imprese

Impresalavoro: «La giunta poteva tagliare di più l’Irap»

Impresalavoro: «La giunta poteva tagliare di più l’Irap»

Il Messaggero Veneto

Tra trasferimenti correnti e contributi in conto capitale il Fvg ha erogato nel 2013 al sistema delle imprese 230 milioni di euro suddivisi tra contributi erogati ad aziende private e trasferimenti concessi ad aziende pubbliche. Una cifra consistente, pari allo 0,62 per cento del Pil. Un paper di Paolo Ermano, del1’Università di Udine, ha analizzato per il Centro studi di ImpresaLavoro il fenomeno e ha ricostruito la composizione di questi dati. Nel 2013 – al netto dei contributi per servizi sanitari – la Regione ha trasferito complessivamente 108 milioni di euro ad imprese private (56 milioni in trasferimenti correnti e 52 in contributi in conto capitale) e 121 milioni di euro ad imprese pubbliche (34 milioni di euro ín trasferimenti correnti e 87 milioni di euro in conto capitale).

Per il Centro fondato da Massimo Blasoni è una cifra di tutto rispetto: tre volte superiore al Veneto e cinque volte la Lombardia. «Durante il dibattito su Rilancimpresa – sottolinea Impresalavoro – la Regione ha più volte spiegato di non essere in grado di andare oltre il taglio dell’Irap di circa 7 milioni. Secondo noi, invece, un’ipotesi di revisione del sistema dei contributi alle imprese avrebbe permesso di estendere sensibilmente i beneficiari del taglio, fino a raddoppiarne l’impatto. È questo, infatti, il vero tema in discussione. Il dibattito sulla fuga delle imprese regionali in Carinzia o in Slovenia ruota intorno a due fattori: di là le imposte sono più basse e c’è meno burocrazia. Tagliando con decisione l’Irap il Fvg potrebbe diventare fiscalmente competitiva, quantomeno rispetto alle altre regioni italiane e ridurrebbe il divario fiscale con Slovenia e Carinzia semplificando il sistema e immettendo risorse senza la necessità di dedicare ore preziose alla burocrazia per richiedere un contributo».

