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Quando si parla di crescita il Governo la spara grossa

Quando si parla di crescita il Governo la spara grossa

 

di Francesco De Dominicis – Libero

Il bollino blu sulla crescita zero nel secondo trimestre, sfoderato venerdì dall’Istat, ha riaperto un tema essenziale. Quanto sono attendibili le previsioni economiche? Secondo le statistiche ufficiali, il prodotto interno lordo, in Italia, si attesta per ora allo 0,8%: tutto questo scommettendo sull’assenza di rallentamenti tra giugno e dicembre di quest’anno (e i segnali registrati a luglio e agosto, complessivamente, non sono proprio positivi). Sta di fatto che quel più 0,8% tendenziale è, in ogni caso, un valore decisamente più basso rispetto alla stime del governo. Stime che, come ha spiegato ieri il Centro studi ImpresaLavoro, si rivelano sempre meno precise: dal 2002 al 2016, in 14 casi su 15 le indicazioni ufficiali dell’esecutivo non sono state «azzeccate». E solo due per difetto. Sfortuna? No, la cabala non fa parte di questa faccenda.

Spieghiamo. Torniamo al pil e alle indicazioni di palazzo Chigi. A settembre del 2015, nella nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza che per prassi «accompagna» la presentazione della legge di stabilità, il Tesoro aveva «previsto», per quest’anno, una crescita del pil dell’1,6% (esattamente il doppio rispetto al ritmo a cui viaggia attualmente la nostra economia). Undici mesi fa, più di qualcuno aveve dubitato sulle probabilità che il pil potesse raggiungere una vetta così alta: del resto, il 2014 era stato chiuso in territorio negativo (-0,4%) e il 2015 si apprestava a riportare il pil in positivo dopo diversi anni, ma con uno zero virgola non entusiasmante (a dicembre sarà appena più 0,9%). L’Italia cominciava a respirare, ma l’onda lunga della crisi non era ancora stata superata del tutto. Di qui, i dubbi: uno dopo l’altro, dalle grandi organizzazioni di categoria ai principali enti internazionali (Fmi, Ocse e non solo) hanno smontato i numeri del governo. Ragion per cui, già ad aprile, lo stesso Tesoro ha tagliato le stime del pil, portandolo dall’1,6% all’1,2%. Niente da fare: nella migliore delle ipotesi, messa sul tavolo dallo stesso istituto di statistica, il pil si attesterà all’1%. Basterà, tuttavia, qualche fattore interno o ulteriori turbolenze internazionali, per far crollare anche questa stima. I segnali non lasciano ben sperare: vuoi il clima di fiducia di imprese e consumatori, vuoi l’effetto a catena di problemi internazionali.

C’è da dire che questa ondata di ottimismo eccessivo accomuna il governo di Matteo Renzi ai vari esecutivi che si sono succeduti a partire dal 2002 (Berlusconi un paio di volte, Prodi, Monti, Letta). Nessuno, insomma, è stato infallibile con le stime e le previsioni. Hanno sbagliato tutti: nemmeno il governo di tecnici e di professori guidato da Mario Monti si è distinto per precisione. L’unico anno «preso»? Il 2007 (pil all’1,5%). Siamo al sesto anno consecutivo sballato: dal 2011 le previsioni sono state sovrastimate con scostamenti enormi. «Sulle ipotesi di crescita – spiega ImpresaLavoro – si basano le simulazioni di sostenibilità sul nostro debito pubblico e sul nostro sistema pensionistico nel medio-lungo periodo». Il punto è proprio questo: nessuno ha il «coraggio» di dire la verità in anticipo, tant’è che, nel periodo in esame, non sono mai state presentate dai governi stime negative, nonostante il pil sia andato sotto zero per ben cinque volte (2008, 2009, 2012, 2013, 2014). A correggere il tiro – e i conti pubblici, con manovre di bilancio che portano più tasse per i contribuenti – si fa sempre in tempo. Prima, si spara grossa.

Pil: negli ultimi sei anni previsioni del Governo sempre smentite

Pil: negli ultimi sei anni previsioni del Governo sempre smentite

Quattordici errori su quindici: con 12 previsioni sbagliate per eccesso e soltanto due per difetto. Il Centro studi ImpresaLavoro ha preso in esame le previsioni di crescita del Pil (riferite all’anno successivo) contenute nei principali documenti di programmazione economica del governo, dal 2002 al 2016. E le ha confrontate con i numeri effettivi della variazione del Prodotto interno lordo certificati dall’Ocse e con le previsioni per l’anno in corso elaborate dal Fondo Monetario Internazionale.

