imprese

La riforma del versamento Iva nuova tagliola per le imprese

La riforma del versamento Iva nuova tagliola per le imprese

Antonio Signorini – Il Giornale

Le imprese sono sempre più a secco di liquidi e le scelte del governo rischiano di aggravare la loro situazione, invece di migliorarla. I ritardi nei pagamenti pubblici e privati – ha certificato ieri la Cgia di Mestre – pesano sul fatturato delle aziende per 34 miliardi di euro. Un male antico, quello delle fatture non saldate da committenti statali o da aziende, al quale rischia di aggiungersi il peso delle nuove norme sul pagamento dell’Iva.

Il cosiddetto reverse charge deciso dall’ultima legge di Stabilità prevede che l’Iva sia versata allo Stato direttamente dall’acquirente. Una partita di giro per quei settori che hanno un equilibrio nel tempo tra merci acquistate e quelle vendute. Ma non per tutti. Da qualche giorno arrivano al governo, ad esempio, gli allarmi del settore del latte e da quello della grande distribuzione. In questo caso il reverse charge farebbe aumentare il credito Iva già enorme (si parla di un miliardo di euro) drenando liquidità a un settore che già non se la passa bene. Tra i possibili effetti, difficoltà a pagare i fornitori di latte e un ulteriore spostamento degli acquisti verso il latte estero. Nella stessa situazione la grande distribuzione organizzata, le cui imprese diventeranno ancora di più dipendenti dai rimborsi Iva, quindi da crediti verso lo Stato.

E su questo fronte ancora non c’è da rallegrarsi. In Italia ben 3,4 milioni di imprese, pari al 76 per cento del totale nazionale, soffrono di problemi di liquidità riconducibili al ritardo nei pagamenti, ha calcolato ieri la Cgia di Mestre. I mancati incassi, sia su crediti verso il pubblico sia verso il privato, hanno comportato perdite di 35 miliardi di euro e 1,7 milioni di imprese, il 39 per cento del totale, hanno segnalato che a causa di questa criticità non hanno potuto effettuare assunzioni, mentre 900mila aziende (pari al 20 per cento) hanno valutato la possibilità di licenziare in ragione di problemi conseguenti al ritardo dei pagamenti. Infine, 700mila imprese (pari al 15 per cento del totale nazionale) si trovano sull’orlo del fallimento.

«Le cause di queste criticità – segnala il segretario della Cgia Giuseppe Bortolussi – vanno ricercate nei tempi medi di pagamento effettivi presenti in Italia che intercorrono nelle transazioni commerciali sia tra imprese e Pubblica amministrazione, sia tra imprese private. Nel primo caso, i giorni medi necessari per il saldo fattura sono 165; nel secondo caso, invece, si arriva a 94 giorni». Il primo cattivo pagatore, insomma, ancora una volta è lo Stato. E «in entrambe le situazioni siamo maglia nera quando ci confrontiamo con i nostri principali partner dell’Ue».

È dall’ottobre scorso che il ministero dell’Economia non aggiorna i dati sul rimborso dei debiti della Pa. Segnalano che i debiti pagati dallo Stato e dalle Autonomie locali ammontano a 32,5 miliardi di euro. «Se si considera che nell’ultimo biennio sono stati messi a disposizione circa 56,3 miliardi di euro – spiega la Cgia – l’incidenza dei pagamenti effettuati sul totale è pari al 57,7 per cento. C’è stato un rallentamento, che ieri il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha spiegato in un’intervista al Sole24Ore . «Il problema è legato ai crediti per la spesa in conto capitale, dove dobbiamo tener conto dell’impatto sul deficit. Eppoi con alcune ragioni continuano ad esserci problemi. Si stanno comunque sbloccando nuove tranche». In sostanza, non si pagano i debiti per non incidere sul deficit e sforare i limiti europei.