Contributi alle imprese: dalle Regioni ogni anno circa 6 miliardi di euro

Contributi alle imprese: dalle Regioni ogni anno circa 6 miliardi di euro

ANALISI

Tra trasferimenti correnti e contributi in conto capitale ogni anno le Regioni italiane trasferiscono al sistema delle imprese circa 6 miliardi di euro, suddivisi tra contributi erogati ad aziende private e trasferimenti concessi ad aziende pubbliche. Una cifra consistente, pari allo 0,36% del Pil nazionale. Lo rivela una ricerca del Centro studi “ImpresaLavoro”, che ha elaborato i dati più recenti contenuti in SIOPE, il Sistema informativo sulle operazioni degli enti pubblici del Ministero delle Finanze. Gli ultimi dati disponibili certificano infatti che nel 2013 le Regioni italiane hanno trasferito complessivamente 3,3 miliardi di euro a imprese private (1 miliardo in trasferimenti correnti e 2,3 miliardi in contributi in conto capitale) e 2,5 miliardi di euro a imprese pubbliche (1,1 miliardi in trasferimenti correnti e 1,4 miliardi in conto capitale) .
Dal punto di vista regionale, a fare la parte del leone è il Trentino Alto Adige, che trasferisce annualmente al suo sistema delle imprese circa 762 milioni di euro. Seguono la Sicilia con 683 milioni e la Puglia con 591 milioni.
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Elaborazione ImpresaLavoro su dati Siope e Istat
Il dato assunto in mero valore assoluto rischia però di essere fuorviante, considerato che si paragonano regioni molto diverse sia per popolazione che per Prodotto interno lordo. Dal punto di vista dei contributi che ogni regione eroga rapportati alla popolazione, il Trentino Alto Adige risulta ancora di gran lunga il territorio più generoso: con 736 euro di contributo per ogni cittadino residente quasi doppia la Valle d’Aosta che si classifica al secondo posto. Terza la Basilicata con 200 euro a cittadino e quarta un’altra Regione autonoma, il Friuli Venezia Giulia, che trasferisce ogni anno alle sue imprese 186 euro per cittadino residente. Molto meno generose sono la Toscana (37 euro), la Lombardia (41 euro) e il Lazio (42 euro).
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Elaborazione ImpresaLavoro su dati Siope e Istat
Anche con riferimento al Pil Trentino Alto Adige, Valle d’Aosta e Basilicata si confermano le regioni in cui vengono erogati più contributi alle imprese: nelle province di Trento e Bolzano, infatti, la contribuzione regionale ad aziende pubbliche e private raggiunge i 2 punti di Pil: il doppio di quanto avviene in Valle d’Aosta e Basilicata e 20 volte l’impatto che queste misure hanno in regioni importanti come Lombardia, Toscana, Lazio e Veneto.
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Elaborazione ImpresaLavoro su dati Siope e Istat
Le singole Regioni si differenziano non solo in termini quantitativi: particolarmente curioso è analizzare la composizione dei contributi al sistema delle imprese diviso tra quanto finisce in tasca ad aziende private e quanto invece va a foraggiare il sistema delle imprese pubbliche. Liguria ed Emilia Romagna, ad esempio, scelgono di erogare larghissima parte dei loro contributi ad aziende di proprietà dello Stato, delle Regioni o degli Enti Locali. In Liguria quasi il 93% dei contributi erogati finisce al pubblico mentre in Emilia-Romagna le aziende di stato si portano a casa l’82% del totale stanziato a favore dell’economia reale. Terza in questa speciale classifica di attenzione alle società pubbliche è la Puglia con il 64% dei contributi erogati, seguita dalla Campania cn il 63,5% e dalla Sardegna con il 54,1%.
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Elaborazione ImpresaLavoro su dati Siope e Istat
Al contrario, si dimostrano particolarmente attente al sistema delle aziende private Molise, Campania e Sicilia che stanziano a loro favore rispettivamente il 94,4%, il 90,7% e l’86% delle risorse disponibili per contributi alle imprese.
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Elaborazione ImpresaLavoro su dati Siope e Istat
 
Rassegna stampa
La Gazzetta del Mezzogiorno
Il Messaggero Veneto
 
 
Fornitori dello Stato in rivolta: «Versare subito l’Iva ci uccide»

Fornitori dello Stato in rivolta: «Versare subito l’Iva ci uccide»

Roberto Giovannini – La Stampa

Per lo Stato è quasi 1 miliardo di gettito atteso aggiuntivo; dunque una marcia indietro è praticamente impossibile. Parliamo dello «split payment», la misura introdotta dalla Legge di Stabilità che impone alle pubbliche amministrazioni di girare direttamente all’Erario l’Iva sui pagamenti ai loro fornitori di beni e servizi. Apparentemente sembra una misura di buon senso: invece di perdere tempo lasciando per qualche mese l’Iva alle aziende che lavorano col “pubblico”, a un certo punto poi costrette a girarla all’Erario, si evitano passaggi intermedi. E soprattutto si evitano le tristemente note «truffe carosello» con false compensazioni Iva. Eppure in queste settimane i costruttori dell’Ance e le associazioni di piccola e media impresa che compongono Rete Imprese Italia hanno lanciato l’allarme: «È una norma killer», affermano le associazioni, sostenute da M5S, Forza Italia e Lega, «il conto per noi è insostenibile». E come afferma il presidente dei costruttori dell’Ance Paolo Buzzetti, «per centinaia di imprese di costruzione sarà la fine». Protestano anche i professionisti, che pure sono esentati dalla novità.

Una vicenda, si capisce, che la dice lunga sulla stato di salute (pessimo) e sulla competitività (risibile) del nostro sistema d’impresa. Perché è davvero misero un paese in cui tante imprese rischiano di chiudere soltanto perché non disporranno più della liquidità rappresentata dall’Iva (dal 10 al 22% per ogni lavoro svolto) che fino all’anno scorso potevano utilizzare per qualche mese, e che oggi invece passa direttamente tra la pubblica amministrazione committente e l’Erario. E in effetti, spiega l’Ance, è proprio il «forte ammanco di liquidità rispetto a quanto attualmente incassato» a spaventare. Tenendo conto, dicono le aziende, che come noto lo Stato non solo ritarda moltissimo i pagamenti per i lavori svolti, ed è pure lentissimo nell’effettuare i rimborsi Iva alle aziende che ne hanno diritto.

