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Lo Stato che non paga ci è costato 6 miliardi

Lo Stato che non paga ci è costato 6 miliardi

Davide Giacalone – Libero

Non ci saranno manovre autunnali, niente ulteriori tasse, il deficit rimarrà sotto il 3%, anche se il prodotto interno lordo non cresce. Matteo Renzi dixit. Come quando il prestigiatore annuncia che taglierà in due la formosa valletta, noi tutti sappiamo che c’è il trucco, ma restiamo in attesa di assistere al prodigio. Se riesce, l’applauso è meritato. Il numero precedente non è riuscito, nel team dei prestigiatori di prima c’è chi si trova, ora, sotto al palco e bofonchia malmostoso: c’è il trucco. Lo sappiamo, tutto sta a vedere come lo si maneggia. Che Stefano Fassina, già bocconiano, già responsabile economia del Pd, già viceministro all’economia, mastichi amaro, è comprensibile, ma dice cose interessanti. Ogni tanto vale la pena fare i conti con la realtà reale, sfuggendo ai frizzi dell’illusionismo.
Lascio da parte le sue considerazioni sulle “favole liberiste”. Potrei rispondere dandogli del marxista collettivista, ma servirebbe solo ad aumentare il già inquietante volume delle minchionerie. Non c’è liberismo, nel nostro presente, né selvaggio né addomesticato. Non c’è collettivismo nel nostro futuro. Siamo alle prese con un problema difficile, che in Italia diventa devastante. E scarseggiano idee all’altezza, la cui mancanza non si compensa affatto lanciando epiteti a casaccio. Fassina ha ragione: la spesa primaria corrente italiana è fra le più basse dell’eurozona, naturalmente in rapporto al pil. Questa verità, però, non serve a stabilire se va tagliata o meno (va tagliata), ma a capire la gravità del male che ci affligge. Difatti, posto che la spesa pubblica corrente è troppo alta in tutta Europa, tanto che è l’area meno capace di crescere e più impantanata, da noi è il costo del debito pubblico a renderla patologica. Fassina dice che la spesa primaria è bassa. Noi ripetiamo che gli avanzi primari italiani sono dei record mondiali. Stiamo dicendo la stessa cosa, ma entrambe i dati soccombono quando ci si mangia sei punti di pil in venti anni, più del doppio degli altri, per pagare il costo del debito.
Questo porta a conseguenze perniciose. Giusto ieri il centro studi “Impresa Lavoro” calcolava in 6.3 miliardi il costo annuo, per le imprese, dei mancati pagamenti dovuti dalla pubblica amministrazione. La cattiva spesa pubblica avvelena il tessuto produttivo, costituendo un vantaggio per le imprese di altri paesi. Indebolite le imprese diminuiscono ricchezza e lavoro, quindi i consumi, intorcinandosi nella spirale recessiva. E noi lì siamo.
Dice Fassina: la nostra spesa pubblica va radicalmente riqualificata e riallocata. Sottoscrivo, ma è ipocrita quando aggiunge: non tagliata. Stiamo giocando con le parole. Vuol dire: il monte complessivo della spesa non è troppo alto, ma si devono tagliare, con brutalità, le spese sbagliate e dirigere i soldi dove serve. E questa è politica. O quel che la politica dovrebbe essere. Convengo con Fassina che pensare alla spesa pubblica solo in termini di risparmi e sprechi è inutile moralismo. Ma casca sul punto decisivo: dove prendiamo i soldi necessari? Egli dice: dall’evasione fiscale che da noi è doppia della media europea. Verrebbe da dire: magari!
Presto saranno disillusi. Il governo medita che il ricalcolo del pil, secondo i nuovi criteri statistici europei, che includono l’economia nera, alleggerirà la posizione italiana. Il che fa scopa con la supposizione di Fassina: scopriremo nuove lande dell’avasione fiscale. Sbagliato: quel ricalcolo dimostrerà che la nostra economia, includendo il nero, s’avvantaggia meno, in assoluto e in percentuale, di quella tedesca. L’idea che l’Italia abbia il primato della disonestà è sbagliata. Manco quello. Giorni fa ragionavamo del contante: se l’Italia è il Paese europeo con più vincoli, inesistenti in Germania, è ragionevole supporre che il maggior nero non si trova da noi. Il ricalcolo lo dimostrerà. Basta attendere. Noi siamo primatisti in disfunzionalità, spesa pubblica sprecata, paura di cambiare e cambiamenti di mera apparenza.
E allora, dove troviamo i soldi per uscire dalla trappola? Se abbiamo la minore spesa primaria, il più alto avanzo primario, ma pur sempre una spesa complessiva altissima e un deficit che si comprime solo con il fisco, senza riuscirci, è segno che il nostro macro problema ha un nome: debito pubblico. Mostro che porta con sé una pressione fiscale da suicidio. Serve un serio piano di dismissioni patrimoniali e abbattimento del debito. Accanto: riforme del mercato interno, per rendere più facile dare e ricevere lavoro, senza pagare il pizzo alla spesa improduttiva. La strada c’è. E non importa un fico secco che la si chiami liberista o socialista. Conta che non sia il mero rimandare, fra un gioco di prestigio e l’altro. Che stufano e costano.

