+6 per cento). «Si tratta dei ruoli più critici nel mercato – commenta Simonetta Cavasin, general manager di Od&M – fortemente focalizzati sui risultati, quindi preziosi per le aziende».

Middle manager e impiegati
Le buste paga dei quadri sono decisamente inferiori rispetto a quelle dei dirigenti e ammontano in media a 54.233 euro, con l’unica eccezione del responsabile corporate banking (84mila euro l’anno) che batte l’ultimo in classica dei top manager. «In generale – commenta Cavasin – a vincere sono le figure manageriali o di responsabilità, mentre quelle meno retribuite riguardano ruoli più operativi, come la segretaria di direzione e gli specialisti formazione». Tra i colletti bianchi guadagna la vetta, un po’ a sorpresa, l’informatore scientifico del farmaco, che intasca il 54% in più della retribuzione media degli impiegati (44mila euro l’anno rispetto a circa 29mila) e il doppio dell’operatore grafico che, all’opposto, risulta il meno pagato. «Gli informatori – commenta Fabio Carinci, presidente della Federazione delle associazioni italiane di categoria – mantengono buoni livelli retributivi, anche se, complice la crisi, negli ultimi anni sono calati di numero e oggi sono circa 12mila». Il mercato comunque si muove. L’agenzia per il lavoro Randstad segnala tra le ricerche aperte quelle di laureati in farmacia e in scienze dell’alimentazione, o comunque in materie sanitarie a indirizzo scientifico. «Gli informatori sono figure specializzate – spiega Massimo Scaccabarozzi, presidente di Farmindustria -fondamentali in primis per l’aggiornamento dei medici sui nuovi prodotti. In generale poi in tutta l’industria farmaceutica gli stipendi sono di buon livello per le figure qualificate che vi operano grazie alla produttività elevata del settore». In generale tra gli impiegati, sull’orizzonte di 5 anni, a crescere di più sono stati i responsabili business development (+13,9%) e commerciale (+13,8%). Figure, queste ultime, spesso impiegate all’interno di piccole aziende in ruoli molto vicini a quelli dirigenziali.

Operai
Sul podio delle tute blu troviamo capo turno (31mila euro), capo squadra produzione e capo squadra manutenzione (29mila euro). All’opposto, invece, le figure meno qualificate, come l’addetto di cucina (21mila euro), il cameriere (20mila euro) e il barista (19mila euro) rispetto a una media di categoria di 23.884 euro. Considerando gli anni dal 2009 in poi, il trend è positivo per quasi tutti i ruoli e in particolare per il capo squadra produzione (+12%) e per il verniciatore (+10 per cento).

Settori e comparti
A livello settoriale, sono le banche e le assicurazioni a offrire i migliori stipendi ai dirigenti (+12% rispetto alla media), mentre il comparto con le retribuzioni più basse è l’edilizia (97mila euro, il 13,5% sotto la media). I quadri guadagnano oltre la media solo nel campo del credito, mentre l’industria premia di più impiegati e operai: sono in particolare la farmaceutica e la chimica a riconoscere compensi superiori rispetto alla media di oltre il 15 per cento.

Il trend dal 2002
Analizzando, infine, la dinamica retributiva rilevata negli anni 2000, gli esperti di Od&M evidenziano l’andamento in tre periodi distinti: dal 2002 al 2007 le retribuzioni sono cresciute ben più dei prezzi al consumo (eccezion fatta per gli impiegati). Dal 2007 al 2011 si è verificata una stagnazione, che ha prodotto un calo di potere d’acquisto significativo: gli operai, per esempio, hanno visto salire la busta paga di appena lo 0,6% in media l’anno, contro un’inflazione cresciuta del 2,2%. Dal 2011 il trend si è invertito: crescita superiore all’inflazione, in primis proprio per le tute blu. «Nel 2013 e nei primi sei mesi del 2014 – conclude Cavasin – le retribuzioni sono salite di poco, ma grazie a un buon incremento avvenuto nel 2012 e a un rallentamento del costo della vita, si è realizzata negli ultimi tre anni una crescita, seppur lieve, del potere d’acquisto, con l’eccezione del middle management».

