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Promesse tradite: lo Stato non paga 64 miliardi alle aziende

Promesse tradite: lo Stato non paga 64 miliardi alle aziende

di Francesco De Dominicis – Libero

Se si trattasse di una faccenda tra privati si potrebbe azzardare a ipotizzare – codice penale alla mano – financo l’appropriazione indebita e addirittura un caso di furto vero e proprio. Il ladro in questione è lo Stato e il soggetto «offeso» – ovvero derubato – è l’impresa fornitrice alla quale non viene saldata una fattura nei termini stabiliti dalla legge. E messe insieme, le fatture non pagate, creano una montagna di miliardi di euro che resta nelle casse del Tesoro. Se ne discute da almeno cinque anni, senza che venga trovata una soluzione efficace. Il risultato è sempre lo stesso: circola meno liquidità nella cosiddetta economia reale e qualche azienda, specie tra quelle più piccole, soffocata proprio dalle casse a secco, è costretta – non di rado – a portare i libri in tribunale. Si fallisce anche per colpa dello Stato, insomma. Se va meglio, si taglia qualche investimento programmato oppure si licenziano i lavoratori. L’effetto finale è un danno collettivo di proporzioni certamente non irrilevanti.

Su questo versante, per la verità, non esistono stime esatte. E sui numeri in ballo spesso si fa un po’ di confusione. Lo scandalo vero, in effetti, non è rappresentato dai 64 miliardi di euro di arretrati complessivi dello Stato verso le imprese fornitrici. Certo, il totale dei debiti è quello e fa parecchio rumore. Non a caso, il dato, riportato nell’ultima relazione della Banca d’Italia, è stato immediatamente cavalcato da associazioni di categoria oltre che centri studi, come Cgia di Mestre e ImpresaLavoro. Tuttavia, una parte di quei ritardi è fisiologica: dipende, cioè, dai tempi di pagamento concordati tra pubblica amministrazione e azienda per saldare le fatture, relative a beni e servizi.

Tempi che possono variare sulla base di norme e secondo il tipo di «prestazione» acquistata dalla pa, locale o statale. Una direttiva dell’Unione europea del 2011, nel dettaglio, fissa nella forchetta tra 30 e 60 giorni i tempi massimi di pagamento. Fino al limite di due mesi, insomma, è tutto regolare o quasi. Ne consegue che sul totale di 64 miliardi, come accennato, una parte è «fisiologica»: si tratta, secondo le stime di Bankitalia, di poco meno del 50%. Calcolatrice alla mano significa grosso modo 28-30 miliardi. Il resto, invece, è uno stock di more fuorilegge: la «componente non fisiologica», pertanto, si attesta a 34-36 miliardi. A tanto, dunque, ammonta il presunto furto. In ogni caso, il corpo del reato non è un pacchetto di bruscolini.

Dicevamo delle norme di Bruxelles. A metà febbraio la Commissione Ue ha chiesto all’Italia di chiarire se ha varato provvedimenti volti ad accelerare i bonifici alle imprese. In assenza di una svolta, il Paese corre il pericolo di subire l’ennesima procedura di infrazione. Rischio che da luglio si farà sempre più concreto, poiché partirà un monitoraggio a tappeto con l’avvio di un cervellone unico a livello europeo. Tutti i paesi avrebbero dovuto essere in regola sin dal 2013, ma l’Italia non ce l’ha fatta a rispettare la tabella di marcia imposta da Bruxelles.

L’ex presidente del consiglio, Matteo Renzi, su questo problema aveva alzato l’asticella. Era marzo del 2014 e l’allora premier promise di risolvere la faccenda entro il mese di settembre dello stesso anno. Renzi non mantenne la promessa (saldare gli arretrati fino al 2013) né pagò pegno – come invece aveva giurato – andando in pellegrinaggio, a piedi, al santuario sul monte Senario. Di là dalle chiacchiere del segretario del Partito democratico, in tre anni la situazione non è migliorata granché: rispetto al prodotto interno lordo, i debiti commerciali sono passati dal 5,8% del 2012 (record) al 4,3% del 2014, dal 4,2% del 2015 (68 miliardi) al 3,8% dello scorso anno (64 miliardi).

Lievi cali – quelli segnalati nelle carte di via Nazionale – che non migliorano il quadro, specie nel confronto internazionale. Solo la Grecia (103 giorni) paga con tempi più lunghi dell’Italia (95). Valori molto più alti rispetto a quelli di altri paesi europei, come Spagna (78), Francia (57) e Germania (23). Se Roma paga in tre mesi, Berlino salda in poco più di tre settimane. Come dire: quello sui tassi d’interesse dei titoli pubblici (btp e bund) non è l’unico spread tra italiani e tedeschi.

Debiti PA: stock fermo a 64 miliardi, in Europa siamo i penultimi per tempi di pagamento (95 giorni di attesa)

Debiti PA: stock fermo a 64 miliardi, in Europa siamo i penultimi per tempi di pagamento (95 giorni di attesa)

I tempi di pagamento

L’ultima edizione dell’European Payment Report di Intrum Justitia rivela che in Europa il tempo medio di pagamento da parte del settore pubblico è salito da 36 a 41 giorni in un solo anno. Questa situazione si ripercuote negativamente sopratutto sulle piccole e medie imprese, costrette come sono ad accettare termini di pagamento troppo lunghi e spesso imposti dalle imprese più grandi. La piccola buona notizia è che il trend della nostra Pubblica Amministrazione appare in controtendenza, anche per merito della fatturazione elettronica: nel 2016 ha impiegato in media 95 giorni (erano 131 giorni nel 2015) per pagare i suoi fornitori.

Si tratta di un dato inferiore di 8 giorni rispetto alla Grecia e analogo a quello del Portogallo ma che resta superiore di 17 giorni rispetto alla Spagna, di 34 giorni rispetto al Belgio, di 38 giorni rispetto alla Francia, di 43 giorni rispetto all’Irlanda, di 72 giorni rispetto alla Germania e di 73 giorni rispetto al Regno Unito.

