il tempo

Serve efficienza e meno imposte

Serve efficienza e meno imposte

Raffaello Lupi – Il Tempo

Il tax day di metà dicembre della tassazione immobiliare c’è da anni, ma è diventato intollerabile per una serie di fattori concomitanti. Agli inasprimenti del governo Monti si sono infatti aggiunte la crisi economica, la diminuzione dei valori immobiliari, la difficoltà di trovare inquilini affidabili, la diminuzione dei redditi familiari, sempre meno in grado di fronteggiare le spese fisse immobiliari, come il condominio, le utenze, le riparazioni. Per questo appare assurdo l’aumento automatico delle tasse comunali sugli immobili per controbilanciare i tagli dei trasferimenti dello Stato ai Comuni. Tagliare dalla porta (statale) e tassare dalla finestra comunale contraddice la diffusa percezione sociale degli sprechi nei bilanci comunali, confermata dai recenti scandali romani. Gli stessi Comuni sono le entità più qualificate per individuare e ridurre questi sprechi, senza ripararsi dietro il fantomatico ricatto di «tagliare i servizi».

Dietro tante spese comunali non ci sono affatto servizi, ma uffici con spese per affitti, utenze e personale, di cui non si capisce esattamente l’efficienza, in un pozzo senza fondo che «si auto-produce», e dove ci sono ampi margini per fare lo stesso con meno spesa. La domanda sociale di razionalizzare la spesa comunale non può essere elusa con aumenti di tributi. È un obiettivo raggiungibile solo con assunzione di responsabilità degli amministratori e con la loro disponibilità ad un rischio calcolato. Tante spese inutili infatti servono solo a coprire le spalle ai responsabili nell’ipotesi che qualcosa dovesse andare storto. In quest’ipotesi è importante che la pubblica opinione, e i mezzi di informazione, sostengano chi si assume qualche rischio in nome dell’efficienza.

Ecco chi ha abbassato (davvero) le tasse

Ecco chi ha abbassato (davvero) le tasse

Filippo Caleri – Il Tempo

Sono passati 24 anni dal governo Andreotti sesta versione. Ma agli italiani, salvo qualche eccezione, la sequenza di 10 presidenti del Consiglio che si sono succeduti dal 1990 a oggi non ha regalato nulla: le tasse sono sempre aumentate. La fetta della ricchezza nazionale lasciata al fisco è salita nel periodo considerato dal 38,2% al 43,3%. Un salto di 5 punti percentuali che si è tradotto in nuovi balzelli dai nomi variegati e innovativi come la sequenza infernale che dall’Ici arriva all’Imu senza cambiare però nulla dal punto di vista della vessazione fiscale sugli immobili. Per non parlare poi delle addizionali regionali e comunali. Nate per impostare il federalismo fiscale a somma zero ovvero tasse più alte in periferia con contestuale riduzione al centro e che puntualmente hanno confermato il loro valore di prelievi aggiuntivi e basta. In Italia dunque il risultato è sempre lo stesso: gli italiani sono stati considerati dai loro governanti sempre meno come cittadini e sempre più come sudditi da spremere. I dati analizzati da Il Tempo sono tutti quelli del conto consolidato Istat tranne quelli di Renzi che arrivano dal Def.

Il re dei tassatori
Chi più, chi meno, tutti alla fine hanno bastonato gli italiani. Lo scettro del più rapace in termini di imposizione spetta a uno solo: Romano Prodi che nel corso dei suoi due governi non ha avuto pietà dei contribuenti. Nella prima esperienza a Palazzo Chigi, dal 1996 al 1998, la pressione fiscale è passata dal 41,4% al 42,2%. Non senza passare per un ben pesante 43,4% nel 1997. L’aumento cumulato alla fine del suo mandato è stato dunque di un +1,3%. La medaglia d’oro nella classifica gli spetta perché anche alla seconda prova governativa, e cioè dal 2006 al 2007, Prodi ha portato il carico fiscale dal 40,1 al 42,7%. Con uno spettacolare incremento di 2,6 punti in soli due anni. A contendergli il primato l’ex premier Giuliano Amato. L’uomo che nel settembre 1992 avviò la prima manovra lacrime e sangue e mise in una notte le mani nei conti correnti degli italiani. In un sol colpo fece impennare il peso complessivo del fisco dal 39,2% al 41,7 del Pil. Un salto di 2,5 punti. Indimenticabile. Anche il successore non fu da meno. Ciampi aumentò le tasse di un altro punto percentuale. Era il 1993.