Oltre le tasse, la difficoltà di scrivere buone regole

Oltre le tasse, la difficoltà di scrivere buone regole

Cristiano Dell’Oste – Il Sole 24 Ore

Facciamo un po’ di storia. Alla fine del 2011 la manovra salva-Italia introduce l’Imu. Negli anni seguenti, le compravendite di abitazioni – già in discesa rispetto alle 877mila del 2006 – arrivano fino alle 407mila del 2013, con un trend ancora in calo quest’anno. Nel frattempo, non si allenta la stretta sui mutui, crollano gli investimenti in nuove costruzioni e aumenta la morosità degli inquilini. Intendiamoci, non è solo colpa delle tasse. Ma è evidente che la pressione fiscale sul mattone, unita alla crisi economica, costringe i proprietari di immobili e le imprese di costruzioni a barcamenarsi in una situazione di equilibrio sempre più precario. Il rischio concreto è quello di avvitarsi in una spirale recessiva sempre più grave, dove la crisi chiama altre tasse, che a loro volta generano altra crisi, e così via all’infinito.

I dati elaborati da Assimpredil, però, consentono anche di sviluppare una riflessione in chiave positiva. Se è vero che le imposte oggi erodono buona parte dell’investimento immobiliare realizzato da un’impresa di costruzioni, è altrettanto vero che questo investimento – se il contesto regolatorio e fiscale fosse ottimizzato – potrebbe tradursi in un gioco a somma positiva: riqualificazione urbana, nessun consumo di suolo, imposte per lo Stato e i Comuni, profitti per i costruttori, nuove abitazioni (o uffici, o negozi) per i privati. Chiedersi perché questo non avvenga, è la domanda chiave.

Deve far riflettere, in questo senso, la leggerenza con cui i parlamentari nelle scorse settimane hanno ipotizzato un emendamento allo “sblocca Italia” – poi liquidato dal ministro delle Infrastrutture – che avrebbe aumentato al 22% l’Iva sugli acquisti dal costruttore. Non proprio il massimo della lungimiranza, in un periodo come questo. Allo stesso modo, deve far riflettere – nel bene e nel male – l’esperienza della detrazione del 65% per il risparmio energetico, che il Ddl di stabilità si propone di prorogare anche per il 2015: dopo anni di tira-e-molla, ci si è resi conto che l’agevolazione si ripaga praticamente da sola, tra incremento dei cantieri, contrasto al lavoro nero e sostegno alle imprese del settore. Eppure, il catalogo dei lavori premiati è quasi identico a quello stilato dalla Finanziaria 2007, e i piani per estenderne l’utilizzo sono sempre rimasti nel cassetto.

Anche i continui ritocchi alla disciplina dei permessi edilizi – ultimo in ordine di tempo quello dettato dallo “sblocca-Italia”- lasciano qualche perplessità. Da un lato, va detto che servirebbe un intervento organico. Dall’altro, bisogna ricordare che spesso le procedure non si inceppano al livello del Testo unico dell’edilizia, ma negli uffici comunali. Insomma, se il circolo virtuoso non si innesca, non è solo perché non si possono abbassare le tasse. È anche perché scrivere buone regole, abbandonare vecchie abitudini amministrative e disciplinare al meglio i bonus fiscali esistenti si rivela spesso troppo complicato. Una lezione da non dimenticare mentre ci si prepara a scrivere la nuova local tax che sostituirà Imu e Tasi.

Idea folle per l’economia italiana

Idea folle per l’economia italiana

Jim O’Neill – Il Sole 24 Ore

Ho trascorso buona parte dei miei 35 anni di analista economico e finanziario a lambiccarmi il cervello sull’Italia. Studiarne l’economia è stato il primo incarico del mio lavoro. In verità, l’Italia è stato il primo Paese straniero nel quale mi sia recato. Adesso sono tornato da una vacanza in Puglia e Basilicata. Nei decenni, la domanda che mi si è affacciata spontanea è rimasta pressoché invariata: come è possibile che un Paese così meraviglioso abbia così tante difficoltà ad avere successo?

