il sole 24 ore

La via stretta di Renzi tra crescita e debito

La via stretta di Renzi tra crescita e debito

Guido Gentili – Il Sole 24 Ore

Non varcare la soglia del 3% di deficit in rapporto al Pil, ma sottolineando che quel limite è anacronistico e andrebbe rivisto. Convincere l’Europa (a partire inevitabilmente dai «tecnocrati») che il rinvio al 2017 del pareggio di bilancio «strutturale» (cioè corretto per il ciclo) è fisiologico, guadagnandosi – nell’ambito delle regole date, ma contestando i metodi di calcolo del prodotto «potenziale»- la maggiore flessibilità possibile. Evitare l’apertura di una procedura d’infrazione e scommettere che la tregua fin qui accordata dai mercati tenga e che i piani espansivi di Mario Draghi alla BCE non vengano stoppati.

Tutto si può dire, meno che la sfida del Governo Renzi, un mix di temerarietà innovativa e di sottile prudenza negoziale impersonate, rispettivamente, dal premier stesso e dal ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, non sia difficile e impegnativa. Una sorta di «terza via» tra strappi e continuità per forza di cose sotto continuo esame, come si conviene del resto per un grande Paese, terza economia e seconda potenza manifatturiera alla spalle della Germania nell’Eurozona, ma anche terzo Paese – questa volta nel mondo dietro Stati Uniti e Giappone- per volume di debito pubblico accumulato.

L’Italia ha un disperato bisogno di crescere. Non lo fa praticamente da vent’anni e porta sulla sua devastata economia reale, dopo la crisi scoppiata nel 2008, i segni di una stagione di guerra. Senza crescita non può ridurre nemmeno il suo debito, che infatti ha continuato a lievitare nonostante gli straordinari risultati (ma anche a prezzo di una caduta verticale della spesa per gli investimenti) ottenuti negli anni sul fronte del disavanzo primario, al netto cioè degli interessi pagati (95 miliardi nel solo 2013) dallo Stato per finanziare il debito.

D’altra parte, se non corregge la traiettoria del debito, l’Italia non rischia solo a Bruxelles (che al momento plaude all’Irlanda e alla Grecia e bolla come «creativa» e inaccettabile anche l’ipotesi avanzata da Renzi di scorporare dal Patto di stabilità le spese per l’innovazione) ma sui mercati. Sulla sostenibilità del debito non c’è un numero-soglia esatto (140% in rapporto al Pil? 150%?) ma una valutazione di credibilità del sistema-paese che si misura, appunto, sui mercati. E l’Italia resta sotto questo profilo vulnerabile e molto sensibile all’evoluzione, incerta, dei tassi d’interesse. Quando l’Ocse prevede che la crescita sarà dello 0,2% nel 2015 e segnala il nostro Paese – con un debito al 133,8% secondo la Commissione europea in ascesa anche l’anno prossimo, in recessione e insieme, di fatto, in deflazione – alla penultima posizione nella classifica del G20, accende un faro su una prospettiva non tranquillizzante.

La stessa lettura si ricava dall’ultimo sondaggio-Eurobarometro della Ue tra i 18 paesi della moneta unica: l’Italia, per la prima volta nella sua storia, con il 47% degli italiani che ritengono l’euro una “cosa cattiva” è oggi il paese più euroscettico. A ben vedere, anche questo un risultato della persistente mancata crescita che peggiora il rapporto debito/Pil e, riattivandosi pressoché in automatico la richiesta europea di un più vigoroso consolidamento fiscale, stronca ogni possibilità di ripresa e la fiducia in un futuro prossimo migliore. Facendo ripartire la spirale infernale: non è possibile per il governo alzare l’orizzonte della politica economica espansiva ma quanto fatto e messo in cantiere può non bastare, la ripresa continuerebbe a latitare e il debito a salire.

Naturalmente sarebbe facile addossare ogni responsabilità all’Europa e all’euro, tralasciando il particolare che l’Italia non cresce da vent’anni e che il terzo debito pubblico del mondo non l’ha creato la moneta unica ma ce lo siamo costruiti (e accumulato) in casa nel corso di decenni. La “terza via” in Europa del Governo Renzi, tra strappi e continuità, è molto stretta e vedremo quali risultati porterà, fermo restando che quest’Europa incompiuta e prigioniera di regole auto-soffocanti necessiterebbe di una revisione radicale.

Invece, è più larga in Italia l’unica strada percorribile, quella dell’attuazione delle riforme: qui, dietro e davanti la Legge di stabilità su cui a fine mese si pronuncerà Bruxelles, ci sono per il governo grandi spazi da riempire, a cominciare dal Jobs Act, dal cantiere fiscale, dalla riduzione della spesa e dalla creazione di un ambiente favorevole all’attività d’impresa e all’attrazione di investimenti esteri. Il tempo è poco, sui mercati la sostenibilità dell’Italia e del suo debito si gioca su questi terreni e misurando i fatti.

Che cosa vuole fare la Germania?

Che cosa vuole fare la Germania?

Vincenzo Visco – Il Sole 24 Ore

«Per due volte, nel XX secolo, la Germania con mezzi militari ha distrutto se stessa e l’ordine europeo. Poi ha convinto l’Occidente di averne tratto le giuste lezioni: solo abbracciando l’integrazione europea, abbiamo conquistato il consenso alla nostra riunificazione». «Sarebbe una tragica ironia se la Germania unita, con mezzi pacifici e le migliori intenzioni, causasse la distruzione dell’ordine europeo una terza volta. Eppure il rischio è questo». Questa citazione è tratta da un’intervista al Corriere della Sera di Joschka Fisher, leader dei Verdi, ex ministro degli Esteri della Germania Federale, del 26 maggio 2012, oltre due anni fa, quando era già chiaro come la politica seguita dal governo tedesco e imposta agli altri Paesi dell’Ue, mentre risultava vantaggiosa per la Germania, danneggiava i Paesi più deboli e poteva portare alla disintegrazione dell’euro.