E parlando con gli esperti di fisco e con quelli di governo, si capisce che è proprio il nodo della compensazione tra crediti e debiti Iva la ragione che ha spinto il governo a varare lo «split payment», e che preoccupa tante aziende. In precedenza, un’azienda che lavorava col «pubblico», prima di girare all’Erario l’Iva temporaneamente incassata, poteva detrarre da quella somma i crediti Iva, ovvero l’Iva versata a fornitori, subappaltanti e acquisti vari effettuati. Molto banalmente, spiegano al ministero di Via Venti Settembre, quasi sempre tra i crediti Iva si inserivano acquisti discutibili o fatture un po’ gonfiate, contando sull’inefficacia dei controlli fiscali. Per non parlare delle truffe vere e proprie con le fatture false create dalle cosiddette «cartiere». Non è un caso se dallo «split payment» lo Stato si attende moltissime entrate aggiuntive, blindate peraltro con una «clausola di salvaguardia» sulle accise dei carburanti. E il ritardo nei rimborsi Iva «onesti»? Il governo assicura che impiegherà non più di sei mesi per restituire l’Iva «passiva», ma le imprese non ci credono. L’Ance ha varato una raccolta di firme, Rete Imprese chiede correzioni nel «milleproroghe».

Imprese e fisco, così proprio non va

Imprese e fisco, così proprio non va

Massimo Blasoni – Metro

Dopo il QE (Quantitative Easing) un nuovo acronimo si aggira per l’Europa: TTR, ovvero Total Tax Rate. Si tratta in soldoni (letteralmente) della percentuale sul fatturato che ciascuna impresa devolve ogni anno allo Stato sotto forma di tasse. Non illudetevi: che in questo settore l’Italia resti purtroppo la matrigna d’Europa lo dimostrano le recenti elaborazioni che abbiamo svolto sui dati riferiti al 2014 contenuti nel rapporto “Doing Business 2015” della Banca Mondiale.
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I profitti, la morale e il ruolo sociale delle imprese