Mai così in alto
Non c’è dubbio che l’uomo che resterà impresso nella memoria degli italiani come quello che ha chiesto loro di più in un solo colpo è stato l’ex premier Mario Monti. L’uomo della provvidenza chiamato dall’emergenza a salvare l’Italia fece il capolavoro. Prese l’Italia già sotto pressione con un fisco al 42,5% del Pil nel 2011 e riuscì, a colpi di Imu, a portare l’asticella dove mai nessuno aveva osato: 44% dunque 1,5 punti di Pil sottratti dal fisco in meno di 365 giorni.

Mano leggera
A qualcuno, però, la sorte del portafoglio degli italiani è sempre rimasta a cuore al punto da arrivare al governo e mettere in campo una severa riduzione fiscale. Il primo nome è quello più ovvio da immaginare. E cioè quello di Silvio Berlusconi che, sulla rivoluzione del fisco, ha puntato il suo successo politico. Il suo miracolo avvenne nel 1994. Arrivato al comando pretese e portò a termine un taglio fiscale «monstre». Dal 42,7 del governo Ciampi si arrivò al 40,6%. La pressione fu tagliata del 2,1%. Ancora di più il Cavaliere fece nel 2005 facendo arrivare le pretese del fisco al 40,1%. Un record. Ma anche il suo concorrente dell’epoca non fu da meno. D’Alema nei 2 anni di esecutivo fece scendere il peso del fisco di quasi un punto.

Renzi al palo
Nonostante gli annunci, anche il premier attuale mantiene una considerevole posizione tra i tassatori. Nel Documento economico e finanziario più aggiornato la pressione fiscale con lui resta al 43,3% del Pil.

Lavoriamo per le tasse 158 giorni all’anno

Lavoriamo per le tasse 158 giorni all’anno

Filippo Caleri – Il Tempo

Benvenuti nella nuova schiavitù. Quella del lavoro, che invece di tramutarsi in contanti e ricchezze per le famiglie di coloro che la mattina alzano la serranda o si siedono alla scrivania, fa sì che i frutti del sudore vadano in buona parte al socio occulto di ogni cittadino della Repubblica. E cioè allo Stato italiano. Che si mette nel cassetto tutti i guadagni maturati nei primi 158 giorni dell’anno. Moneta sonante che, arrivata nelle casse statali, non si trasforma però in servizi di livello adeguato per un Paese civilizzato. Oltre al danno anche la beffa, dunque.

I conti della schiavitù fittizia introdotta subdolamente nel nostro Paese li ha fatti la Cgia di Mestre e confermano che «nel 2013 i contribuenti italiani hanno lavorato per il fisco fino al 7 giugno, vale a dire 9 giorni in più rispetto alla media registrata nei Paesi dell’area dell’euro e ben 13 se, invece, il confronto viene realizzato con la media dei 28 Paesi che compongono l’Ue». L’Italia si conferma così una Repubblica basata sul lavoro. E sulle tasse.In sintesi lo scorso anno per pagare le tasse e le imposte allo Stato gli italiani hanno dedicato 158 giorni di lavoro. Un record storico già uguagliato però nel 2012.

Nell’area euro solo i francesi, con 174 giorni, i belgi, con 172 e i finlandesi, con 161, hanno sopportato uno sforzo fiscale superiore al nostro. Ma forse a giudicare dalle classifiche di vivibilità i soldi lì garantiscono livelli di servizi molti più elevati dei nostri. Il destino di pagatori di tasse per metà annio è comunque comune a tutti gli europei. Magra consolazione. «La media dell’area dell’euro si è stabilizzata infatti a 149 giorni, mentre quella relativa ai 28 Paesi dell’Ue è stata di 145 giorni» spiega l’associazione degli artigiani di Mestre. Tra i nostri più diretti concorrenti solo la Francia presenta un dato peggiore del nostro (174 giorni), mentre in Germania il cosiddetto «tax freedom day» scatta dopo 144 giorni, in Olanda dopo 136 giorni e in Spagna dopo 123 giorni.

Come si sono ottenuti questi risultati? L’Ufficio studi della Cgia ha preso in esame il Pil nazionale dei singoli Paesi registrato nel 2013 con la nuova metodologia di calcolo adottata dall’Eurostat (Sec 2010) e lo ha suddiviso per i 365 giorni dell’anno, ottenendo così un dato medio giornaliero. Successivamente, ha considerato il gettito di contributi, imposte e tasse che i contribuenti europei hanno versato al proprio Paese e lo ha diviso per il Pil giornaliero. Il risultato di questa operazione ha consentito di calcolare il giorno di liberazione fiscale di ciascuna nazione presente in Europa. «A esclusione del Belgio – osserva il segretario Bortolussi – tutti i paesi federali presentano una pressione fiscale molto inferiore alla nostra, con una macchina statale più snella ed efficiente e un livello dei servizi offerti di alta qualità. Pertanto, è necessario riprendere in mano il federalismo fiscale, definire ed applicare i costi standard per abbassare gli sprechi e gli sperperi e, nel contempo, ridurre le tasse di pari importo».