Così stato e banche ammazzano le imprese: i pagamenti in ritardo costano 6 miliardi l’anno e le aziende che si fidano finiscono in rovina

Così stato e banche ammazzano le imprese: i pagamenti in ritardo costano 6 miliardi l’anno e le aziende che si fidano finiscono in rovina

Carola Olmi – La Notizia

Pagare paga. Ma saldando i suoi debiti in tempi biblici, alla fine la Pubblica amministrazione genera un costo mostruoso per i suoi fornitori: sei miliardi l’anno; 30 miliardi tra il 2009 e il 2013. Una media del 4,2% sul fatturato che se ne va fissa solo per farsi anticipare le fatture dalle banche o per far fronte con mezzi propri ai ritardi nel saldo di quanto dovuto. Secondo un rapporto del Centro Studi ImpresaLavoro, siamo di fronte a un furto in piena regola, che insieme alla stretta creditizia sta condannando ormai da anni migliaia di imprese sane a chiudere i battenti. Aziende la cui unica colpa è stata fidarsi dello Stato o degli enti locali per i quali hanno lavorato. In quelle gare vinte districandosi spesso tra richieste di tangenti e burocrazia, c’era infatti un costo occulto che non ha pari in Europa. Se per far fronte al ritardo dei pagamenti le imprese di casa nostra devono sacrificare quasi il 5% dell’intero fatturato (sempre che le banche facciano la loro parte) l’incidenza di questi stessi costi è pari a 4 volte meno per le attività omologhe francesi e 7 volte meno per quelle tedesche.

Nonostante il problema sia arcinoto al Governo, che si era impegnato ad accelerare i pagamenti senza però mantenere fino in fondo la promessa, il ritardo nei pagamenti ai fornitori e i debiti fuori bilancio della pubblica amministrazione continuano ad assumere un’urgenza crescente. A questo contribuiscono il peggioramento delle condizioni economiche generali, in particolare quelle delle imprese e il crescente fabbisogno finanziario sia dello Stato, sia degli enti territoriali. I ritardi nei pagamenti hanno iniziato ad accumularsi sia in termini di tempo che di quantità molto prima che il fenomeno fosse riconosciuto e definito come emergenza economica.

Secondo uno studio di Intrum Justitia (2013) i pagamenti del committente pubblico italiano arrivano in media dopo 170 giorni dal ricevimento della fattura, mentre i fornitori privati di norma pagano dopo 60 o 90 giorni a seconda dei termini concordati. Questo mismatching di uscite ed entrate aggrava la situazione finanziaria di migliaia d’imprese esponendole nei casi più gravi al rischio default. Il fenomeno ha assunto rilevanza maggiore a seguito dell’attuale congiuntura economica, poiché ha condotto a un progressivo aggravio della situazione di liquidità delle imprese in anni di severa restrizione del credito bancario. Nonostante le dimensioni e la rilevanza del fenomeno, allo stato attuale non esiste però una stima precisa dei debiti della nostra pubblica amministrazione verso le imprese. Secondo l’Istat la stima relativa al 2011 indicava un ammontare di 67,3 miliardi (62,5 miliardi nel 2010) di crediti commerciali delle imprese fornitrici della Pubblica amministrazione. Ma un’altra rilevazione condotta da Emanuele Padovani (2013) in collaborazione con Bureau Van Dijk, stima un’ammontare di residui scaduti interni ai bilanci di comuni, province e regioni di 136,9 miliardi. Banca d’Italia, che utilizza un’ulteriore metodologia per le sue stime, basandosi sulle rilevazioni campionarie dell’indagine Invid, nella rilevazione più recente (2011) prevede un ammontare di 91 miliardi (erano 84 nel 2010).

Che abbia ragione l’Istat o la Banca d’Italia, si tratta comunque di moltissimi soldi che finiscono per sottrarre capitale alle imprese. L’ammontare dei crediti commerciali infatti costituisce uno degli elementi fondamentali di fabbisogno di capitale circolante. Per farvi fronte, secondo un’indagine del 2013 dell’Ance (i costruttori), le aziende hanno fatto ricorso all’anticipo fatture in banca (72% del campione), nonché all’apertura di credito in conto corrente (22%), il 20% ha richiesto un finanziamento “a breve”, e il 18% complessivo ha provveduto a cedere (pro-soluto o pro-solvendo) il credito. Ma per le imprese costrette a usare lo scoperto di conto corrente senza affidamento, ovvero senza l’autorizzazione della banca (e sono sempre più numerose), il costo del finanziamento è stato nettamente superiore. Sei miliardi l’anno bruciati. E per tanti anche la beffa del fallimento.

