imprese

Debiti PA, mancano all’appello oltre 20 miliardi

Debiti PA, mancano all’appello oltre 20 miliardi

Il Sole 24 Ore

Dal salotto di Porta a porta lo scorso marzo il premier Matteo Renzi aveva scommesso con il conduttore: «Il 21 settembre a San Matteo, ultimo giorno d’estate, se abbiamo sbloccato tutti i debiti della Pubblica amministrazione lei va in pellegrinaggio a piedi da Firenze a Monte Senario». Quel giorno è arrivato: Bruno Vespa può tirare un sospiro di sollievo, gli imprenditori italiani no. «La tappa del 21 settembre ci vede ancora distanti dal traguardo», nota il presidente di Confartigianato, Giorgio Merletti: all’appello mancano 21,4 miliardi di euro perché al 21 luglio sono stati pagati alle aziende 26,1 miliardi, pari al 55% dei 47,5 miliardi stanziati con il Dl Sblocca-Italia e con la legge di stabilità 2014. «La promessa non è stata mantenuta», gli fa eco Giuseppe Bertolussi, presidente della Cgia di Mestre: «Lo Stato italiano rimane il peggior pagatore d’Europa». Per la Cgia, in tutto, i fondi resi disponibili nel biennio 2013-2014 ammontano a 56,8 miliardi, ma alle aziende sono stati pagati soltanto 26,1 miliardi, più gli altri 5-6 miliardi che secondo il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, sarebbero stati versati dopo il 21 luglio. Insomma: restano da saldare altri 24-25 miliardi.

Debiti commerciali della Pa al 3,3% del Pil
Merletti riconosce gli sforzi compiuti negli ultimi due anni, «che hanno portato a un calo del 15,4% dei debiti commerciali dello Stato». Ma ricorda che «l’Italia rimane il Paese europeo con la più alta quota di debiti commerciali della Pa, pari al 3,3% del Pil.

La piattaforma per certificare i crediti sconosciuta ai più
Secondo un sondaggio Ispo-Confartigianato condotto su un campione di Pmi, il 61% non sa dell’esistenza della piattaforma governativa web che consente di certificare i crediti commerciali vantati nei confronti della Pa e farsi scontare le fatture in banca (è in virtù di questo sistema che Renzi e Padoan considerano mantenuta la promessa). Del 39% che la conosce, l’ha utilizzata il 9%, che la promuove con un voto più che sufficiente. Gli altri sono scettici sulla sua efficacia e temono che la certificazione allunghi ancora i tempi di riscossione. In cifre, le registrazioni alla piattaforma all’8 settembre risultano 15.613, aumentate al ritmo di 49 imprese al giorno dal 24 agosto. Le istanze di certificazione sono 56.189, per un importo complessivo di 6 miliardi e un importo medio di 107.762 euro.

Scendono i tempi medi di pagamento
Se sul fronte dei debiti arretrati prevale l’incertezza, va molto meglio la situazione dei tempi di pagamento della Pa. L’indagine Ispo-Confartigianato mette in luce come in media tra gennaio e settembre 2014 gli enti pubblici siano passati da 104 a 88 giorni. A sorpresa, gli enti più “virtuosi” sono le Asl che riescono a saldare le fatture in 75 giorni, rispetto ai 106 rilevati a gennaio. Più lenti i Comuni (89 giorni, contro i 104 di inizio anno). Resta peggiore in generale l’attesa al Sud, dove la pubblica amministrazione impiega 108 giorni per saldare le fatture alle imprese (erano 122 a gennaio).

Ma i 30 giorni restano una chimera
Nonostante l’accelerazione, Confartigianato rileva come la meta dei 30 giorni imposti dalla legge in vigore dal 1° gennaio 2013 resti molto lontana. Appena il 15% degli imprenditori interpellati dichiara di essere stato pagato entro un mese, mentre soltanto l’8% delle imprese sostiene di non aver ancora riscosso il credito. Sale peraltro dal 12 al 19% la quota di imprese che segnala comportamenti anomali da parte della Pa, come la richiesta di ritardare l’emissione delle fatture, la pretesa di remissione, la contestazione pretestuosa dei beni e servizi forniti.

Jobs Act: tanti annunci, pochi fatti e le imprese congelano le assunzioni

Jobs Act: tanti annunci, pochi fatti e le imprese congelano le assunzioni

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

L’economia vive di aspettative razionali. Robert Lucas nel 1995 ricevette il premio Nobel per aver dimostrato con sofisticati modelli come individui e imprese usino in modo efficiente le informazioni che hanno a disposizione per orientare consumi e investimenti senza commettere errori frequenti. Il governo Renzi nel portare avanti la riforma del mercato del lavoro non appare, invece, eccessivamente preoccupato delle distorsioni che gli annunci ripetuti non seguiti dai fatti possono provocare nel regolare svolgimento di un mercato. Il Jobs Act doveva prendere forma in G.U. dopo un mese, forse due dall’insediamento dell’attuale esecutivo. Ad oggi siamo ancora ai prolegomeni della nuova riforma che nel frattempo è stata data per fatta almeno una ventina di volte tra Tweet e passaggi parlamentari o interviste varie di vari esponenti del governo. Si abolisce l’art. 18 come chiede senza se e senza ma Angelino Alfano. L’art. 18 non si tocca per parte importante del Pd, perché non è al centro del programma. Solo per i neoassunti l’art. 18 sparirà. O ancora diventerà un art. 18 a tutele crescenti con il passare del tempo ma senza obbligo di reintegro per le imprese in caso di licenziamento. Eppoi ancora promesse di bonus fiscali per i neoassunti o di esenzioni Irap per i nuovi posti creati in favore delle aziende.