L’ufficio studi della Cgia che è guidata da Giuseppe Bortolussi ha ricostruito, grazie alla nuova metodologia Sec 2010, la serie storica del giorno di liberazione fiscale in Italia dal 1995 al 2013. Ebbene, se dalla metà degli anni ’90 (147 giorni) fino al 2005 (143 giorni) i giorni di lavoro necessari per onorare il fisco hanno sub’to una progressiva riduzione, successivamente sono aumentati sino a toccare il record storico nel 2012 (158 giorni), poi bissato anche nel 2013.

Tasse giù di 3 miliardi, ma solo per pochi

Tasse giù di 3 miliardi, ma solo per pochi

Laura Della Pasqua – Il Tempo

Nel 2014 le tasse caleranno di 3 miliardi. Potrebbe sembrare una bella notizia quella della Cgia ma se andiamo a guardare nel dettaglio emerge che non solo è come una goccia nel deserto giacché la pressione fiscale resta elevatissima (il 43,3%) ma il taglio irrisorio interessa comunque una fascia di contribuenti circoscritta. La Cgia mette in evidenza che quest’anno la riduzione delle impose sarà pari a 11,8 miliardi di euro a fronte di aumenti per 8,7 miliardi. Queste cifre scaturiscono dal confronto tra le varie misure fiscali che hanno avuto impatto economico nel 2014.

Guardando nel dettaglio emerge che hanno beneficiato del taglio delle tasse soprattutto i redditi bassi mentre il ceto medio ne è rimasto escluso. Anzi è proprio questa fascia che ha subito i maggiori rincari. Tra le riduzioni di imposta avvenute nel 2014, la Cgia segnala il bonus di 80 euro voluto dal governo Renzi (misura pari a 6,6 miliardi di euro), il bonus Letta, che ha incrementato le detrazioni Irpef per i lavoratori dipendenti a basso reddito (sgravio da 1,5 miliardi di euro), l’eliminazione della maggiorazione Tares (1 miliardo di euro), la riduzione dell’aliquota della cedolare secca (1 miliardo di euro) e la deduzione del 30% dal reddito di impresa dell’Imu applicata sugli immobili strumentali (714 milioni di euro). Per contro, invece, tra i principali aumenti fiscali avvenuti quest’anno la Cgia registra l’introduzione della Tasi (3,8 miliardi di euro di gettito), la crescita della tassazione delle rendite finanziarie (720 milioni di euro di gettito), l’incremento dell’imposta di bollo sul dossier titoli (627 miliardi di euro) e la riduzione della deduzione forfetaria dei redditi derivanti dai contratti di locazione (627 milioni di euro).

Ad essere colpita dal fisco, come emerge chiaramente, è soprattutto la casa. La Tasi, l’imposta sui servizi indivisibili, è una specie di Imu dal momento che colpisce anche la prima casa ed è risultata più alta della vecchia imposta immobiliare non avendo la detrazione fissa di 200 euro e quella per ogni figlio sotto i 26 anni. Secondo i calcoli della Cisl il salasso maggiore l’hanno avuto coloro che hanno un’abitazione principale con rendita catastale bassa, fino a 300-500 euro. Più piccola è la casa, maggiore è la differenza rispetto all’Imu. Per gli immobili con rendita catastale di appena 300 euro, la nuova tassa sui servizi risulta più cara in 11 città, mentre in soli 4 centri urbani era più alta la vecchia imu sulla prima abitazione. Solo in 5 capoluoghi su 20, invece, i due balzelli sulla casa risultano equivalenti.

Secondo la Cgia «la stabilizzazione del bonus Renzi, gli sgravi contributivi per i neoassunti a tempo indeterminato e il taglio dell’Irap dovrebbero avere il sopravvento sugli aumenti di imposta previsti sui fondi pensione, sull’incremento della tassazione sul Tfr, e sull’incremento delle accise sui carburanti che scatterà dal prossimo 1° gennaio». «Era da molto tempo che ciò non accadeva – osserva il segretario della Cgia Giuseppe Bortolussi – A far pendere l’ago della bilancia a favore dei contribuenti italiani è stato il bonus fiscale introdotto nella primavera scorsa dal Governo Renzi. In linea di massima possiamo affermare che i maggiori benefici economici, come era giusto che fosse, sono andati ai redditi medio bassi, mentre quelli superiori non hanno ancora fruito di nessun sollievo fiscale. Nonostante ciò, il carico fiscale complessivo rimane ancora molto elevato. Purtroppo, la contrazione del Pil continua ad essere superiore alla diminuzione del gettito: pertanto, la pressione fiscale non si abbassa».