Pagamenti PA, i ritardi costano 6 miliardi

Pagamenti PA, i ritardi costano 6 miliardi

Adolfo Spezzaferro – La voce sociale

Come se non bastasse la crisi economica, a spezzare le nostre imprese ci si mette pure la pubblica amministrazione. Infatti il ritardo dei pagamenti ai fornitori della Pa ha finora determinato un costo del capitale a carico delle imprese italiane di oltre sei miliardi di euro all’anno, pari a quasi 30 miliardi nel periodo 2009-2013. Il dato emerge da una ricerca realizzata dal centro studi ImpresaLavoro di Udine, promosso dall’imprenditore Massimo Blasoni e il cui board scientifico è presieduto dal professor Giuseppe Pennisi (economista, consigliere del Cnel e docente all’Università Europea di Roma, già Banca Mondiale e dirigente generale dei Ministeri del Bilancio e del Lavoro).

Lo studio sottolinea come ci si debba peraltro accontentare in questo campo di una stima prudenziale, dal momento che le stesse amministrazioni pubbliche non dispongono di una sistematica e organizzata documentazione sui crediti dei propri fornitori e sulle fatture associate, a causa delle insufficienze nei sistemi di contabilizzazione delle transazioni. Finora, infatti, le stime sulla dimensione del fenomeno si sono basate sull’impiego di metodologie statistiche e di indagini campionarie. «Quel che invece si sa con certezza – osserva il presidente Massimo Blasoni – è che i pagamenti del committente pubblico italiano arrivano in media dopo 170 giorni dal ricevimento della fattura, mentre i fornitori privati di norma pagano dopo 60 giorni. Questo mismatching di uscite ed entrate aggrava la situazione finanziaria di migliaia di imprese, esponendole nei casi più gravi al rischio default. Il fenomeno ha assunto rilevanza maggiore a seguito dell’attuale situazione di congiuntura economica, la quale ha provocato anche una riduzione del credito concesso dalle banche alle imprese, con conseguente aggravio della situazione finanziaria di queste ultime».

Secondo le stime prudenziali di ImpresaLavoro, l’ammontare per il 2013 è di circa 74,2 miliardi di euro, pari a circa il 4,8% del PIL. Lo stock di debito commerciale della nostra Pa risulta in calo: nel 2010 aveva toccato la cifra record di 87,3 miliardi di euro, pari al 5,5% del Pil. La diminuzione dello stock è dovuta alla riduzione della spesa pubblica relativa all’acquisto di beni e servizi, nonché dei tempi di pagamento concordati con i fornitori. Non è quindi diminuito il ritardo medio nel pagamento delle fatture.

La ricerca rivela inoltre come, a livello europeo, sia in termini nominali che relativi, l’Italia risulti essere il Paese col maggiore stock di debito. Già dal 2010, ha infatti il peggior rapporto tra debiti commerciali e PIL, superando tanto la Spagna quanto la Grecia, le uniche in Europa (a parte l’Italia) a superare il 3% in questo rapporto. Per un’impresa italiana che lavora con PA, l’incidenza di questi costi sulla singola fornitura risulta così pari al 4,2%: un dato circa 4 volte superiore a quello sostenuto da un’impresa francese (1,2%) e circa 7 volte superiore a quello sostenuto da un’impresa tedesca (0,6%). E nel caso di Francia e Germania stiamo parlando di economie non disastrate come la nostra.

La beffa dei debiti dello stato: alle imprese costano 7 miliardi

La beffa dei debiti dello stato: alle imprese costano 7 miliardi

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

Un salasso da 6,8 miliardi di euro nel 2013, un altro record negativo in ambito europeo e, soprattutto, un finanziamento indiretto alla “casta” che ai cittadini l’anno scorso è costata 5,1 miliardi. E’ questa la sintesi di una ricerca sulla ricadute negative dei ritardati pagamenti della pubblica amministrazione condotta da “ImpresaLavoro”, il centro studi creato dall’imprenditore friulano Massimo Blasoni e il cui board è presieduto da Giuseppe Pennisi.

Lo studio, infatti, analizza gli effetti del malcostume tutto italiano di non onorare prontamente le scadenze verso i fornitori. Il centro studi, basandosi sui dati di Eurostat e di Intrum Justitia, ha stimato in 72,2 miliardi di euro il totale dei debiti della pubblica amministrazione non saldati l’anno scorso, una cifra pari al 4,8 del Pil. Il valore, però, non tiene conto dei debiti delle partecipate dello Stato e degli enti pubblici che spesso sfuggono a queste misurazioni e, probabilmente, è sottostimato. Anche se lo stock si sta riducendo (nel 2010 era di 87 miliardi e nel 2012 di 81 miliardi circa) per effetto del recepimento della normativa europea – su imput dell’ex commissario Antonio Tajani – sui tempi di pagamento e sullo stanziamento di risorse ad hoc, ciò non toglie che i 170 giorni medi per un pagamento costituiscano un grave problema per le aziende.