Tasse sulle imprese: l’Italia resta la matrigna d’Europa e scivola al 141esimo posto al mondo

Tasse sulle imprese: l’Italia resta la matrigna d’Europa e scivola al 141esimo posto al mondo

NOTA

L’Italia resta la matrigna d’Europa per quanto riguarda le tasse sulle imprese. Lo dimostra un’elaborazione del Centro studi “ImpresaLavoro” sui nuovi dati riferiti al 2014 contenuti nel rapporto Doing Business 2015. Nel rank generale che misura la facilità per le imprese del sistema fiscale l’Italia si classifica ultima a livello continentale e 141esima nel mondo, riuscendo a fare addirittura peggio dell’anno scorso quando si classificò 137esima. Un risultato determinato da un mix micidiale composto da pressione fiscale elevata, sistema fiscale complesso, tempi lunghi anche per pagare quanto dovuto allo Stato. Tra i Paesi dell’Europa a 28 la palma di miglior sistema fiscale va all’Irlanda, seguita dalla Danimarca e dal Regno Unito. Dietro, ma comunque meglio dell’Italia, tutte le tradizionali economie dell’area euro: l’Olanda è sesta, la Germania 18esima, la Spagna 20esima e la Francia 25esima.
tabella 1
In termini di Total Tax Rate sulle imprese l’Italia fa leggermente meglio dello scorso anno e passa da un prelievo complessivo del 65,8% ad uno del 65,4%. Una cifra comunque inferiore alla sola Francia (66,6%) e che distanzia di molto tutti i principali partner europei. Anche volendo tralasciare sistemi di particolare favore verso le imprese come quello croato (Total Tax Rate al 18,8%) e Irlanda (25,9%), non si può fare a meno di notare come, tranne la Francia di cui si è detto, nessuno dei nostri partner tradizionali a livello comunitario sconti una pressione fiscale cosi asfissiante: la Germania si ferma a 16,6 punti percentuali di Total Taxe Rate in meno (48,8%) e anche Grecia (49,9%), Portogallo (42,4%) e Spagna (58,2%) fanno meglio di noi. Per tacere di una grande economia matura come quella del Regno Unito che riesce comunque a garantire alle sue imprese un prelievo statale complessivo del 33,7%.
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Al prelievo elevato, nel nostro Paese, si associa anche un sistema burocratico particolarmente complicato. Tra IRES, IRAP, tasse sugli immobili, versamenti IVA e contributi sociali in Italia un imprenditore medio effettua in un anno 15 versamenti al fisco, 6 in più di un suo collega tedesco, 7 in più di un inglese, di uno spagnolo o di un francese e 9 in più di uno svedese. Anche per essere in regola con il fisco le nostre aziende sono costrette ad occupare una parte consistente del loro tempo: con 269 ore l’anno impiegate per adempimenti fiscali, l’Italia è sesta in Europa e prima tra le grandi economie. Un’azienda tedesca ha bisogno di “sole” 218 ore all’anno (51 in meno) e fa comunque peggio di Spagna (167 ore, 102 in meno dell’Italia) e Francia (137 ore, 132 in meno). Particolare la situazione del Regno Unito: a un sistema fiscale già leggero in termini quantitativi si accompagna un sistema di pagamento molto semplice. Gli imprenditori inglesi effettuano in un anno una media di 8 versamenti al fisco, occupando “solo” 110 ore del loro tempo, meno della metà di un imprenditore italiano.

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tabella 4

 

Rassegna Stampa
Italia Oggi
La paura che paralizza famiglie e imprese

La paura che paralizza famiglie e imprese

Giuseppe De Rita – Corriere della Sera

Siamo ormai assuefatti alla massa di valutazioni e previsioni ansiogene che si affollano nel dibattito sul nostro futuro economico con il protagonismo costante di agenzie di rating, presidenti di enti internazionali, capi di governo, opinionisti di ogni competenza ed orientamento. Gli unici assenti finiscono per risultare i due grandi soggetti presenti e futuri del nostro sviluppo, le imprese e le famiglie, dalla cui silenziosa presenza non si può prescindere, anche perché sono loro che hanno nelle mani una crescente ricchezza finanziaria, anche se non la usano, non la mettono in movimento. Viene spontanea la citazione di San Bernardino da Feltre, che scriveva: «moneta potest esse considerata vel rei; vel, si movimentata est, capitale», cioè: la moneta può essere considerata una cosa o, se viene movimentata, capitale. A parte la curiosità di vedere questo termine, «capitale», usato da un santo veneto mezzo millennio prima di Marx, la citazione serve bene a descrivere la attuale situazione italiana: mettiamo in cantina sempre più ricchezza finanziaria, ma non riusciamo a immetterla in circuiti e politiche di sviluppo.