E per far fronte al caro imposte in molti pensano di farsi anticipare il Tfr in busta paga. Secondo un’indagine realizzata da Confcommercio-Imprese, un lavoratore su cinque, nelle imprese fino a 49 addetti, è pronto a chiedere il Tfr in busta paga. Un’intenzione che sta maturando soprattutto tra i dipendenti di sesso maschile, giovani, single che vivono nella famiglia d’origine, con un’età compresa tra i 25 e i 34 anni d’origine, e un’ampia maggioranza (il 60%) conta di utilizzare l’anticipo della liquidazione per consumi e per fronteggiare spese ritenute necessarie mentre il 40% circa vuole depositarlo in banca come fondo per le emergenze. Si tratta di un’operazione che coinvolgerà circa 300 mila imprese e, per molte, non sarà certo indolore visto che comporterà un aggravio della loro capacità finanziaria.

Lo Stato paga i debiti vecchi, ma non è ancora puntuale: lo stock resta di 74 miliardi

Lo Stato paga i debiti vecchi, ma non è ancora puntuale: lo stock resta di 74 miliardi

Il Tempo

Lo Stato paga i debiti vecchi ma non quelli nuovi. Con il risultato che lo stock di fatture non saldate ai fornitori è rimasto pressocché invariato. A spiegare che il vizietto dei pagamenti lunghi è rimasto una consuetudine nella pubblica amministrazione è il Centro Studi “ImpresaLavoro”. I debiti commerciali si rigenerano con frequenza, dal momento che i beni e servizi vengono forniti in un processo di produzione continuo e ripetitivo. Lo stock di debito commerciale si modifica così continuamente, dal momento che ogni giorno vengono liquidati debiti pregressi e al tempo stesso ne sorgono di nuovi. Liquidare i debiti pregressi di per sé non riduce pertanto lo stock complessivo dei debiti commerciali: questo può avvenire soltanto nel caso in cui i nuovi debiti creatisi nel frattempo risultano inferiori a quelli oggetto di liquidazione. Una condizione che non potrà crearsi fino a quando il livello di spesa della pubblica amministrazione e i suoi tempi medi di pagamento (che al momento sono di 170 giorni) non subiranno una drastica diminuzione.

«Nel caso concreto – dichiara Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi “ImpresaLavoro” – stimiamo che dall’inizio del 2014 a oggi siano già stati consegnati alla Pubblica amministrazione italiana beni e servizi per un valore di circa 113,5 miliardi di euro e che di questi, in forza dei tempi medi di pagamento della nostra PA, ne sarebbero stati pagati soltanto 40 miliardi. Con la logica conseguenza che, nonostante le promesse del governo Renzi, lo stock complessivo del debito della PA rimane invariato nel suo livello e cioè pari a 74 miliardi di euro circa». Vanno ricordati in particolare due aspetti: i debiti di cui parla Renzi sono quelli maturati entro il 31 dicembre 2013. Solo per questi, infatti, è possibile per le imprese chiedere la certificazione e la relativa liquidazione di quanto dovuto. Già su questa cifra occorre dire che “ImpresaLavoro”, incrociando il dato della spesa per beni e servizi e quello dei tempi di pagamento, aveva stimato uno stock di debiti di 74 miliardi di euro. Siccome ne sono stati rimborsati “solo” 32,3 (su uno stanziamento complessivo di 40), possiamo senza dubbio affermare che la promessa di Renzi non è stata mantenuta. Non solo: mentre questo processo era in corso, come detto, la PA continuava ad accumulare debito. Nessun indicatore oggi a disposizione ci permette di dire che vi è una diminuzione dei tempi di pagamento. Ciò significa che lo stock complessivo del debito è ad oggi invariato a 74 miliardi. E le imprese che non ricevono il loro saldo in tempo sono costrette ad andare in banca e a pagare 6 miliardi in più complessivamente di interessi.