Per tutto questo tempo, l’Italia ha messo in campo un governo debole contro un settore privato straordinariamente adattabile e una competenza speciale nella produzione manifatturiera su piccola scala. Essendo per natura ottimista, in generale ho creduto che questi punti di forza prima o poi potessero avere la meglio e l’Italia potesse prosperare. Prima dell’unione economica e monetaria europea, però, l’Italia aveva un tipo di flessibilità di cui ora è priva: una moneta che poteva svalutare in caso di necessità. Quelle periodiche iniezioni di maggiore competitività furono di aiuto alla Fiat e agli altri grandi esportatori, ma anche alle aziende più piccole.

Il resto d’Europa nutriva sentimenti contrastanti in relazione a questa celerità nel recuperare competitività con la svalutazione, ovviamente a loro spese. Quando si iniziò a parlare di istituire tassi fissi di cambio in Europa e ad avviarsi verso una valuta unica, tra gli altri partner – soprattutto Germania e Francia – le opinioni furono discordanti in merito a cosa sarebbe stato più nel loro interesse. Molti conservatori tedeschi, compresi alcuni alla Bundesbank, diffidarono dell’impegno italiano nei confronti di una bassa inflazione, che loro avrebbero voluto incoronare obiettivo monetario più importante d’Europa.

Lasciare l’Italia fuori dall’euro avrebbe significato rendere attaccabile la loro stessa competitività dalle occasionali svalutazioni della lira. Alla fine, fu presa la decisione di ammettere l’Italia. Le regolamentazioni fiscali adottate in quella medesima circostanza – compresa la promessa di mantenere il deficit di bilancio sotto il 3% del Pil – possono essere considerate come un tentativo per costringere l’Italia a comportarsi come si deve. Più volte mi sono chiesto se per caso da alcuni non fossero considerate un mezzo per rendere impossibile all’Italia entrare a far parte dell’euro.

In ogni caso, l’Italia si è trovata doppiamente vincolata, senza una valuta da regolare a suo piacimento e con uno spazio di manovra fiscale fortemente limitato. I risultati non sono stati positivi. Paradossalmente, tra il 2007 e il 2014 l’Italia ha ottenuto risultati migliori della maggior parte degli altri Paesi nel tenere sotto controllo il proprio deficit ciclicamente corretto. Nonostante ciò, però, il suo rapporto di indebitamento rispetto al Pil è aumentato tantissimo. La causa è da ricercarsi nella costante mancanza di crescita nel Pil nominale, a sua volta dovuta almeno in parte a una moneta sopravvalutata e a rigide restrizioni di bilancio.

L’Italia è la terza economia più grande della zona euro e il terzo Paese per numero di abitanti. Tenuto conto di ciò, dell’entità del suo indebitamento e di ogni altra cosa di cui siamo venuti a conoscenza sulle priorità dell’Europa durante la fase di creazione dell’euro e da allora in poi, ho sempre creduto che, in definitiva, la Germania avrebbe fatto quanto era necessario per difendere l’Italia da quel tipo di dissesto finanziario che ha travolto la Grecia nel 2010. Ormai, però, sto cominciando ad avere i miei dubbi.

Per impedire che il suo indebitamento si aggravi ancora di più, l’Italia ha bisogno di una crescita nel Pil nominale. Certo, ha bisogno anche di riformare la propria economia, di aumentare la produttività, di dare un forte impulso alla forza lavoro affinché questa si impegni in maniera duratura. Ma finché resterà membro del sistema euro, non avrà l’aiuto derivante da una svalutazione valutaria programmata. Ciò significa che ha bisogno dell’aiuto della Germania, e non soltanto per mezzo di una maggiore flessibilità fiscale, che è essenziale, ma anche tramite un aumento dell’inflazione nell’area euro per tornare all’obiettivo della Banca centrale europea di una soglia «inferiore, ma vicina, al 2 per cento». Sarà quasi impossibile per l’area euro riuscirci, a meno che la Germania non riveda lei stessa al rialzo l’inflazione per i prezzi al consumo, portandoli a quel tasso o più in alto.

