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Nuove imprese straniere, neanche una nell’ultimo anno

Nuove imprese straniere, neanche una nell’ultimo anno

Paolo Baroni – La Stampa

Certo, c’è l’articolo 18 ed uno dei sistemi del lavoro più complicati del mondo. Ma poi ci sono gli eccessi della burocrazia, i tempi eterni della giustizia e le tasse troppo alte, ovvero tutti quei fattori, o meglio «mali storici», che da anni ci condannano alla parte bassa di tutte le classifiche mondiali sulla competitività. Epperò negli ultimi tempi, dopo i crolli del 2008 e del 2012, una certa attenzione nei confronti dell’Italia è tornata. Nei primi sei mesi dell’anno oltre metà delle operazioni di acquisizione e fusione porta la firma di investitori esteri, dai russi che entrano in Pirelli alla People bank of China che investe in Fiat, Generali e Telecom, sino a Electrolux che rileva Merloni. Si tratta di 5,7 miliardi di euro su un totale di 10, +81% sul 2013.

E gli investimenti industriali? Invitalia su 36 «Contratti di sviluppo» ne ha siglati 15 con società straniere, per un controvalore di circa 750 milioni. Si va da Bridgestone a Denso, da Stm a Whirlpool e Sanofi. Progetti anche importanti, ma si tratta sempre e solo di ampliamenti di impianti già esistenti, soprattutto al Sud. Investimenti che invece partono da zero, i cosiddetti «greenfield» (a prato verde) come li chiamano gli esperti? Se ci eccettua quello annunciato a gennaio da Philip Morris, che a Bologna investirà 500 milioni di euro creando 600 nuovi posti, non c’è nulla. Nessuna impresa o gruppo straniero nell’ultimo anno e anche di più, ha avuto il coraggio di investire in un nuovo impianto industriale di dimensioni significative sul suolo italiano. «Siamo a zero», conferma a malincuore Guido Rosa, presidente dell’Aibe, l’associazione delle banche estere che operano in Italia e interlocutore naturale di molti potenziali investitori esteri.

«Il problema fondamentale, come emerge anche dal nostro osservatorio sull’attrattività del Paese, è che il sistema Italia in una scala da zero a cento si colloca appena a quota 33,2. Un livello davvero troppo basso». E oggi, ovviamente, sorprende una forbice così ampia tra investimenti finanziari in forte ripresa e investimenti industriali al palo. «Questo è certamente il dato più rilevante», spiega Nicola Rossi, economista, ex senatore Pd. «Dopo un forte calo è tornato ad esserci un certo movimento sul fronte delle acquisizioni, ma di “greenfield” non si fa nulla. Da molto tempo. E questo la dice lunga sui problemi dell’economia italiana». Che anche in questo campo continua a perdere terreno: in 10 anni, tra il 1994 ed il 2013, l’Italia ha attratto investimenti diretti esteri (finanziari e industriali), i cosiddetti Ide, per un totale di 290 miliardi di dollari, contro i 567 della Spagna, gli 800 e più di Francia e Germania. Quanto basta per far calcolare al ministro dello Sviluppo Guidi un margine netto di crescita, a regime, di almeno 20 miliardi all’anno. Con quello che significa anche in termini di nuova occupazione.

Inutili fino ad oggi le tante iniziative messe in campo negli ultimi tempi, dal decreto «Destinazione Italia» varato da Letta al più recente «Sblocca Italia»? «È il caso di dire troppo tardi, troppo poco – sostiene Nicola Rossi -. Non sono iniziative sbagliate, ma è poca roba rispetto a quello che sarebbe necessario fare. E poi serve tempo per farle assimilare agli investitori esteri». Quantomeno gli ultimissimi interventi sono serviti a fare un po’ d’ordine, chiarire che la promozione e le trattative coi partner esteri spettano all’Ice, che a Invitalia va la gestione degli insediamenti sul territorio e che «Desk Italia», che fino a ieri fungeva da struttura di raccordo, non serve più e va soppresso. Ma l’ultimo decreto in materia sta ancora in Parlamento in attesa di conversione e la nuova struttura non è ancora partita. Per non parlare dei fondi per la promozione ancora insufficienti: appena 400mila euro contro i 15 milioni dei francesi.

Il cahier de doléances è infinito. Rosa: «C’è tutto un sistema che non funziona: dalla burocrazia alla giustizia, al fisco. Ma la cosa peggiore è l’incertezza totale che avvolge il tutto: è la cosa che gli stranieri non possono sopportare. Chiedono trasparenza, chiarezza e norme stabili nel tempo, non regole che continuano a cambiare e che alcune volte diventano pure retroattive. Un malvezzo pazzesco questo, che i nostri governanti non si rendono conto di quanti danni produca!». Di fatto, spiega a sua volta Nicola Rossi, in questo modo «addossiamo all’impresa molti rischi che vanno oltre il normale legittimo e doveroso rischio di mercato: il rischio fiscale, perché non si sa quante imposte dovranno pagare e come; quello amministrativo, perché non si ha certezze sulle autorizzazioni e sulle date entro cui arrivano; e ancora gli addossiamo rischi sul personale, perché con l’attuale configurazione dell’art. 18 c’è sempre un terzo, il giudice, che si può incuneare nel rapporto a due imprenditore-dipendente. È chiaro che in queste condizioni nessuno viene in Italia a investire davvero. Già il rischio di mercato basta e avanza…».