Dai dati raccolti da ImpresaLavoro emerge con chiarezza come – a parte che in tre casi (2006, 2007 e 2010) – le previsioni del governo siano sempre state troppo ottimistiche. Con la previsione di crescita dell’1,2% per il 2016 (a fronte di una stima del FMI che si ferma a +0,9%), siamo al sesto anno di fila in cui il governo prevede una crescita superiore a quella che poi effettivamente si registrerà. Dal 2011 ad oggi, infatti, l’esecutivo italiano, in sede di predisposizione del Documento di Economia e Finanza ha sbagliato le sue previsioni, sovrastimandole per cifre che vanno dallo 0,3% di quest’anno al 4,1% del 2012.

Stupisce in particolar modo il fatto che, anche durante i periodi di crisi, nessun documento di programmazione economica abbia mai previsto una crescita negativa (che purtroppo, invece, si è verificata in 5 anni su 15).

«Il fatto che da sei anni di fila, sistematicamente, sovrastimiamo la nostra crescita – dichiara Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro – è preoccupante. Sulle ipotesi di crescita, infatti, si basano le simulazioni di sostenibilità sul nostro debito pubblico e sul nostro sistema pensionistico nel medio-lungo periodo. Ma se i governi non riescono a fare previsioni accurate per l’anno successivo, come possiamo pensare che ci riescano con orizzonti temporali più ampi?».

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Mazzata sugli immobili: le tasse aumentano del 30%

Mazzata sugli immobili: le tasse aumentano del 30%

di Laura Cesaretti e Antonio Signorini – Il Giornale

Il nuovo fronte di guerra interna nel Pd è sul fisco. «Noi stiamo riducendo le tasse. Per i cittadini, troppo poco. Per alcuni politici, invece, le stiamo riducendo troppo. Non è fantastico?», scrive Matteo Renzi nella sua ultima e-news. E mette nel mirino la minoranza interna al suo partito, che – dice – con le sue uscite gli fa «mettere le mani nei capelli». È stato infatti Roberto Speranza, due giorni fa, a contestare le scelte del governo: «Inseguire ancora la riduzione fiscale rischia di essere un errore per la ripresa», dice il leader dell’area bersaniana, secondo il quale, invece di ridurre le tasse occorre puntare sugli investimenti. «Autorevoli esponenti della maggioranza (precisamente esponenti della minoranza del mio partito) – sferza il premier – intervengono per dire che bisogna smetterla di ridurre le tasse. Perché una parte dei politici italiani pensa che ridurre le tasse sia un errore». Per lui, invece, «ridurre le tasse è una priorità per l’Italia», e «numeri alla mano» è quanto il suo governo sta facendo e «continuerà a fare», rivendica facendo l’elenco: dagli 80 euro agli incentivi del Jobs Act, dall’Imu e Irap agricola alla Tasi sulla prima casa. Fino alla riduzione della tassa aeroportuale che ha consentito l’importante investimento di Ryan Air in Italia. Speranza, punto sul vivo, replica piccato: «Il tema del fisco è molto serio e non si può affrontare con le caricature come in queste ore fa purtroppo il segretario del Pd nei confronti della sua minoranza interna», scrive su Facebook. «Per me – prosegue – se togli la tassa sulla prima casa anche ad un miliardario, come purtroppo abbiamo fatto, commetti un errore grave».

La minoranza Pd difende un regime fiscale che ha introdotto una patrimoniale di fatto, concentrata sugli immobili e che costa ai contribuenti 11,4 miliardi di euro all’anno. Il calcolo arriva da un’analisi fatta ieri dal Centro studi ImpresaLavoro. Le misure introdotte dal governo, quelle criticate da Speranza, hanno comportato un calo del gettito fiscale dagli immobili del 6%. Quest’anno si attesterà a 49,1 miliardi. Ma rispetto al 2011 le tasse sulla casa sono cresciute del 30,2% pari, appunto, a 11,4 miliardi. Ad avere subito il maggiore incremento dal 2011 a oggi è la quota patrimoniale del prelievo, più che raddoppiata, mentre gli atti di trasferimento sono calati del 29% e quelle sul reddito immobiliare sono rimaste stabili, nonostante l’introduzione della cedolare secca sugli affitti. «Nonostante l’abolizione della Tasi sulla prima casa – ha spiegato Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi ImpresaLavoro – la tassazione sugli immobili nel nostro paese continua ad essere del 30% più elevata rispetto al 2011. Si tratta di una vera e propria patrimoniale operata a danno di quello che molte famiglie consideravano un vero e proprio bene rifugio», che ha generato «incertezza deprimendo consumi e domanda interna».