Bomba Tfr nascosta nei conti pubblici

Bomba Tfr nascosta nei conti pubblici

Filippo Caleri – Il Tempo

C’è una bomba a orologeria sarebbe piazzata nella legge di Stabilità. Si tratta della riforma del Trattamento di fine rapporto (Tfr) che consentirà, a provvedimento approvato, di ottenere mensilmente in busta paga il tradizionale accantonamento fatto dalle aziende e da corrispondere a fine vita lavorativa. Se messo nel salario la somma che si percepisce sarà sottoposta a tassazione ordinaria, e non con le aliquote ridotte come quando viene liquidato alla fine della carriera lavorativa.

Sulla base di questo maggiore gettito registrato nella legge di Stabilità presentate dal governo Renzi e che rappresenta coperture per la rifduzione della tasse, la Confesercenti ha fatto due conti e, sulla base di un sondaggio affidato alla Swg, ha stimato che coloro che usufruiranno della facoltà concessa sono molti meno rispetto alle stime dei tecnici del Tesoro. Per questo basandosi sulla proiezione dei dati, l’associazione dei commercianti ha stimato che il gettito Irpef generato dalla maggiore tassazione sarebbe di un miliardo di euro, circa 1,5 miliardi in meno di quanto previsto dalla relazione tecnica alla Legge di Stabilità. Insomma a conti fatti il buco che si potrebbe aprire nei conti pubblici se il comportamento dei salariati replicherà le intenzioni espresse nell’analisi, sarebbe proprio di circa un miliardo. Somma che a quel punto dovrebbe essere recuperata con maggiori tagli alla spesa, difficili da portare a termine, oppure con nuove tasse. Si tratta di un rischio non ancora evidente, che si concretizzerà solo nel 2015, cioè a partire dal prossimo primo gennaio quando la scelta sulla destinazione del proprio accantonamento sarà possibile.

L’analisi delle risposte date dagli intervistati non lascia, però dubbi su quali siano le intenzioni dei lavoratori. Secondo il sondaggio delle Confesercenti solo il 18% dei dipendenti privati italiani, dunque circa due su dieci, sceglierà di avere il Tfr in busta paga, a fronte del 67% che invece continuerà a lasciare accumulare il suo trattamento di fine rapporto nell’impresa in cui lavora o nei fondi negoziali di categoria quando le pianta organica supera la soglia dei 50 dipendenti. Un segnale che dimostra, anche nella recessione, il rapporto di fiducia che intercorre tra i lavoratori dipendenti e le loro imprese. Infine 15% di dipendenti, invece, ancora non ha deciso. Non mancano i timori delle imprese. Il 64% degli imprenditori teme che, se tutti o la maggior parte dei dipendenti scegliessero di avere il Tfr su base mensile, l’azienda avrebbe difficoltà con la liquidità disponibile, a fronte di un 36% che, invece, non avrebbe problemi. Gli ostacoli sembrano nascere dagli impedimenti che le imprese incontrano nell’ottenere prestiti e finanziamenti dal canale bancario, segnalati dal 66% degli imprenditori.

Hanno già scelto di usufruire della possibilità introdotta dalla legge di stabilità soprattutto le persone di età compresa tra i 35 e i 44 anni (21%), seguiti dai giovani fra i 18 ed i 24 (19%). Lo lasceranno in azienda, invece, soprattutto le persone più vicine alla fine del rapporto lavorativo: non lo toccheranno principalmente coloro tra i 55 e i 64 anni (72%) e tra i 45 ed i 54 (70%). Tra i lavoratori che hanno intenzione di richiedere il Tfr su base mensile, la maggior parte è ancora incerta su come utilizzare la liquidità in più (44%). Le indicazioni del sondaggio della Swg-Confesercenti lasciano poco spazio alla tesi che l’effetto espansivo sui consumi del Tfr, ottenuto dai dipendenti, possa consentire allo Stato di recuperare il prevedibile gettito perso grazie alla tassazione indiretta, e cioè l’Iva, sui maggiori acquisti indotti dall’aumento delle disponibilità finanziarie nelle tasche dei lavoratori. Se nel 2015 le indicazioni date dagli intervistati dovessero rimanere invariate, l’Ufficio Economico Confesercenti stima un effetto espansivo modesto sulla spesa, con un incremento, a fine 2015, di 380 milioni, pari allo 0,1% dei consumi commercializzati. Troppo poco.

Tre milioni di fantasmi nei sindacati

Tre milioni di fantasmi nei sindacati

Nicola Imberti – Il Tempo

Quando si parla dei numeri del sindacato, bene che vada, si finisce in tribunale. Oppure, come capitato ieri con l’accusa lanciata dall’eurodeputata Pd Pina Picierno nel salotto televisivo di Agorà, si scatena la solita e annosa polemica che ruota attorno ad una semplice domanda: quanti sono veramente i lavoratori iscritti? I numeri, come ha spiegato la Cgil, non sono segreti. Basta visitare i siti delle tre principali confederazioni per sapere che, nel 2013, il sindacato guidato da Susanna Camusso contava 5.686.201 tesserati (26.432 in meno del 2012), la Cisl 4.372.280 (-70.470), la Uil 2.206.181 (+9.739). Ma a questo punto si insinua il dubbio: sono tutti veri?