Aspettare sei mesi per ottenere il pagamento di una fattura vuol dire rischiare il fallimento, a meno di non ricorrere a un “cuscinetto” di capitale che consenta di ovviare alla difficoltà. Questo “cuscinetto”, in molti casi, si chiama finanziamento bancario che può, ovviamente, articolarsi in differenti modalità di erogazione. Il centro studi ImpresaLavoro ha pertanto simulato quanto paghino le aziende queste risorse aggiuntive cui non si farebbe ricorso se lo Stato fosse un buon pagatore. Tecnicamente parlando, il costo del capitale è una variabile microeconomica funzione anche degli utili attesi, ma – in questo caso – si utilizza il costo medio dei finanziamenti bancari che, grosso modo, rappresentano una misura equivalente. Ebbene, la media ponderata tra linee di credito (tassi oltre il 10%), scoperti di conto (oltre il 16%), anticipo e sconto crediti (tra il 5,5% e l’8%) e factoring (tra il 4,2 e il 7,7%) restituisce un valore medio del 9,1 per cento. Ciò significa che quei 74,2 miliardi non pagati dallo Stato costano alle imprese 6,8 miliardi di extracosti di finanziamento, una cifra elevata anche a causa della congiuntura economica che rende sempre meno convincente alle banche prestare soldi alle aziende in difficoltà.

Per ironia della sorte, la memoria scritta del pg della Corte dei Conti Salvatore Nottola sul giudizio di parifica del rendiconto dello Stato indica in 5,1 miliardi di euro il costo sostenuto per gli organi istituzionali (Presidenza della Repubblica, Camera, Senato, Presidenza del Consiglio, enti locali). Insomma, è come se con quei soldi non pagati alle imprese lo Stato finanziasse la “casta” a spese delle attività produttive. Ma soprattutto, ed è questo ciò che conta, le aziende non recupereranno mai totalmente il costo dei finanziamenti: il centro studi ha infatti calcolato in circa 3,3 miliardi il valore degli interessi di mora applicabili ai debiti non saldati. Ben 3,5 miliardi se ne vanno perciò in fumo. Ultimo ma non meno importante è il costo sociale dei ritardati pagamenti: minori investimenti, meno sviluppo, perdita di posti di lavoro e fallimenti. Questo si traduce in una progressiva diminuzione della competitività: l’Italia è il Paese dell’Ue con il più elevato stock di debiti commerciali della Pa scaduti e il secondo dopo la Grecia (che però non fa testo essendo tecnicamente in default) per incidenza dei debiti sul Pil. Difficile dar torto a chi non investe in un Paese dove avere come controparte la Pa significa rischiare più del necessario.

GIUSEPPE PENNISI (Presidente Board Scientifico): serve un cambio di passo

GIUSEPPE PENNISI (Presidente Board Scientifico): serve un cambio di passo

Il Documento del Centro Studi Impresa Lavoro tratta, in modo originale, un tema non nuovo: gli effetti drammatici dei ritardi dei pagamenti della pubblica amministrazione nei confronti delle imprese sulla competitiva complessiva del sistema produttivo  italiano. Sono state proposte varie soluzioni. Il Documento ne delinea le principali.
Ma, nonostante , in seguito ad accordi con il resto della maggioranza e con il maggiore partito di opposizione, il Governo attualmente in carica abbia adottato misure per affrontare il problema, si tratta di provvedimenti parziali, la cui applicazione è molto più lenta di quanto anticipato dall’Esecutivo medesimo.
Se non c’è un cambiamento di passo, gli esiti non saranno positivi: sotto il profilo micro-economico molto imprese si troveranno in serie difficoltà tanto da dover chiudere i battenti, sotto il profilo settoriale si rischia la sparizione di interi settori prodottivi, sotto il profilo macro-economico, aumenta il pericolo di deflazione e prolungata recessione ove non depressione con un aumento del disagio sociale.
Giuseppe Pennisi, Presidente del Board Scientifico del Centro Studi ImpresaLavoro
PA, il ritardo nei pagamenti costa alle imprese 6 miliardi

PA, il ritardo nei pagamenti costa alle imprese 6 miliardi

Metronews – 4 agosto 2014

UDINE. Il ritardo dei pagamenti ai fornitori della PA ha finora determinato un costo del capitale a carico delle imprese italiane di oltre 6 miliardi di euro all’anno, pari a quasi 30 miliardi nel periodo 2009-2013. Il dato emerge da una ricerca (scaricabile interamente dal sito www.impresalavoro.org) realizzata dal centro studi di ispirazione liberale “ImpresaLavoro” di Udine, promosso dall’imprenditore Massimo Blasoni e il cui board scientifico è presieduto dal professor Giuseppe Pennisi (economista, consigliere del Cnel e docente all’Università Europea di Roma, già Banca Mondiale e dirigente generale dei Ministeri del Bilancio e del Lavoro).