Il fatto che le scelte fondamentali a partire dal 2010 siano state in conflitto con la logica di funzionamento di un’area economica a moneta unica è acquisito. Si tratta di una serie impressionante di errori nella gestione della crisi. Si va dalla decisione imposta dalla signora Merkel secondo cui eventuali crisi bancarie nella zona euro dovessero essere affrontate non dall’Ue bensì singolarmente da ogni singolo Paese, all’accordo di Deauville tra Merkel e un forse inconsapevole Sarkozy, in base al quale si stabilì il principio del cosiddetto Private Sector Involvement, secondo cui ogni assistenza a Paesi con problemi di liquidità (anche se non insolventi) avrebbe dovuto comportare un costo per gli investitori privati. La conseguenza inevitabile di queste decisioni fu la disarticolazione della zona dell’euro, con la divaricazione dei tassi di interesse e il trasferimento degli effetti della crisi finanziaria globale nelle finanze pubbliche dei singoli Paesi. Al tempo stesso, però, l’afflusso dei capitali verso i Paesi europei percepiti come “forti”, Germania in testa, riduceva i tassi di interesse in quei Paesi e creava condizioni di finanziamento per i debiti pubblici e i prestiti privati straordinarie e convenienti. A scapito dei Paesi che subivano gli effetti del flight to quality e l’aumento dei tassi di interesse. Inoltre mentre in questi Paesi si produceva una crisi di liquidità e una restrizione creditizia, nulla di tutto questo avveniva nei Paesi core dell’Unione che potevano continuare a crescere accumulando surplus commerciali impressionanti.

Non diversamente andò la vicenda della crisi Greca: invece di intervenire tempestivamente a circoscrivere il fenomeno nel 2010 quando un salvataggio avrebbe comportato un onere trascurabile per l’Unione, si preferì attendere (nonostante l’avviso contrario del Fmi) fino a quando le banche tedesche e francesi non riuscirono a liberarsi del debito greco da esse detenuto. Ancora una volta interessi nazionali e ristretti avevano la meglio rispetto ad una gestione corretta ed equilibrata di una crisi che coinvolgeva sia pure in modo diverso tutti i Paesi.

Una volta creata la crisi dell’euro che con una gestione responsabile e consapevole si sarebbe facilmente evitata, sempre il Governo tedesco, vedendone i risultati, peraltro del tutto scontati, di aumento dei debiti e dei disavanzi pubblici, imponeva a tutto il continente politiche di austerità indiscriminate ed economicamente insensate in quanto si scambiavano le cause della crisi con i suoi effetti, e una crisi da deflazione del debito con una crisi delle finanze pubbliche. Al tempo stesso si imponevano alla Bce politiche restrittive nonostante la grave crisi di liquidità della zona euro, l’opposto di quanto fatto negli Usa nel Regno Unito e in Giappone e di quanto era necessario, e si frenava, rinviava e limitava l’attuazione dell’Unione bancaria sia per proteggere le banche territoriali e le casse di risparmio tedesche sia per eliminare, nei confronti di un’opinione pubblica sempre più radicalizzata, anche il mero sospetto di un possibile, ancorché solo potenziale, trasferimento di risorse dalla Germania verso gli altri Paesi dell’Unione.

Gli effetti economici, politici e sociali di questo modo di procedere sono ormai evidenti, e pericolosissimi; la previsione pessimista di Fischer sembra sempre più realistica e prossima a realizzarsi. Il problema quindi è il seguente: cosa vuole fare la Germania dell’Europa? È ancora convinta che il progetto che implica cooperazione, solidarietà e pari dignità tra i Paesi meriti di andare avanti? E a quali condizioni? Sono sufficienti le riforme già realizzate o in cantiere nei diversi Paesi? Le prese di posizione di numerosi e importanti esponenti dell’estabilishment tedesco sembrano piuttosto orientate verso una politica di disimpegno dall’euro e dal progetto europeo e influenzate da un neonazionalismo e un’idea di autosufficienza preoccupanti. Al tempo stesso in molti paesi europei monta l’insofferenza nei confronti di un’Europa a guida tedesca e montano i sospetti nei confronti di un vicino ingombrante e sempre più percepito come aggressivo e pericoloso. Non si può non essere preoccupati di tutto questo, e sarebbe opportuno un chiarimento politico serio nel merito. Quando poi si sentono le affermazioni di Barroso e di Schäuble secondo cui la cura starebbe funzionando viene da sorridere, in quanto in realtà il paziente ha rischiato e rischia di morire. Ma nessuno ha ritenuto di dover replicare.

L’Italia, approfittando anche della presidenza di turno della Unione, avrebbe potuto provare a porre la questione politica ed economica nella sua interezza, in modo organico e documentato. Ha invece preferito cercare qualche margine di flessibilità immediatamente contrastato e ridimensionato dalla Commissione. Il problema è che senza una svolta vera che può derivare solo da un dibattito esplicito, l’Europa non potrà sopravvivere, non solo per motivi economici , ma soprattutto perché a livello politico rischia di farsi sempre più strada presso le opinioni pubbliche di numerosi Paesi, l’illusione di scorciatoie regressive.

La terapia di Francoforte non basta senza riforme

La terapia di Francoforte non basta senza riforme

Marco Onado – Il Sole 24 Ore

Anche se ha deciso di mantenere invariati i tassi di interesse, il Consiglio direttivo della Bce di ieri può segnare una svolta importante. In primo luogo, perché fa piazza pulita delle voci secondo cui la leadership di Mario Draghi si era indebolita, perché alcuni (di cui è facile indovinare il passaporto) non condividevano sue recenti posizioni sui rischi di deflazione che l’Europa sta correndo. Nella conferenza stampa (e nel testo scritto, si badi) Draghi ha detto due cose fondamentali: che la Bce riporterà la dimensione del proprio bilancio ai livelli dell’inizio 2012 e che il Consiglio direttivo è unanimemente disposto a prendere in considerazione ulteriori interventi «se necessario».