Lo stock di debiti della PA

Il 13 marzo 2014 il premier Matteo Renzi promise in tv agli italiani che il 21 settembre di quell’anno, giorno del suo onomastico, avrebbe fatto un pellegrinaggio al santuario di Monte Senario se il suo Governo non avesse pagato tutti i debiti che la Pubblica amministrazione aveva contratto fino al 2013. A distanza di tre anni, siamo costretti a registrare che lo stock di debito commerciale contratto nei confronti delle imprese fornitrici è invece rimasto sostanzialmente invariato. La relazione annuale presentata nei giorni scorsi dalla Banca d’Italia certifica infatti che nel 2016 lo stock dei debiti accumulati dalla PA ammonta ancora a 64 miliardi di euro, appena 4 miliardi in meno rispetto all’anno precedente. Le solenni promesse dell’allora premier Renzi sono state completamente disattese. Questo dato conferma quanto abbiamo denunciato a più riprese: i debiti commerciali si rigenerano con frequenza, dal momento che beni e servizi vengono forniti di continuo. Pertanto liquidare solo in parte con operazioni spot i debiti pregressi di per sé non riduce affatto lo stock complessivo: questo può avvenire soltanto nel caso in cui i nuovi debiti creatisi nel frattempo risultino inferiori a quelli oggetto di liquidazione.

I costi per le imprese

Per l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente di ImpresaLavoro, «ne consegue pertanto un dato gravissimo per tutte le imprese italiane coinvolte: questo ritardo sistematico è infatti costato loro la cifra di 5,3 miliardi sotto forma di accesso al credito per consentire di pagare i propri dipendenti e onorare gli impegni presi. Questa stima è stata effettuata prendendo come riferimento il dato fornito da Bankitalia e il costo medio del capitale (pari all’8,339% su base annua) che le imprese hanno dovuto sostenere per far fronte al relativo fabbisogno finanziario generato dai mancati pagamenti».

L’opinione delle imprese 

I ritardi nel pagamento dei debiti commerciali, pubblici e privati, hanno conseguenze per le imprese che vanno al di là degli oneri sostenuti per l’accesso al credito. Il 46% delle aziende italiane, infatti, ritiene che un migliore e più puntuale sistema di pagamenti da parte dei debitori porterebbe all’assunzione di nuovi dipendenti. Per il 61% degli imprenditori, poi, i ritardi nei pagamenti rappresentano una delle cause di licenziamento dei lavoratori già in forza alle imprese e per il 73% degli intervistati il ritardo dei debitori frena la crescita del nostro tessuto imprenditoriale. Dati, questi, molto più elevati della media dei nostri partner europei.

 

I nuovi padroni delle banche italiane

I nuovi padroni delle banche italiane

di Gianni Zorzi * e Elisa Qualizza **

Quali effetti ha avuto la lunga crisi dell’economia sugli assetti proprietari delle banche italiane? Un rapporto di ImpresaLavoro ha provato a fare luce sui cambiamenti intervenuti in dieci anni. Sotto il peso dei crediti deteriorati e in un contesto competitivo sempre più difficile, azionisti storici come le fondazioni bancarie hanno in molti casi perso del tutto il controllo degli istituti. Il risiko stenta a ripartire, la mano pubblica è vincolata dalla direttiva sul bail-in e i gruppi stranieri sembrano stare alla finestra, con l’eccezione dei fondi d’investimento che invece hanno progressivamente incrementato le loro esposizioni.

Ai massimi del 2007 i titoli bancari quotavano in Borsa circa 210 miliardi di euro e valevano quasi il 30 per cento del listino milanese: oggi invece non superano i 67,5 miliardi e raggiungono a malapena al 13 per cento dei valori di Borsa. Questa distruzione di valore è dovuta a più cause. A parte gli episodi di mala gestio, bisognerà citare l’aumento dei crediti deteriorati (giunti al 175 per cento del capitale delle banche), l’inasprimento dei requisiti minimi di capitale, i margini di interesse sempre più risicati. La media del campione di 49 gruppi bancari analizzati da ImpresaLavoro mostra inoltre indici di redditività negativi e in costante calo sin dal 2013. Per effetto delle svalutazioni, molti dei principali gruppi bancari hanno chiuso il bilancio 2016 in perdita. Probabilmente senza l’entrata in vigore della direttiva del bail-in ci saremmo ritrovati a commentare il ritorno dello “Stato banchiere”, un ruolo che si pensava abbandonato con le privatizzazioni degli anni ’90, che avevano fatto seguito alla trasformazione delle casse di risparmio e dei monti di pietà in società per azioni con la scissione tra attività bancaria ed enti proprietari, ovverosia le fondazioni. A un quarto di secolo dalla loro istituzione, sono loro ad aver perso la maggiore influenza sul nostro sistema. Ormai il 30 per cento degli 88 enti nati dalla legge Amato del ’90 non ha più alcuna partecipazione nella relativa banca conferitaria, e un altro 10 per cento ha mantenuta una partecipazione limitata o destinata a diluirsi o dissolversi a breve.

Le banche conferitarie di 24 diverse fondazioni fanno ora capo a Intesa Sanpaolo mentre altre 13 si sono fuse in Unicredit; cinque istituti hanno ceduto alle lusinghe della Popolare dell’Emilia Romagna, altri cinque all’odierno Banco Bpm e cinque ancora a Ubi Banca. Fondazione Cariparma ha mantenuto il 13,5 per cento del relativo gruppo, passato in mani francesi dal 2007 e da poco ribattezzato Crédit Agricole. Solo una parte degli enti rimasti nel capitale dei gruppi ha voluto – e potuto – partecipare agli aumenti mantenendo inalterata così la quota di partecipazione: per esempio Compagnia di San Paolo, Fondazione Cariplo e Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, proprietarie complessivamente del 17,4 per cento di Intesa Sanpaolo.