I profitti, la morale e il ruolo sociale delle imprese

Carlo Lottieri

Da qualche anno domina una retorica che pretende di alterare il normale operare delle imprese in nome della morale e di valori più elevati. Per molti, in effetti, le imprese dovrebbero abbandonare la logica del profitto e dirigersi verso altri e maggiormente nobili obiettivi: la protezione della natura, la solidarietà, la riduzione delle diseguglianze tra Nord e Sud del mondo, e via dicendo. È questo ad esempio il tema della cosiddetta “banca etica”, che investe adottando criteri morali ben precisi e, di conseguenza, rigettando tutta una serie di settori. C’è però da chiedersi se sia davvero tutto oro quello che luccica, dato che questa “corporate social responsibility” può condurre in varie direzioni e può essere letta entro prospettive assai differenti.
Non c’è dubbio che per molte aziende la melassa buonista a base di richiami all’etica è solo parte di una ben precisa strategia di marketing. Il politicamente corretto serve essenzialmente a costruire nicchie di mercato che sfruttano la pubblicità costantemente garantita dai gruppi militanti di carattere umanitario, ambientalista, solidale, legalista e via dicendo. Qui si assiste a un abile utilizzo di alcune parole associate all’etica, anche se in senso assai strumentale. A questo riguardo il caso più classico è il riferimento alla natura, alla retorica anti-industriale e al biologico in un numero crescente di prodotti del settore alimentare. In questo caso, è chiaro che le aziende continuano a perseguire la logica di sempre – l’aumento dei profitti – con altri mezzi.
Non è certo la cosa peggiore che possa accadere. Quando infatti la ricerca dell’utile è proprio rigettata, è lecito domandarsi se questo sia corretto nei riguardi degli azionisti.Proviamo infatti a ipotizzare che, nel nome di un buonismo volto a soccorrere i deboli, un’azienda decida di rifornirsi da produttori in difficoltà che vendono beni di scarsa qualità e alto prezzo, invece che ricorrere ad alternative vantaggiose. Fare beneficienza a danno di chi ha investito nell’impresa non è un comportamento facile da giustificare, anche perché in questa maniera non si persegue quella corretta gestione su cui si basa il rapporto di fiducia tra gli azionisti e il management. Oltre a ciò, l’adozione di queste regole redistributive impedisce al mercato di premiare i migliori fornitori a scapito di quelli di minore qualità.
Di conseguenza, le cattive imprese potrebbero anche sopravanzare le buone, a danno dei consumatori e dell’economia nel suo insieme. Con questo non si vuole negare l’importanza della solidarietà, della filantropia e della beneficienza. Non siamo isole e siamo chiamati a farci carico di chi ha bisogno. Per giunta, una società libera non può reggere se non sa sviluppare una fitta rete di associazioni, fondazioni, attività non profit e via dicendo, in grado di soccorrere i più deboli.
La retorica della “corporate social responsibility” è però tutt’altro. Se un azionista vuole aiutare qualcuno lo può sempre fare, liberamente, utilizzando i propri profitti personali: senza dover scoprire nelle pieghe di un bilancio consuntivo che i suoi soldi sono stati usati per perseguire “nobili” obiettivi. Per giunta, com’è facile comprendere, quando si ammette che una gestione aziendale possa perseguire obiettivi “etici” e non più solo “economici” si finisce per consegnare agli amministratori un’ampia libertà d’azione, che essi possono utilizzare per realizzare i loro più disparati obiettivi.
È chiaro che un amministratore è in primo luogo un uomo, e quindi ha criteri morali da rispettare: non può essere disonesto, investire in aziende criminali, imbrogliare dipendenti o clienti, minacciare, e via dicendo. Ma questi criteri etici sono molto più definiti e ristretti rispetto a quelli suggeriti da chi vorrebbe estendere alle aziende i principi morali che devono guidare i singoli nella loro ricerca di una vita “retta”. Identificando questi ultimi principi, per giunta, con alcune parole d’ordine del politically correct.
Ultimo punto. Non di radio queste imprese “etiche” – quale che sia il loro settore – sono assai impegnate a ottenere norme di favore, che attribuiscano loro una posizione di privilegio. Tanta retorica su etica e morale finisce spesso per convertirsi in azioni di lobbying che danneggiano i concorrenti e/o i consumatori. Un esito davvero paradossale.
PA, rimborsi veloci per i fornitori

PA, rimborsi veloci per i fornitori

Benedetto Santacroce e Paolo Parodi – Il Sole 24 Ore

Per applicare lo split payment i fornitori della pubblica amministrazione devono immediatamente adeguare i sistemi informativi per gestire l’emissione e la contabilizzazione delle fatture, per gli enti pubblici le strade tra acquisti istituzionali e commerciali si separano sulla liquidazione e il versamento dell’imposta.Questi sono due degli effetti che il decreto 23 gennaio 2015 ha introdotto per l’attuazione dell’articolo 17-ter delDpr 633/72. Viene innanzi tutto confermato che il meccanismo dello split payment non si applica nei confronti di tutte le pubbliche amministrazioni bensì esclusivamente alle operazioni con gli enti pubblici tassativamente elencati nel nuovo articolo 17-ter del Dpr 633/72; si tratta infatti delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi effettuate nei confronti dello Stato e degli organi dello Stato ancorché dotati di personalità giuridica. degli enti pubblici territoriali (regioni, province e comuni) e dei consorzi tra essi costituiti ai sensi dell’articolo 31 del Dlgs 267/2000, delle Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, degli istituti universitari, delle aziende sanitarie locali, degli enti ospedalieri, degli enti pubblici di ricovero e cura aventi prevalente carattere scientifico, degli enti pubblici di assistenza e beneficenza e di quelli di previdenza (si ritiene che siano escluse le Casse private).