Passano le settimane e del Jobs Act restano solo gli annunci e le proposte che, in ordine sparso, si candidano a riformare il mercato del lavoro. Risultato? Le imprese hanno smesso di assumere con contratti a tempo indeterminato, restano alla finestra e cercano di capire dove si fermerà il pendolo di questa logorrea riformista. Nel frattempo solo contratti a termine o occasionali vengono conclusi. È la legge delle aspettative razionali applicata alla follia della politica economica italica modellizzata da Lucas tanti anni fa. Razionalmente le imprese, non sapendo cosa succederà nell’immediato futuro, smettono di prendere posizioni contrattuali definitive rispetto al fattore di produzione lavoro. Così agendo, evitano di incorrere in un maggior potenziale costo da minor flessibilità o di perdere potenziali incentivi. Tutto perfettamente razionale, talmente razionale che resta un mistero su come l’esecutivo possa tenere aperto per così tanti mesi un dossier tanto critico come il Jobs Act. Soprattutto perché l’Italia è un paese in deflazione, in recessione da tre anni consecutivi e che vanta una disoccupazione superiore al 12,6%, quindi interessato a inviare ben altri segnali agli investitori potenzialmente capaci di creare nuova occupazione. Morale: crescerà il 52,9% di under 25 già oggi occupati con contratti precari.

Così facciamo morire le nostre imprese

Così facciamo morire le nostre imprese

Nicola Porro – Il Giornale

L’ultimo caso è certamente quello più clamoroso. Perché riguarda l’Eni, una delle poche multinazionali italiane. Per di più coinvolge il suo attuale numero uno e il predecessore. Insomma il top delle aziende italiane, con il top dei suoi vertici. La vicenda è nota. La Procura di Milano indaga su presunte tangenti che sarebbero state pagate al governo nigeriano per l’esplorazione di un nuovo pozzo. Un caso simile ha riguardato nei mesi scorsi un altro big della manifattura, parapubblica: Finmeccanica. In quel caso fu addirittura arrestato il vertice operativo dell’azienda e aperta una pericolosa, per Finmecca, procedura che avrebbe potuto portare anche al suo commissariamento. L’ipotesi di reato anche in questo caso era la corruzione internazionale. La terza reginetta delle nostre imprese ex monopoliste, e cioè l’Enel, ha una lunga serie di problemi giudiziari legati all’inquinamento che sta coinvolgendo anche i vertici. I suoi ex amministratori sono stati condannati in primo grado a tre anni di carcere.

Le cose non è che vadano molto meglio nel campo privato, anche se, tranne casi clamorosi, si crea minore clamore. Basti pensare all’Ilva, una delle più grandi aziende siderurgiche d’Europa e una delle poche in Italia a reggere la concorrenza, fatta fuori per via giudiziaria. Senza uno straccio di sentenza definitiva. Alla Fiat, dove con l’arrivo di Marchionne hanno deciso di farsi solo gli affari loro, stanno scappando dall’Italia. Solo la Cgil-Fiom l’ha portata davanti al Tribunale del lavoro per un centinaio di cause, i cui esiti sono differenti l’uno dall’altro. Telecom è, grazie al cielo, fuori da questo tourbillon giudiziario (l’incredibile caso con Scaglia si è chiuso solo pochi mesi fa). Ma in compenso il governo e la politica non hanno alcuna intenzione di perdere la presa. Basti pensare alla separazione della rete: un fiume carsico che all’occorrenza esce dal sottosuolo.

Cosa vogliamo dimostrare con questa superficiale e incompleta lista dei guai giudiziari e degli interessi politici sulla nostra corporate Italia? Una cosa semplice. Se nel passato la cultura anti industriale e anti impresa emergeva alla luce del sole, era ideologica, legittima, manifesta e organizzata, oggi tutto ciò esiste ancora, ma è più subdolo. Non c’è più nessuno che apertamente ce l’abbia con l’Eni, ma sono in molti che a casa nostra godono delle sue disgrazie. Oggi Renzi difende i vertici del Cane a sei zampe, ma ieri pretendeva che si inserisse una norma nel suo statuto che decapitava i vertici al solo iniziare di un’indagine. Per fortuna che l’assemblea non l’ha votata contro il parere del governo.

Si dice sempre che in Italia non sarebbe mai potuta nascere la Apple perché la Asl avrebbe fatto chiudere il garage dove fu inventata. La verità è che oggi in Italia non potrebbe nascere neanche l’Eni di Mattei. All’epoca c’era un impasto fatto di politica, media, sindacati e istituzioni che si sentiva classe dirigente e che aveva un progetto per il Paese. E lo difendeva ad ogni costo. Oggi siamo vittime dell’ultimo interesse legittimo e schiavi di ogni ordine costituito. Non c’è un potere, ma piccoli poteri intoccabili. A parole diciamo tutti che vogliamo la ripresa, più Pil e più occupazione. Ma poi soccombiamo a quella sottocultura anti industriale per cui ripresa, Pil e occupazione si possono fare solo per decreto e grazie all’intervento dei funzionari pubblici.