 

Stritolati dal fisco

Stritolati dal fisco

di Gianni Zorzi e di Elisa Qualizza – Panorama

Giugno è considerato il mese della verità per i proprietari di immobili chiamati a versare gli acconti relativi alle tasse ricorrenti sulle proprie case, edifici e terreni. Anche quest’anno alla scadenza di inizio estate si è accompagnata l’ennesima novità – questa volta fortunatamente positiva – introdotta a livello di tassazione immobiliare. Come rivela uno studio confezionato da ImpresaLavoro, infatti, dopo il livello record raggiunto nel 2015 (52,3 miliardi di euro), il gettito complessivo sugli immobili in Italia dovrebbe ridursi per quest’anno a 49,1 miliardi con una flessione quantificabile nel 6,1 per cento. La pressione fiscale sul mattone sarebbe comunque ancora ben lontana dai livelli del 2011, rispetto ai quali l’incremento risulta superiore agli 11 miliardi annui, segnando in termini relativi un corposo più 30,2 per cento.

Ciò che ha subito il maggiore incremento nel periodo considerato è la quota patrimoniale del prelievo, quasi triplicata (più 173 per cento) secondo quanto riporta la stessa Corte dei Conti, a differenza delle entrate attribuibili agli atti di trasferimento (meno 29 per cento) e a quelle sul reddito immobiliare, sostanzialmente inalterate secondo quanto risulta a ImpresaLavoro, nonostante la crescita del gettito da locazioni favorita dall’introduzione della cedolare secca sugli affitti.

La flessione di circa 3 miliardi e mezzo prevista per il 2016 rispetto all’annata precedente, invece, si deve interamente a una delle misure principali contenute al riguardo nell’ultima legge di stabilità: l’esenzione delle abitazioni principali dalla TASI. Va subito notato, però, che proprio la fiscalità sulle case di residenza è quella che ha subito il maggior numero di variazioni negli ultimi anni, rappresentando un vero emblema dell’incertezza che domina da un anno all’altro il destino dei tributi sulle case nel nostro Paese.

Nata formalmente nel 2014 come imposta sui servizi locali, la TASI si è comportata negli effetti da malcelata patrimoniale, tesa a ripristinare a favore degli enti locali il gettito inizialmente perso dall’IMU sulle prime case. La sua abrogazione sarà ora destinata a perdurare nel tempo? Così non è stato, finora, per le imposte che l’hanno preceduta.

L’introduzione dell’IMU a partire dal 2012 (intervento contenuto nel decreto Salva Italia dell’inverno del 2011) ha fatto balzare d’un tratto di oltre 12 miliardi il gettito fiscale sugli immobili, con una quota di quasi quattro miliardi attribuibile proprio alle abitazioni principali, le quali erano rimaste indenni dal 2008 per effetto dell’esenzione dalla vecchia ICI. Il nuovo tributo è stato subito oggetto di riforma per il 2013, con l’abolizione sulle abitazioni di residenza (non di lusso), salvo ricomparire per l’appunto l’anno successivo con regole diverse e sotto il nuovo nome di Tassa sui Servizi Indivisibili. L’intervento ha dunque portato il prelievo complessivo delle tasse sul mattone a sfondare per la prima volta nel 2014 il muro dei 50 miliardi, raggiungendo l’anno successivo il record storico di 52,3.

Sono cambiate negli anni anche le regole per le detrazioni, la quantificazione dei versamenti in acconto e a saldo, nonché le regole per i casi più particolari (il comodato ai parenti, le case dei residenti all’estero). Aliquote, coefficienti applicabili e codici per il versamento dei tributi si sono moltiplicati determinando una oggettiva complessità per i contribuenti a fronte di un quadro impositivo così mutevole e intricato.

Oltre a questo, uno studio di Banca d’Italia ha dimostrato che negli ultimi due anni il nuovo prelievo aveva prodotto l’effetto (probabilmente non voluto) di ridurre notevolmente la progressività delle imposte andando dunque a pesare più di prima sui ceti più deboli e sulle case di valore più modesto. L’effetto dovrebbe ridursi quest’anno proprio grazie alle norme della legge di stabilità, ma è anche vero che non è destinato ad annullarsi, visto l’incremento tendenziale che si rileva ogni anno su altre tasse locali.

Coinvolta anch’essa nel balletto degli acronimi (dai vecchi TARSU e TIA all’odierno TARI, passando per la fugace apparizione della TARES, rimasta in vigore solo nel 2013), l’imposta sui rifiuti ha infatti registrato nel periodo 2011-2015 un incremento netto del 50 per cento, arrivando a toccare 8,4 miliardi secondo le più recenti stime presentate da Confcommercio. Il peso della fiscalità sugli immobili nei bilanci degli enti locali, del resto, nello stesso periodo è incrementato in tutte le sue singole voci passando nel complesso dal 46 all’81,6 per cento, e dimostrando quindi una progressiva decentralizzazione di questo tipo di prelievo.