Novità importante è l’obbligo per il fornitore di esporre in fattura la dizione «scissione dei pagamenti»; le fatture devono comunque evidenziare l’Iva ed essere normalmente registrate, senza però concorrere alla liquidazione mensile. È evidente che i software gestionali dovranno prevedere specifica causale o codifica di registrazione. Viene altresì precisato che alle cessioni e alle prestazioni verso i sopra elencati enti non sono applicabili le disposizioni in tema di esigibilità differita di cui all’articolo 6, comma 5 del Dpr 917/86. L’esigibilità dell’imposta si avrà, in ogni caso, al momento del pagamento della fattura, salvo che l’ente pubblico destinatario decida di anticiparla al momento della registrazione della fattura ricevuta: ma ciò non avrà alcun impatto sul fornitore. In linea con il comunicato stampa del ministero dell’Economia del 9 gennaio scorso, l’articolo 9 del decreto precisa che le nuove disposizioni si applicano alle operazioni per le quali è stata emessa fattura a far data dal 1° gennaio 2015: si noti che non viene assunto il concetto di «momento di effettuazione dell’operazione», con la conseguenza che le fatture differite emesse a gennaio per consegne di beni avvenute in dicembre dovranno essere assoggettate a split payment.

Sempre nell’ottica dei fornitori delle Pa, l’articolo 8 del decreto definisce la questione rimborsi: l’erogazione in via prioritaria partirà già con il primo trimestre 2015 ma non potrà superare l’ammontare complessivo delle operazioni ex articolo 17-ter effettuate nel periodo in cui si è avuta l’eccedenza di imposta detraibile oggetto della richiesta di rimborso. Per gli enti pubblici destinatari, l’articolo 4 del decreto detta un meccanismo ordinario di versamento: entro il 16 del mese successivo, in maniera cumulativa per tutte le fatture esigibili nel mese precedente, ricordando che l’esigibilità si ha con il pagamento della fattura o, per opzione, con la ricezione della stessa. È peraltro previsto che entro il medesimo termine possano essere effettuati versamenti separati per singola fattura o per singola giornata. In ogni caso, il versamento deve avvenire senza poter fruire di compensazioni e mediante specifico codice tributo che sarà istituito sia per i versamenti a mezzo modello F24 che per quelli a mezzi F24EP.

Novità assoluta per gli enti pubblici titolari di partita Iva è la gestione dello split payment relativamente alle attività che gli stessi gestiscono nella propria sfera commerciale. Le fatture ricevute dovranno essere registrate, oltreché sul registro degli acquisti, sul registro delle fatture emesse in modo che l’Iva da split payment concorra alla liquidazione del mese in cui le fatture sono pagate o – a scelta – registrate; non vi sarà dunque, per tale Iva, un versamento separato con il nuovo codice tributo come deve invece avvenire per gli acquisti effettuati in ambito istituzionale. Anche gli acquisti di beni e servizi destinati promiscuamente alla sfera commerciale e a quella istituzionale dovranno essere trattati come quelli totalmente commerciali, restando ovviamente fermo che la detraibilità dell’Iva acquisti continuerà a seguire le regole normali. Per adeguarsi le Pa destinatarie avranno tempo fino al 31 marzo 2015, in modo che il primo versamento avvenga non oltre il successivo 16 aprile.