Nello stesso gruppo hanno invece ceduto quote la Fondazione Cr Firenze, ora al 2 per cento, e Fondazione Carisbo, obbligata a ridurre la partecipazione in base al protocollo d’intesa con il Ministero dell’Economia del 2015. Dopo il recente maxi-aumento di Unicredit, le fondazioni di Crt e Cariverona sono scese all’1,8 per cento, e assieme agli altri enti pesano ormai in totale non più del 5 per cento (a fronte del 12 del 2008): ben più rilevanti i pacchetti in mano agli istituzionali battenti bandiera straniera. In controtendenza risulterebbero solo la Fondazione Cr Cuneo e la Fondazione Banca del Monte di Lombardia, salite di recente all’11 per cento di UBI Banca, superando così di poco le quote accumulate da fondi esteri come Blackrock e Silchester. Si sono diluite nel tempo Fondazione Mps (dal 58 per cento di dieci anni fa ora è scesa allo 0,1) e le tre che detengono quote di Carige (ormai tutte insieme non pesano più del 6). Più in generale sono rimaste solo otto le fondazioni che detengono una quota maggioritaria nella banca conferitaria: l’ultima a uscire da questo perimetro ormai molto ristretto è stata Saluzzo, che ha ceduto l’anno scorso a Bper il controllo della banca locale, mentre altre con ogni probabilità la seguiranno a breve.

Sono sette le fondazioni “azzerate” nel 2015 (assieme a moltissimi piccoli risparmiatori azionisti e obbligazionisti junior) a fronte dei processi di risoluzione di Banca Marche, CariChieti e CariFerrara, il primo delle quali ha travolto da solo cinque enti (Loreto, Macerata, Pesaro e Jesi che è stata azzerata pure sulle subordinate, oltre Fano che aveva accumulato una posizione in anni recenti). La parte buona di quegli istituti, assieme a quella di Banca Etruria, è transitata sotto il controllo temporaneo del Fondo di risoluzione e ha trovato acquirenti (Bper e Ubi) solo a inizio 2017 al prezzo simbolico di un euro cadauna. Fondazione Tercas nel 2014 ha perso il controllo dell’ex Cassa di Teramo, poi passata alla Popolare di Bari. Quattro fondazioni sono finite nel vortice delle ex Popolari venete, le cui azioni hanno perso del tutto il loro valore a fronte degli aumenti di capitale del 2016 da Atlante che, dopo essere intervenuto in seguito al fallito tentativo di quotazione dei due istituti, ora rischia già di perderne il controllo. Infatti le ex popolari venete al pari del Monte dei Paschi hanno richiesto l’intervento dello Stato attraverso lo strumento della ricapitalizzazione precauzionale.

Il Parlamento ha da tempo dato il via libera a questi interventi, ancora in attesa del placet europeo, fino a un importo di 20 miliardi di euro. Il settore sembra non esaurire la sua sete di capitale, ed è possibile che nuove piccole grandi rivoluzioni segnino il destino di molti istituti. A breve, per esempio, sarà la volta di Rimini e San Miniato, che assieme alle tre fondazioni che ora guidano CariCesena, attendono di conoscere l’entità degli aumenti di capitale necessari. I grandi gruppi stranieri sono stati sinora alla finestra. Probabilmente scoraggiati dall’ipotesi di consolidare impieghi carichi di crediti dubbi, titoli del nostro debito pubblico e prestiti concentrati su un’economia che ancora mostra bassi livelli di crescita, non hanno fatto acquisizioni significative.

Oltre a Caripanna di cui si è detto, Bnl è interamente partecipata da Bnp Paribas già da oltre dieci anni, mentre Deutsche Bank mantiene la sua ormai storica presenza in Italia e Crediop, travolta nella risoluzione della controllante franco-belga Dexia che l’aveva acquistata nel ’99, da anni è ufficialmente in vendita ma senza trovare acquirenti. Altri gruppi come Barclays hanno deciso di lasciare l’Italia, addirittura accettando di pagare CheBanca! (la divisione retail di Mediobanca) per rilevarne l’anno scorso la rete di sportelli.

Molto diversa la distribuzione dell’azionariato in Borsa. Unicredit è posseduto per oltre il 42 per cento da investitori istituzionali, e un altro 15 e mezzo da investitori non identificati, con meno del 29 per cento in mano al retail. Il pacchetto azionario più importante, pari al 5 per cento, è in mano agli arabi di Aahar, seguito a ruota dal fondo russo di Pamplona; la Central Bank ot’ Libya è invece scesa al di sotto del 3 per cento. In generale chi ha incrementato in misura pressoché costante le quote sono alcuni giganti dell’asset management, a partire da quelli statunitensi. Capital group detiene oltre il 4 per cento di Unicredit e quasi l’1 di Intesa, mentre Blackrock l’opposto. Vanguard ha quasi il 2 per cento di tutte le principali banche quotate, mentre ugualmente diversificati risultano Invesco, Franklin resources, Templeton. Harris è al 3,2 di intesa Sanpaolo, mentre Dimensional fund detiene quote rilevanti in Bper, Banco Bpm, Sondrio e Credito valtellinese per una quota che varia tra il 2,5 e il 4,2 per cento.

Rilevante l’interesse della Banca centrale della Norvegia (Norges Bank) che detiene tra il 2 e il 3 per cento di tutte le nostre quotate. Di recente l’a.d. Di Banco Bpm Giuseppe Castagna ha annunciato che i fondi detengono oltre il 70 per cento del gruppo e che sarà necessario «costruire con loro un rapporto duraturo». Oltre che negli assetti proprietari, i quali appaiono tuttora in evoluzione, ci si attendono dunque cambiamenti importanti anche nei rapporti con gli azionisti e nella governance. È un dramma per il sistema? Ripensando alle cronache di tante gestioni cadute in disgrazia, forse no.

* docente di finanza dell’impresa e dei mercati

** ricercatrice Centro Studi ImpresaLavoro

E I “PICCOLI” PAGANO IL CONTO

di Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro

I nostri istituti di credito hanno perso nell’ultimo decennio una quota rilevante del loro valore. Mentre in Paesi più sicuri e più attrattivi per i capitali affluivano ingentissime risorse che si trasformavano anche in impieghi per le banche volti non solo agli investimenti in debito sovrano, ma anche per famiglie e imprese. Risorse importanti posto che da noi la concessione del credito si è andata largamente restringendo negli ultimi anni. La profonda crisi di diversi istituti bancari è stata poi la conseguenza dell’azione opaca di un management disinvolto e non all’altezza, anche perché spesso scelto per l’appartenenza a un partito. A pagarne il conto sono stati migliaia di piccoli investitori, non di rado imprenditori locali, del tutto inconsapevoli dei rischi che stavano correndo.