Esageriamo? Ma per carità. Il virus della norma e dell’intervento pubblico e sanzionatorio è ormai diffuso a tutti i livelli. A parte la coraggiosa direttrice generale, Marcella Panucci, la Confindustria, che dovrebbe rappresentare le imprese, soprattutto quelle più grandi, ha paura anche della sua ombra. Nessuno (a parte la solita Panucci) ha fiatato sull’allucinante e pervasivo potere di commissariamento che ha in mano il pm Cantone con la sua Authority anticorruzione. Roba da socialismo reale. E chi ha il coraggio di dire che l’inasprimento del reato di falso in bilancio, che si sta studiando in queste ore, è una follia; che l’autoriciclaggio è invenzione rischiosa per i privati. Chi ha il buon senso di dire che aver reso penalmente rilevante la sola ipotesi di evasione (o elusione, o abuso di diritto) di imposta superiore a 50mila euro in un Paese con la nostra giustizia, vuol dire consegnarsi mani e piedi alla burocrazia fiscale?

Sì sì cari vertici industriali: continuate a parlare di legalità nei vostri convegni. Fate delle belle agenzie di stampa con la vostra indignazione per l’evasione fiscale. Scappate come dei conigli davanti a Finmeccanica o Eni indagate e prima di loro davanti alla Fastweb di Scaglia. Alimentate la vostra invidia verso quel brusco (e sicuramente spregiudicato, pace all’anima sua) Capitano di impresa che era Emilio Riva. E non capite che siamo tutti sulla stessa barca. Fa acqua da tutte le parti. E voi state lì a dettare il regolamento, le norme e le eventuali sanzioni su come evacuarla in caso di falla. Che è già grande come una voragine.

Il nostro mercato del lavoro è il meno efficiente d’Europa

Il nostro mercato del lavoro è il meno efficiente d’Europa

SINTESI DEL PAPER

Il mercato del lavoro italiano è ultimo per efficienza in Europa e 136mo su 144 censiti nel mondo. In termini di efficienza ed efficacia si situa infatti a un livello leggermente superiore a quelli di Zimbabwe e Yemen ed inferiore a quelli di Sri Lanka e Uruguay. Lo rivela un’elaborazione del Centro Studi ImpresaLavoro sulla base dei dati pubblicati dal World Economic Forum.
Rispetto al 2011 retrocediamo di 13 posizioni a livello mondiale in termine di efficienza generale del nostro mercato del lavoro e soprattutto perdiamo 19 posizioni con riferimento alla collaborazione tra impresa e lavoratore così come altre 15 per la complessità delle regole che ostacolano licenziamenti e assunzioni (hiring and firing process). L’unico settore in cui non si registra un arretramento dell’Italia è quello relativo alla partecipazione delle donne al mercato del lavoro: conserviamo infatti la comunque assai deludente 93ma posizione che avevamo raggiunto nel 2011.
L’indicatore dell’efficienza è in realtà un aggregato di più voci che bene evidenziano le difficoltà che il nostro sistema attraversa e rendono plasticamente l’idea del peggioramento delle condizioni del nostro mercato del lavoro negli ultimi tre anni. Inoltre, i principali indicatori analizzati ci pongono agli ultimi posti per efficacia nel mondo e, quasi sempre, all’ultimo posto in Europa. Tra i Paesi dell’Europa a 27, ad esempio, siamo ultimi per quanto concerne la collaborazione nelle relazioni tra lavoratori e datore di lavoro (ai primi tre posti ci sono Danimarca, Austria e Olanda). Siamo terz’ultimi per flessibilità nella determinazione del salario, intendendo con questo che a prevalere è ancora una contrattazione centralizzata a discapito di un modello che incentiva maggiormente impresa e lavoratore ad accordarsi. E proprio in tema di retribuzioni siamo il peggior Paese europeo per capacità di legare lo stipendio all’effettiva produttività. Dati questi che vanno letti assieme a quelli sugli effetti dell’alta tassazione sul lavoro: nessun Paese in Europa fa peggio di noi quanto a effetto della pressione fiscale sull’incentivo al lavoro. E siamo ancora ultimi per l’efficienza nelle modalità di assunzione e licenziamento: un indicatore particolarmente significativo, questo, perché evidenzia quanto questi processi vengano ostacolati dal complessivo sistema delle regole e da disposizioni quali quelle, ad esempio, dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Anche la qualità del personale impiegato mette in luce l’arretratezza del nostro Paese: siamo penultimi (davanti alla sola Romania) per la capacità di affidare posizioni manageriali in base al merito e non a criteri poco trasparenza (amicizia, parentela, raccomandazione) e finiamo in coda anche con riferimento alla capacità di attrarre talenti (quart’ultimi) e di trattenere talenti (23mi su 28).
«Questa performance negativa è frutto certamente dei difetti strutturali del nostro sistema ma i provvedimenti legislativi degli ultimi anni non hanno certo aiutato a migliorare la situazione» commenta Massimo Blasoni, presidente di “ImpresaLavoro”. «L’elaborazione del nostro Centro Studi chiarisce come i problemi del nostro mercato del lavoro siano da tempo sempre gli stessi e abbiano subìto un peggioramento piuttosto marcato rispetto al 2011, complice con ogni probabilità l’ulteriore irrigidimento delle regole stabilito dalla cosiddetta Riforma Fornero. Gli alti tassi di disoccupazione, soprattutto giovanile e femminile, e i cronici bassi tassi di attività sono una diretta conseguenza di un sistema tributario e di regole che rendono sempre più difficile assumere e creare occupazione».
Scarica gratuitamente il Paper con tutte le tabelle dati elaborate dal Centro studi ImpresaLavoro “Il nostro Mercato del Lavoro è il meno efficiente d’Europa“.
Leggi il commento del Prof. Giuseppe Pennisi.
Leggi il commento del Prof.
Salvatore Zecchini.
Rassegna stampa:
Il Mattino
Corriere della Sera
Metronews
Repubblica.it
Il Sole 24 Ore
La Notizia
Rainews
Un’agenzia di rating per le Pmi