Senzafiltro: Il governo non mantiene la promessa alle imprese italiane

Senzafiltro: Il governo non mantiene la promessa alle imprese italiane

Massimo Blasoni – Senzafiltro

Sappiamo bene come la politica viva di immagini e simboli in grado di far breccia nell’opinione pubblica. Chi governa tende però spesso a esagerare, contrabbandando come successi quelle che purtroppo restano soltanto promesse. Prendiamo il caso del pagamento dei debiti arretrati che la pubblica amministrazione ha con migliaia di imprese private: il premier Matteo Renzi e il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan sostengono di aver onorato la loro promessa di estinguerli ma i fatti purtroppo si incaricano di smentirli. I debiti di cui parlano sono quelli maturati entro il 31 dicembre 2013: solo per questi, infatti, è stato possibile per le imprese chiedere la certificazione e la relativa liquidazione di quanto dovuto. E solo a questi debiti ci si riferisce anche quando si monitorano i risultati al 31 ottobre delle altre iniziative del governo sul tema (garanzia pubblica sulla cessione del credito, deroghe al patto di stabilità, compensazione con alcuni debiti fiscali).
Incrociando il dato della spesa per beni e servizi così come certificata da Eurostat e quello dei tempi medi di pagamento così come monitorati da Intrum Justitia, il Centro studi “ImpresaLavoro” ha stimato uno stock di debiti per il 2013 pari a 74 miliardi di euro. Alle stesse conclusioni è giunto anche l’Ufficio Studi di Bankitalia. Siccome fino ad oggi i debiti rimborsati sono stati solo 34 miliardi (su uno stanziamento complessivo di 40), possiamo affermare che la promessa del governo, a rigor di matematica, non è stata mantenuta.
Nel frattempo si è accumulato nuovo debito e chiunque può comprendere come il suo stock si possa ridurre soltanto se i nuovi debiti risultano inferiori a quelli oggetto di liquidazione. Una condizione che non potrà crearsi fino a quando il livello di spesa pubblica e i suoi tempi medi di pagamento non subiranno una drastica diminuzione. I dati Eurostat ci dicono invece che dall’inizio del 2014 a oggi siano già stati consegnati alla Pa italiana beni e servizi per un valore di circa 113,5 miliardi di euro. Contemporaneamente, l’analisi dei flussi di cassa delle amministrazioni tracciabile attraverso il SIOPE non segnala alcuna diminuzione dei tempi medi di pagamento, che restano con ogni probabilità di circa 170 giorni (altro che i 30 giorni imposti sulla carta dall’Europa!).
Risultato? Il nostro stock di debito è rimasto sostanzialmente invariato, restando così il maggiore a livello europeo sia in termini nominali che relativi. Già dal 2010, l’Italia ha infatti il peggior rapporto tra debiti commerciali e PIL, superando tanto la Spagna quanto la Grecia, le uniche in Europa (a parte l’Italia) a superare il 3% in questo rapporto. Per un’impresa italiana che lavora con la PA, l’incidenza di questi costi sulla singola fornitura risulta così pari al 4,2%: un dato circa 4 volte superiore a quello sostenuto da un’impresa francese (1,2%) e circa 7 volte superiore a quello sostenuto da un’impresa tedesca (0,6%). Le conseguenze di questa situazione sono pesantissime: il ritardo dei pagamenti ai fornitori della PA ha infatti finora determinato un costo del capitale a carico delle imprese italiane di oltre 6 miliardi di euro all’anno, pari a quasi 30 miliardi nel periodo 2009-2013.
L’onere complessivo a carico del sistema grava inoltre sul tessuto produttivo economico fino a coinvolgere imprese subfornitrici e dipendenti. In questi numeri non sono infatti ricompresi gli effetti legati ad altri aspetti comunque rilevanti quali i minori investimenti operati dalle imprese in conseguenza della minore disponibilità di capitale; la riduzione di dipendenti e quindi della distruzione di posti di lavoro; i costi del dissesto delle imprese che, per le conseguenze dei ritardi di pagamento della PA, si sono trovati in una situazione di insolvenza, fino ad arrivare (nei casi più gravi) al fallimento; i costi diretti ed indiretti a carico dei contribuenti. In merito a quest’ultimo aspetto va infatti ricordato che, a partire dal 1° gennaio 2013, il recepimento di una direttiva europea ha obbligato la Pubblica Amministrazione a versare gli interessi di mora sui ritardi, calcolati sulla base del tasso di riferimento BCE maggiorato di 8 punti percentuali su base annua. Tale misura non compensa del tutto il costo del capitale a carico delle imprese italiane ma grava comunque sui cittadini italiani per oltre 3 miliardi di euro all’anno.
Mercato del lavoro e tasse sulle imprese: ecco dove ci batte persino la Grecia