A meno di sorprese, dunque, il 2016 dovrebbe segnare una prima riduzione del carico fiscale complessivo sulle case, con una compensazione solo parziale derivante da voci attese in crescita come quella del gettito sui trasferimenti (in particolare le compravendite) nonché della cedolare secca sugli affitti, che conti alla mano non smette di crescere dall’anno della sua introduzione (2011).

Ma è proprio sui trasferimenti immobiliari che sono necessarie alcune considerazioni. A partire dal 2014, alcune imposte che colpiscono le compravendite (in particolare le imposte di registro, ipotecaria e catastale) hanno subito un allentamento per quanto concerne le prime case, e l’agevolazione da quest’anno spetta anche a chi acquista una prima casa pur avendone già un’altra (a patto che quest’ultima venga infine ceduta entro il termine di dodici mesi). Queste misure, tese a far riprendere il numero degli scambi sul mercato immobiliare, non sembrano tuttavia aver impedito il crollo di valore delle abitazioni italiane.

Secondo alcune interpretazioni, sarebbe invece ipotizzabile una correlazione tra l’aumento delle tasse sul mattone e la discesa dei prezzi delle abitazioni. In effetti, i numeri evidenzierebbero un certo impatto anche se, incrociando i dati Istat e Banca d’Italia sull’andamento dei prezzi e dello stock delle abitazioni in Italia, ImpresaLavoro stima in una quota media compresa tra il 5 e il 10 per cento la perdita di valore del patrimonio attribuibile a fronte dell’incremento più netto rilevato sulle imposte (quello rilevato tra il 2011 e il 2015).

In effetti, rispetto al calo dei valori di mercato il peso medio effettivo delle imposte è salito in modo ancor più vistoso, raggiungendo il 7,7 per mille nel 2015 con una componente patrimoniale pari al 5,4 per mille: sarebbe dunque possibile che quest’ultimo elemento incida sui prezzi e i volumi delle compravendite ancor più di eventuali riduzioni delle imposte una tantum sulle transazioni.

È ancora molto presto, in ogni caso, per parlare di riduzione strutturale della fiscalità sulle case, anche perché come abbiamo dimostrato, l’abolizione TASI sulle abitazioni di residenza determina per ora solo una prima inversione di tendenza, a cui dovrà necessariamente seguire una stabilizzazione sia del livello dell’imposizione che del quadro stesso delle regole che compongono la fiscalità sui nostri immobili.

A tal proposito, due grandi minacce sembrano incombere sia sulla semplificazione che sul livello delle tasse sulle case, risalito già ampiamente nelle graduatorie internazionali come documentato anche dall’Ocse. La prima minaccia è costituita dall’evolversi della dialettica tra erario e autonomie locali sulla scomposizione e suddivisione dei tributi che colpiscono le abitazioni.

La seconda è quella relativa alla cosiddetta riforma del catasto, di cui si parla da tantissimo tempo senza tuttavia averne stabilito i tratti fondamentali: il rischio a questo punto per le tasche dei contribuenti è quello di una revisione al rialzo delle rendite, ossia della base imponibile su cui poggiano più di 40 dei 49,1 miliardi che paghiamo ogni anno sui nostri immobili.

La vera notizia sarebbe dunque, nei prossimi anni, quella di non ritrovare ulteriori modifiche, aumenti o nuovi acronimi che facciano rientrare dalla finestra ciò che è uscito quest’anno dalla porta. Quella della nostra prima casa per l’appunto.

L’ennesimo falso miracolo di (San) Matteo

L’ennesimo falso miracolo di (San) Matteo

Panorama

Era il 13 marzo 2014 quando Matteo Renzi, ospite di Porta a Porta e di Bruno Vespa, promise di saldare i debiti della pubblica amministrazione verso le imprese “entro il 21 settembre successivo”, cioè entro il giorno di San Matteo. Insomma, il presidente del Consiglio, con una battuta delle sue, voleva autocelebrarsi come divino. Ecco, si è invece rivelato demoniaco.

Basta far di conto. Alla fine del 2014 il passivo dello Stato nei confronti dei suoi fornitori di beni e servizi era di circa 70 miliardi contro i 90 raggiunti durante l’era di Mario Monti a Palazzo Chigi. È pacifico, dunque, che il premier ha disatteso da subito la sua promessa. E dopo, come sono andate le cose? Alla faccia della trasparenza, sul sito del ministero dell’Economia l’ultimo aggiornamento sui pagamenti pubblici risale all’11 agosto 2015.