Sul primo versante, questo significa un’espansione rispetto alle dimensioni attuali di circa 1000 miliardi di euro, quindi un’ulteriore iniezione di liquidità particolarmente significativa e che può sembrare inadeguata solo a chi ritiene che lo spettro della deflazione possa essere scongiurato solo con terapie monetarie, purché non si guardi alle dosi. Un’interpretazione che, guarda caso, fa piacere ai mercati che possono sperare in ulteriori giri di una giostra che ha già raggiunto in molti settori livelli di guardia.

Non meno importante è il messaggio contenuto nel riferimento ad ulteriori possibili misure, da realizzare «se necessario». È un chiaro segnale che a Francoforte si è ben lungi dal ritenere di aver già utilizzato tutte le munizioni possibili. I problemi caso mai scaturiscono dal riferimento al mandato della Bce, che continua ad essere la vera camicia di Nesso della nostra banca centrale e non a caso è l’ostacolo principale ad una politica di quantitative easing pura e semplice. Tempi eccezionali richiedono invece soluzioni eccezionali, come dimostra la recente decisione della Bank of Japan di acquistare Etf su azioni giapponesi, facendo cadere così un ulteriore tabù dell’ortodossia della cosiddetta arte del banchiere centrale. Ma la fantasia tecnica a Francoforte non manca, come si è abbondantemente dimostrato dal culmine della crisi europea ad oggi.

Del resto, lo stesso Draghi in un recente discorso ha esplicitamente detto che la Bce «è pronta a modificare la dimensione e la composizione dei nostri interventi non convenzionali». Ciò significa che il riferimento di Draghi all’ulteriore allentamento della politica monetaria «se necessario» può segnare una svolta non meno importante di quando, con parole assai simili, egli annunciò che la Bce era pronta a fare «tutto il necessario» per salvare l’euro. I mercati ormai sanno che se la Bce annuncia misure indispensabili, poi mantiene le promesse.

Il vero problema, come la Bce non si stanca di ripetere, sono le misure di riforma e di rilancio dell’economia, che spettano ai governi e non alle banche centrali e che sono l’altro grande pilastro insieme alla politica monetaria della lotta alla recessione. Non a caso in un recente intervento tenuto alla Brookings Institution di Washington, Mario Draghi ha rievocato le posizioni di Roosevelt e Keynes nel pieno della Grande Depressione e ha affermato che il problema fondamentale è far aumentare il prodotto potenziale dei Paesi europei, caduto ai minimi storici e che nessuna politica monetaria può da sola risollevare, perché il problema dell’Europa è strutturale, non ciclico.

Oggi il prodotto potenziale dell’Europa nel suo insieme e di ciascun paese, Italia in testa, è troppo basso per assorbire la disoccupazione e per rendere sostenibile gli eccessi di debito accumulati in passato, nel settore pubblico e in quello privato. Nel nostro caso, il problema non è confinato (si fa per dire) al primo. Ormai, larghi strati di imprese, soprattutto di piccole e medie dimensioni, fanno fatica a fronteggiare con gli attuali livelli di redditività il debito accumulato negli anni, come continua a ripetere il Fondo monetario internazionale e come dimostra l’emorragia di crediti bancari di dubbia esigibilità.

Sempre a Washington Mario Draghi ha ammonito contro il rischio di un allentamento della guardia sugli impegni di bilancio dei singoli Paesi europei, che potrebbe far ripartire le tensioni del 2011. Ma ha anche detto che esistono spazi per politiche più espansive: i Paesi in regola dovrebbero usare gli spazi disponibili nel bilancio pubblico (e si spera che il messaggio non si sia perso nel tortuoso cammino fra Francoforte e Berlino) mentre quelli sotto osservazione dovrebbero tagliare parallelamente tasse e spese non produttive.

E non basta, perché Draghi ha aggiunto che i governi europei non hanno bisogno che si ricordi loro quali riforme si devono fare, perché lo sanno benissimo. In realtà, un brillante esempio di litote, cioè della figura retorica con cui si afferma qualcosa negandolo. E infatti, si fa riferimento a un altro recente intervento di un membro del Comitato direttivo della Bce, in cui si elencano puntigliosamente le riforme necessarie per aumentare la produttività e dunque il prodotto potenziale. Che non riguardano solo il mercato del lavoro, come forse qualcuno crede, ma spaziano in molti campi che vanno dagli strumenti per la ristrutturazione del debito delle imprese, alla loro ricapitalizzazione, all’aumento della concorrenza nei settori protetti.

Insomma, se occorre una terapia d’urto, questa non riguarda tanto la moneta quanto le condizioni che incidono sulla produttività delle imprese. Misure analoghe nell’intensità, certo non nel dettaglio tecnico, a quelle prese negli anni Trenta. Ma forse il problema è che dovremmo avere, non solo in Europa, più governanti che abbiano la statura politica di Franklin D. Roosevelt.

L’arma impropria del fisco europeo

L’arma impropria del fisco europeo

Adriana Cerretelli – Il Sole 24 Ore

Tra scontri e lanci di lacrimogeni, a Bruxelles ieri hanno manifestato in 100.000 contro il rigore, i tagli per 11 miliardi del nuovo governo di Charles Michel. “Le Soir”, il principale quotidiano francofono del Paese, titolava a 5 colonne: «Così il Lussemburgo aggira il fisco belga». Sta quasi tutto qui, tra le tensioni sociali anti-rigore che aumentano in tutta l’eurozona, fragilizzata da recessione, deflazione e disoccupati record, e le rivelazioni del Lux-leaks sul quasi azzeramento delle tasse a favore, non certo dei cittadini, ma delle società con sede nel Granducato, il nuovo paradigma esplosivo che potrebbe investire l’eurozona. E non risparmiare neppure la stabilità delle sue banche che proprio in Lussemburgo hanno uno dei loro “santuari ” preferiti: protetto, sia pure ancora per poco, da segreto bancario e fisco compiacente oltre che consumato artefice di finanza creativa, derivati e simili sfuggiti, come dovunque in Europa, agli esami su qualità degli attivi di bilancio e stress test che hanno nei giorni scorsi preceduto l’avvento dell’Unione bancaria europea. Ovviamente di mezzo ci sono anche l’ex-premier Jean-Claude Juncker, la nuova Commissione Ue che presiede e una possibile crisi inter-istituzionale qualora l’inchiesta in corso a Bruxelles da pura verifica circa l’esistenza o meno di illeciti aiuti fiscali di Stato si trasformasse in una valanga politica fuori controllo. Rischio remoto? Difficile dirlo.