Come dice Licia Mattioli, presidente del Comitato tecnico per l’internazionalizzazione e gli investitori esteri di Confindustria, «fare impresa in Italia non è facile». «Ma ora ci sono tutte le condizioni perché gli investimenti “a prato verde” siano il prossimo step del ritrovato interesse verso l’Italia degli investitori esteri. Perché da noi ci sono sia competenze estremamente interessanti, sia tecnologie e servizi molto sviluppati. Per questo ora occorre avviare una fase di grandissima attenzione verso l’industria, a cominciare dalle regole sul lavoro». «Tutti guardano come molto interesse e molta attesa al programma di riforme di Renzi, dipende però da quanta strada riuscirà a percorrere. Ed è questo che ora preoccupa», aggiunge Rosa. Che di suo è abbastanza pessimista: «L’Italia ormai da anni è un Paese incapace di modificare alcunché, una paese incredibilmente conservatore».

Debiti PA, il governo manca l’obiettivo: restituiti soltanto 31 miliardi

Debiti PA, il governo manca l’obiettivo: restituiti soltanto 31 miliardi

Roberta Amoruso – Il Messaggero

L’ultimo giorno d’estate è arrivato. E Bruno Vespa può tirare un sospiro di sollievo: non dovrà andare a piedi da Firenze a Monte Senario. Perché il premier Matteo Renzi non ha mantenuto la promessa. Gli ormai famosi 57 miliardi di debiti della pubblica amministrazione non sono stati pagati fino all’ultimo euro entro il giorno di San Matteo, il 21 settembre, come aveva firmato e sottoscritto il premier, seppure soltanto a parole, nella ormai storica puntata di «Porta a Porta» del 13 marzo scorso. Non solo. Per la verità non è una questione di spiccioli. Mancano all’appello ben 26 miliardi a fronte dei 57 miliardi di risorse messi già a disposizione dai governi a fronte di debiti della Pa stimati intorno a 60 miliardi alla data del 31 dicembre 2013.

Certo, sono stati pagati più debiti della Pa di quelli rimasti ancora in sospeso visto che lo stesso ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha fatto sapere nei giorni scorsi che ai 26 miliardi di euro di debiti certificati e già pagati secondo il sito del Mef andrebbero aggiunti almeno altri 5 miliardi (per arrivare a circa 31 miliardi). Ma la promessa di Monte Senario è diventata ormai un simbolo, soprattutto perché nella stessa puntata nel salotto di Vespa lo stesso Renzi ricordava una frase storica di Walt Disney: «La differenza tra un progetto e un sogno è la data». E dunque le date contano, ricordano da Confartigianato e dalla Cgia di Mestre. Ma non perde l’occasione per un tweet anche Renato Brunetta, capogruppo Fi alla Camera: «Domani è 21 settembre (San Matteo): il Mef aggiornerà il sito? Saranno stati pagati tutti i 68 miliardi di debiti Pa promessi da Matteo Renzi?».

A questo punto sarà difficile mettere sul tavolo una nuova data. Ma fonti vicine al Mef parlano di poche settimane, forse un paio di mesi, per portare a termine un percorso già avviato anche per i restanti 26 miliardi. Una buona fetta di debiti sarebbe infatti già in fase di istruttoria. Un passaggio obbligato, questo, con un tempo di 30 giorni per le verifiche, che scatta non appena le imprese fanno domanda di certificazione dei crediti. Il punto è proprio questo infatti per il Mef. Se arriveranno in fretta tutte le richieste di certificazione, ingorghi permettendo, il saldo dei debiti arriverà. Seppure con un rinvio sulla tabella di marcia. Insomma, le risorse stanziate per gli anticipi di liquidità agli enti locali ci sono (circa 57 miliardi appunto). Ma per usufruire delle garanzie dello Stato c’è tempo fino a ottobre e molte imprese si sarebbero mosse in ritardo, a quanto pare. Di qui lo slittamento. Si spera che nel frattempo non si siano accumulati altri debiti. Ma anche su questo, il meccanismo introdotto con l’obbligo di certificazione elettronica (introdotto dal decreto 66) sembrerebbe mettere al riparo da nuovi accumuli.

Intanto, però, i conti non tornano e oltre 20 miliardi rimangono nel limbo. Secondo il presidente di Confartigianato, Giorgio Merletti, mancano all’appello 21,4, vale a dire il 55% dei 47,5 miliardi stanziati con il Dl Sblocca-Italia e con la legge di stabilità 2014, se si considera che al 21 luglio sono stati pagati alle aziende 26,1 miliardi, stando al sito del Mef. Lo stesso Merletti riconosce gli sforzi fatti negli ultimi due anni «con un calo del 15,4% dei debiti commerciali dello Stato». Ma «l’Italia rimane il Paese europeo con la più alta quota di debiti della Pa (il 3,3% del Pil)». Restano da saldare altri 24-25 miliardi, invece, secondo i conti della Cgia di Mestre che parte dai 56,8 miliardi messi a disposizione dei governi negli ultimi due anni. La cifra è sottostimata, avverte però la Cgia: se dallo stock dimensionato dalla Banca d’Italia (75 miliardi di debiti commerciali) si tolgono gli 8,4 miliardi ceduti pro soluto a intermediari finanziari, la Pa deve pagare ancora 35 miliardi».