Rispondere non è semplice. Ci provò due anni fa la Confsal, Confederazione generale dei sindacati autonomi dei lavoratori, che, dati alla mano, lanciò un’accusa non molto distante da quella di Picierno. L’analisi prendeva come base di riferimento gli iscritti 2010 delle cinque confederazioni principali: Cgil, Cisl, Ugl, Uil e Confsal. In totale 16.671.308 lavoratori. Le prime anomalie riguardavano i pensionati. Secondo l’Inps (numeri certificati al 1° gennaio 2012) quelli tesserati dalle cinque sigle sindacali ammontavano a 4.907.363. Aggiungendo quelli Inpdap (427.517) e i 347.195 di altri istituti si arrivava a un totale di 5.682.075. Peccato che Cgil & Co. avessero dichiarato 6.957.126 pensionati iscritti. Esattamente 1.275.051 in più dei dati ufficiali.

Non andava meglio con gli altri lavoratori. Anche se qui, purtroppo, bisognava affidarsi a stime e dati più o meno ufficiali. Come quello che indicava nel 33,8% il tasso medio di sindacalizzazione in Italia. Confsal fissa in 19.650.000 gli impiegati nel settore privato. Applicando il tasso di riferimento elaborava che 6.641.700 di questi erano iscritti al sindacato. Ma anche qui le confederazioni ne avevano dichiarati quasi due milioni in più, esattamente 8.623.585. Una semplice somma ed ecco il risultato choc: esisteva uno scarto di 3.240.051 lavoratori tra quelli dichiarati e quelli che figuravano nelle statistiche ufficiali e certificate. Oltre 3 milioni di «fantasmi» di cui nessuno continua a parlare.

Certo, qualcuno può obiettare che lo studio della Confsal si riferisce a due anni fa. Ma la verità è che ad oggi quella denuncia è rimasta sostanzialmente inascoltata. Erano numeri che avrebbero dovuto aprire una riflessione. Soprattutto perché, in alcuni casi, la discrepanza tra i pensionati «dichiarati» e quelli «certificati» registrava percentuali significative come il +91,08% dell’Ugl (che attaccò duramente lo studio), ma anche un +8,34% della stessa Confsal.

Invece nulla è cambiato. Basta dire che poco meno di un mese fa si è conclusa, con l’assoluzione di tutti gli imputati, una vicenda che sembra confermare le oscure manovre attorno alle tessere sindacali. Una vicenda iniziata nel 2009 quando i carabinieri di Piacenza, dopo un esposto dell’allora segretario Cgil Gianni Coppelli, avevano scoperto che 129 persone erano iscritte a loro insaputa allo Spi-Cgil, il sindacato dei pensionati, subendo ogni mese un prelievo di 6-7 euro (tra di loro anche la madre del giudice per le indagini preliminari). Nel mirino dei magistrati erano finite 5 persone, ma alla fine il pm ne ha chiesto l’assoluzione perché «non è stato possibile stabilire con chiarezza chi abbia iscritto i pensionati». E Piacenza non è l’unico caso di tesseramenti anomali. Lo scorso marzo la Cgil di Grosseto è stata costretta a diramare una nota in cui spiegava di non avere nulla a che fare con dei «tentativi di truffa» in cui qualcuno, non si sa bene chi, cercava di vendere tessere false ad anziani.

Insomma, anche se è difficile capire quanto sia realmente esteso, il problema esiste. E molto spesso, come nel caso di Piacenza, è la stessa Cgil a denunciare che qualcosa non va. Altre volte, invece, se qualcuno come Picierno si azzarda a pronunciare la parola «tessere false» esplode la polemica. E intanto, sullo sfondo, restano 3 milioni di «fantasmi» di cui nessuno vuole parlare.