La Commissione guidata da un altro lussemburghese, Jacques Santer, cadde per quasi niente: un favoritismo da quattro soldi al dentista del commissario francese Edith Cresson. Oggi l’eurozona è stressata da sei anni di rigore da cavallo, che in qualche paese sta riportando crescita, ma nel complesso l’ha ridotta all’area economica che nel mondo cresce meno di tutte le altre. Le cure dimagranti dei bilanci e le riforme non sono finite, al contrario sono la “condicio sine qua non” per sperare in un piano Ue di investimenti da 300 miliardi in 3 anni, in una boccata di ossigeno per la crescita europea. Tra le misure sollecitate da Bruxelles e condivise dai Governi c’è la lotta all’evasione e all’elusione fiscale: un tasto sensibile nell’immaginario collettivo perché una sorta di compensazione per i sacrifici fatti e la garanzia di equità nei confronti di tutti i contribuenti. Ma qui il terreno si fa molto scivoloso. Prima di tutto perché il Lussemburgo non è l’unico imputato di eccesso di generosità fiscale nei confronti delle multinazionali per attirarne i capitali. Gli siedono accanto, nell’inchiesta in corso, Irlanda e Olanda. E altri potrebbero aggiungersi in futuro: Gran Bretagna, Malta, Cipro e lo stesso Belgio. E poi perché i regimi societari iper-agevolati in Europa non sono affatto vietati.

I tentativi di armonizzare la pressione fiscale su questo fronte sono finora miseramente falliti, nonostante i ricorrenti assalti di Germania e Francia. Risultato: la concorrenza tra i vari sistemi fiscali è prassi lecita e consolidata, che ha tra l’altro l’implicito vantaggio di stimolare il calo della pressione in Europa: oggi supera di circa 10 punti quella degli Stati Uniti, per non parlare degli emergenti. Un evidente handicap competitivo. La questione che il nuovo responsabile Ue alla Concorrenza, la danese Margrethe Vestager, dovrà dirimere è stabilire se le agevolazioni concesse in Lussemburgo, come in Irlanda e Olanda, contengano o no aiuti pubblici illeciti in quanto distorsivi della concorrenza sul mercato interno. I bilanci nazionali affamati di risorse e il drenaggio di capitali favorito dalla globalizzazione e sempre più incontrollabile spingono i Governi Ue e Ocse a una stretta nelle regole. Le piazze in rivolta sono l’altra molla ad agire. Fino a far saltare la Commissione Juncker? «Ci sono troppi paesi in ballo nella vicenda. Ormai con le “confort letters” la Gran Bretagna batte l’Olanda» dice un esperto Ue. Molti però si chiedono come Juncker, con un passato da “vampiro” fiscale ai danni dei partner, possa oggi avere la statura morale per distribuire pagelle e sacrifici a molte delle sue vecchie vittime. Non ci fossero molti vampiri in Europa, e di tutti i tipi, il rilievo sarebbe ineccepibile. Purtroppo invece non è facile tranciare giudizi nei meandri delle troppe contraddizioni europee.

Il calo del Pil abbatte le future pensioni

Il calo del Pil abbatte le future pensioni

Vitaliano D’Angerio e Matteo Prioschi – Il Sole 24 Ore

Effetto Pil sulle pensioni. Perla prima volta dalla riforma Dini (1995), quanto messo da parte per la pensione non sarà rivalutato. Anzi. Dal “salvadanaio previdenziale” verranno invece tolti dei soldi. Il motivo è tutto in una percentuale: -0,1927 per cento. È il tasso di capitalizzazione 2014 per la rivalutazione dei montanti contributivi che viene calcolato ogni anno dall’Istat sulla base della serie storica del Pil (ultimi 5 anni). Quest’ultimo non cresce dal secondo trimestre 2011 e soprattutto sconta ancora il -5,5% registrato nel 2009. Il 27 ottobre scorso, ministero del Lavoro e Istat hanno inviato a ministero dell’Economia, Inps e Casse di previdenza un documento che sancisce il coefficiente negativo. «Si sottolinea che per la prima volta dall’entrata in vigore della legge sopra citata – si legge nel documento Istat – il coefficiente di rivalutazione risulta inferiore all’unità, a causa della dinamica negativa del Pil nominale nel periodo considerato».

Il «taglio»
La gravità del momento emerge anche dal testo della lettera. Ma che significa nel concreto?
Esempio: i 10mila euro versati fino a oggi nel corso della vita lavorativa andranno moltiplicati per 0,998073. Risultato? 9.980,73 euro. Senza dimenticare che in termini reali, e quindi al netto dell’inflazione, le pensioni contributive avevano già perso potere d’acquisto. «Decurtare una parte del montante contributivo è un fatto scandaloso – dichiara Giuseppe Romano, responsabile ufficio studi Consultique ed esperto di previdenza -. Tanto più che si arriva a tale decisione dopo l’inasprimento fiscale sulla previdenza integrativa».