Un’agenzia di rating per le Pmi

Gian Luigi Durante – Il Sole 24 Ore

Come allentare la stretta che soffoca le imprese italiane? Ci sono due problemi: la domanda è scarsa e mancano anche i finanziamenti. E purtroppo, data la natura pro-ciclica dell’attività bancaria, le due componenti si alimentano a vicenda. Quando la recessione fa aumentare le sofferenze, spinge le banche a tirare in barca i remi dei prestiti. E nelle temperie di questi anni la reticenza degli istituti bancari ad erogare credito è stata aggravata dalla crisi dei debiti sovrani e anche dalle imposizioni – peraltro strutturalmente, se non congiunturalmente, giuste – di Basilea 2 e 3 volte a innalzare i patrimoni bancari.

La concomitanza di tali fattori ha comportato circa 4 trilioni di euro di deleveraging nell’Eurozona; ciononostante le banche registrano ancora attivi pari a 3,1 volte il Pil (2,7 in Italia) e i prestiti deteriorati sui bilanci delle banche italiane sono aumentati al 15,9% (Banca d’Italia). Dopo la forte contrazione dell’offerta di credito coincisa con la crisi dei debiti sovrani, oggi alla radice dei problemi c’è la scarsa domanda – una questione di economia reale e non di economia finanziaria.

Per la prima volta dal 2007 i criteri di offerta dei prestiti sono divenuti lievemente espansivi, mentre la domanda degli stessi è rimasta debole (Bank Lending Survey, Bce). La ‘pro-ciclicità’ delle banche è specialmente penalizzante per le Pmi (98% delle imprese in Italia e in Europa), che hanno meno potere negoziale nel mondo finanziario e sono più esposte ai venti recessivi del mondo reale. Intanto, le politiche monetarie espansive della Bce hanno fallito nel loro intento di far ripartire il flusso di credito banca-impresa – tutto quello che può aiutare la finanza a rendere più fluido il credito per il settore produttivo è benvenuto.

Facilitare l’accesso al mercato dei capitali è imperativo e occorre farlo nelle forme più svariate: cartolarizzazioni dei prestiti, emissioni obbligazionarie pubbliche, o negoziate su base bilaterale con gli investitori. Un mix bilanciato di prestiti bancari e obbligazionari contribuirebbe non solo a rendere più fluido il mercato del credito, ma anche a proteggere il sistema da futuri shock. Mentre per le imprese più grandi, però, esistono procedure di valutazione del merito di credito che facilitano l’allocazione del capitale finanziario, le agenzie di rating non si occupano delle Pmi. Il problema è specialmente serio in Europa, dove il finanziamento dell’impresa è per il 90% affidato alle banche – contro il 45% negli Usa. Una soluzione potrebbe essere quella di promuovere un’agenzia di rating specializzata nel merito di credito delle Pmi.

Vediamo due casi concreti: nel settembre 2012 è stata costituita in India una agenzia di rating per le Pmi (Smera). Si legge nei documenti costitutivi: «Considerando che le banche utilizzano procedure di rating customizzate prima di erogare credito, i richiedenti si trovano ad investire risorse e tempo per trattare con gli istituti di credito. Smera ha adottato un sistema standardizzato, trasparente ed affidabile per elaborare una valutazione sul rischio di credito intrinseco ad una business unit. Inoltre, Smera è supportata da un gran numero di banche pubbliche e private nella regione».

Le valutazioni di merito di credito che le banche private effettuano sulle imprese loro clienti sono un giacimento immenso da sfruttare e armonizzare. Il secondo esempio concreto è la Credit Benchmark: fondata da due ‘imprenditori seriali’, Mark Faulkner e Donal Smith, ha ottenuto capitali di ventura per iniziare un’attività di raccolta dati nel mercato dell’informazione sul rischio di credito. La società raccoglierà i dati di base dalle analisi del rischio credito in ciascuna banca (una dozzina di banche globali hanno già dato il loro assenso), li aggregherà rendendoli anonimi e potrà così creare ‘giudizi di consenso’ per profili settoriali e per fasce di fatturato.

Un’Agenzia di rating europea per le Pmi, sotto l’egida della Ue e accompagnata da una estensione di forme di garanzia governativa sui relativi prestiti, avrebbe come obiettivo primario quello di migliorare tenuta e struttura dei ‘ponti’ che uniscono le Pmi alle istituzioni finanziarie e ai mercati. L’istituzionalizzazione del rating sbloccherebbe diversi canali di finanziamento ad alto potenziale, come ad esempio le cartolarizzazioni dei prestiti – in grado di sopperire alla mancanza di scala che impedisce alle Pmi di finanziarsi sui mercati dei capitali.

Se assemblati con criteri semplici e trasparenti infatti, i prestiti cartolarizzati delle Pmi potrebbero essere acquistati in parte dalle Banche centrali, come peraltro lasciato recentemente intendere dalla Bce e dalla Bank of England, restituendo nuova linfa al mercato dei prestiti bancari. Le regole che governano questo strumento sono state largamente rivisitate dopo la crisi dei mutui sub-prime negli Stati Uniti, esacerbata dall’effetto amplificatore della cartolarizzazione degli stessi: la necessità di un adeguato reporting su ogni prestito cartolarizzato, così come l’obbligo di mantenere una partecipazione nella stessa operazione da parte dell’istituto emittente, dovrebbero favorirne l’adozione. Inoltre, un sistema di rating delle Pmi consentirebbe la sua diffusione anche alle istituzioni non bancarie, le quali non hanno accesso a un vasto ammontare di dati sul mercato dei prestiti, esclusiva degli istituti bancari.