Vent’anni di occasioni perse dall’Italia

Vent’anni di occasioni perse dall’Italia

Claudio Gatti – Il Sole 24 Ore

Di gufi e disfattisti ce ne sono sicuramente. Ma non è certamente per colpa loro che l’Italia sta in fondo alle classifiche che contano per il benessere e soprattutto il futuro di un Paese. Ne basta una per tutte: negli ultimi venti anni, un periodo in cui l’economia mondiale è stata caratterizzata da una crescita senza precedenti dei cosiddetti Investimenti diretti esteri, l’Italia è stata solo sfiorata da un fenomeno che secondo gli esperti fa da cartina di tornasole dello stato di salute di un Paese.

I numeri sono a prova di gufi e disfattisti: tra il 1994 e il 2013, l’Italia ha attratto Investimenti diretti esteri, o Ide, per un totale di 290 miliardi di dollari. Nello stesso ventennio, la Spagna ne ha assorbiti 567, la Germania 799, la Francia 823 e la Gran Bretagna addirittura 1.418 – quasi cinque volte più di noi. E a meno che non si raggiunga la piena consapevolezza di quanto profondo è il deficit di “attrattività” dell’Italia nel mondo, di quali sono le sue cause e dell’urgenza a porvi rimedio, l’economia italiana è destinata a rimanere esclusa da qualsiasi ripresa. Questo hanno dichiarato all’unisono economisti, consulenti e investitori stranieri consultati da Il Sole 24 Ore per quest’inchiesta. Anche perché gli Ide rappresentano un essenziale veicolo di crescita e trasmissione di sviluppo economico.

Ma cominciamo da un’analisi delle cause. «Le ragioni del peggior andamento dei flussi di investimento estero in Italia sono sia strutturali sia congiunturali», spiega al Sole 24 Ore Riccardo Cristadoro, economista della Banca d’Italia. «Tre i motivi principali: il quadro macroeconomico peggiore, il quadro istituzionale e regolamentare meno favorevole e le ridotte dimensioni d’impresa». I più recenti attestati di disistima straniera sono venuti da due aziende americane, una piccola e una gigantesca. Pochi giorni fa la Alps South, società di dispositivi medici di base a St Petersburg, in Florida, ha annunciato di aver rinunciato ad aprire una filiale in Italia. Quasi simultaneamente Alcoa, terzo produttore mondiale di alluminio con impianti in 44 Paesi, ha deciso la chiusura definitiva del suo stabilimento a Portovesme, in Sardegna. «La fonderia di Portovesme era una delle più costose della rete Alcoa e non c’era possibilità di renderla competitiva», ha spiegato Bob Wilt, presidente di Alcoa Global Primary Products. Adesso ad Alcoa in Italia è rimasto un singolo stabilimento, il laminatoio di Fusina, di fronte alla laguna di Venezia. Contro i 12 stabilimenti in Francia, i 9 in Spagna e i 7 sia in Germania che in Gran Bretagna.

Anche chi investe in Italia lo fa con grandissima cautela e in modo molto opportunistico, insomma a caccia di saldi. Come hanno fatto i grandi fondi americani Blackstone e BlackRock. Quest’ultimo controlla l’1,5% del totale della capitale delle società quotate italiane ed è quindi il primo investitore di Piazza Affari, ma da noi ha investito molto meno che altrove in Europa. Il motivo è chiaramente espresso dal Sovereign Risk Index, l’indice del rischio-Paese che Blackrock ha pubblicato a luglio: su un totale di 50 nazioni prese in considerazione, l’Italia è al 44esimo posto. Davanti solo ad Argentina, Portogallo, Ucraina, Egitto, Venezuela e Grecia.

Illuminante anche l’esperienza di Tandean Rustandy, amministratore delegato di Arwana Citramulia, ditta indonesiana con un fatturato annuale di quasi 100 milioni di euro. «Da quando ho fondato la mia ditta di piastrelle, 21 anni fa, mi sono sempre servito di macchine utensili italiane. Ma in questi due decenni, mentre la mia azienda è cresciuta, uno dopo l’altro i miei fornitori italiani o si sono ridimensionati o sono andati in bancarotta. Uno dei problemi dell’Italia è questo: troppe aziende sono one-man show, con una singola persona che le fonda, le gestisce e prende tutte le decisioni. Non c’è sistema, né senso di appartenenza all’azienda”, dice al Sole 24 Ore Rustandy. Che continua: «Più in generale, dall’estero si ha l’impressione che in Italia oggi ci siano tecnologia, capacità e know-how ma manchino una buona governance e consapevolezza della gravità della crisi. E come può crescere e migliorare un Paese senza governance e spirito competitivo?».