Lo studio di “ImpresaLavoro” sottolinea come ci si debba peraltro accontentare in questo campo di una stima prudenziale, dal momento che le stesse amministrazioni pubbliche non dispongono di una sistematica e organizzata documentazione sui crediti dei propri fornitori e sulle fatture associate, a causa delle insufficienze nei sistemi di contabilizzazione delle transazioni. Finora, infatti, le stime sulla dimensione del fenomeno si sono basate sull’impiego di metodologie statistiche e di indagini campionarie. «Quel che invece si sa con certezza – osserva il presidente Massimo Blasoni – è che i pagamenti del committente pubblico italiano arrivano in media dopo 170 giorni dal ricevimento della fattura, mentre i fornitori privati di norma pagano dopo 60 giorni. Questo mismatching di uscite ed entrate aggrava la situazione finanziaria di migliaia di imprese, esponendole nei casi più gravi al rischio default. Il fenomeno ha assunto rilevanza maggiore a seguito dell’attuale situazione di congiuntura economica, la quale ha provocato anche una riduzione del credito concesso dalle banche alle imprese, con conseguente aggravio della situazione finanziaria di queste ultime».

Secondo le stime prudenziali di “ImpresaLavoro”, l’ammontare per il 2013 è di circa 74,2 miliardi di €, pari a circa il 4,8% del PIL. Lo stock di debito commerciale della nostra PA risulta in calo: nel 2010, esso aveva toccato la cifra record di 87,3 miliardi di euro, pari al 5,5% del PIL. La diminuzione dello stock è dovuta alla riduzione della spesa pubblica relativa all’acquisto di beni e servizi, nonché dei tempi di pagamento concordati con i fornitori. Non è quindi diminuito il ritardo medio nel pagamento delle fatture.

La ricerca di “ImpresaLavoro” rivela inoltre come, a livello europeo, sia in termini nominali che relativi, l’Italia risulti essere il Paese col maggiore stock di debito. Già dal 2010, ha infatti il peggior rapporto tra debiti commerciali e PIL, superando tanto la Spagna quanto la Grecia, le uniche in Europa (a parte l’Italia) a superare il 3% in questo rapporto. Per un’impresa italiana che lavora con PA, l’incidenza di questi costi sulla singola fornitura risulta così pari al 4,2%: un dato circa 4 volte superiore a quello sostenuto da un’impresa francese (1,2%) e circa 7 volte superiore a quello sostenuto da un’impresa tedesca (0,6%).

Massimo Blasoni(Presidente ImpresaLavoro): «Schiacciati dalla burocrazia, chi crea lavoro è senza voce»

Massimo Blasoni(Presidente ImpresaLavoro): «Schiacciati dalla burocrazia, chi crea lavoro è senza voce»

 Matteo Basile – Il Giornale

«Di economia dovrebbe parlarne chi l’economia la conosce davvero perché la fa. Chi si ostina a fare impresa e a creare lavoro nonostante tutto». Questa l’idea di base che ha spinto Massimo Blasoni a creare un centro studi di ispirazione liberale in grado di catalizzare imprenditori, ricercatori e studiosi capaci di analizzare la situazione del Paese e capire il modo di uscire dalla stagnazione in cui langue il Paese. Un board scientifico con nomi di primissimo livello, un direttore – Massimo Bressan – di 32 anni, due sedi (a Roma e a Udine) e tanta voglia di metterci la faccia e fare la propria parte anziché limitarsi a coltivare l’orticello.
Blasoni è imprenditore del Nord Est “da manuale”: partito da zero è ora a capo di un’impresa nel settore delle residenze socio-sanitarie con 40 filiali, 1.300 dipendenti e fatturato e utili in costante aumento. Ma dopo alcune esperienze in politica che non lo hanno entusiasmato perché, spiega, «troppi sembra vivano sulla Luna», ha deciso di darsi da fare diversamente. Già il nome scelto per il Centro Studi dice tutto: impresa e lavoro. Facile no?
«In Italia fare impresa è difficilissimo. Paghiamo più tasse, abbiamo meno credito dalle banche e operiamo in un Paese senza infrastrutture e con una burocrazia insopportabile. Vogliamo dare voce a chi fa impresa: in primis partite Iva e piccoli artigiani che sono il vero tessuto sociale dell’Italia».
Come imprenditore ha successo. Chi glielo fa fare?
«Serve un grande impegno perché senza chi fa impresa andiamo incontro a un futuro fatto di giovani disoccupati, di aziende fallite e di imprese cedute all’estero. La strada è questa, dobbiamo invertirla e farlo in fretta».
Proprio voi «imprenditori-evasori-nemici dello Stato»?
«Magari anche uscendo da questi stereotipi senza senso. l’evasione va colpita duramente. Ma il binomio imprenditori-evasori è fuori dalla logica. I nemici sono altri».
Uno è senz’altro la burocrazia.
«L’Italia sembra divisa tra controllori e controllati. Troppo spesso sembra che in Italia ci siano più attività di ispezione che attività che producono. Non è più accettabile».
Eppure adesso c’è Renzi il nuovo, il giovane, il risolutore…
«Abbiamo verificato quel che ha detto e quel che ha fatto. Finora non ha mantenuto niente di ciò che ha promesso e tutti gli indicatori sono in peggioramento».
Quindi bocciato senza appello?
«Lui fa il politico di professione, mi pare che per il momento non abbia compreso la terribile situazione dell’economia. Per nulla».
La situazione è nera, quale sarebbe la prima e più urgente misura da adottare?
«È necessario ridurre le imposte alle aziende. Questo significherebbe creare posti di lavoro da subito. L’economia non riparte con misure omeopatiche come gli 80 euro ma solo con una vera e forte contrazione delle tasse per le imprese».
NASCE IMPRESALAVORO: ridare voce a chi fa impresa