La nuova sfida dei lavoratori

La nuova sfida dei lavoratori

Maurizio Sacconi – Il Tempo

Poco tempo fa un grande leader del sindacato nord americano ha assegnato alle organizzazioni che rappresentano gli interessi dei lavoratori la elementare ma efficace missione di «fare ceto medio». Ed ha aggiunto che il maggiore benessere può essere conquistato dai lavoratori non soltanto ottenendo una migliore distribuzione della ricchezza una volta prodotta ma concorrendo responsabilmente alla sua stessa produzione. «La soddisfazione del cliente – ha ancora affermato – è affare anche nostro e non solo di chi possiede o dirige l’impresa». È una bella lezione per il sindacato italiano che in alcune sue componenti continua ad avere l’obiettivo «di cambiare il mondo» nella convinzione che il mondo stesso cammini sulla base di un fertile conflitto tra classi sociali contrapposte.

È evidente invece che nella competizione globalizzata i lavoratori sono chiamati certamente a condividere il rischio d’impresa per i suoi profili negativi e devono avere per questo l’ambizione di voler partecipare di quello stesso rischio anche per la buona sorte. Il salario, definita per legge una sua dimensione minima, può e deve essere sempre più negoziato quindi nella dimensione dell’azienda ancorandolo alla produttività, ai risultati, agli utili. E la stessa azienda può configurarsi sempre più come una comunità di persone che si riconoscono e si accettano in relazione ad un destino comune, sostenuto anche da istituti integrativi di protezione sociale dei lavoratori e delle loro famiglie.

In questa dimensione il sindacato non ha più titolo a poteri di veto su norme di legge o su politiche pubbliche. Esso si esprime liberamente e liberamente viene ascoltato insieme a tutti gli altri corpi intermedi che rappresentano interessi. La riforma del lavoro sarà l’occasione per dimostrare che governo e Parlamento ascoltano tutti ma responsabilmente decidono nella loro autonomia istituzionale per un mercato del lavoro inclusivo, nel quale l’occupabilità di ciascuno è la conseguenza del diritto di accedere alle conoscenze e alle competenze e non di un freddo articolo di legge.

Nuove tasse? Prima le Regioni taglino gli sprechi

Nuove tasse? Prima le Regioni taglino gli sprechi

Daniele Di Mario – Il Tempo

C’è chi le difende e chi le attacca. Chi ne sottolinea gli sforzi di risanamento e abbattimento delle spese e chi invece ne ricorda gli scandali. Lo scontro politico sulle Regione prosegue, così come il dibattito sulla legge di stabilità. I governatori restano in trincea, nonostante l’apertura di Debora Serracchiani, vicesegretario del Pd e governatrice del Friuli che invita a valutare la manovra «nel suo complesso», ma ammonisce: «Siamo tutti chiamati con responsabilità ad azioni di governo, anche in Friuli Venezia Giulia abbiamo messo mano a molte sacche di improduttività, constatando che la razionalizzazione della spesa ha margini di miglioramento».

Perché il nodo alla fine è sempre quello: tagliare. Non i servizi, non la sanità, ma gli sprechi. E le Regioni italiane ne abbondano, nonostante nell’ultimo biennio dopo i vari scandali che hanno interessato un po’ tutti i Consigli d’Italia, abbiano intrapreso un percorso di revisione di una spesa che complessivamente ammontava a 131 miliardi e che conteneva dentro di tutto, dagli studi per le trote ai consulenti per la neve, il salvataggio delle biblioteche in Mauritania e le auto blu. I Consigli regionali hanno fatto la loro parte, riducendo i compensi dei consiglieri, tagliando gruppi e commissioni, abolendo i vitalizi. Ma sarebbe disonesto negare che le Regioni potrebbero fare di più, mettendo mano ad esempio a società partecipate ed enti (comunità montane, enti parco, unioni di comuni, università agrarie), riducendo gli assessori esterni, razionalizzando le spese per una sanità spesso fuori controllo, tagliando dirigenti e ruoli apicali. Le Regioni spendono complessivamente molto più dei Comuni e del Parlamento e rappresentano circa un terzo della spesa pubblica italiana. Ma la questione afferisce al più generale e cronico problema del regionalismo italiano.

Il ministro per gli Affari Regionali Maria Carmela Lanzetta è netta: «Il periodo è molto complesso, dobbiamo tutti quanti rinunciare a qualcosa, riorganizzarci per favorire l’assunzione di giovani nelle aziende, che mi sembra una buona risposta alla crisi». Ma Stefano Fassina – che parla di «tagli drastici, orizzontali, insostenibili a servizi fondamentali» – contrattacca: «Capisco le posizioni dei presidenti delle Regioni, che non sono estremisti antirenziani: sono solo attenti ai servizi che devono tagliare o alle tasse che debbono aumentare». Il governatore del Piemonte e presidente della Conferenza delle Regioni Sergio Chiamparino apre ufficialmente la trattativa col governo: «Da Renzi andiamo con delle proposte concrete, che non toccano i quattro miliardi ma che li articolano in modo tale da consentire di reggerli. La polemica è inevitabile, ma è indispensabile un incontro per raggiungere l’obiettivo. Il premier ha ragione quando dice che ci sono tanti sprechi da eliminare, ci sono delle cose da migliorare come le società partecipate, ad esempio. E poi parliamoci chiaro, è anche vero che sugli sprechi, come diceva il Vangelo, chi è senza peccato…». E Paola De Micheli, vicepresidente vicario del gruppo Pd alla Camera difende i governatori: i tagli di 4 miliardi alla Regioni «sono un fattore di preoccupazione per le possibili ripercussioni su alcuni servizi ai cittadini».