Altra testimonianza diretta viene da Wolfango Piccoli, direttore di Teneo Intelligence, parte della holding di consulenza fondata dal braccio destro di Bill Clinton, Doug Band: «Un nostro cliente, una multinazionale nordamericana, doveva decidere se investire quasi mezzo miliardo di dollari per acquisire una cartiera. Pensava all’Italia e alla Spagna. E alla fine ha optato per la Spagna. Per i soliti motivi: il carico burocratico, i tempi e le incertezze della giustizia civile, la facilità di accesso al credito, la pressione fiscale, l’opacità del sistema normativo italiano e l’impossibilità di fare proiezioni di lungo periodo per via della mutevolezza delle politiche legate alle esigenze di bilancio».

Che negli ultimi vent’anni l’Italia abbia mostrato una minore capacità di attrazione di capitale dall’estero, nonostante la dimensione del mercato e la competitività del suo sistema d’imprese lo vedono anche in Banca d’Italia. «Una determinante che ci penalizza nel confronto internazionale è data dalla qualità delle istituzioni e delle regole di mercato», conferma Cristadoro. Che aggiunge: «Secondo una nostra recente analisi, sembrerebbe che i tempi e la complessità delle procedure burocratiche, più che i loro costi, persino sulle scelte di localizzazione degli investimenti».

Gli stessi handicap che scoraggiano gli stranieri ostacolano ovviamente anche le imprese italiane. «La multinazionale si localizza dove è più conveniente. Se le caratteristiche locali non la favoriscono, non viene. Ma le sue esigenze sono le stesse delle imprese locali. Quindi o si creano condizioni per lo sviluppo – per l’una o per l’altra – oppure ci si rinuncia. Sia per l’una che per l’altra . Non c’è via di mezzo. E negli ultimi due decenni le condizioni l’Italia non le ha sapute creare», spiega Roberto Basile, professore di Economia alla Seconda Università di Napoli che da dieci anni analizza i flussi di Investimenti diretti esteri.

Il suo primo studio, pubblicato nel 2005 assieme ai colleghi Luigi Benfratello e Davide Castellani, ha appurato che «le regioni italiane soffrono di un duplice svantaggio: hanno caratteristiche che le rendono poco attraenti per gli investitori stranieri e attraggono meno Ide rispetto ad altre regioni europee con caratteristiche simili. Tale gap, quantificato nel 40% in meno, è stato ricondotto ad alcune caratteristiche nazionali». Tra i fattori che alimentano questo gap lo studio segnala l’inefficienza dell’apparato burocratico e del sistema di protezione dei diritti di proprietà, l’elevata rigidità del mercato del lavoro, un farraginoso sistema della giustizia civile e della protezione dei diritti sanciti dai contratti, l’adozione di meccanismi informali di decisione e la scarsa qualità dell’educazione terziaria. Conclusione: «Il sistema-Paese deprime ulteriormente l’attrattività potenziale delle regioni italiane… A parità di caratteristiche osservabili, le regioni italiane sono insomma meno attraenti di regioni con caratteristiche simili collocate in contesti istituzionali diversi… Il che conferma che il basso livello di Ide in Italia sia da attribuire per lo più a fattori istituzionali nazionali».

In un secondo studio di quattro anni dopo, gli stessi autori hanno appurato che il gap è addirittura peggiorato, arrivando a una punta del 75% nel caso degli investimenti in attività manifatturiere. Da allora, dice sconsolato il professor Basile al Sole 24 Ore, «le cose possono essere solo peggiorate, perché non si è fatto nulla per cambiare e migliorare la posizione competitiva dell’Italia». Secondo Basile la situazione non è ancora irrimediabile. E le riforme programmate dal governo Renzi vanno nella direzione giusta. Se realizzate potrebbero dunque favorire un significativo recupero: «Soltanto portando il numero di procedure necessarie a tutelare i diritti contrattuali al valore medio europeo, per esempio, l’Italia registrerebbe un aumento del tasso di attrattività pari a circa il 60%», dice il professore. L’economista di Banca d’Italia Stefano Federico concorda: «L’effetto di una migliore qualità istituzionale non sarebbe trascurabile. E se l’Italia si allineasse alle migliori pratiche dell’Eurozona, i flussi di Investimento esteri diretti ne guadagnerebbero in misura significativa».

Ma il tempo stringe. «Il mondo del business internazionale ha apprezzato l’avvento di Matteo Renzi a Palazzo Chigi, vedendolo come una svolta non solo generazionale», ci dice Piccoli. «Ma non bisogna illudersi che gli acquisti di titoli di Stato italiani da parte di investitori internazionali indichino una maggiore propensione a puntare sul nostro Paese. Perché gli investimenti finanziari oggi entrano e domani escono. Quello che invece serve è l’investitore che ha fiducia nel Paese e vi mette radici creando posti di lavoro. Questo continua a mancare. E la finestra di opportunità, come si dice in inglese, non rimarrà aperta a lungo».