Vale per tutti
Inoltre va ricordato che l’applicazione del tasso negativo riguarda tutti e non solo coloro che hanno cominciato a lavorare dopo il 1995, post legge Dini: la riforma Monti-Fornero del 2011 ha infatti stabilito il metodo contributivo pure per le persone che hanno iniziato un’attività lavorativa prima del 1995, in relazione ai contributi versati a partire dal 2012. Per questo motivo, diventa sempre più urgente la “busta arancione” ovvero l’estratto Inps con le stime della pensione attesa dal varo della riforma Dini. Il direttore generale Inps, Mauro Nori, ne ha garantito l’invio entro dicembre nella recente audizione alla commissione bicamerale di vigilanza.

Casse in movimento
Ci sono poi alcune Casse di previdenza che, in virtù della loro autonomia, hanno chiesto ai ministeri competenti di utilizzare un altro tasso di rivalutazione. È il caso dei consulenti del lavoro (Enpacl) e degli ingegneri (Inarcassa). «L’assemblea ha approvato questa modifica – spiega Alessandro Visparelli, presidente Enpacl -. Attendiamo la risposta. Agganceremo la rivalutazione al gettito contributivo complessivo della categoria. È previsto un rendimento minimo dell’1,5%». Stesso discorso per ingegneri e architetti che, dopo il via libera dei ministeri, legheranno la rivalutazione alla variazione media quinquennale del monte redditi degli iscritti. Anche qui vi è un rendimento minimo dell’1,5 per cento. A tale modifica infine vi sta lavorando pure l’Enpap, l’ente di previdenza degli psicologi: «Sì, stiamo pensando anche noi di individuare un diverso tasso di rivalutazione con la garanzia di un rendimento minimo», afferma Federico Zanon, vicepresidente di Enpap.

Fondi pensione e Tfr
Un valore minimo per il tasso di rivalutazione “generale”, invece, per il momento non è previsto da alcuna norma. A fronte del recente andamento dell’economia e delle previsioni per i prossimi anni, sarebbe opportuno un intervento legislativo che escluda la possibilità di applicare un tasso negativo, impedendo così l’erosione del montante accumulato, oppure consenta un’erosione “controllata” che nella peggiore delle ipotesi annulli le rivalutazioni degli anni precedenti ma non intacchi il capitale versato. L’applicazione di un indice negativo a un singolo anno non incide in modo consistente sulla pensione però si deve tener conto che ciò potrebbe ripetersi in futuro e che l’importo complessivo dell’assegno su cui potranno contare i lavoratori potrebbe ridursi ulteriormente quale effetto di due provvedimenti contenuti nel disegno di legge di Stabilità: l’opzione, per tre anni, di incassare subito il Tfr e l’aumento della tassazione sui fondi di previdenza complementare e le Casse dei professionisti.

L’Europa deve cambiare rotta

L’Europa deve cambiare rotta

Carlo Bastasin – Il Sole 24 Ore

Venticinque anni dopo la caduta del Muro di Berlino, l’entusiasmo di allora si è trasformato in un senso di declino che ridicolizza l’ingenuità del nostro ottimismo. L’Europa si confronta con un impoverimento demografico e una stagnazione economica che paiono così inattaccabili da valicare il nostro campo visivo ed essere infatti definiti “secolari”. Anno dopo anno, previsioni economiche come quelle pubblicate ieri da Bruxelles si degradano drasticamente, mentre la fiducia dei cittadini si inaridisce. Il fatto che anche democrazie ben ordinate ed economie solide come Germania e Francia si arrestino svela l’illusione che “fare i propri compiti di casa” sia sufficiente. Se le economie sono interdipendenti, le politiche non possono restare rinchiuse dentro i confini del consenso nazionale.

L’intero Occidente, Giappone e Stati Uniti compresi, è preda di un senso di incertezza ingigantito dal confronto con i modelli asiatici del capitalismo statale. Il contratto sociale delle democrazie liberali sembra superato. Un collega di Brookings descrive il vecchio contratto in questi termini: «Lavorando con burocrazie d’alto livello, governi democratici garantivano crescita, una costante riduzione della povertà, sicurezza fisica ed economica, nonché migliore sanità verso il sogno di Cartesio di sconfiggere la morte con la scienza». L’ottimismo economico si identificava con le finalità individuali e addirittura con il senso dell’esistenza. Non ci si può sorprendere se la disillusione di oggi è altrettanto esistenziale.

Il dramma della disoccupazione dei giovani, spesso istruiti, aperti al mondo o critici della società, evidenzia i limiti del vecchio contratto. Il calo dei redditi da lavoro sta erodendo consumi e crescita, producendo una fase senza precedenti di bassa inflazione e di alti debiti. Le aspettative di inflazione proiettano un calo dei prezzi non più su pochi mesi, ma su dieci anni. L’esempio giapponese non è isolato, negli Stati Uniti la quota del reddito che va in salari e stipendi è al livello più basso da 50 anni, le imprese accrescono la produzione senza assumere nuovi lavoratori nella fascia dei redditi medi, centrale alla tenuta del contratto sociale.

Ma mentre gli Usa hanno ritrovato un passo di crescita che pur squilibrato compra tempo alle speranze dei cittadini, l’Europa non ha alternativa che cambiare rotta. Affidarsi alla sola politica monetaria non basta. Le banche avevano un ruolo critico nel contratto, servendo l’economia secondo logiche che non erano solo di massimizzazione del profitto, ma che poi si erano piegate a interessi di consenso politico. Negli ultimi venti anni il canale finanziario ha invece assunto vita propria. Il distacco è vistoso oggi quando l’iniezione di quantità inaudite di moneta manca di ravvivare la crescita, se non nell’unico paese per il quale l’industria bancaria ha un ruolo non di servizio all’economia reale ma di industria esportatrice, la Gran Bretagna.

Per almeno 30 anni, il debito pubblico ha assorbito il potenziale latente di instabilità politica. Se in Grecia, Spagna o Portogallo era servito a comprare consenso per le nuove democrazie emerse dalle dittature, in Italia e Germania aveva anche compensato le fratture geografiche interne ai due Paesi. La tenacia tedesca nel denunciare i pericoli dei debiti pubblici, che oggi sono politicamente meno giustificati, non va dunque sottovalutata. Ma globalizzazione e tecnologia hanno stravolto le coordinate, lo spazio e il tempo, del contratto sociale.