NASCE IMPRESALAVORO: ridare voce a chi fa impresa

Si chiama ImpresaLavoro e punta ad essere un centro studi di respiro nazionale e di ispirazione liberale, capace di “rimettere al centro del dibattito i temi dell’economia e del lavoro”. L’idea è dell’imprenditore udinese Massimo Blasoni che ha presentato oggi, anche su alcuni quotidiani nazionali, la sua ultima iniziativa. Il nome già dice molto perché, come scritto nella presentazione del Centro Studi, “le difficoltà che attraversa l’impresa italiana sono anche le difficoltà dei lavoratori italiani”, due mondi questi che rappresentano “le componenti fondamentali del nostro tessuto produttivo”.
Per Blasoni l’obiettivo è duplice: “da un lato – spiega – far parlare di economia chi l’economia la fa davvero riportando l’attenzione sui temi che veri che riguardano il nostro paese: c’è davvero qualcuno che pensa che i tanti giovani disoccupati o le partite iva che stanno chiudendo per colpa di una crisi senza precedenti siano interessati a conoscere le modalità di elezione dei nostri senatori? Credo piuttosto che dovremmo occuparci  con maggior attenzione di quel che davvero soffoca il nostro paese: burocrazia, tasse, regole che scoraggiano gli investimenti”. Poi c’è l’aspetto politico: “il centro nasce anche come luogo di aggregazione dei tanti ancora convinti che la ricetta liberale in economia sia la migliore e che si possa fare di più e meglio di quel che sta facendo Renzi: il debito continua a correre, la spesa pubblica cresce senza freno, le tasse hanno toccato livelli record. E’ difficile dire che il Presidente del Consiglio, politico da sempre, abbia la reale percezione di quel che sta accadendo nel paese”.
 Per “svegliare” la politica ImpresaLavoro produrrà ricerche e studi sul quadro economico italiano ed europeo, svolgerà un attento fact-checking sui provvedimenti economici del governo e soprattutto farà parlare gli imprenditori, attraverso focus mirati sui problemi di chi fa impresa in Italia. E proprio sul tema del rapporto tra Imprese e Pubblica Amministrazione si concentrerà il primo studio, in uscita il 4 Agosto.
A dirigere il centro ci sarà un altro udinese, Simone Bressan, mentre tra il board scientifico spiccano nomi di assoluto rilievo: Giuseppe Pennisi (economista, membro del CNEL ed editorialista), Salvatore Zecchini (Tor Vergata), Luciano Pellicani (Luiss di Roma) e Cesare Gottardo (Università di Udine). Accanto a loro un team di ricercatori per la parte relativa alla finanza d’impresa  e da Carlo Lottieri (Istituto Bruno Leoni) per l’ambizioso progetto di un atlante fiscale europeo.
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Debiti Commerciali della Pubblica Amministrazione: confronto con gli altri paesi europei. 

Ammontare debiti commerciali

Debiti Commerciali della Pubblica Amministrazione in rapporto al Pil: confronto con gli altri paesi europei. 


Debiti commerciali pil

 

Giorni medi per il pagamento dei debiti commerciali della Pubblica Amministrazione: confronto con gli altri paesi europei. 

Giorni di pagamento

 Costi a carico delle imprese italiane.  

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I governo sbaglia i conti, tutte le tasse in arrivo

I governo sbaglia i conti, tutte le tasse in arrivo

Renato Brunetta – Il Giornale

Se anche Eugenio Scalfari invoca la Troika, ancorché nella versione buona (per una politica economica espansiva, e non restrittiva), vuol dire che le cose vanno proprio male per l’economia italiana. Se è vero che il problema è di tutta l’eurozona, l’Italia è comunque il fanalino di coda: basta fare il confronto con Grecia e Spagna, che fino a un anno fa erano messe peggio di noi.