Certamente, si porrà il problema che segna tutte le agenzie di rating: come finanziare le analisi senza creare conflitti di interessi? Una soluzione può essere quella di far pagare il funzionamento ai vari protagonisti del mercato: dalle banche ai fondi di investimento, con contributi anche dalla Ue e dalle Associazioni di Pmi. Tra i vari traguardi di medio termine sono anche fondamentali la banking e fiscal union, per finire con la capital markets union: obiettivo del neo-eletto Presidente della Commissione Europea Juncker. Un grande lavoro di armonizzazione sarebbe necessario anche sotto il profilo legale, al momento, infatti, il diverso trattamento della base di investitori in un’emissione obbligazionaria nei vari paesi dell’eurozona determina inefficienze nell’allocazione del capitale in eccesso.

La burocrazia rallenta i pagamenti alle imprese

La burocrazia rallenta i pagamenti alle imprese

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

Una promessa mantenuta. Alla maniera di Renzi, però. La certificazione telematica dei crediti vantati dalle imprese nei confronti della pubblica amministrazione in modo da accelerarne lo smobilizzo è uno dei pochi impegni rispettati dal presidente del Consiglio. Tuttavia, i risultati dell’iniziativa, finora, sono modesti. Secondo il Tesoro, a fine luglio erano infatti stati saldati 26 miliardi di euro di debiti pregressi al 31 dicembre 2013, mentre gli stanziamenti attuali ammontano a circa 31 miliardi, più o meno la metà di quanto resta ancora da pagare.

Lo strumento telematico dovrebbe, in teoria, consentire di velocizzare la procedura. Ma, purtroppo, siamo in Italia e la velocità è un concetto relativo. Ecco perché, all’8 settembre, risultavano presentate istanze di certificazione per soli 6 miliardi, dei quali solo 3 sono stati realmente certificati. Non si può parlare di flop perché l’iniziativa è partita il 21 luglio e i termini, inizialmente fissati al 31 agosto, sono stati prorogati al 31 ottobre. Se si prendessero sempre per oro colato le parole del premier («Tutti i debiti saranno pagati entro il 21 settembre, giorno di San Matteo»), non si potrebbe fare a meno di evidenziare la scarsa incisività del provvedimento.

Sulla carta, è tutto molto facile. Alle imprese (dalle persone fisiche alle società di capitali) basta registrarsi sul sito certificazionecrediti.mef.gov.it e aprire un account come si fa per la posta elettronica o per un social network. Poi si passa all’inserimento delle fatture che può essere manuale (digitando i dati delle singole ricevute) oppure telematico (sia tramite file precompilati sia con le fatture elettroniche per le società che già le utilizzano). Le amministrazioni hanno 30 giorni di tempo per dare una risposta e riconoscere che il credito sia certo ed esigibile. Una volta ottenuta la risposta, le imprese hanno dinanzi a sé due strade: aspettare il pagamento oppure recarsi presso una banca per ottenere una cessione pro soluto a tassi agevolati (1 ,9% fino a 50mila euro, 1,6% oltre i 50mila). Grazie a un accordo che coinvolge Tesoro, Cassa depositi e Associazione bancaria italiana, gli istituti scontano le fatture (per 100mila euro ne riconoscono 98.400) rivalendosi poi sulla Pa.

Perché si sono registrate solo 56mila richieste? Un po’ per la pausa estiva. Un po’ perché la burocrazia la fa da padrona anche qui. Le amministrazioni, infatti, tendono a prendersi un po’ più dei 30 giorni loro concessi e non sempre rispondono positivamente (va ricordato che non si possono certificare crediti classificabili come spese in conto capitale). E anche se le imprese possono chiedere la nomina di un commissario ad acta, non sempre tutti vogliono o possono infilarsi nei meandri del contenzioso. In secondo luogo, nonostante questi crediti siano garantiti dallo Stato con gli stanziamenti e tramite Cdp, le banche tendono a valutare molto minuziosamente ogni pratica di sconto fatture. Ecco perché Confindustria ha chiesto al governo di «monitorare il meccanismo di cessione al sistema finanziario e di stanziare nuove risorse per lo smaltimento integrale dei debiti». Idem Confcooperative: «Meglio il 98,4% che nulla», dice il presidente Maurizio Gardini, consapevole che «la pesante situazione iniziale» porta necessariamente rallentamenti. Il vero problema ora sono i debiti del 2014: la normativa europea (limite di 60 giorni) non viene ancora rispettata. L’ultima ciambella di salvataggio può essere rappresentata dalla prossima pubblicazione del decreto per la compensazione delle cartelle esattoriali con i crediti verso la Pa. Le aziende lo aspettano da 4 mesi, ma forse questa è la volta buona…

La burocrazia costa alle imprese 30 miliardi l’anno

La burocrazia costa alle imprese 30 miliardi l’anno

Luigi Offeddu – Corriere della Sera

Qui non ci sono grandi misteri: se in Finlandia il 5% delle imprese ha difficoltà nell’ottenere il credito delle banche, se in Germania la percentuale sale al 10%, e se in Italia raddoppia e più toccando il 25%, chi avrà più difficoltà a stare sul mercato? Oppure: se un piccolo o medio imprenditore impegna 269 ore in un anno a mettere insieme la sua cartella delle tasse, a verificarla, e poi a pagarla, sarà o più o meno competitivo di uno che di ore ne impiega la metà, o un terzo? Domanda oziosa. E risposta scontata. Una delle tante risposte, raccolte dagli esperti della Commissione Europea, che spiegano il crollo della produttività italiana: è italiano, infatti, il primo imprenditore preso in esame, e le tasse divorano il 65,8% dei suoi profitti totali; ben più del 41,3% certificato in media per gli altri Paesi europei, dall’organizzazione per la cooperazione economica e lo sviluppo.