La bassa inflazione fa crescere il valore reale dei debiti in tutta l’euro area. Il richiamo all’austerità come valore in sé non è sufficiente. La scarsa comprensione del vuoto di investimenti in Europa è una denuncia dei limiti di visione politica. La caduta del Muro aveva catalizzato la risposta politica europea: individui coraggiosi avevano aperto i confini; l’Occidente aveva riconosciuto le ragioni di investire anche materialmente nel futuro comune; lanciando l’euro, la Ue aveva assecondato l’istinto degli individui, abbattendo i confini, ampliando il mercato e accrescendo la libera circolazione. Poi le paure e le marce indietro. Un quarto di secolo dopo, l’esistenza della Ue è sfidata da chi vuole, non solo a Londra, richiudere i confini. Sentimenti xenofobi stanno dilagando.

In Francia il Fronte nazionale è il primo partito; in Germania il 44% degli elettori ritiene che il partito anti-europeo Alternativa per la Germania rappresenti l’interesse dei tedeschi. La politica si è ritirata dall’ambizione di promuovere il bene pubblico di lungo termine. È tornato il riferimento dei confini nazionali, ne è responsabile anche la gestione della crisi europea in cui a ogni Stato è chiesto prima di tutto di essere autosufficiente: “Chacun sa merde”, a ciascuno il proprio lerciume, come disse nel 2008 a proposito delle banche europee Angela Merkel, proprio il primo leader tedesco che veniva dall’altro lato del Muro. Ora il lerciume è di tutti.

Alla flexicurity servono più risorse e strategie

Alla flexicurity servono più risorse e strategie

Alessandro Giovannini e Ilaria Maselli – Il Sole 24 Ore

Riformare davvero il mercato del lavoro in Italia, non vuol dire soltanto affrontare il tabù dell’articolo 18, ma costruire un mercato del lavoro nuovo. Una sfida che sembra essere raccolta dalla legge delega, la quale prevede anche l’armonizzazione dei sussidi di disoccupazione, la riorganizzazione delle politiche attive (ispirati alle linee guida della Strategia europea per l’occupazione e al modello di flexicurity) e la creazione di un salario minimo legale. Tutti elementi cruciali per trasformare il sistema nel suo complesso e aumentare l’efficienza del mercato del lavoro, ma sul cui merito si è poco discusso.

Per esempio, non si è discusso delle coperture. Nel testo approvato al Senato si legge: «dall’attuazione delle deleghe recate dalla presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica». La legge di Stabilità prevede poi solo 2 miliardi per l’attuazione della legge delega. È credibile promettere un sistema di flexicurity a spesa praticamente invariata? Basta confrontare la situazione italiana con quella del resto d’Europa, dove il sistema già esiste, per capire che difficilmente funzionerebbe.

L’Italia ha speso all’anno, in media, per le politiche del lavoro l’1,5% del Pil a fronte di una media europea dell’1,9 per cento. Se però si divide questa spesa per i disoccupati si scopre che la spesa per le politiche del lavoro in Italia è molto lontana da quella dei Paesi della flexicurity. Nel 2012 l’Italia ha speso in media 7.800 euro per il sostegno al reddito dei disoccupati, a fronte dei 18.100 in Danimarca e 21mila in Belgio. Nello stesso anno, l’investimento medio in politiche attive è stato di 1.800 euro in Italia, 16.900 in Danimarca e 6.500 in Belgio. È realistico promettere un sistema di flexicurity senza avere un chiaro piano per le finanze pubbliche?

Oltre l’aspetto finanziario, vi è poi quello della capacità amministrativa. I centri per l’impiego italiani sono capaci di svolgere l’attività di matching tra domanda e offerta dei mercati del lavoro locali? Sono capaci di soddisfare la domanda di formazione delle aziende nei loro distretti? Se no, perché e di quali strumenti avranno bisogno? I dati arrivati finora da Garanzia giovani non sembrano incoraggianti: a più di cinque mesi dal lancio dell’iniziativa, meno del 25% dei giovani registrati sono stati presi in carico e profilati dai Centri per l’Impiego (CpI). Questo nonostante le risorse siano già disponibili (più di 1,5 miliardi di euro). Come il Jobs Act vuole intervire su questo punto? Il testo approvato al Senato prevede un’«Agenzia nazionale per l’occupazione», che riesca a superare la frammentazione territoriale dei CpI attuali. Un’agenzia composta anche da «personale proveniente dalle amministrazioni o uffici soppressi o riorganizzati». Ma queste persone sono in grado di effettuare attività di front-office o andranno a ingrossare le fila della burocrazia di questa agenzia?

Considerato che con il Jobs Act cambia radicalmente l’impianto delle politiche del lavoro, volte non più alla tutela del posto di lavoro sempre e comunque, ma orientate verso la tutela dell’occupazione in generale e del reddito in caso di disoccupazione, è bene proporre una riforma solida e credibile altrimenti l’innesto di un sistema nuovo in un sistema che già fa resistenza rischia di creare un bel nulla. Per andare in questa direzione ciò che serve è prima di tutto ricordare che la flexicurity è un pacchetto e va implementata nel suo insieme. Non ha senso infatti pensare di attuare la flexibility prima e la security poi. In secondo luogo, è importante tenere a mente che la gestione moderna delle politiche del lavoro necessita di un approccio moderno alle politiche pubbliche, fatto di progettualità, monitoraggio e formazione. Non si possono infatti trasformare i funzionari dei centri per l’impiego semplicemente cambiando il loro job title. In maniera complementare rispetto a questo, è anche necessario stanziare risorse adeguate per finanziare politiche attive e passive, cosa che aiuterebbe a superare lo scetticismo di chi teme di passare da un regime a un altro.