Edilizia: nel periodo 2010-2016 Italia agli ultimi posti in Europa per andamento di produzione, ore lavorate e permessi di costruzione

Edilizia: nel periodo 2010-2016 Italia agli ultimi posti in Europa per andamento di produzione, ore lavorate e permessi di costruzione

L’andamento del mercato delle costruzioni tra il 2010 e il 2016 ha registrato un crollo verticale dell’Italia di tutti i suoi indicatori: produzione, ore lavorate e permessi di costruzione. Il nostro Paese si colloca così agli ultimi posti delle rispettive classifiche tra tutti i Paesi dell’Unione europea a 28, in quanto ad arretramento nel periodo temporale considerato. È quanto risulta da una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro realizzata su elaborazione di dati Eurostat.

Produzione nel settore delle costruzioni

L’indicatore misura le variazioni complessive nel volume di output del settore costruzioni, depurate dall’inflazione. In buona sostanza misura l’andamento del volume della produzione nel settore e la sua variazione dal 2010 al 2016. L’Italia fa segnare un arretramento del 32,2%: in Europa solo Slovenia (-45%), Cipro (-47%), Portogallo (-47,1%) e Grecia (-47,6%) fanno peggio mentre tutti i nostri principali competitor registrano viceversa dati nettamente più positivi. Se la Francia e la Spagna arretrano rispettivamente del 12,9% e del 3,2%, altri Paesi registrano invece un andamento fortemente positivo: Germania (+7,6%), Regno Unito (+11,3%) e Irlanda (+25,1%). Desta soprattutto impressione che il dato italiano registri un andamento 8 volte peggiore di quello registrato dalla media dei Paesi dell’Unione europea a 28: -32,2% contro -3,9%.

Ore lavorate

Crollano simultaneamente anche le ore lavorate, uno degli indicatori che misura con maggior precisione l’andamento dell’occupazione di questo settore. Sempre rispetto al 2010, in Italia nel 2016 si sono lavorate nel settore costruzioni quasi un terzo in meno delle ore (-28,6%), con evidenti ripercussioni sull’occupazione e sul numero di lavoratori lasciati a casa dalle aziende in crisi. In Europa solo Cipro (-41,0%) e Portogallo (-44,1%) registrano un dato peggiore del nostro. Tutti i nostri principali competitor segnalano invece dati nettamente più positivi. Arretrano anche la Grecia (-17,4%) e la Francia (-9.6%) ma in misura decisamente più contenuta della nostra. Le ore lavorate aumentano invece in Gran Bretagna (+11,2%), in Germania (+11,8%) e soprattutto in Irlanda (+32,6%). In particolare va sottolineato come il dato italiano nel periodo di riferimento risulti quasi 17 volte peggiore di quello della media dei Paesi dell’Unione europea a 28 (-28,6% contro -1,7%).

Permessi di costruzione

A trainare verso il basso il nostro mercato delle costruzioni c’è certamente anche l’andamento dei permessi di costruzione concessi per l’edificazione di nuove residenze civili: il loro numero, rispetto al 2010, si è più che dimezzato facendo registrare un preoccupante -65,7%. Questo è un importante indicatore del ciclo economico poiché fornisce alcune informazioni sul carico di lavoro nell’industria edile nel prossimo futuro. In Europa solo Cipro (-74,5%) e Grecia (-86,2%) registrano un dato peggiore del nostro. Se in generale la media dei Paesi dell’Unione europea a 28 risulta stabile (-0,1%), diversi nostri competitor assistono a una flessione del dato: Francia (-4,8%), Irlanda (-11,4%), Portogallo (-52,9%) e Spagna (-53,4%). Va infine osservato come una crescita a ritmi molto sostenuti sia invece riuscita al Regno Unito (31,2%) e soprattutto alla Germania (+80,6%). Anche in questo caso desta allarme la straordinaria sproporzione del dato italiano con la media dei Paesi dell’Unione europea a 28 (-65,7% contro -0,1%).

«I dati evidenziati dalla nostra ricerca son a tal punto negativi da non poter essere giustificati solamente dalla crisi economica ormai sistemica in cui si dibatte il nostro Paese» osserva Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «A incidere vi sono i provvedimenti adottati via via dagli ultimi governi (Monti, Letta, Renzi), che hanno finito per trasformare la casa da “bene rifugio” in “bene incubo”. A un prolungato blocco del mercato immobiliare (che solo adesso sembra registrare tenui segnali di risveglio) è così corrisposto quello ben più pericoloso dell’intero comparto delle costruzioni, che da sempre costituisce uno dei maggiori traini dell’intera economia. Le nostre performance sono da ultimi della classe: un dato che davvero non può non allarmare».

Legge Delrio, l’ennesima riforma incompiuta che lascia gli Enti a secco e senza un’identità

Legge Delrio, l’ennesima riforma incompiuta che lascia gli Enti a secco e senza un’identità

di Gian Maria De Francesco – Il Giornale

L’ennesimo rinvio del decreto Enti locali che ieri avrebbe dovuto essere approvato dal Consiglio dei ministri è solo l’ennesima puntata di una telenovela che si trascina ormai dal 4 dicembre. Le province speravano, infatti, che da quell’articolato spuntassero, almeno in parte, i 650 milioni necessari a chiudere i bilanci di previsione. Ma il vero problema è di natura giuridica.

La riforma Delrio del 2015, che ha trasformato le province in enti di secondo livello (cioè eletti da rappresentanti dei cittadini, in questo caso i sindaci), si è rivelata un’incompiuta. Non solo per il taglio delle risorse che ne è seguito, ma perché sono rimaste sostanzialmente un ibrido pur mantenendo funzioni importanti come la gestione di 130mila chilometri di strade e di 5.100 scuole superiori. Il referendum renziano, che le avrebbe cancellate dalla Costituzione, non avrebbe chiuso la partita perché sarebbe stata necessaria una legge successiva per redistribuire quelle competenze tra Regioni e Città metropolitane. Legge che è comunque un «obbligo» considerato che non si può più procedere per via emergenziale. In un Parlamento guidato da un Pd tutto concentrato sulla corsa alla segreteria parlare di riforma delle legge Delrio è impensabile. Forza Italia, più sensibile alle carenze finanziarie delle province, oltre a reclamare i 650 milioni con un provvedimento ad hoc ha pensato a un’ipotesi di riforma che cancelli enti inutili, Province e città metropolitane sostituendole con trentuno Regioni.