Non c’è classifica che ci sorrida

Non c’è classifica che ci sorrida

Il Sole 24 Ore

Dall’estero ci guardano. E, statistiche alla mano, vedono nero. Nella classifica Doing Business, stilata dalla Banca mondiale, l’Italia è al 65° posto su 189 Paesi. Ma è 90esima nella categoria “avviamento di un’impresa”, 109esima nella categoria “accesso al credito”, 103esima in quella del “rispetto dei contratti” e 112esima in quella “licenze e permessi”. Nella classifica dei 50 Best Countries for Business di Forbes, l’Italia è al 37° posto. Dietro non solo a Spagna, Portogallo e Slovenia. Ma anche alla Macedonia.

Nel Venture Capital & Private Equity Country Attractiveness Index, indice preparato quest’anno dall’Iese, la business school dell’Università di Navarra, l’Italia è 34esima, dietro a tutti i maggiori Paesi europei. Ancora peggiori i dati del Baseline Profitability Index, l’indice di profittabilità di Daniel Altman, economista della Stern School of Business della New York University. Qui l’Italia è al 106° posto su 112. Meglio solo di Libano, Russia, Argentina, Repubblica Democratica del Congo, Angola e Venezuela, sei Paesi al centro di guerre, disfacimento economico o sanzioni internazionali. Ma la più recente conferma della scarsa efficienza del sistema-Paese è venuta dal Letter Grading Analysis, uno studio recentemente completato da quattro professori universitari nordamericani ed europei che hanno usato un indicatore del tutto insolito: la qualità del servizio postale nazionale.

I quattro hanno spedito due lettere a un indirizzo immaginario nelle cinque maggiori città di 159 Paesi del mondo e hanno analizzato la percentuale e i tempi del loro ritorno negli Usa. «A nostro giudizio attraverso il servizio postale si può misurare l’efficienza produttiva di uno Stato, incluso fattori determinanti quali la qualità degli investimenti, della manodopera, della tecnologia e del management», hanno spiegato. Le Poste italiane sono risultate al 55esimo posto, con l’80% delle lettere rispedite negli Usa e una media di 173 giorni necessari per il loro recapito. Dietro non solo a tutti i principali Paesi Europei, ma anche al Kazakhstan (80% in 146 giorni).

Così facciamo morire le nostre imprese

Così facciamo morire le nostre imprese

Nicola Porro – Il Giornale

L’ultimo caso è certamente quello più clamoroso. Perché riguarda l’Eni, una delle poche multinazionali italiane. Per di più coinvolge il suo attuale numero uno e il predecessore. Insomma il top delle aziende italiane, con il top dei suoi vertici. La vicenda è nota. La Procura di Milano indaga su presunte tangenti che sarebbero state pagate al governo nigeriano per l’esplorazione di un nuovo pozzo. Un caso simile ha riguardato nei mesi scorsi un altro big della manifattura, parapubblica: Finmeccanica. In quel caso fu addirittura arrestato il vertice operativo dell’azienda e aperta una pericolosa, per Finmecca, procedura che avrebbe potuto portare anche al suo commissariamento. L’ipotesi di reato anche in questo caso era la corruzione internazionale. La terza reginetta delle nostre imprese ex monopoliste, e cioè l’Enel, ha una lunga serie di problemi giudiziari legati all’inquinamento che sta coinvolgendo anche i vertici. I suoi ex amministratori sono stati condannati in primo grado a tre anni di carcere.

Le cose non è che vadano molto meglio nel campo privato, anche se, tranne casi clamorosi, si crea minore clamore. Basti pensare all’Ilva, una delle più grandi aziende siderurgiche d’Europa e una delle poche in Italia a reggere la concorrenza, fatta fuori per via giudiziaria. Senza uno straccio di sentenza definitiva. Alla Fiat, dove con l’arrivo di Marchionne hanno deciso di farsi solo gli affari loro, stanno scappando dall’Italia. Solo la Cgil-Fiom l’ha portata davanti al Tribunale del lavoro per un centinaio di cause, i cui esiti sono differenti l’uno dall’altro. Telecom è, grazie al cielo, fuori da questo tourbillon giudiziario (l’incredibile caso con Scaglia si è chiuso solo pochi mesi fa). Ma in compenso il governo e la politica non hanno alcuna intenzione di perdere la presa. Basti pensare alla separazione della rete: un fiume carsico che all’occorrenza esce dal sottosuolo.

Cosa vogliamo dimostrare con questa superficiale e incompleta lista dei guai giudiziari e degli interessi politici sulla nostra corporate Italia? Una cosa semplice. Se nel passato la cultura anti industriale e anti impresa emergeva alla luce del sole, era ideologica, legittima, manifesta e organizzata, oggi tutto ciò esiste ancora, ma è più subdolo. Non c’è più nessuno che apertamente ce l’abbia con l’Eni, ma sono in molti che a casa nostra godono delle sue disgrazie. Oggi Renzi difende i vertici del Cane a sei zampe, ma ieri pretendeva che si inserisse una norma nel suo statuto che decapitava i vertici al solo iniziare di un’indagine. Per fortuna che l’assemblea non l’ha votata contro il parere del governo.