Ogni anno, dopo l’estate, la Commissione presenta un paio di rapporti sulla competitività dei vari Paesi Ue. Quest’anno li ha illustrati Ferdinando Nelli Feroci, il commissario italiano all’industria e imprenditoria, e da quei numeri è emerso come i segni di una ripresa, per quanto fragile, continuino a manifestarsi qua e là. Ma dietro, ci sono le ombre della recessione. Dal 2007 al 2012 l’industria tedesca ha creato 50mila posti in più, mentre la Francia ne ha perso 350mila e l’Italia circa 550 mila. La nostra potenza manifatturiera è scesa in media del 15% rispetto alla situazione di prima della crisi ,anzi il declino è arrivato al 20% in almeno 14 settori su 22: una slavina. La produzione automobilistica ha battuto anche le peggiori previsioni: meno 40%. Ma del resto, il panorama è ugualmente nero in tutta l’Europa: 3,5 milioni i posti di lavoro persi in tutto nel manifatturiero. E per tornare all’Italia, chi ha provato ad affrontare la crisi chiedendo aiuto là dov’era più logico chiederlo, cioè negli istituti di credito, ha picchiato il naso sul tronco di una quercia: in media, per i nuovi prestiti, sempre secondo i dati della Commissione Europea, i tassi italiani si aggirerebbero intorno al 3,6%, circa 150 punti in più di quanto venga chiesto agli sportelli delle banche tedesche e francesi. 

Per quanto riguarda le «pagelle» compilate sull’efficienza dei governi, la Finlandia è salita da una quota indicativa 1,9 (nel 2008) a quota 2,3 (2013); l’Italia da 0,2 a 0,4, ma a tutt’oggi prevale soltanto sulla Grecia, la Bulgaria, la Romania. In compenso, pesano le formalità burocratiche imposte dallo Stato alle piccole e medie imprese: 30,9 miliardi in un anno. Nelle tabelle di Bruxelles, con i dati forniti dal governo italiano, vi sono anche squarci consolanti, come quelli che calcolano in pochi giorni il tempo necessario per avviare un’azienda; ma sono dati «benauguranti», cioè proiettati sulle raffiche di riforme appena fatte o annunciate, e in attesa della verifica del tempo.  

La politica industriale non è un rebus senza soluzione

La politica industriale non è un rebus senza soluzione

Fabrizio Onida – Il Sole 24 Ore

Nel suo articolo del 4 settembre sul Sole, Il rebus della politica industriale, Franco Debenedetti allarga la sua (giusta) diffidenza verso le tentazioni dirigiste dei governi fino a condannare la politica industriale che si regge sul falso presupposto teorico «che il futuro dell’innovazione tecnologica sia conoscibile ex ante, che esista la ricetta per il successo» e dunque «presuppone una fiducia mistica nel processo di selezione democratica».

Ma non è su queste basi che sia la letteratura economica (Rodrik, Aghion, Nelson, Chang, Stiglitz e non solo), sia istituzioni come la Commissione europea (Horizon 2020) e l’Ocse hanno negli anni più recenti riproposto un ruolo autentico dello Stato facilitatore, coordinatore e partner degli attori di mercato, con una visione meno ideologica e più pragmatica della politica industriale.

Durante la fase delle grandi privatizzazioni degli anni 90, che chiudevano la storia di un modello di partecipazioni statali degenerato in patologica commistione di economia e sistema dei partiti, il «capitalismo senza capitali» ereditato dalle crisi degli anni 70 ha perso l’occasione per rilanciare le sorti della grande impresa in larga parte dei settori ad alta intensità di capitale fisico, capitale umano, innovazione tecnologica e organizzativa.

Tutti conosciamo e apprezziamo il vivace dinamismo delle micro e piccole imprese (dentro e fuori dai nostri distretti industriali), nonché il successo di un «quarto capitalismo» di medie e medio-piccole imprese private specializzate in nicchie di elevata qualità e dinamismo tecnologico, capaci di esportare e insediarsi con profitto in molte «catene globali del valore». Ma tutto ciò non è bastato e non basta – tanto più oggi nel prolungarsi della grande crisi – a mettere il paese nelle condizioni di sfruttare le proprie eccellenze scientifiche e i propri vantaggi competitivi, tornando ad alimentare la crescita di quella produttività totale dei fattori che ristagna da più di un decennio.

I governi non hanno certo la preveggenza di quali settori e prodotti potranno meglio contribuire allo sviluppo economico del paese: su questo ha perfettamente ragione Debenedetti, nessuno ha nostalgia degli ambiziosi e falliti «piani di settore», dalla chimica alla siderurgia, all’aeronautica. Ma oltre le ben note e urgenti riforme istituzionali, certamente cruciali per favorire un eco-sistema imprenditoriale decente e moderno (semplificazioni, giustizia, burocrazia, infrastrutture, scuola e apprendistato, lotta contro evasione e corruzione), lo Stato può e deve riscoprire il proprio ruolo di catalizzatore delle migliori energie imprenditoriali del paese.