Una analisi abbastanza recente del Centro studi ImpresaLavoro ha messo in evidenza come i tagli subiti dalle province che, dagli 8,4 miliardi di stanziamenti per la spesa nel 2011 sono scese a 4,7 miliardi l’anno scorso, sono stati monodirezionali. Contestualmente, infatti, le dieci nuove Città metropolitane hanno ottenuto più di 2 miliardi l’anno. I risparmi, perciò, sono stati abbastanza limitati e possono quasi interpretarsi come un trasferimento di fondi dalle realtà più piccole (che boccheggiano) verso le metropoli come Milano, Roma, Napoli, Torino e Bari. Tra i dieci enti che nel 2016 hanno registrato la maggiore spesa pro capite, prosegue ImpresaLavoro, figurano cinque Città metropolitane tra cui Firenze e Genova, una realtà a statuto speciale (la provincia di Trieste) e una che sicuramente avrebbe preferito non rientrare in questa graduatoria: l’Aquila.

L’elemosina Ue per (non) fermare l’invasione

L’elemosina Ue per (non) fermare l’invasione

di Francesco Borgonovo – La Verità

C’è un sacco di gente, in questi giorni, che si straccia le vesti perché nel continente europeo stanno riaffiorando gli «antichi nazionalismi». Ricompaiono le frontiere, si scavano di nuovo – e più profondi – i confini. Cosi, i fanatici dell’integrazione europea sono pronti a tutto pur di arrestare l’ondata di populismo che avanza. Persino a sostenere l’idea di una «Europa a due velocità» partorita da Angela Merkel nel tentativo di non smarrire per strada nemmeno una briciola di potere assoluto.

Beh, a chi magnifica il grandioso aiuto che ci ha fornito l’Unione europea in questi anni forse è il caso di sottoporre la tabella che pubblichiamo in questa pagina, realizzata da ImpresaLavoro (impresalavoro.org), centro studi presieduto dall’imprenditore Massimo Blasoni. I ricercatori, elaborando i dati forniti nel corso degli anni dal ministero dell’Economia e delle Finanze, hanno messo nero su bianco il contributo che Bruxelles ha dato al nostro Paese onde affrontare al meglio l’emergenza immigrazione.

L’Italia, dal 2011 al 2016, ha speso qualcosa come 11,693 miliardi di euro per sostenere le spese dell’accoglienza e dell’ospitalità a beneficio degli stranieri. Altri 4,174 miliardi saranno sborsati per l’anno in corso. Insomma, una marea di denari. E dall’Ue che cosa è arrivato? Gli spiccioli. Facendo la media, stiamo parlando di poco più di 105 milioni di euro l’anno. Una miseria. Il dato risulta ancora più umiliante se consideriamo l’invasione migratoria nel suo complesso, e il ruolo che l’Ue vi ha giocato. Sono stati proprio gli accordi europei ad averci imposto,fino ad oggi, di farci carico di tutti gli stranieri in arrivo – via mare o via terra – nel nostro Paese. È stata l’Europa a sanzionarci perché non prendevamo le impronte digitali agli immigrati. Sempre l’Ue ha avanzato dubbi sulla gestione dei centri di identificazione e di espulsione e ci ha obbligato ad aprire i famigerati hotspot, che (secondo un recente studio commissionato dal Senato) si sono rivelati una fabbrica di clandestini.

Fate due conti e chiedetevi: l’Europa ci ha aiutato o ci ha danneggiato? La risposta è facile. Non c’è un aspetto della questione migratoria su cui Bruxelles non abbia tradito i patti. A cominciare dai famigerati «ricollocamenti», cioè i trasferimenti di profughi dal nostro Paese ad altri Stati comunitari. Una misura che si è rivelata un clamoroso fallimento, dato che i nostri amici europei nel corso dell’ultimo anno se ne sono allegramente fregati della nostra sorte e si sono per lo più rifiutati di farsi carico dei nostri rifugiati. Da una parte, dunque, l’Ue ci ha obbligato ad accogliere. Dall’altro, ci ha versato annualmente molti meno soldi di quelli che ora verranno dati all’Africa sotto forma di aiuti. All’ultimo vertice sull’immigrazione tenutosi a Malta, infatti, si è stabilito che vengano versati, nel solo 2017, 200 milioni di euro per aiutare la Libia ad affrontare il traffico di migranti. Soldi che si vanno ad aggiungere ai 31 miliardi stanziati per il piano di sviluppo del Continente nero. Ridicolo, vero? L’Ue ha dato più soldi agli africani che agli italiani.

Risultato: dobbiamo sborsare una marea di soldi di tasca nostra. Il premier Paolo Gentiloni, giorni fa, ci ha presentato l’accordo con la Libia come un passo fondamentale nella risoluzione del problema immigrazione. La verità, però, è che anche nel 2017 spenderemo un sacco di denari per l’accoglienza. Vari Comuni sparsi sul nostro territorio hanno già pubblicato bandi validi per i prossimi 12 mesi, onde invitare privati e associazioni a partecipare all’accoglienza, in cambio di milioni sonanti. Nel frattempo, la cronaca continua a raccontare brutte storie come quella di Savona, dove ieri sono stati arrestati un poliziotto e due funzionari della Prefettura nell’ambito di un’indagine riguardante proprio la gestione dell’accoglienza. I contribuenti spendono. I furbi, al solito, tentano di farci la cresta. Per farla breve, il giro d’affari non accenna a diminuire. Anche perché gli sbarchi a non calano, non c’è accordo che tenga. Solo ieri sono sbarcati a Brindisi 500 stranieri in arrivo – guarda caso – dalla Libia. Altri 500 hanno fatto rotta verso Augusta. Ecco che cosa accade a fidarsi dell’Europa.