Si dice sempre che in Italia non sarebbe mai potuta nascere la Apple perché la Asl avrebbe fatto chiudere il garage dove fu inventata. La verità è che oggi in Italia non potrebbe nascere neanche l’Eni di Mattei. All’epoca c’era un impasto fatto di politica, media, sindacati e istituzioni che si sentiva classe dirigente e che aveva un progetto per il Paese. E lo difendeva ad ogni costo. Oggi siamo vittime dell’ultimo interesse legittimo e schiavi di ogni ordine costituito. Non c’è un potere, ma piccoli poteri intoccabili. A parole diciamo tutti che vogliamo la ripresa, più Pil e più occupazione. Ma poi soccombiamo a quella sottocultura anti industriale per cui ripresa, Pil e occupazione si possono fare solo per decreto e grazie all’intervento dei funzionari pubblici.

Esageriamo? Ma per carità. Il virus della norma e dell’intervento pubblico e sanzionatorio è ormai diffuso a tutti i livelli. A parte la coraggiosa direttrice generale, Marcella Panucci, la Confindustria, che dovrebbe rappresentare le imprese, soprattutto quelle più grandi, ha paura anche della sua ombra. Nessuno (a parte la solita Panucci) ha fiatato sull’allucinante e pervasivo potere di commissariamento che ha in mano il pm Cantone con la sua Authority anticorruzione. Roba da socialismo reale. E chi ha il coraggio di dire che l’inasprimento del reato di falso in bilancio, che si sta studiando in queste ore, è una follia; che l’autoriciclaggio è invenzione rischiosa per i privati. Chi ha il buon senso di dire che aver reso penalmente rilevante la sola ipotesi di evasione (o elusione, o abuso di diritto) di imposta superiore a 50mila euro in un Paese con la nostra giustizia, vuol dire consegnarsi mani e piedi alla burocrazia fiscale?

Sì sì cari vertici industriali: continuate a parlare di legalità nei vostri convegni. Fate delle belle agenzie di stampa con la vostra indignazione per l’evasione fiscale. Scappate come dei conigli davanti a Finmeccanica o Eni indagate e prima di loro davanti alla Fastweb di Scaglia. Alimentate la vostra invidia verso quel brusco (e sicuramente spregiudicato, pace all’anima sua) Capitano di impresa che era Emilio Riva. E non capite che siamo tutti sulla stessa barca. Fa acqua da tutte le parti. E voi state lì a dettare il regolamento, le norme e le eventuali sanzioni su come evacuarla in caso di falla. Che è già grande come una voragine.

Lavoro in Italia ultimo per efficienza

Lavoro in Italia ultimo per efficienza

Metro

Il mercato del lavoro italiano è ultimo  per efficienza in Europa e 136mo su 144 censiti nel mondo. In termini  di efficienza ed efficacia si situa infatti a un livello leggermente  superiore a quelli di Zimbabwe e Yemen ed inferiore a quelli di Sri  Lanka e Uruguay. Lo rivela un’elaborazione del Centro Studi  ImpresaLavoro sulla base dei dati pubblicati dal World Economic Forum. Rispetto al 2011 retrocediamo di 13 posizioni a livello mondiale in  termine di efficienza generale del nostro mercato del lavoro e  soprattutto perdiamo 19 posizioni con riferimento alla collaborazione  tra impresa e lavoratore così come altre 15 per la complessità delle  regole che ostacolano licenziamenti e assunzioni. L’unico settore in cui non si registra un arretramento dell’Italia è  quello relativo alla partecipazione delle donne al mercato del lavoro: conserviamo infatti la comunque assai deludente 93ma posizione che  avevamo raggiunto nel 2011.

«Questa performance negativa è frutto certamente dei difetti strutturali del nostro sistema ma i provvedimenti legislativi degli ultimi anni non hanno certo aiutato a migliorare la situazione» spiega Massimo Blasoni, presidente di “ImpresaLavoro”. «L’elaborazione del Centro Studi chiarisce come i problemi del nostro mercato del Lavoro siano sempre gli stessi e abbiano subito un peggioramento piuttosto marcato dal 2011 a oggi, complice con ogni probabilità l’irrigidimento delle regole stabilito dalla cosiddetta legge Fornero».

Collaborazione
Scarsa collaborazione in Italia nelle relazioni tra datori e lavoratori. Tra i Paesi dell’Europa a 27, infatti, il Belpaese si posizione ultimo in classifica proprio per quanto riguarda i rapporti tra dipendenti e imprenditori. AI primi tre posti ci sono Danimarca, Austria  e Olanda.

Tassazione
In tema di retribuzioni siamo il peggior Paese europeo per capacità di legare lo stipendio alla produttività.  Dati che vanno letti assieme a quelli sugli effetti dell’alta tassazione: nessun Paese Ue fa peggio di noi quanto a effetto della pressione fiscale sull’incentivo al lavoro.

Meritocrazia
Italia arretrata in Ue  nella qualità del personale impiegato.  Siamo penultimi (davanti solo alla Romania) per la capacità di affidare posizioni manageriali in base al merito (e non per amicizia, parentela, raccomandazioni) e finiamo in coda anche per l’incapacità di attrarre talenti.