Questo vuol dire che l’Italia, dal governo Monti in poi, ha sbagliato tutto. Con l’aumento stellare della tassazione casa (triplicata); la controriforma del mercato lavoro; la riforma sbagliata delle pensioni; l’aumento della pressione fiscale su famiglie e imprese, per quanto riguarda Monti e Letta. E con il riformismo confuso, impotente, clientelare, inadeguato del governo Renzi: basti pensare al Jobs act; alla controriforma Madia della Pubblica amministrazione; allo sconquasso dei conti pubblici causato dal “bonus Irpef” di 80 euro; alla Spending review impantanata e alla svendita, senza logica e senza un piano, dei propri gioielli di famiglia (si veda, da ultimo, la cessione del 35% del capitale sociale di Cdp Reti, che contiene il 30% di Snam e il 29% di Terna, al gruppo che controlla le reti energetiche cinesi). Su quest’ultimo punto, del programma di dismissioni del ministro Vittorio Grilli, per un punto di Pil, pari a 16 miliardi, si è persa traccia. Così come restano ad oggi irrealizzati gli 11 miliardi all’anno di dismissioni contenuti nel Def 2014 di Matteo Renzi e Pier Carlo Padoan.

In quasi 3 anni, passati invano, 3 distinti governi, tutti caratterizzati dal fatto di non essere stati eletti dal popolo, non hanno voluto, o non sono stati capaci di fare le cose che si dovevano fare, guarda caso contenute nella lettera che il 26 ottobre 2011 il governo Berlusconi inviò, ricevendo tanti applausi, ai presidenti di Commissione e Consiglio europeo. Misure di modernizzazione e rilancio dell’economia italiana in parte approvate a novembre 2011 con il maxiemendamento alla Legge di stabilità per il 2012 (ultimo atto del governo Berlusconi), ma poi, purtroppo, a causa dei tanti cambi di esecutivo, non attuate (si pensi alla mobilità obbligatoria per il pubblico impiego). Oggi le cose da fare sono chiare a tutti, perfino a Eugenio Scalfari, che invoca la Troika, delegittimando, di fatto, Renzi.

I dati parlano chiaro: per mantenere gli impegni presi con l’Europa nel 2014 mancano tra 29 e 32 miliardi di euro. E per mantenere le promesse che Renzi ha fatto agli italiani bisognerà trovare altri 37 miliardi nel 2015.

IL PIANO BERLUSCONI PER USCIRE DALLA CRISI

1) Attacco al debito pubblico ed elezione diretta del presidente della Repubblica: due facce della stessa medaglia, per una strategia credibile

Innanzitutto, per sopperire alla più grave debolezza italiana e rafforzare la nostra posizione in Europa, si rende necessario, dunque, un intervento straordinario, ma duraturo, di aggressione del debito pubblico. Una riduzione strutturale del debito sovrano dell’ordine di 400 miliardi (circa 20-25 punti di Pil) in 5 anni: 100 miliardi derivano dalla vendita di beni pubblici per 15-20 miliardi all’anno (circa 1 punto di Pil ogni anno); 40-50 miliardi (circa 2,5 punti di Pil) dalla costituzione e

cessione di società per le concessioni demaniali; 25-35 miliardi (circa 1,5 punti di Pil) dalla tassazione ordinaria delle attività finanziarie detenute all’estero (5-7 miliardi all’anno); 215-235 miliardi dalla vendita di beni patrimoniali e diritti dello Stato disponibili e non strategici ad una società di diritto privato, che emetterà obbligazioni con warrant. Altro che svendite per fare cassa. Il segnale strategico che si vuol dare con un piano di questo tipo è quello di aumentare l’efficienza, la produttività e la competitività dell’economia italiana; ridurre il peso dello Stato; liberare risorse oggi patologicamente impiegate per il servizio del debito. Vendita del patrimonio pubblico immobiliare, al centro come in periferia, liberalizzazioni e privatizzazioni delle Public utilities, riduzione del peso delle industrie pubbliche, sdemanializzazione nel territorio, emersione del sommerso, per trasformare il capitale morto, come direbbe l’economista peruviano Hernando De Soto, in capitale vivo. E per avere, come vedremo, lo spazio necessario e sufficiente per ridurre la pressione fiscale su famiglie e imprese, innescando così il circuito virtuoso meno debito-meno tasse-più crescita.

Ma l’attacco stabile e duraturo al debito pubblico, da solo, non basta: per scongiurare l’incertezza e l’ingovernabilità e per avere un’Italia credibile in Europa e sui mercati finanziari, ad esso occorre

accompagnare una parallela verticalizzazione delle istituzioni, che preveda l’elezione diretta del Presidente della Repubblica e assicuri una guida stabile e democraticamente legittimata alla politica italiana. Altro che l’attuale riforma del Senato. Attacco al debito ed elezione diretta del presidente della Repubblica: due facce della stessa medaglia. Un doppio segnale fortissimo. L’operazione nel suo complesso avrebbe in sé tutta la forza, tutta l’etica, di una vera rivoluzione: si avvierebbe

finalmente un meccanismo positivo di modernizzazione del paese per essere europei a 360 gradi, che i mercati non potrebbero non apprezzare, sia da un punto di vista finanziario sia da un punto di vista di credibilità politico-istituzionale. Un grande, decisivo investimento collettivo nel senso di dare certezze, agli italiani innanzitutto, ai nostri severi (ed egoisti) partners europei, ai mercati, per tirare fuori il paese dalla crisi, dal pessimismo, dall’autolesionismo, dai suoi errori e dalle sue strutturali inefficienze: debito e cattiva politica. Una grande occasione non solo per l’Italia, maanche per tutte quelle forze politiche e sociali che se ne faranno interpreti.