Per gli imprenditori il tempo è denaro ma la giustizia lo ignora

Per gli imprenditori il tempo è denaro ma la giustizia lo ignora

di Massimo Blasoni – Libero

Non c’è impresa privata senza il coraggio di rischiare. Il mercato genera selezione, obbliga a competere. Non è così nella pubblica amministrazione, giustizia compresa, i cui operatori vengono stipendiati a fine mese indipendentemente dai risultati ottenuti. Per chi vuole investire e fare impresa, il fattore tempo è invece un elemento decisivo per determinare la riuscita o il fallimento della propria attività. I mesi, molto spesso gli anni, trascorsi nell’attesa di definire cause e contenziosi giudiziari costituiscono costi rilevantissimi che vanno quantificati in posti di lavoro persi e minore ricchezza.

Il cattivo funzionamento della nostra giustizia civile e amministrativa è un danno per tutti: spaventa gli investitori (stranieri e non), deprime gli sforzi degli imprenditori onesti e condanna il Paese al declino economico. Lo dimostrano i più recenti dati elaborati dal Cepej-Stat del Consiglio d’Europa. Prendendo in considerazione le sole cause civili e di diritto commerciale, nel 2014 in Italia rimanevano in attesa di giudizio oltre 2 milioni e 758 mila processi: un record assoluto per tutti i Paesi dell’Europa allargata, in grado di mettere in secondo piano il milione e mezzo di cause pendenti in Francia e le 750 mila scarse della Germania. Il dato assoluto è riferito ai soli processi di primo grado e, anche se appare in leggero calo rispetto agli anni precedenti, significa che a fine anno rimanevano pendenti, in termini relativi, 45 processi ogni mille abitanti in Italia contro i 24 della Francia, i 18 della Spagna e i soli 9 della Germania. Una situazione che tiene alla larga i capitali internazionali.

Non deve quindi sorprendere che la media degli ultimi tre anni evidenzi investimenti netti annui provenienti dall’estero per un magro 0,72 per cento del nostro Pil. Secondo un recente studio pubblicato dalla Commissione Europea, la riduzione delle cause pendenti per numero di abitanti determina l’incremento degli investimenti esteri:per il nostro Paese, portarle al livello della media europea potrebbe di per sé generare afflussi extra per un valore tra lo 0,66 e lo 0,86 del Pil (in sostanza tra i 10,8 e i 14,1 miliardi annui: il doppio dell’attuale). L’inefficienza giudiziaria italiana determina insomma un doppio, gravissimo danno: non solo nega coi suoi ritardi una vera certezza del diritto ma agisce anche come poderoso freno allo sviluppo della nostra economia.

L’azienda Italia si blocca in tribunale

L’azienda Italia si blocca in tribunale

di Gianni Zorzi * e Elisa Qualizza **

Quanto costano i ritardi della giustizia in Italia? Quanto incide l’inefficienza giudiziaria sull’economia? Il Centro studi ImpresaLavoro ha tentato di quantificare l’impatto negativo della lunghezza dei processi e dell’arretrato di cause pendenti su variabili chiave come l’attrattività degli investimenti esteri, la nascita e lo sviluppo delle imprese italiane, la disoccupazione e i volumi del credito bancario.

Il punto di partenza è la posizione piuttosto arretrata dell’Italia nelle varie classifiche internazionali che considerano l’efficacia della macchina giudiziaria. Il confronto internazionale è possibile grazie alla base dati armonizzata Cepej-Stat, messa a disposizione dalla Commissione per l’efficienza della giustizia del Consiglio d’Europa; risultati analoghi trovano conferma nei dati Doing Business incrociati con le statistiche di Eurostat. Gli ultimi dati, benché riferiti al 2014, permettono di inquadrare il problema nella sua gravità. Prendendo in considerazione le sole cause civili e di diritto commerciale, rimanevano in attesa di giudizio, in Italia, oltre 2 milioni e 758 mila processi: un record assoluto per tutti i Paesi dell’Europa allargata, in grado di oscurare il milione e mezzo di cause pendenti in Francia e le 750 mila scarse della Germania.

Il dato assoluto è riferito ai soli processi di primo grado, ed è fortunatamente in calo rispetto agli anni precedenti. Sta di fatto che a fine anno rimangono pendenti 45 processi ogni mille abitanti in Italia contro i 24 della Francia, i 18 della Spagna e i soli 9 della Germania. Il peso dell’arretrato si riflette anche nella difficoltà di diminuire la durata media dei processi: attorno all’anno e mezzo. I 532 giorni medi necessari per le sentenze di primo grado sono il doppio rispetto alla media europea e con la sola eccezione di alcuni Paesi dell’Est e di Malta tutti gli ordinamenti se la cavano con durate (ampiamente) inferiori all’anno. Analisi più estese, che tengono in considerazione anche il secondo e terzo grado di giudizio, mostrerebbero numeri ancor più impietosi: da noi servono quasi tre anni, in media, per gli appelli e altri tre e mezzo per i giudizi in cassazione.

A migliorare con la rapidità dei giudizi e la riduzione degli arretrati sono ad esempio i tempi di pagamento tra imprese, con tutti i relativi effetti in termini di maggiore liquidità in circolazione, minor numero di insolvenze e minore disoccupazione. Anche i tempi e i costi di recupero dei crediti sono collegati all’efficacia della giustizia e ciò dovrebbe far riflettere sul problema della valorizzazione e dello smaltimento della montagna di crediti deteriorati accumulati dalle banche. Uno studio basato su un campione di Paesi mostra inoltre che l’efficienza del sistema giudiziario migliora i tassi di imprenditorialità e di innovazione nelle imprese.

Nell’economia globale l’attenzione dei capitali si rivolge ai Paesi in cui è migliore il rapporto tra redditività attesa e livello di rischio. Se non supportata da solide prospettive di crescita, la possibilità di creare valore per le imprese passa da una riduzione degli elementi di incertezza: quelli di tipo giudiziario sono in grado di frenare in modo netto il flusso di investimenti nei Paesi meno efficienti. Se ci riferiamo al caso italiano, la media degli ultimi tre anni evidenzia investimenti netti annui dall’estero per un magro 0,72 per cento del Pil. Il dato non si riferisce solo alle acquisizioni ma all’effettiva apertura di nuovi centri, filiali e strutture in genere da parte dei non residenti: si tratta dunque di nuovi investimenti privati provenienti da investitori internazionali, il cui livello, molto inferiore alla media UE, mostra la scarsa attrattività del nostro Paese. Secondo un recente studio pubblicato dalla Commissione Europea, la riduzione delle cause pendenti per numero di abitanti è collegata all’incremento di questo tipo di investimenti: portarle al livello della media europea potrebbe di per sé generare afflussi extra dall’estero per un valore tra lo 0,66 e lo 0,86 del Pil (tra i 10,8 e i 14,1 miliardi annui: il doppio dell’attuale).