Sud sempre più in affanno
Secondo il rapporto annuale dell’Eurispes, la  situazione dell’economia meridionale risulta essere “particolarmente  critica; quasi tutti gli indicatori sono decisamente inferiori  rispetto a quelli delle altre aree del paese e alle medie nazionali”.

Modifiche all’articolo 18 domani in Commissione
Riparte questa settimana la discussione in merito alla  modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, nell’ambito del Jobs Act. Domani la commissione Lavoro del Senato esaminerà le proposte di modifica dell’articolo 4, che riguarda lo Statuto e che delega al Governo il riordino delle forme contrattuali. I partiti centristi della maggioranza vorrebbero inserire le modifiche sui licenziamenti , mentre la sinistra Pd chiede di non modificare il perimetro della delega. Obiettivo del Jobs Act, in Aula al Senato dal  23 settembre, è modernizzare il mercato del lavoro.

Lavoro, Italia ultima nell’Unione europea per efficienza

Lavoro, Italia ultima nell’Unione europea per efficienza

Repubblica.it

Mentre in Senato ci si appresta ad affrontare il nodo dell’articolo 18 all’interno della discussione sul Jobs Act, alcuni dati mostrano che il mercato del lavoro italiano è ultimo per efficienza in Europa e 136mo su 144 censiti nel mondo. In termini di efficienza ed efficacia si situa infatti a un livello leggermente superiore a quelli di Zimbabwe e Yemen ed inferiore a quelli di Sri Lanka e Uruguay. Lo rivela un’elaborazione del Centro Studi ImpresaLavoro sulla base dei dati pubblicati dal World Economic Forum.

Rispetto al 2011 retrocediamo di 13 posizioni a livello mondiale in termine di efficienza generale del nostro mercato del lavoro e soprattutto perdiamo 19 posizioni con riferimento alla collaborazione tra impresa e lavoratore così come altre 15 per la complessità delle regole che ostacolano licenziamenti e assunzioni (hiring and firing process). L’unico settore in cui non si registra un arretramento dell’Italia è quello relativo alla partecipazione delle donne al mercato del lavoro: conserviamo infatti la comunque assai deludente 93ma posizione che avevamo raggiunto nel 2011.

L’indicatore dell’efficienza è in realtà un aggregato di più voci che bene evidenziano le difficoltà che il nostro sistema attraversa e rendono plasticamente l’idea del peggioramento delle condizioni del nostro mercato del lavoro negli ultimi tre anni. Inoltre, i principali indicatori analizzati ci pongono agli ultimi posti per efficacia nel mondo e, quasi sempre, all’ultimo posto in Europa. Tra i Paesi dell’Europa a 27, ad esempio, rileva ImpresaLavoro, “siamo ultimi per quanto concerne la collaborazione nelle relazioni tra lavoratori e datore di lavoro (ai primi tre posti ci sono Danimarca, Austria e Olanda). Siamo terz’ultimi per flessibilità nella determinazione del salario, intendendo con questo che a prevalere è ancora una contrattazione centralizzata a discapito di un modello che incentiva maggiormente impresa e lavoratore ad accordarsi. E proprio in tema di retribuzioni siamo il peggior Paese europeo per capacità di legare lo stipendio all’effettiva produttività. Dati questi che vanno letti assieme a quelli sugli effetti dell’alta tassazione sul lavoro: nessun Paese in Europa fa peggio di noi quanto a effetto della pressione fiscale sull’incentivo al lavoro”.


E l’Italia è ancora ultima per l’efficienza nelle modalità di assunzione e licenziamento. Anche la qualità del personale impiegato mette in luce l’arretratezza del nostro Paese: siamo penultimi (davanti alla sola Romania) per la capacità di affidare posizioni manageriali in base al merito e non a criteri poco trasparenza (amicizia, parentela, raccomandazione) e finiamo in coda anche con riferimento alla capacità di attrarre talenti (quart’ultimi) e di trattenere talenti (23mi su 28).

“Questa performance negativa è frutto certamente dei difetti strutturali del nostro sistema ma i provvedimenti legislativi degli ultimi anni non hanno certo aiutato a migliorare la situazione”, commenta Massimo Blasoni, presidente di ImpresaLavoro. “L’elaborazione del nostro Centro Studi – sottolinea Blasoni – chiarisce come i problemi del nostro mercato del lavoro siano da tempo sempre gli stessi e abbiano subìto un peggioramento piuttosto marcato rispetto al 2011, complice con ogni probabilità l’ulteriore irrigidimento delle regole stabilito dalla cosiddetta Riforma Fornero. Gli alti tassi di disoccupazione, soprattutto giovanile e femminile, e i cronici bassi tassi di attività sono una diretta conseguenza di un sistema tributario e di regole che rendono sempre più difficile assumere e creare occupazione”.