Ma la materia è delicata. Fabrizio Cicchitto (Ncd) chiede alle Regioni di darsi un taglio, mentre in FI non c’è univocità di giudizio. Giovanni Toti e Raffaele Fitto si trovano finalmente d’accordo su una cosa: la difesa degli enti locali. Mentre Maria Stella Gelmini dice nettamente che «il taglio di 4 miliardi ai trasferimenti non può diventare l’alibi per i presidenti delle Regioni di aumentare le tasse locali o i ticket nella sanità. È il tempo della responsabilità. Le Regioni devono trovare il grasso che cola dai loro apparati burocratici, e ne hanno ancora tanto, prima di pensare a mettere le mani nelle tasche dei cittadini». Già, ma loro, i governatori, restano sull’Aventino. Stefano Caldoro (Campania) usa Twitter per ricordare a Renzi i tagli effettuati e propone di sciogliere le Regioni per varare le macroaree. Roberto Maroni (Lombardia) attacca: «Non sarà l’esecutore testamentario, il killer, della Regione più virtuosa d’Italia. Renzi vuol riportare le Regioni a com’erano negli anni Settanta». «Da quale cattedra viene la lezione sugli sprechi delle Regioni? È irricevibile», sbotta Nichi Vendola (Puglia). Luca Zaia (Veneto) minaccia: «Il ricorso contro la legge di stabilità lo faremo».

Macché, lo spread vola alto

Macché, lo spread vola alto

Daniele Capezzone – Il Tempo

È vero: nella legge di stabilità ci sono alcuni aspetti positivi, che vanno riconosciuti onestamente, anche per rendere più credibili le nostre critiche. Ad esempio, sono positive le scelte di confronto a testa alta con l’Ue e gli interventi su Irap e detassazione delle nuove assunzioni (questi punti oggetto da tempo di nostre proposte, in qualche modo ora raccolte dall’Esecutivo, speriamo senza trucchi e senza inganni).

Però è come se Renzi si fosse fermato a metà strada: ancora troppo poco (temo) per dare uno choc positivo alla domanda interna, ma (purtroppo) già abbastanza per aprire un conflitto con l’Ue (e la cosa non mi spaventa di certo, anzi) ma anche per destare dubbio sui mercati (e qui invece occorre una riflessione attenta). Insomma, detta senza demagogia: ho paura che non ripartano i consumi ma lo spread. A questo punto, sarebbe stata più saggia l’apparente “imprudenza” di rischiare ancora di più, andando nella direzione – da me indicata da tempo – di un vero e proprio choc fiscale, con 40 miliardi (veri) di tasse in meno, accompagnati da tagli di spesa ancora più consistenti, e da un chiaro sforamento del vincolo del 3%.

Andiamo alle criticità più serie. Resta il macigno della tassa sulla casa, di cui Renzi porta la responsabilità (l’ha aggravata lui all’inizio del 2014), e che aumenterà ancora nel 2015. Sui tagli di spesa, non c’è stato coraggio né sui costi standard né sulle municipalizzate. E con il rischio (Padoan lo ha ammesso) che in sede locale si provveda ad aumentare le tasse, facendo fare il “lavoro sporco” a Comuni e Regioni. Poi ci sono alcuni aumenti di tasse: a partire da quello sui fondi pensione, assolutamente inaccettabile. Così come va indagato il meccanismo che sarà alla fine scelto per il Tfr, che potrebbe creare serissimi problemi alle imprese medio-piccole (causando contemporaneamente – che beffa!- aggravi di tassazione per i lavoratori). E soprattutto va posta la questione delle mega-clausole di salvaguardia per i prossimi anni, tutte bombe fiscali destinate a esplodere ai danni dei cittadini. Per queste ragioni, la mia opinione è che FI debba lanciare una sfida su alcuni punti qualificanti, per aumentare i tagli di tasse, e per rendere migliori i tagli di spesa. Avanzerò precise proposte in tal senso.