Ma non è l’unica via che contribuirebbe sicuramente a una più sana e robusta crescita. Ridurre di un quarto i tempi dei tribunali potrebbe infatti aumentare il tasso di natalità delle imprese e cioè incrementare il ritmo di nascita di nuove iniziative imprenditoriali di circa 143mila unità all’anno: una volta e mezza il tasso attuale. Lo shock positivo sarebbe ancora più evidente nel caso i tempi si dimezzassero, portandosi dunque alla media europea: la stima in questo caso varia tra le 192 mila e le 240 mila nuove imprese all’anno in più rispetto ai ritmi correnti. Se si potesse raddoppiare la velocità dei tribunali potremmo attenderci anche una crescita della dimensione delle nostre imprese, per circa l’8,5% in media, come stimato da Banca d’Italia. È condiviso inoltre che un sistema giudiziario meno tempestivo fornisce minori incentivi agli investimenti e all’assunzione di nuovo personale, decisioni sulle quali l’incertezza può solo fungere da deterrente. Il dato, peraltro, non è poco rilevante per un Paese come il nostro in cui il 70 per cento del valore aggiunto è prodotto da piccole e medie imprese.

Anche dal punto di vista della disponibilità di credito le conclusioni sono importanti. Diversi studi hanno esaminato il legame tra tempi della giustizia, costo dei finanziamenti e loro disponibilità presso il canale bancario: secondo le relazioni più significative, raggiungere il livello medio UE nei tribunali potrebbe aprire l’opportunità di nuovi prestiti alle imprese per ben 29,3 miliardi di euro, pari a un aumento del 3,7 per cento rispetto allo stock attuale.

E infine, anche il mercato del lavoro ne potrebbe beneficiare. Si pensi che un’analisi di ImpresaLavoro basata sugli ultimi dati del Ministero della Giustizia suddivisi per distretti giudiziari ha individuato in ben 5,7 punti il potenziale di disoccupazione riducibile con riferimento alle aree più disagiate. La stima è coerente anche con quanto rilevato in un report del Fondo monetario internazionale, il quale confermerebbe un incremento di diversi punti della probabilità di impiego in seguito a un tale efficientamento della macchina giudiziaria. Altri studi hanno evidenziato i benefici che si avrebbero, oltretutto, in termini di riallocazione più efficiente e rapida delle risorse umane, di produttività e di maggiore intensità di capitale nelle nostre aziende.

A fronte di tutti questi dati, almeno due elementi emergono al di là di ogni altra considerazione: l’inefficienza giudiziaria agisce come un freno allo sviluppo della nostra economia e ridurre il peso di questa inefficienza potrebbe finalmente liberare un volume importante di potenzialità ancora inespresse.

* docente di finanza dell’impresa e dei mercati

** ricercatrice Centro Studi ImpresaLavoro

Gli immigrati mandano 64 miliardi all’estero

Gli immigrati mandano 64 miliardi all’estero

di Adriano Scianca – La Verità

L’immigrazione fa bene all’economia? Sicuramente a quella dei Paesi che gli immigrati li mandano da noi. Basti pensare al fenomeno delle rimesse, cioè dei soldi mandati in patria dai lavoratori stranieri e quindi sottratti (legalmente, per carità) all’economia nazionale. Dal 2005 al 2015 (ultimo dato disponibile) le rimesse dei lavoratori stranieri in Italia ai loro Paesi di origine hanno raggiunto la cifra considerevole di 64,522 miliardi di euro. Lo rivela un’analisi del Centro Studi ImpresaLavoro su elaborazione di dati Bankitalia. Nel 2005 erano poco meno di 4 miliardi, nel 2015 poco più di 5. Il dato più alto è stato registrato nel 2011, con quasi 7 miliardi e mezzo. In 10 anni, quindi, abbiamo perso più di 64 miliardi di euro, finiti in Paesi europei o extraeuropei.

Ovviamente chi sta qui a lavorare ha tutto il diritto di fare ciò che vuole con i soldi guadagnati, e inviarli alla propria famiglia è un’opzione più che comprensibile. Osservando macroscopicamente il fenomeno, tuttavia, non si può non notare come questo determini un netto impoverimento per la nazione ospitante. Altro che “risorse”. Certo, la crisi si fa sentire anche per gli immigrati. E infatti, osservando la ripartizione per anno, si nota come la difficile congiuntura economica italiana abbia comportato negli ultimi anni una significativa contrazione delle somme inviate da questi lavoratori alle loro famiglie di origine: dai 7,394 miliardi del 2011 ai 6,833 miliardi del 2012 (-7,6%) fino ai 5,251 miliardi del 2015 (-28,98%). Stime prudenziali contenute in alcuni paper pubblicati dalla Banca d’Italia sembrano inoltre suggerire che a queste cifre che transitano via intermediari ufficiali (money transfer, banche, poste) vadano aggiunti circa 700 milioni l’anno di rimesse che sarebbero inviate all’estero tramite canali “informali”, che quindi non fruttano neanche nulla in termini di commissioni e tassazioni.

Limitatamente al 2015, si osserva inoltre come i lavoratori stranieri che hanno trasferito in patria il maggior quantitativo di denaro siano stati quelli residenti in Lombardia (1 miliardo e 156,6 milioni), nel Lazio (920,2 milioni), in Toscana (564,1 milioni), in Emilia-Romagna (449,7 milioni), in Veneto (411,3 milioni) e in Piemonte (303,984 milioni). Quanto alle diverse nazionalità, nella classifica stilata dal Centro studi ImpresaLavoro (che contempla cittadini di 229 nazionalità differenti) risulta che nel 2015 i lavoratori stranieri in Italia che hanno trasferito in patria il maggior quantitativo di denaro sono quelli romeni (847,621 milioni), cinesi (557,318 milioni), bengalesi (435,333 milioni) e filippini (355,360 milioni). A seguire, fortemente distanziati, si collocano quelli provenienti dal Marocco (262,851 milioni), dal Senegal (261,883 milioni), dall’India (248,363 milioni), dal Perù (205,038 milioni), dallo Sri Lanka (175,539 milioni) e dal Pakistan (166,776 milioni).