A quella data la somma versata ai creditori risultava essere di 38 miliardi di euro: mancavano quindi all’appello ancora 32 miliardi, cifra peraltro considerata in realtà superiore da molti economisti indipendenti. Quanto ai giorni a noi più vicini, in assenza di dati ufficiali, ci si può appellare solo ai centri studi. Secondo ImpresaLavoro, al 31 dicembre 2015 i debiti della pubblica amministrazione sono arrivati a 61,1 miliardi; per Giorgio Merletti, presidente di Confartigianato, “il conto in sospeso” era invece “di 65 miliardi e mezzo”.

E a metà 2016, a parere dell’Ance, l’associazione nazionale costruttori edili, “la situazione non è migliorata neanche con il superamento del patto di stabilità interno previsto dalla Legge di stabilità”. Questo perché “in media le imprese che realizzano lavori pubblici sono pagate 168 giorni (5 mesi e mezzo) dopo l’emissione degli Stati di avanzamento lavori, contro i 60 giorni previsti dalla normativa Ue”. Fatti e circostanze rendono quindi l’Italia il peggiore Stato pagatore d’Europa. E tra poco più di un mese è di nuovo San Matteo. Due anni dopo. (F.B.)

Il Tesoro & C., 15 anni di previsioni sbagliate

Il Tesoro & C., 15 anni di previsioni sbagliate

da Il Fatto Quotidiano

Il dato sul Pil di ieri certifica che per la dodicesima volta in quindici anni un governo italiano dovrà rivedere al ribasso le sue previsioni sulla crescita. Ormai è un fatto che si dà quasi per scontato, eppure quelle stime rosee inquinano il dibattito pubblico finché non vengono smentite (ma sempre con l’aggiunta: “La crescita ripartirà nel prossimo semestre” o “l’anno prossimo”, a seconda).

Una ricerca di ImpresaLavoro – su dati del Tesoro e dell’Ocse tra il 2002 e il 2015 – ha rivelato che le previsioni dei governi per l’anno successivo sono state prudenziali o esatte solo in tre casi (2006, 2007 e 2010), per il resto tanto ottimismo. Questi i risultati: fatto 100 il Pil del 2001, se le stime governative si fossero avverate il Prodotto italiano oggi sarebbe 123,75 e invece è 97,8. Si dirà, è difficile prevedere cosa succederà un anno dopo il momento in cui si scrive: in realtà, però, anche sull’anno in corso – cioè sulle stime di aprile rispetto al risultato di dicembre – c’è negli ultimi anni un errore medio vicino allo 0,5%. La cosa è un fatto talmente risaputo che l’ha scritta lo stesso Pier Carlo Padoan nel Documento di economia e finanza del 2014: gli ultimi governi hanno “mediamente sovrastimato la crescita economica per 0,5 punti in primavera e 0,2 punti nelle previsioni formulate in autunno (cioè a ottobre, ndr)”. Non sono solo i governi, però, a sbagliare per eccesso le previsioni.

Uno studio dell’ufficio studi della Cgil sugli anni 2008-2014 mostra con palmare evidenza che tutte le istituzioni che hanno costruito il racconto ideologico che ha guidato i nostri governi (deflazione salariale, austerità, privatizzazioni) sbagliano le loro stime con regolarità; in questo periodo, ad esempio, i governi Berlusconi, Monti e Letta hanno errato per eccesso del 14,3%, inventandosi circa 330 miliardi di Pil; la Banca d“Italia, però, ha sbagliato per 13,6 punti percentuali, la Commissione europea per 12,4 e il Fondo monetario per 11,6. La più accurata, per così dire, è stata l’Ocse, che ha sbagliato “solo” del 10,5% (che comunque, in soldi, fa la bella cifretta di 200 miliardi di euro di Pil inesistente). E’ appena il caso di ricordare, infine, che al momento della presentazione dell’ultimo Def da parte del Tesoro, l’Ufficio parlamentare di bilancio (una sorta di Autorità sui conti pubblici) non aveva validato le previsioni per il biennio 2017-2018 perché troppo ottimistiche. Il futuro non sarà diverso dal passato.

La nostra benzina a peso d’oro: siamo i terzi più cari d’Europa

La nostra benzina a peso d’oro: siamo i terzi più cari d’Europa

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

Estate, tempo di viaggi in auto. Il mese di agosto è quello che mette gli italiani dinanzi a una realtà che nel resto dell’anno si può anche evitare di vedere: benzina e diesel sono troppo cari, nonostante il prezzo del petrolio abbia recuperato solo parzialmente la gran discesa dei prezzi dell’ultimo biennio.