Mercato del lavoro e tasse sulle imprese: ecco dove ci batte persino la Grecia

ANALISI

Pur strangolata dal debito pubblico e scossa da una profondissima crisi economica e sociale, la Grecia riesce comunque a battere l’Italia 12 a 0 sul fronte del mercato del lavoro e delle tasse sulle imprese. È quanto emerge da una ricerca del Centro studi “ImpresaLavoro”, che ha elaborato i dati più recenti pubblicati dal World Economic Forum e dalla Banca Mondiale.
Analizzando le classifiche del “Global Competitiviness Report 2014-2015” stilate dal World Economic Forum si scopre infatti che la Grecia occupa nel rank mondiale una posizione migliore della nostra per quanto riguarda l’efficienza generale del mercato del lavoro (è 118esima mentre l’Italia è 136esima), la collaborazione nelle relazioni tra imprese e lavoratore (108esima contro 137esima), la flessibilità nella determinazione dei salari (118esima contro 138esima), l’efficienza nelle modalità di assunzione e di licenziamento (92esima contro 141esima), il legame tra salari e produttività (121esima contro 139esima), l’effetto della tassazione sull’incentivo a lavorare (138esima contro 143esima), il merito nella scelta delle posizioni manageriali (98esima contro 122esima) e infine la capacità del sistema sia nel trattenere talenti (96esima contro 121esima) sia nell’attrarli (127esima contro 128esima).
Il recentissimo rapporto “Doing Business 2015” curato dalla Banca Mondiale certifica invece la situazione di indubbio vantaggio che le aziende elleniche godono rispetto alle loro concorrenti italiane. Non soltanto in Grecia il Total Tax Rate sulle imprese (49,9%) è infatti decisamente inferiore al nostro (65,4%) ma sul fronte delle modalità di pagamento delle imposte la Repubblica ellenica si dimostra meno matrigna della nostra per il numero sia degli adempimenti (8 contro 15) sia delle ore impiegate in media ogni anno da ciascuna azienda (193 contro 269).
«L’Italia ha certamente fondamentali economici migliori di quelli greci» osserva il presidente di “ImpresaLavoro” Massimo Blasoni. «Tuttavia occorre notare come l’analisi puntuale di due aspetti importanti dell’economia come efficienza del mercato del lavoro e tassazione sulle imprese dimostrino l’arretratezza del nostro Paese. Non è un dato banale perché i fondamentali economici sono figli delle scelte fatte in passato: liberare le nostre aziende da un fardello fiscale ormai insostenibile e produrre regole sul lavoro semplici e certe sono due passaggi non più rimandabili su cui il governo si dovrebbe impegnare maggiormente. Altrimenti il rischio è di scivolare sempre più verso la Grecia».
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Cosa serve alle imprese

Cosa serve alle imprese

Massimo Blasoni – Metro

Il nostro Paese decresce dello 0,4% nel 2014, andando peggio di quanto il Governo avesse stimato a inizio anno. Nel frattempo negli Usa la crescita è pari al 5%, un abisso legato sia alle politiche espansive americane che a un problema specifico della nostra economia. L’Italia è l’unico tra i principali Paesi europei ad avere un Pil reale che si è ridotto di dieci punti dall’inizio della crisi. La via d’uscita per il rilancio dell’economia sono le attività imprenditoriali, ma è difficile fare impresa in Italia. Lo studio annuale della Banca Mondiale ci pone agli ultimi posti tra i Paesi in cui è più facile fare affari e il peso complessivo delle imposte sulle imprese sfiora il 65%. Burocrazia, tempi della giustizia, cuneo fiscale: tutto concorre a frenare il rilancio. Concentriamoci su appena due delle tante critiche che si potrebbero muovere al Governo Renzi sul tema aziende.
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Aziende schiacciate dalle tasse

Aziende schiacciate dalle tasse

Valerio Stroppa – Italia Oggi

Per ogni 10 euro guadagnati dalle imprese italiane 6,5 euro vanno allo Stato. Il total tax rate per l’anno 2014 si è attestato al 65,4%, con un leggero miglioramento rispetto al 65,8% del 2013. Una pressione fiscale maggiore si ritrova solo in Francia (66,6%), mentre ben più basso risulta il prelievo complessivo in Germania (48,8%), Spagna (58,2%) e Regno Unito (33,7%). Senza considerare ordinamenti di particolare favore verso le imprese come quello della Croazia (tassazione totale al 18,8%) e dell’Irlanda (25,9%). È quanto emerge da un’elaborazione del Centro studi ImpresaLavoro basata sui dati contenuti nel rapporto Doing Business 2015, predisposto ogni anno dalla Banca mondiale. Il tax rate gravante sulle imprese viene calcolato in percentuale sugli utili totali e comprende l’imposta sul reddito (corporate tax), i contributi sociali e previdenziali, le tasse su dividendi e capital gain, nonché le tasse su rifiuti, veicoli e trasporti.