Tolti i cittadini della Romania, in cima alla classifica assoluta dei più generosi con i parenti in patria, decisamente più contenute risultano invece le somme di denaro che i lavoratori provenienti dai principali Paesi dell’Unione europea hanno trasferito nelle località d’origine nell’ultimo anno: al primo posto della classifica risultano i polacchi (43,123 milioni) seguiti daI bulgari (41,940), dagli spagnoli (40,143 milioni), dai tedeschi (29,208 milioni), dai francesi (27,711 milioni), dai britannici (21,135 milioni) e infine dai greci (8,966 milioni). Ampliando il confronto a livello europeo, emerge inoltre come le rimesse inviate all’estero dai lavoratori stranieri residenti in Italia siano elevate in confronto a quelle di altri Paesi. L’Italia è infatti al terzo posto per volume di rimesse verso l’estero dopo la Francia e, seppur di misura, la Spagna. Colpisce l’assenza sul podio della Germania.

Un rapporto del Fondo internazionale per lo Sviluppo agricolo risalente al 2015 stimava in 109,4 miliardi di dollari il flusso di denaro che nel 2014 i lavoratori stranieri che vivono in tutta Europa avevano spedito a casa. In quella rilevazione, l’Italia era al quinto posto con 10,4 miliardi di dollari. Il primo Paese per quantità di rimesse risultava invece essere la Federazione Russa (20,6 miliardi), seguita da Regno Unito (17,1 miliardi), Germania (14 miliardi) e Francia (10,5 miliardi). Dopo l’Italia si piazzava la Spagna con 9,6 miliardi. Certo, l’aspetto positivo della cosa potrebbe essere costituito dal fatto che mandare le rimesse all’estro è un modo di aiutare gli immigrati “a casa loro”, come spesso si auspica. Creare benessere lì, affinché non vengano più qui. Ma, a parte il fatto che le rimesse partono da immigrati che sono già qui, e quindi è dura farne una bandiera contro l’immigrazione, dato che esse la presuppongono, bisogna anche ricordare che l’Italia e l’Europa aiutano già con moneta sonante i popoli degli altri continenti. All’inizio di gennaio avevamo raccontato di come, nel solo mese di dicembre, l’Unione Europea abbia staccato assegni per circa 5 miliardi di euro da destinare a 29 Paesi del Continente Nero, spesso con finalità e modalità più che discutibili, andando a finanziare governi corrotti, economie irrecuperabili, progetti insensati. Insomma, li aiutiamo facendo passare i soldi dalla porta e poi li aiutiamo una seconda volta infilando denari anche nelle finestra. Un po’ troppi aiuti, per un’Europa che ai suoi cittadini predica austerity.

E lo Stato non paga 61 miliardi

E lo Stato non paga 61 miliardi

di Leonardo Ventura – Il Tempo

«In questi ultimi 2 armi la Pubblica amministrazione non ha ridotto i tempi di pagamento di beni e servizi, mantenendo sostanzialmente invariato lo stock di debito commerciale contratto nei confronti delle imprese fornitrici. Sulla base delle ultime stime elaborate dal Centro studi ImpresaLavoro, lo scorso 31 dicembre (2015 ndr.) questo ammontava infatti a circa 61,1 miliardi di euro». È il bilancio di quanto lo Stato deve ancora dare alle aziende che hanno lavorato per lui. Insomma, quando si tratta di pagare non è certo il più puntuale dei creditori. Una cosa che ovviamente fa infuriare i contribuenti che spesso, per versamenti fatti con qualche giorno di ritardo si vedono recapitare multe salate.

Nel 2014 il debito commerciale della Pubblica amministrazione italiana nei confronti dei fornitori privati ammontava a circa 70 miliardi di euro. Un’informazione preziosa, dal momento che dallo scorso 30 gennaio la «Piattaforma per la certificazione dei crediti» del Mef non ha più aggiornato il monitoraggio del pagamento dei debiti maturati dalla Pa al 31 dicembre 201 All’epoca il Governo sosteneva di aver pagato 36,5 miliardi su un totale di 74,2 miliardi di euro: poco meno della metà del dovuto. Il dato non fa che confermare quanto denunciato già a febbraio dal Centro studi ImpresaLavoro e che fa parte del buon senso economico: i debiti commerciali si rigenerano con frequenza, dal momento che beni e servizi vengono forniti di continuo. Pertanto liquidare, solo in parte, i debiti pregressi di per sé non riduce affatto lo stock complessivo: questo può avvenire soltanto nel caso in cui i nuovi debiti che si creano risultino inferiori a quelli oggetto di liquidazione. Ne consegue altresì che il ritardo del Governo nel pagamento di questi debiti sia costato nel 2014 alle imprese italiane la cifra di 6,1 miliardi di euro. Questa stima è stata effettuata prendendo come riferimento l’ammontare complessivo dei debiti della nostra Pubblica amministrazione (così come certificato da Bankitalia), l’andamento della spesa pubblica per l’acquisto di beni e servizi (così come certificato da Eurostat) e il costo medio del capitale che le imprese hanno dovuto sostenere per far fronte al relativo fabbisogno finanziario generato dai mancati pagamenti. Elaborando i dati trimestrali di Bankitalia, ImpresaLavoro ha stimato che questo costo aggiuntivo per gli interessi sia stato nel 2014 pari all’8,97% su base annua (in leggero calo rispetto al 9,10% nel 2013).

A questa grave situazione se ne aggiunge anche un’altra che potenzialmente sarebbe ancora più grave: se lo Stato italiano dovesse infatti adeguarsi alla direttiva europea sui pagamenti e riconoscesse ai creditori gli interessi di mora così come stabiliti a livello comunitario, le casse dello Stato sarebbero gravate da un esborso di ulteriori 2,4 miliardi di euro. Per pagare i suoi fornitori lo Stato italiano impiega infatti 41 giorni in più della Spagna, 50 giorni in più del Portogallo, 82 giorni in più della Francia, 115 giorni in più della Germania e 120 giorni in più del Regno Unito.