Jobs Act, al pettine il nodo dell’articolo 18. Efficienza mercato del lavoro, Italia ultima in Europa

Jobs Act, al pettine il nodo dell’articolo 18. Efficienza mercato del lavoro, Italia ultima in Europa

ilsole24ore.com

Presto al pettine il nodo del Jobs Act, la modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Martedì la commissione Lavoro del Senato esaminerà le proposte di modifica dell’articolo 4, che riguarda lo Statuto e che delega al Governo il riordino delle forme contrattuali. I partiti centristi della maggioranza (e Renzi) vorrebbero inserire le modifiche sui licenziamenti per le imprese che superano i 15 dipendenti, mentre la sinistra Pd chiede di non modificare il perimetro della delega. Obiettivo del Jobs Act, in Aula a palazzo Madama del 23 settembre, è modernizzare il mercato del lavoro, che secondo un’elaborazione del Centro Studi ImpresaLavoro sulla base dei dati del World Economic Forum è ultimo per efficienza in Europa (e in particolare nelle modalità di assunzione e licenziamento) e 136mo su 144 censiti nel mondo.

Donne e lavoro, confermato il 93° posto (su 144) 
Nella classifica dell’efficienza il nostro mercato del lavoro si piazza infatti poco sopra a Zimbabwe e Yemen, e viene superato da Sri Lanka e Uruguay. Rispetto al 2011 retrocediamo di 13 posizioni a livello mondiale in termine di efficienza generale, e soprattutto perdiamo 19 posizioni con riferimento alla collaborazione tra impresa e lavoratore, così come altre 15 per la complessità delle regole che ostacolano licenziamenti e assunzioni (hiring and firing process). L’unico settore in cui non si registra un arretramento dell’Italia è quello relativo alla partecipazione delle donne al mercato del lavoro: conserviamo infatti la comunque assai deludente 93ma posizione che avevamo raggiunto nel 2011.

Efficacia, Italia fanalino di coda in Europa 
La performance del nostro mercato del lavoro è negativa anche per i parametri relativi all’efficacia, che ci vedono tra gli ultimi nel mondo e, quasi sempre, all’ultimo posto in Europa. Tra i Paesi dell’Europa a 27, ad esempio, rileva ImpresaLavoro, «siamo ultimi per quanto concerne la collaborazione nelle relazioni tra lavoratori e datore di lavoro (ai primi tre posti ci sono Danimarca, Austria e Olanda). Siamo terz’ultimi per flessibilità nella determinazione del salario (contrattazione nazionale prevalente su quella decentrata). Siamo anche il peggior Paese europeo per capacità di legare lo stipendio all’effettiva produttività e per l’alto livello di tassazione sul lavoro.

Mercato del lavoro bloccato, siamo tra gli ultimi al mondo

Mercato del lavoro bloccato, siamo tra gli ultimi al mondo

Sergio Patti – La Notizia

Ovvio che trovare un impiego in Italia è quasi impossibile. Il nostro mercato del lavoro è ultimo per efficienza in Europa e 136esimo su 144 censiti nel mondo. In termini di efficienza ed efficacia si situa infatti a un livello leggermente superiore a quelli di Zimbabwe e Yemen ed inferiore a quelli di Sri Lanka e Uruguay. Lo rivela un’elaborazione del Centro Studi ImpresaLavoro sulla base dei dati pubblicati dal World Economic Forum. Rispetto al 2011 retrocediamo di 13 posizioni in termine di efficienza generale del nostro mercato del lavoro e soprattutto perdiamo 19 posizioni con riferimento alla collaborazione tra impresa e lavoratore così come altre 15 per la complessità delle regole che ostacolano licenziamenti e assunzioni (hiring and firing process). L’unico settore in cui non si registra un arretramento dell’Italia è quello relativo alla partecipazione delle donne al mercato del lavoro: conserviamo infatti la comunque assai deludente 93esima posizione che avevamo raggiunto nel 2011.

Quadro che peggiora
Lo studio evidenzia le difficoltà che il nostro sistema attraversa e dimostra il peggioramento delle condizioni del nostro mercato del lavoro negli ultimi tre anni. Dati che ci pongono agli ultimi posti per efficacia nel mondo e, quasi sempre, all’ultimo posto in Europa. Tra i Paesi dell’Europa a 27, ad esempio, siamo ultimi per quanto concerne la collaborazione nelle relazioni tra lavoratori e datore di lavoro (ai primi tre posti ci sono Danimarca, Austria e Olanda). Siamo terz’ultimi per flessibilità nella determinazione del salario, intendendo con questo che a prevalere è ancora una contrattazione centralizzata a discapito di un modello che incentiva maggiormente impresa e lavoratore ad accordarsi.

Troppe tasse
E proprio in tema di retribuzioni siamo il peggior Paese europeo per capacità di legare lo stipendio all’effettiva produttività. Dati questi che vanno letti assieme a quelli sugli effetti dell’alta tassazione sul lavoro: nessun Paese in Europa fa peggio di noi quanto a effetto della pressione fiscale sull’incentivo al lavoro. E siamo ancora ultimi per l’efficienza nelle modalità di assunzione e licenziamento: un indicatore determinante, perché evidenzia quanto questi processi siano ostacolati dal sistema delle regole e da disposizioni quali quelle, ad esempio, dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.