In Italia, però, di tutto questo non c’è evidenza: il costo dei carburanti è superiore dell’11,9% rispetto alla media europea. In particolare, il differenziale è del +10,4% rispetto alla Germania, del +12,6% rispetto alla Francia, del +20,7% rispetto alla Slovenia e addirittura del +30,4% rispetto all’Austria. Non si può, pertanto, non provare un po’ di invidia per friulani e altoatesini che hanno una possibilità di scelta, negata invece al resto dei connazionali. La ricerca, elaborata dal Centro studi ImpresaLavoro in base ai dati Weekly Oil Bulletin della Commissione europea, evidenzia come la «resistenza» rispetto alle oscillazioni ai prezzi di mercato sia legata all’eccessivo carico fiscale sulle benzine. Tasse e le accise pesano in media per il 68,8% sul prezzo finale praticato al consumatore. L’Italia si colloca al terzo posto di questa speciale graduatoria, a pari merito con la Gran Bretagna e subito dopo Olanda (70,9%) e la Svezia (68,9%). Il malcostume non è solo italico: in tutta Europa l’incidenza delle tasse sul prezzo finale non scende mai sotto il 53,07% della Bulgaria. Anzi, la media dei 28 Paesi è del 66%, dunque quasi tutti i cittadini europei finanziano i loro stati con i due terzi del costo dei carburanti. La prassi, però, ha molto più senso laddove le imposte sui redditi sono più basse e il carico fiscale si sposta, pertanto sui consumi. In Paesi come l’Italia, la Svezia, la Danimarca, la Francia e il Belgio, invece, i contribuenti sono tassati due volte: quando guadagnano e quando spendono.

In valore assoluto un litro di benzina Euro-Super 95 costa, secondo i dati dell’Ue, 1,4325 euro, in calo rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Un prezzo che in Europa è inferiore solo a Olanda (1,4510) e Danimarca (1,4438). In Germania un litro dello stesso carburante costa 1,2970 euro, in Francia 1,2714 euro e in Spagna 1,1345 euro. Solo in Bulgaria (0,9973) e in Polonia (0,9972) un litro di benzina costa meno di un euro.

Quanto al diesel, il suo costo medio in Italia è di 1,2894 euro al litro: anche in questo caso si tratta del terzo prezzo più caro in Europa, dopo quello praticato nel Regno Unito (1,3299 euro al litro) e in Svezia (1,2896 euro al litro), a fronte di un prezzo medio europeo di 1,1203 euro al litro. I cinque Paesi nei quali è più conveniente rifornirsi sono la Bulgaria (0,9673 euro), la Lettonia (0,9627 euro), la Lituania (0,9625 euro), la Polonia (0,9427 euro) e soprattutto il Lussemburgo (0,9120 euro). Anche per il diesel, sono le tasse a portar via larga parte del prezzo finale praticato al consumatore. Imposte e accise pesano per il 68,2% del prezzo finale nel Regno Unito, il 65,9% in Italia e il 63,3% in Francia. Anche in questo caso, in tutta Europa, l’incidenza delle tasse rimane sempre sopra il 50% del prezzo finale (60,9% la media Ue). Il fatto di essere tartassati non è comunque un buon motivo per non godersi le vacanze.

Benzina più cara d’Europa: il petrolio cala, le tasse no

Benzina più cara d’Europa: il petrolio cala, le tasse no

di Antonio Castro – Libero

Ogni estate è la stessa storia: gli italiani si mettono al volante e il prezzo della benzina lievita (prezzo medio ieri 1,432 euro/litro, diesel prezzo medio 1,272). Un costo/litro che in Europa è inferiore solo a Olanda (1,4510) e Danimarca (1,4438). Pochi centesimi di ritocco certo (siamo lontani dai 2 euro al litro toccati nell’agosto 2012), però, a ben guardare, 4 anni fa il prezzo del petrolio viaggiava verso i 115 dollari al barile (il Wti a 97,41 dollari, il Brent a 115,1). Ieri a Wall Strett il greggio di tipo Wti (quello più pregiato), faceva fatica a reggere i 41,7 dollari al barile, mentre il Brent superava di poco i 44,2 dollari. E allora sorge il dubbio: perché se i prezzi sono dimezzati, il costo di un litro di carburante si è ridotto di meno di un quarto?

Esistono due risposte: una tecnica, noiosissima e un po’ traballante. E una molto più semplice. Quella tecnica scansiona gli equilibri mondiali, la geopolitica e le fluttuazioni sui mercati finanziari. Tutto vero, per carità. Poi c’è quella papale papale: paghiamo la benzina uno sproposito perché oltre il 69% del prezzo di questo (e il 66% del gasolio), è fatto di tasse, accise, Iva e balzelli vari (dati Unione Petrolifera). In teoria c’è dentro l’addizionale per la guerra d’Etiopia (1935), una manciata di terremoti e disastri (l’ultimo quello in Emilia del 2012), e pure il “Salva Italia” di Monti del 2011.