Mentre attraversavo l’Italia, in questa mia recente vacanza, ho immaginato un tipo diverso di rigidità tedesca. Che accadrebbe se si applicasse il criterio della «tolleranza zero» nei confronti di un’inflazione che cada sotto l’obbiettivo voluto? Forse, i cittadini tedeschi dovrebbero pagare una tassa extra per ogni anno che il loro Paese fa registrare un’inflazione «inferiore, ma non vicina, al 2 per cento», con una sanzione amministrativa crescente in rapporto alla differenza? I soldi così raccolti potrebbero essere distribuiti ai Paesi che hanno un deficit fiscale ciclicamente corretto inferiore al 3 per cento e inferiore rispetto al trend della crescita del Pil. Anzi, a ben pensarci, l’Italia non potrebbe obbligare i turisti tedeschi a pagare una tassa?

Lo so. Sarebbe folle. Ma sarebbe veramente molto più folle rispetto al fatto di continuare a insistere sull’arbitraria regola del vincolo tra economia e deficit, senza revisioni per il ciclo economico, o al fatto di lasciar cadere la domanda così in basso che l’Europa non riesce a raggiungere il suo obbiettivo di inflazione mancandolo di molto, e in modo tale da condannare l’Italia e altri paesi a una recessione senza fine? Direi che, quanto a follie, stanno quasi alla pari.

Local tax, il rischio di pagare gli errori del passato

Local tax, il rischio di pagare gli errori del passato

Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Dopo tre anni in cui il Fisco sul mattone ha visto crescere a passo di carica il caos delle regole e soprattutto il conto a carico dei cittadini, ogni novità su parametri e aliquote tocca un nervo scoperto. In questo quadro, i nuovi indicatori della «tassa locale» non passeranno certo inosservati, soprattutto nel capitolo dedicato a seconde case e altri immobili, per i quali l’aliquota massima sale fino al 12 per mille invece dell’11,4 attuale. Uno scarto piccolo, rivolto però a proprietari che oggi pagano dal 100 al 200% in più di quello che versavano tre anni fa, mentre il loro immobile perde valore schiacciato dalla crisi e dalle tasse.

Il fatto è che nel Fisco gli errori si pagano, e nel travaglio eterno della Tasi di errori ne sono stati fatti parecchi. Dopo un continuo lavorio sulle norme per mettere una pezza a questo o quel difetto del nuovo tributo, il debutto effettivo della Tasi è stato accompagnato da un fondo statale di 625 milioni. L’aiuto è stato pensato per permettere a molti Comuni di far quadrare i conti e di riservare anche qualche detrazione sulle abitazioni principali, nel tentativo di attenuare il drastico effetto regressivo (aumenti per le case più “povere”, sconti per quelle più ricche) del nuovo sistema. Questo assegno statale, però, ha solo rimandato il problema di un anno, perché ora altri 625 milioni non ci sono (o il Governo non è disposto a metterli) e la leva fiscale potenziale dei Comuni sale.

Non solo: la nuova spending review resta un boccone amaro per i sindaci, e una quota (minoritaria) viene compensata con una maggiore libertà di aliquote. Il caos dellaTasi, poi, si pagherà anche in termini di polemiche sull’abitazione principale: il tributo sui servizi indivisibili ha colpito le case di valore più basso, il nuovo meccanismo, grazie alla detrazione fissa, redistribuisce il carico verso l’alto, ma in questa altalena continua c’è chi perde e chi guadagna e il dibattito è servito.

Come se ne esce? Il Governo punta su «autonomia» e «semplificazione», per costruire una tassa locale che sia comprensibile da chi la paga (certe delibere Tasi con decine di parametri bizantini fanno più male dei modelli di versamento in fatto di consenso da parte dei cittadini) e sia davvero tutta comunale, cancellando il paradosso dell’imposta «municipale» nel nome ma statale a metà nei fatti. È una strada corretta, come saggia è stata la rinuncia all’idea iniziale di accorpare nella tassa locale anche i tributi minori, con una mossa che avrebbe fatto pagare a tutti una quota del miliardo versato ogni anno sui cartelloni pubblicitari o l’occupazione di suolo pubblico. Gli scogli da superare, però, restano parecchi e per non finire incagliati serve che la semplificazione sia vera e l’autonomia effettiva. E serve, va aggiunto, che questa riforma sia l’ultima: perché imporre ai contribuenti un corso accelerato tre volte all’anno per pagare le tasse sulla casa non è un’abitudine civile.