2) Riduzione della pressione fiscale

Una volta avviato il piano di riduzione strutturale del debito pubblico, andrebbe parallelamente avviato un grande piano di riduzione della spesa pubblica, destinando le risorse così ottenute alla riduzione, di pari importo, della pressione fiscale. Nel programma elettorale 2013 della coalizione di centrodestra, che 10 milioni di italiani hanno votato, Berlusconi ha proposto di ridurre di 80 miliardi in 5 anni (16 miliardi all’anno) la spesa pubblica corrente (attualmente pari a circa 800 miliardi) e di ridurre di pari importo la pressione fiscale. Con l’ambizioso obiettivo di portare la nostra economia a crescere a un ritmo di almeno il 2%, stimolando così i consumi delle famiglie e gli investimenti delle imprese. Con più gettito e più risorse per gli ammortizzatori sociali. Quindi più benessere. Se si riduce di 16 miliardi all’anno la spesa pubblica, di pari importo andrebbe ridotta la pressione fiscale, con provvedimenti per 8 miliardi all’anno a favore delle famiglie e per altri 8 miliardi all’anno a favore delle imprese. Il tutto per portare, in 5 anni (durata di ogni legislatura) dal 45% al 40% la pressione fiscale in Italia.

3) La politica economica europea

Questa è la vera Spending review: attacco strategico e strutturale al debito pubblico, taglio strutturale della spesa corrente, e pari riduzione della pressione fiscale per le famiglie e per le imprese. Cui aggiungere la richiesta, a livello europeo, non di una generica “maggiore flessibilità”, che non porta a niente, ma di una nuova politica economica nell’intera area dell’euro. A partire dalla reflazione in Germania; le riforme simultanee in tutti gli Stati dell’eurozona; l’accelerazione sulle 4 unioni: bancaria, di bilancio, politica e economica (significa Euro bond, Union bond, Stability

bond, Project bond). Solo in questo modo potranno crearsi le condizioni per consentire alla Banca centrale europea di utilizzare al massimo gli strumenti di politica monetaria previsti dal suo Statuto. Fino al Quantitative easing all’europea, di cui abbiamo tanto bisogno. Anche per deprezzare l’euro di almeno il 20%, in modo tale da far riacquistare competitività all’intera eurozona. E per questa strada “domare” i mercati.

4) Riforma del mercato del lavoro, Tfr in busta paga e pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione

Infine, la riforma del mercato del lavoro. Tutto parte dalla lettera della Bce al governo italiano del 5 agosto 2011, ove, pur riconoscendo gli sforzi dell’esecutivo Berlusconi sul tema e, in particolare, la giusta direzione in cui andava l’accordo del 28 giugno 2011 tra le principali sigle sindacali e le associazioni industriali, si chiedeva l’introduzione di una vera flessibilità nel mercato del lavoro, attraverso “un’ulteriore riforma del sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi a livello di impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione”, nonché “un’accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi”.

Realizziamo questi due punti, fondamentali per far funzionare veramente il mercato del lavoro, e avremo il plauso non solo dell’Europa e dei mercati, ma soprattutto dei nostri giovani, delle nostre famiglie, delle nostre imprese. A tutto questo andrebbe aggiunto uno stimolo immediato per riportare liquidità (fino a 6 miliardi di euro) nelle casse delle imprese e nelle tasche dei lavoratori, da un lato riassegnando alle aziende con più di 50 dipendenti la quota di Tfr non utilizzata per la previdenza complementare (attualmente accantonata presso l’Inps), dall’altro consentendo a tutti i

lavoratori di poter reclamare, in costanza di rapporto di lavoro e senza doverla giustificare, una anticipazione fino al 100% del proprio Trattamento di fine rapporto. Per quanto riguarda le imprese, il pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione, per i 64 miliardi ad oggi restanti, fornirebbe ulteriore liquidità, di cui mai come oggi c’è bisogno. Insieme al Tfr, una manovra espansiva di politica economica.

Questo è il piano Berlusconi contro l’autunno nero che verrà. Renzi lo adotti per uscire dalla crisi. Se c’è stato e c’è ancora dialogo sulle riforme istituzionali, per le quali l’apertura di credito del presidente Berlusconi nei confronti del presidente Renzi è stata grande e generosa; e se la riforma elettorale è ancora in discussione (anche se dobbiamo ricordare che la gente non vive né di riforma del Senato né di riforma elettorale), dopo il fallimento della sua strategia di politica economica, Renzi mostri la stessa generosità che con lui ha avuto Berlusconi in tema di riforme costituzionali. Adotti il suo piano. Uno scambio alla luce del sole, per il bene del paese.