La lunga marcia del fisco semplice

La lunga marcia del fisco semplice

Primo Ceppellini e Roberto Lugano – Il Sole 24 Ore

La legge delega per la riforma fiscale ha prodotto il primo risultato: il Consiglio dei ministri ha varato in via definitiva il decreto legislativo sulle semplificazioni. Dall’esame dei trentasette articoli del provvedimento si capisce subito che è stato seguito un approccio minimalista: sono poche le questioni veramente importanti che sono state toccate, mentre si è scelto di “limare” alcuni adempimenti per alleggerire (leggermente) la vita delle imprese e dei professionisti.

In estrema sintesi, possiamo classificare gli interventi in tre grandi aree. Innanzi tutto, ci sono le disposizioni che incidono (in meglio) sul complesso rapporto con il fisco: sono le norme sulle società in perdita sistematica e quelle sui compensi dei professionisti. Un secondo lotto di misure è volto a rendere più snelli, senza però sopprimerli, alcuni adempimenti: si va dalle regole sui rimborsi Iva alle opzioni per i regimi fiscali alternativi, per arrivare agli elenchi intrastat, alle comunicazioni dei costi black list e alla gestione delle lettere di intento. Il terzo gruppo di novità ruota intorno alla dichiarazione dei redditi precompilata per i lavoratori dipendenti e gli assimilati: è il tema meno tecnico, visto che impatta in modo marginale sul mondo dell’impresa.

L’elenco più impressionante, però, è quello degli aspetti che non sono stati presi in considerazione dal decreto legislativo, anche se previsti dagli articoli 7 e 11 della legge delega. Nelle novità, che nella maggior parte dei casi si applicheranno dal 2015, mancano infatti la nuova Iri (l’imposizione sugli utili di imprese individuali e società di persone), la revisione della tassazione separata, la definizione dei requisiti per l’esclusione da Irap, la semplificazione delle regole per gli ammortamenti e per i costi parzialmente indeducibili, le modifiche alla tassazione delle operazioni frontaliere, la revisione della tassazione delle cessioni di azienda. Per non parlare di altri aspetti, come la riorganizzazione dei regimi contabili, che sono stati dirottati in altri provvedimenti, come il disegno di legge per la stabilità. Insomma, la conclusione è facile: la “polpa” delle semplificazioni è rimasta pacificamente fuori da questo provvedimento. Se poi ricordiamo che le altre norme di delega, a tutt’oggi ben lontane dall’attuazione, riguardano i temi ancora più complessi e importanti dell’abuso del diritto, del sistema sanzionatorio amministrativo e penale, del Catasto e dei giochi, il quadro che ne esce è piuttosto desolante.

Abbiamo fatto riferimento ad alcuni aspetti particolarmente positivi del decreto; questi meritano un approfondimento, non tanto sui dettagli tecnici, quanto piuttosto per le scelte di fondo che sono state adottate. In primo luogo, è stato rivisto il periodo di osservazione per le società in perdita sistematica: non bisogna più fare riferimento al triennio, bensì al quinquennio precedente. Ovviamente, sarà più facile trovare un periodo con un reddito positivo e superiore a quello minimo, quindi diminuiranno le ipotesi di società non operative, di interpelli da presentare, di accertamenti e di contenziosi. Ebbene, su questo aspetto è stata fatta la scelta di applicare immediatamente la novità: dopo un corretto richiamo allo Statuto del contribuente, infatti, l’articolo 18 applica la novità al periodo di imposta in corso alla data di entrata in vigore del decreto legislativo. Questo dimostra che, quando si vuole, è possibile semplificare da subito, cioè con effetti immediati.

Il secondo esempio virtuoso riguarda le norme sui professionisti, e dimostra che quando una norma è assurda può essere abrogata. Si tratta delle spese che le aziende sostengono per vitto e alloggio di professionisti esterni: oggi le aziende, dopo avere sostenuto la spesa, devono comunicarla al professionista, e questo deve esporla nuovamente nella sua fattura di consulenza; un “giro” di documenti e di adempimenti privo di qualsiasi effetto se non aumentare costi e rischi per tuti i soggetti coinvolti. Dal 2015 si torna alla normalità: l’impresa sostiene il costo e se lo deduce, e non comunica nulla al lavoratore autonomo, che rimane sollevato da assurde duplicazioni di adempimenti.

La domanda finale è ovvia: ma ci volevano tutti questi anni, una legge delega e un decreto legislativo di semplificazione per fare semplicemente “marcia indietro” ed eliminare un chiaro errore? Speriamo almeno che da questa vicenda si possa trarre un insegnamento concreto. Per esempio, proprio mentre si discuteva di soppressione di adempimenti inutili, è stata istituita la nuova comunicazione (in scadenza pochi giorni fa) per i beni concessi in godimento ai soci. È un altro caso di regola scritta male, complicata da applicare e inutile (visto che i dati possono essere richiesti semplicemente dalla dichiarazione dei redditi). C’è da augurarsi che non serva un’altra delega per cancellare anche questo.

Le famiglie italiane tornano a risparmiare: lo fa il 33% del totale

Le famiglie italiane tornano a risparmiare: lo fa il 33% del totale

Rossella Bocciarelli – Il Sole 24 Ore

«La riduzione dello stock di risparmio negli ultimi anni è stata importante e ora le famiglie stanno attivamente cercando di porvi rimedio». Il presidente dell’Acri Giuseppe Guzzetti introduce così i dati della consueta ricerca Ipsos alla vigilia della novantesima giornata del risparmio che si celebra oggi a Roma, presenti il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan e Antonio Patuelli presidente dell’Abi. Dati che, spiega, confermano come il valore del risparmio sia qualcosa di molto presente nel Dna degli italiani, soprattutto nei momenti difficili. Infatti nel 2014, per il secondo anno consecutivo, è cresciuta di quattro punti la quota di italiani che negli ultimi dodici mesi sono riusciti a risparmiare: la percentuale è passata dal 29% del 2013 al 33% attuale; contemporaneamente si è ridotta per il secondo anno di fila e in modo consistente la percentuale delle famiglie in saldo negativo di risparmio, dal 30% al 25 per cento.