Il problema dell’iper tassazione dei prodotti petroliferi è comune a tutta Europa. Ma noi in Italia siamo speciali: nel nostro Paese il prezzo dei carburanti continua a restare tra i più alti in Europa: +11,9% rispetto alla media europea e in particolare +10,4% rispetto alla Germania, +12,6% rispetto alla Francia, +20,7% rispetto alla Slovenia e addirittura +30,4% rispetto all’Austria. Il Centro studi ImpresaLavoro, ha elaborato i dati della Commissione Europea e messo in colonna la classifica dei più tartassati.

L’Italia si colloca al terzo posto di questa speciale graduatoria, subito dopo l’Olanda (70,9%) e la Svezia (68,9%). Tralasciando il dettaglio che in questi due Paesi i governi finanziano generosamente chi intende passare a vetture a impatto zero (elettriche, idrogeno). Loro alzano le tasse per scoraggiare comportamenti inquinanti, da noi solo per fare cassa. «Le entrate derivanti dalle accise sugli oli minerali, energia elettrica e gas naturale nel corso del 2015 si sono attestare a circa 31,3 miliardi di euro», spiega la Relazione 2016 dell’Up. Una torta troppo grande golosa per rinunciarvi.

Crisi. Pil pro capite: l’Italia non riparte. Dal 2007 cala dell’11,1%, pari a 3.200 euro a cittadino

Crisi. Pil pro capite: l’Italia non riparte. Dal 2007 cala dell’11,1%, pari a 3.200 euro a cittadino

L’Italia ha un Pil pro capite inferiore sia a quello dell’Area Euro che a quello delle media dei paesi dell’Unione Europea. Con € 25.500 a cittadino residente, infatti, il nostro Pil è superiore a quello della Spagna (€ 23.100) ma inferiore a quello di tutte le grandi economie: Regno Unito (€ 30.900), Francia (€ 31.500) e Germania (€ 34.100). È quanto emerge dallo studio del Centro Studi ImpresaLavoro realizzato per la Confimprenditori.

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Analizzando i dati concatenati con valore di riferimento il 2010, ci si accorge di come il dato risenta molto di quanto accaduto durante la Grande Crisi che ha colpito il continente europeo nel 2008 e della crisi finanziaria del 2011. Nel 2007, infatti, il nostro Prodotto Interno Lordo pro-capite era di poco inferiore a quello dell’Area Euro e superiore a quello dell’Unione a 28.

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Dal 2007 ad oggi l’Italia ha perso l’11,1% del suo Pil pro-capite, passando dai € 28.700 del periodo pre-crisi agli attuali € 25.500. Peggio di noi fanno solo Cipro e Grecia, mentre tutte le altre grandi economie o perdono meno di noi (Spagna -5,7%) o addirittura sono già ritornate ai livelli prima della crisi. La Germania ha oggi un Pil pro capite superiore del 6,2% rispetto a quello del 2007, il Regno Unito dell’1,3% mentre la Francia ha oggi lo stesso Pil pro capite di allora.

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Il miglioramento dell’economia nell’ultimo anno ha contribuito solo marginalmente al recupero della ricchezza persa dal 2007 ad oggi. In Italia il Pil pro capite cresce, infatti, dello 0,79% pari in valore assoluto a € 200 sui € 3.200 persi rispetto al 2007. “Anche in questo caso il nostro paese fa registrare performance inferiori a quelle dell’Area Euro e della media degli altri paesi dell’Unione – spiega il presidente della Confimprenditori, Stefano Ruvolo – con tutte le grandi economie continentali come Germania, Spagna, Francia e Regno Unito, che fanno segnare tassi di crescita del Pil pro capite sensibilmente superiori ai nostri”.

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Ragionare di dati nazionali nel nostro paese è sempre molto complesso. I numeri riferiti all’Italia scontano, infatti, le grandi differenze che esistono a livello regionale e tra macroaree”. Dal 2007 al 2014, secondo i dati elaborati dal database Istat e con valori concatenati aventi come anno di riferimento il 2010, permangono differenze molto marcate tra le varie regioni. In Campania il Pil pro capite rispetto al 2007 è arretrato di 17,63 punti percentuali, facendo segnare il dato peggiore di tutto il paese. Una diminuzione della ricchezza prodotta che è tre volte quella fatta segnare in Valle d’Aosta (-4,89%) e in Trentino Alto Adige (-5,09%). Va meno peggio della media nazionale anche la Lombardia, dove il Pil pro capite è calato in questi anni del 9,33%, un dato molto simile a quello della Sardegna (-9,61%), della Toscana (-9,66%) e dell’Abruzzo (-9,81%).