Compete allo Stato indicare progetti di filiera e allestire strumenti di ricerche coordinate pre-competitive, coinvolgendo nella scelta imprese leader e il loro indotto, (incluse molte affiliate italiane di multinazionali estere che ancora scommettono sulle nostre capacità e competenze), identificate e monitorate con l’apporto essenziale di esperti indipendenti. Come insegna il fallimento di «Industria 2015», è cruciale prevenire i formalismi giuridico-amministrativi, sottrarsi alle ingerenze di burocrazie ministeriali autoreferenziali, imporre tappe forzate di valutazione dei risultati e riservarsi di abbandonare quei progetti che nel tempo si rivelano inadeguati e perdenti nello scenario mondiale (filosofia del pick the loser).

Del resto è quello che vanno praticando da tempo altri paesi a noi vicini (valga l’esempio dei Catapult Centers britannici, dei distretti tecnologici tedeschi, dei pôles de competitivité francesi). Solo così si può valorizzare un patrimonio tecnologico e imprenditoriale altrimenti disperso, promuovere crescita di produttività totale dei fattori, interconnessioni e reti lunghe di imprese innovative, ridurre l’ancora persistente divario fra ricerca accademico-scientifica e innovazione (industria e servizi), dare concrete prospettive di lavoro non precario ai giovani dotati di istruzione elevata e riconosciuti talenti, attrarre investitori nazionali ed esteri. Politiche industriali e politiche per l’innovazione tecnologica e organizzativa sono due facce della stessa medaglia. Anche così si può combattere la cultura paralizzante della rassegnazione a un inarrestabile declino di un paese che merita invece di risalire la china.

Se, anziché pasticciare, Renzi avesse abolito l’Irap e l’art. 18 avrebbe rilanciato l’economia e cambiato il volto dell’Italia

Se, anziché pasticciare, Renzi avesse abolito l’Irap e l’art. 18 avrebbe rilanciato l’economia e cambiato il volto dell’Italia

Domenico Cacopardo – Italia Oggi

Il Global Competitiveness Report, pubblicato al World Economic Forum, mette a confronto 144 paesi nel mondo e mostra che quanto a efficienza del mercato del lavoro l’Italia è al 136° posto, ultima degli Stati europei e un gradino sopra lo Zimbabwe. Se poi guardiamo alla facilità d’ingresso e di uscita dal mercato stesso, ci spetta addirittura la posizione 141. Sempre meglio del solito Zimbabwe, del Sudafrica e del Venezuela. È questa l’area di confronti che oggi ci tocca: nei due dati c’è una inappellabile condanna del nostro Paese e della sua classe dirigente, vecchia e nuova.

Con perfetta sincronia, il premier ha appena dichiarato che la riforma del lavoro si farà (ma il job act è di gennaio), ma che non si toccherà l’art. 18. Rivediamolo questo articolo che si intitola «Reintegrazione nel posto di lavoro». Ecco il testo: «Il giudice, con la sentenza con la quale dichiara la nullità del licenziamento (…) ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro. La presente disposizione si applica anche ai dirigenti (…)». Poiché il fulcro del problema, quindi, è proprio l’art. 18 che dà a un’autorità giudiziaria fortemente ideologizzata (portatrice di una visione che considera il capitalismo, la libertà economica e gli imprenditori nemici del popolo) il potere di rimettere in azienda i lavoratori che ne sono stati estromessi, l’annuncio di Renzi significa che non ci sarà alcuna cambiamento significativo nel situazione mercato del lavoro. Comunque la si rigiri, questo è il senso delle ultime esternazioni.

Volgiamo leggermente il capo e constatiamo (una banale constatazione) che in Italia gli strumenti della produzione sono tassati. Sono tassati i capannoni industriali, i terreni agricoli, tutti i beni che servono a mettere insieme un qualsiasi processo produttivo. Non basta: è tassato pure il lavoro. Infatti, l’impostaregionale sulle attività produttive, Irap, è stata istituita con il decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, e colpisce il valore della produzione netto delle imprese, cioè il reddito prodotto al lordo dei costi per il personale e degli oneri e dei proventi di natura finanziaria. Ciò significa che lo Stato, da un lato ti impedisce di licenziare (i licenziamenti avvengono per due motivi: problemi aziendali; mancanze del lavoratore. Non c’è un imprenditore al mondo che voglia privarsi di un bravo lavoratore) e dall’altro ti tassa per la tua forza lavoro. Autori di questa bella pensata sono stati Romano Prodi e Vincenzo Visco (era Prodi il primo ministro della legge di delega) : basterebbe questa innovazione per iscriverli nel libro nero della Repubblica italiana, se mai sarà prodotto.

Nell’Irap, un’imposta demenziale, c’è il livore di un bel pezzo di mondo cattolico e di mondo comunista, non a caso andati a nozze nel compromesso storico. Sarebbe bastato che l’innovatore Renzi, invece di trastullarsi con gli 80 euro in busta paga a un’ampia platea di non indigenti, avesse abolito l’Irap e abrogato l’art. 18 perché l’Italia cambiasse verso e si rilanciasse l’economia. Invece, prigioniero e secondino di un sistema che viene da lontano, gestore di un’area che, marginalmente, coltiva ancora l’illusione della propria superiorità morale (vedi Monte Paschi e, ora, Regione Emilia-Romagna) e culturale, e la speranza di una rivoluzione proletar-clericale, Matteo Renzi si è cimentato su questioni che costituiscono un vero e proprio «cambiar discorso», una elusione quotidiana dei problemi del Paese, mediante l’accensione di dossier di secondaria importanza, rispetto ai due nodisostanziali.