Dalla ricerca Ipsos risulta anche che il mattone ha smesso di essere l’investimento ideale degli italiani. Solo il 24% continua ad essere affezionato all’investimento immobiliare rispetto al 35% del 2012 e al 70% del 2010 e la preferenza degli italiani per la liquidità è stabilmente elevata: riguarda 2 italiani su 3. Cresce invece, raggiungendo il nuovo massimo storico del 36%, la quota di chi reputa questo il momento di investire negli strumenti ritenuti più sicuri: risparmio postale, obbligazioni e titoli di stato.

Nel corso della presentazione della ricerca, al presidente dell’Acri viene anche richiesto un commento sull’esito degli stress test per le banche italiane. E Guzzetti sottolinea la solidità del sistema bancario italiano ed esprime soddisfazione per per il risultato di Intesa Sanpaolo (i dieci miliardi di eccedenza di capitale) che conferma il piano dell’ad Messina per quanto riguarda la remunerazione degli azionisti, tra cui figura la fondazione Cariplo. Ma poi non rinuncia a togliersi qualche sassolino dalle scarpe: «Abbiamo avuto 15 banche sotto esame, di queste, due già sapevamo essere in difficoltà e la loro situazione è stata conclamata ora dalla Bce» afferma. «Guardando il sistema nel suo complesso, le banche italiane si sono difese bene». Certo, aggiunge «sarebbe stato meglio ancora una volta tenere fermi i criteri di Basilea 3, invece di annacquare qualche criterio nei test e favorire qualche banca tedesca che, altrimenti, forse non sarebbe finita in testa alle classifiche».

Il riferimento del presidente dell’Acri è esplicito a Commerzbank, che ha ancora il 17% di capitale in mano pubblica, e a Deutsche Bank, che ha fatto «un aumento di 9 miliardi di euro coperto dai cinesi». Guzzetti dice di augurarsi che «i problemi di Genova e Siena» si risolvano positivamente con soluzioni nel territorio e aggiunge: «Mi hanno stupito questi due italiani che si sono difesi» a proposito dell’imparzialità e omogeneità dei giudizi della Bce sulle banche europee. Si riferisce al presidente dell’Eba, Andrea Enria e a Ignazio Angeloni, responsabile del dipartimento per la stabilità finanziaria all’Eurotower: Guzzetti non li cita per nome ma conferma trattarsi di loro rispondendo ad un domanda diretta dei cronisti. «Queste dichiarazioni – afferma – mi hanno ricordato il detto excusatio non petita…»

Un mercato del lavoro a due facce

Un mercato del lavoro a due facce

Riccardo Sorrentino – Il Sole 24 Ore

L’economia cresce, ma la popolarità del presidente Barack Obama è puttosto bassa. Sembra essersi interrotto il legame tra l’andamento dell’economia e il consenso per l’Amministrazione federale. Cosa è accaduto? Sono molte le cause della disaffezione degli americani per Obama, e alcune sono tutte politiche. Il presidente ha giocato tutto sulla creazione delle aspettative, le quali a volte possono davvero essere più importanti delle politiche concrete, purché si conservi credibilità. Gli americani si aspettavano un nuovo patto sociale, ma l’Amministrazione ha fatto troppo poco. Ha varato Obamacare, l’ampliamento del sistema sanitario pubblico, ma non è bastato.

E l’occupazione in crescita, la ripresa ormai stabile, l’uscita dalla crisi? I numeri non ingannino. Gli Stati Uniti, visti dagli europei, sono in una posizione invidiabile, ma gli americani non sono contenti. La disoccupazione è calata al 5,9%, ma a fine 2013 – l’ultimo dato disponibile – solo il 72,5% degli americani in età di lavoro aveva o cercava attivamente un’occupazione: è un numero piuttosto basso, il minimo dal 1980. Per i più giovani – 15-24 anni – la partecipazione era intanto ai minimi dal 1963, al 54,8%, e il 45% che non lavorava non era composto da persone che continuavano tutte a studiare: il numero degli scoraggiati è alto anche negli Usa, dove la disoccupazione giovanile è ancora al 13,5%, sia pure in calo dal 19,5% di agosto 2010.

Il malessere del mercato del lavoro non finisce qui. Negli Stati Uniti le protezioni al posto di lavoro sono limitate – e dipendono da Stato a Stato, da azienda ad azienda – ma il precariato è considerato un’anomalia. Nell’attuale situazione, molte persone chiedono un lavoro a tempo pieno, ma trovano solo part-time. Questo disallineamento tra domanda e offerta è considerato un problema, per esempio dalla Federal reserve che anche per questo motivo continua a mantenere una politica monetaria comunque molto espansiva, anche se la crescita appare quantomeno stabile. È anche a livelli molto alti il numero delle persone che cercano attivamente lavoro da più di sei mesi, o un anno, e non lo trovano. Anche la disoccupazione di lungo periodo è considerata un’anomalia, perché distrugge capitale umano: più passa il tempo, più le competenze delle persone si perdono e più le aziende sono disincentivate ad assumerle. Un fenomeno che negli ultimi tempi si è particolarmente accentuato.

Se la Fed, che in fondo deve occuparsi di questioni monetarie, è preoccupata, a maggior ragione dovrebbe esserlo la politica, e l’Amministrazione in particolare. Una buona parte dei problemi dell’occupazione americana sono strutturali: negli Usa più che altrove, c’è un forte disallineamento tra le competenze offerte dai lavoratori e quelli richiesti dalle aziende (che cercano invano, per esempio, muratori e camionisti, non solo superlaureati…). Un problema che richiederebbe politiche molto ben disegnate, e non sempre immediate nei loro effetti.