Non sono solo le regioni del Sud ad andare male: il secondo peggior dato nazionale è, infatti, quello dell’Umbria che perde dal 2007 al 2014 il 17,42% della ricchezza prodotta pro capite. Male anche il Lazio (-15,75%), le Marche (-15,02%) e sorprendentemente tre regioni del Nord come il Piemonte (-15,02%), il Friuli Venezia Giulia (-14,98%) e la Liguria (-14,58%). Concludono la classifica Puglia (-11,02%), Basilicata (-11,49%), Emilia Romagna (-11,72%), Veneto (-12,24%), Molise (-13,77%), Sicilia (-13,88%) e Calabria (-14,46%).

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Il confronto tra i valori assoluti del Pil pro capite regionale rende ancor meglio l’idea del vero e proprio solco che separa le economie più avanzate da quelle strutturalmente arretrate. Nell’ultimo anno reso disponibile dall’Istat il Pil della Calabria (€ 15.256) e della Campania (€ 15.909) è meno della metà di quello di Valle d’Aosta (€ 36.779), Trentino Alto Adige (€ 34.856) e Lombardia (€ 33.272).

Questo significa che già oggi la Lombardia ha valori di Pil pro capite in linea con quelli tedeschi e superiori a quelli di Francia, Regno Unito e della media di Area Euro e Unione Europea. Per converso Calabria e Campania finirebbero in coda alle classifiche europee con una ricchezza prodotto in linea con quella di Portogallo e Repubblica Ceca.

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ImpresaLavoro, oltre 200 persone al convegno con Nicola Porro e Massimo Blasoni

ImpresaLavoro, oltre 200 persone al convegno con Nicola Porro e Massimo Blasoni

Udine20 

“Sold out” per l’incontro di ieri sera a palazzo Kechler dal titolo “Estate 2016: opinioni su economia, lavoro, Tv e giornali” . Oltre duecento persone erano presenti al convegno organizzato dal Centro Studi “ImpresaLavoro” che ha visto protagonisti il Presidente di “Impresalavoro”, l’imprenditore udinese Massimo Blasoni e il conduttore televisivo NIcola Porro, vicedirettore de Il Giornale e reduce dalla fortunata esperienza alla guida di Virus, in prima serata su Rai2. Introdotti dal direttore del Centro Studi, Simone Bressan, i due protagonisti sono stati incalzati dalle domande del giornalista Vittorio Pezzuto. Blasoni e Porro si sono confrontati in un acceso dibattito sull’attualità economica e sui principali temi in agenda in queste settimane: dalla Brexit alla crisi delle banche, dall’emergenza profughi al futuro delle pensioni.

In apertura, Nicola Porro ha raccontato i retroscena della sua dipartita dalla RAI parlando di “mano forte della censura televisiva”. Con una versione “politically correct”, la RAI ha dato il benservito al giornalista motivando una volontà di “trovare nuovi linguaggi televisivi”. “in un contesto storico così delicato mi hanno voluto imbrigliare, togliere la possibilità di parlare dimostrando una debolezza politica scollegata alla realtà”, ha sottolineato Porro.

Numerosi i temi di grande attualità affrontati durante la serata. Dall’immigrazione, della quale Blasoni ha evidenziato i costi, 4 miliardi di cui soltanto 120 i milioni di aiuti provenienti dall’Europa, alla Brexit e le conseguenze dell’uscita della Gran Bretagna dallo scacchiere dell’UE. Continuando con il terrorismo per il quale Porro definisce “inaccettabile il senso di colpa occidentale” e le riforme costituzionali. Blasoni si è soffermato sulla presenza pervasiva dello Stato, definendo “troppo ampio il perimetro di azione” e ponendo l’accento sugli eccessi e sui difetti. Eccessi in quanto ”troppe persone vogliono vivere di politica”, difetti identificati nella “poca capacità degli amministratori”. Per Blasoni “bisogna ridurre la burocrazia e ridare speranza perché non sarà lo Stato a rilanciare il paese, ma le imprese”. Blasoni, imprenditore di prima generazione, in conclusione ha volutamente lanciato una provocazione: la proposta di una legge che preveda un’esperienza lavorativa di almeno 5 anni per accedere alle massime cariche politiche.

“ImpresaLavoro” è un centro studi di ispirazione liberale che promuove sul panorama nazionale studi e ricerche sui temi dell’economia e del lavoro. L’attività di ricerca è coordinata da un board scientifico presieduto dall’economista Giuseppe Pennisi, ex dirigente della Banca Mondiale e attuale consigliere del Cnel, e composto da Salvatore Zecchini (Presidente Commissione Ocse sulle Pmi), Luciano Pellicani (sociologo e professore alla LUISS) e Cesare Gottardo (professore di materie economiche). Recentemente il centro, che ha una sede anche a Roma, ha pubblicato il suo report annuale sulla Libertà Fiscale in Europa e un articolato rapporto sulla sanità digitale in Italia, realizzato in collaborazione con il Censis.