Idee pasticciate come la riforma del Senato che nelle prossime settimane sarà riscritta dalla Camera dei deputati (annullando il lavoro fatto, giacché la quattro letture debbono essere celebrate su un medesimo testo) portate al voto nonostante le osservazioni fondate di esperti costituzionalisti e di politici di lungo corso. Lo pseudogiovanilismo dell’allegra brigata di gitanti a Roma non ha ammesso riflessioni e consulti, esaurendo la discussione all’interno di un «giglio magico» dalle competenze insondate e insondabili. L’altra tecnica usata è quella di rilegiferare sul legiferato, vendendo agli italiani (e soprattutto ai media completamente privi di vis critica; o di conoscenza dei fatti?) per innovazioni, decisioni come quelle sulle autocertificazioni e sulle divisioni interne degli immobili che risalgono ad anni passati. Anche se il consenso sembra crescere, Giorgio Napolitano non si illuda. Quest’ultima sua creatura ha il respiro corto e, difficilmente, potrà sopravvivere con le parole. I numeri non sono più falsificabili. Li sanno leggere tutti, soprattutto a Francoforte, a Berlino e a Bruxelles.

Debiti PA tutti pagati entro il 21 settembre? Una promessa a metà

Debiti PA tutti pagati entro il 21 settembre? Una promessa a metà

Eugenio Fatigante – Avvenire

I crediti “certificati” delle imprese con le amministrazioni dello Stato «possono essere saldati subito». L’ha detto a più riprese Matteo Renzi l’altra sera in tv, a Porta a porta, nel minuetto inscenato con Bruno Vespa sull’escursione a piedi sul monte Senario, sopra Firenze, oggetto della “scommessa di San Matteo”: entro il 21 settembre, aveva promesso a marzo il capo del governo sempre in tv, il governo avrebbe sbloccato tutti i debiti maturati entro line 2013, pena appunto l’insolita passeggiata del premier (in caso di promessa non mantenuta) o del conduttore.

Renzi l’ha “messa facile”, insistendo molto sulla procedura, capace – a suo dire – di consentire agli imprenditori interessati di presentarsi l’indomani in una banca per ottenere (finalmente) il dovuto, attraverso la “cessione del credito” che comporta però un costo pari all’1,6% fino a 50mila euro e all’1.9% al di sopra. Le cose sono davvero così semplici? Il premier ha dato a intendere che la promessa sarà onorata. A oggi, tuttavia, il “contatore” presente sul sito del Tesoro è malinconicamente fermo a 26,1 miliardi rimborsati ai creditori, alla data del 21 luglio (cifra aggiornata in tv l’altra sera a 31 miliardi a fine agosto); in ogni caso, stiamo ben al di sotto di quell’importo quantificato come minimo (una stima definitiva su quanti siano questi crediti non c’è mai stata) in 45-50 miliardi dall’ex ministro (nel governo Letta) Saccomanni, contro la cifra-monstre di 90 miliardi ipotizzata in un primo tempo da Bankitalia.

Una premessa è doverosa, e viene riconosciuta anche da un po’ tutte le associazioni d`impresa: la normativa messa in campo da Renzi è sicuramente un passo in avanti rispetto a quelle, più “balbettanti”, dei governi Monti (il primo a muoversi per affrontare questo problema, col decreto 35 d’inizio 2013) e Letta. Quest’ultimo, per dire, aveva disposto che entro settembre 2013 tutte le amministrazioni dovessero fornire l’elenco dei propri debiti. Nessuno l’ha fatto. Per questo Renzi «ha invertito il processo, e questo è il suo pregio», ricorda Mario Pagani, capo del dipartimento politiche industriali della Cna: «Ora sono le imprese che dichiarano quanto spetta loro». Quel che Renzi ha omesso di dire è che c’è un passaggio-chiave, fra l’autocertificazione sull’apposito sito e il pagamento: bisogna comunque aspettare 30 giorni perché l’amministrazione coinvolta ha questo margine di tempo per rispondere, attestando che quel credito esiste e, pertanto, è “esigibile”. Se lo fa, in effetti l’imprenditore può – subito dopo aver ricevuto questo attestato – andare in banca per farsi anticipare da questa i soldi spettanti, con la garanzia pubblica della Cdp. Ma – attenzione – non vale il “silenzio-assenso”: se non arriva nessuna risposta, l’impresa ha 10 giomi per segnalare l’inconveniente sulla piattaforma on-line, dopodiché viene nominato un commissario ad acta che ha altri 50 giorni per accertare la “verità” su questo credito. Insomma, in aggiunta ai 30 giorni iniziali, rischiano di passare altri 2 mesi. Peraltro, stando al report sul sito del Tesoro, ai primi di agosto c`è stata una “fiammata” nella consegna delle istanze di certificazione; e in questi giomi, quindi, che stanno arrivando le risposte.

A oggi, le imprese registrate sono 15.613, per un numero di istanze di 56.189 e un controvalore di oltre 6 miliardi (non è chiaro se aggiuntivi o no rispetto ai 31 detti in tv), ma la scadenza è stata da poco prorogata al 31 ottobre. Resta un «mistero», sottolinea ancora Pagani, capire perché il governo abbia escluso la via della compensazione fra crediti e debiti fiscali, «singolarmente concessa invece a chi ha ricevuto una cartella esattoriale», insomma alle imprese “meno oneste” nei rapporti col Fisco. Fra 10 giorni, al di là di Renzi o Vespa ”marciatore”, si farà il punto finale.