Il Doing Business è impietoso con il Belpaese: nella classifica globale che misura la facilità di fare impresa, al capitolo fisco l’Italia si piazza ultima a livello continentale e 141° nel mondo (su 189 paesi), dietro a paesi quali Sudan, Sierra Leone, Burundi. «Un risultato determinato da un mix micidiale composto da pressione fiscale elevata, sistema complesso e tempi lunghi anche per pagare quanto dovuto allo Stato», spiega una nota di ImpresaLavoro, «al prelievo elevato, infatti, si associa anche un sistema burocratico particolarmente complicato. Tra Ires, Irap, tasse sugli immobili, versamenti Iva e contributi sociali in Italia un imprenditore medio effettua in un anno 15 versamenti al fisco, sei in più di un suo collega tedesco, sette in più di un inglese, di uno spagnolo o di un francese e nove in più di uno svedese».

Ai costi diretti legati al prelievo fiscale si sommano poi gli oneri indiretti, ossia le «ore-uomo» necessarie per adempiere correttamente agli obblighi tributari. Per essere in regola con l’erario, infatti, le aziende italiane impiegano in media 269 ore all’anno. Sotto questo profilo, tuttavia, in Europa sono altri cinque gli stati membri dove le aziende impiegano più tempo: in Portogallo servono 275 ore, in Ungheria 277, in Polonia 286, per salire alle 413 ore della Repubblica Ceca e alle 454 della Bulgaria. Netto però il divario con le altre grandi economie europee: un’azienda tedesca ha bisogno di 218 ore all’anno (51 in meno dell’Italia), una spagnola di 167 ore (102 ore in meno) e una francese 137 ore (132 ore in meno). «Particolare poi la situazione del Regno Unito», prosegue il centro studi, «dove a un sistema fiscale gia leggero in termini quantitativi si accompagna un sistema di pagamento molto semplice. Gli imprenditori inglesi effettuano in un anno una media di otto versamenti al fisco, occupando solo 110 ore del loro tempo, meno della metà di un imprenditore italiano».

I dati del rapporto mondiale indicati nel capitolo «Paying taxes» evidenziano una disparità anche tra l’Italia e il mondo Ocse nel suo insieme. La media della pressione fiscale vigente nei 34 paesi più sviluppati appartenenti all’organizzazione parigina è del 41,3%. Lo scostamento maggiore non si riscontra nella tassazione sugli utili di impresa (19,9% in Italia contro una media Ocse del 16,4%), ma soprattutto in quella gravante sui lavoratori (43,4% contro 23,0%). Le imposte indirette sono in linea con la media Ocse, dove però le ore dedicate ogni anno alla compliance fiscale dalle imprese non supera le 175 (contro le 269 ore italiane).

Un contesto dal quale emerge come, secondo ImpresaLavoro, «l’Italia resta la matrigna d’Europa per quanto riguarda le tasse sulle imprese», anche perché le frequenti modifiche normative e la conseguente incertezza applicativa scoraggia la nascita di nuove iniziative. Temi, questi, sui quali il governo sta cercando di intervenire a più riprese. A cominciare dalle misure introdotte dalla legge di stabilità 2015 (deducibilità ai fini Irap del costo del lavoro, patent box, credito d’imposta ricerca e sviluppo), ma anche con l’intervento sull’abuso del diritto previsto dalla delega fiscale. Il decreto attuativo, però, è stato stoppato dallo stesso esecutivo dopo le polemiche sorte in merito alla norma che avrebbe depenalizzato talune fattispecie di reato tributario. Il dlgs, riveduto e corretto, tornerà sul tavolo di palazzo Chigi il prossimo 20 febbraio.