L’addizionale sull’Irpef cede il passo a un’imposta aggiuntiva

L’addizionale sull’Irpef cede il passo a un’imposta aggiuntiva

Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Tassa unica locale dal 2015 e destinata tutta ai Comuni, addio all’addizionale Irpef sostituita con una «sovraimposta» statale con clausola anti-rincari, aumento del fondo crediti di dubbia esigibilità in cambio di ulteriore flessibilità sul Patto di stabilità e sulle coperture degli extradeficit, finanziamento centrale degli interessi sui mutui per gli investimenti comunali, possibilità di usare parte degli oneri di urbanizzazione per finanziare spesa corrente e cancellazione di tutte le norme puntuali che in questi anni si sono concentrate su singole voci dei bilanci locali. Sono i contenuti dell’accordo politico che Governo e sindaci hanno raggiunto ieri a Palazzo Chigi. La direzione, insomma, pare segnata, e ora toccherà ai tavoli tecnici tradurre tutto in regole da inserire nel correttivo alla legge di stabilità. «Gran parte delle nostre richieste sono state accolte dal Governo – ha spiegato il presidente dell’Anci, Piero Fassino, appena dopo l’incontro – e ora la legge di stabilità è un po’ meno onerosa».

Sulla tassa unica, l’accordo conferma le anticipazioni dei giorni scorsi. L’aliquota di base per le abitazioni principali sarà più alta rispetto alla Tasi, ma le detrazioni standard alleggeriranno il peso per le case di valore medio-basso (la maggioranza) e dovrebbero tornare a escludere dall’imposta chi già non pagava né Imu né Ici. Sugli altri immobili, il primo effetto sarà la semplificazione, mentre le imprese attendono interventi di peso sulla deducibilità dalle imposte sul reddito e sull’esclusione dal calcolo dei macchinari (si veda Il Sole 24 Ore di ieri). La semplificazione, secondo il progetto, sarà però generalizzata dal fatto che i Comuni potranno distinguere il trattamento per grandi categorie di immobili (casa sfitta, casa affittata e così via) e non per micro-dettagli. Imposta sulla pubblicità, tassa sull’occupazione del suolo pubblico e gli altri tributi minori non entreranno nella tassa locale, ma si fonderanno in un canone unico nella disponibilità dei Comuni, che potranno articolarlo come meglio credono. Questa soluzione rende un po’ meno «unica» la tassa locale, ma evita di distribuire sulla generalità dei contribuenti il carico (oltre un miliardo di euro all’anno) oggi pagato da chi mette cartelloni pubblicitari oppure utilizza suolo pubblico per la propria attività commerciale.

Con la tassa locale va in soffitta l’addizionale Irpef, che passa allo Stato. L’idea, sul punto, è di trasformarla in una «sovraimposta», cioè un’addizionale statale calcolata non sull’imponibile ma sulle tasse già versate. Il meccanismo serve a dare progressività alle richieste, e ad escludere del tutto chi oggi non paga Irpef perché ha un reddito basso oppure grazie a deduzioni e detrazioni. In ogni caso, per rendere anche politicamente tranquillo il passaggio, il debutto della sovra-imposta sarà accompagnato da una clausola anti-rincari per evitare di bussare alla porta di chi oggi non paga l’addizionale o paga meno della media grazie alle aliquota basse decise dal Comune. Ora si tratta di capire come adattare al nuovo sistema i conti di tutti i Comuni, agendo prima di tutto sulla perequazione, mentre qualche novità ulteriore potrebbe arrivare sui meccanismi di debutto della riforma dei bilanci.