Pensiamo anzitutto alle famiglie: stanno negli ultimi mesi tenacemente incrementando il risparmio e la ricchezza finanziaria netta, attraverso la crescita dei depositi bancari, delle sottoscrizioni di polizze vita, dei flussi del risparmio gestito (110 miliardi in più nei primi undici mesi di quest’anno); cosicché a fine anno arriveremo ben più in alto della vetta di ricchezza che avevamo raggiunto nel 2006. Un capitale però «inagito», bloccato certo dalla paura di cosa ci può portare il futuro, ma che è anche, e forse specialmente, il sintomo che le famiglie non hanno aspettative e desideri, e non riescono quindi a esprimere una domanda significativa di beni e servizi.

Dal canto loro le imprese non vedono opportunità di investimento e si rifugiano anche loro nel risparmio, sempre più propense a diventare finanziariamente autonome e solide; ed aumentando quindi negli ultimi mesi il proprio patrimonio, la propria disponibilità finanziaria, la propria liquidità. E non investono sulla potenziale dinamica del sistema, così come del resto fanno minoranze imprenditoriali che lavorano sull’estero, che certo concorrono a fare un buon terzo del reddito nazionale ma che il proprio capitale se lo agiscono per conto loro, senza reale efficacia sul complessivo sviluppo nazionale. Se poi dalla trasparenza dei dati ufflciali si passa a considerare il grande mondo del sommerso (familiare e imprenditoriale) si resta sorpresi dalla forte crescita del lavoro e dei redditi sommersi, e quindi della consistenza del risparmio cash (chi si fa pagare in nero i soldi non li mette in banca) che è gestito in proprio secondo i propri bisogni, e senza molta voglia di rimetterlo in giuoco.

Se i più importanti soggetti dell’economia nazionale (famiglie e imprese, emerse e sommerse) sono quindi titolari sia di una crescente disponibilità finanziaria, sia di una resistenza a immetterla in circuiti e politiche di sviluppo, allora perché vengono trascurati dal dibattito economico e politico? La risposta implicitamente espressa, a loro colpa, è che essi, non avendo né aspettative né opportunità reali, si sono chiusi in se stessi e nel loro statico interesse particolare. Ma forse c’è anche un’altra risposta, cioè che è il dibattito politico che li esclude, occupato com’è dallo strapotere di chi ragiona di parametri, di algoritmi, di vincoli di bilancio, di spread, di stabilità: tutti strumenti e saperi statici, lontanissimi dal bisogno di una politica capace di far rivivere i soggetti, le loro ricchezze, le loro aspettative e i loro spazi di opportunità.

Banche esose con i prestiti

Banche esose con i prestiti

Massimo Blasoni – Metro

Dal sistema bancario arrivano frequenti dichiarazioni sull’incremento del credito reso disponibile a famiglie e aziende ma la rielaborazione dei dati Bankitalia realizzata dal nostro Centro studi sembra dimostrare il contrario. Da gennaio a ottobre di quest’anno il volume complessivo dei prestiti si è infatti addirittura ridotto di ulteriori 29 miliardi (-1,2%), passando da 2.309,6 a 2.280,8 miliardi di euro. Questa stretta ha colpito tanto le imprese – passando da 837,9 a 819,4 miliardi (-2,2%) – quanto le famiglie, passando da 601,8 a 596,8 miliardi (-0,8%). Rispetto al gennaio 2011, il volume complessivo dei prestiti risulta poi essersi complessivamente ridotto di 61 miliardi di euro, passando da 2.341,6 a 2.280,8 miliardi di euro (-2,6%). In questo arco di tempo le banche hanno ridotto il loro sostegno soprattutto alle imprese (-7,9%, pari a -70,7 miliardi di euro) e si sono dimostrate avare anche nei confronti delle famiglie (-0,2%, pari a -1,3 miliardi di euro). Al contrario si è registrato un sensibile aumento dei prestiti tra banche e altre istituzioni finanziarie (+ 2,1%, pari a +12,6 miliardi di euro).
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Nel 2014 meno prestiti alle imprese per 20 miliardi

Nel 2014 meno prestiti alle imprese per 20 miliardi

Libero

Che le banche non avessero girato a famiglie e soprattutto imprese la liquidità aggiuntiva che gli è arrivata dalla Bce era nei fatti. Ma ora arriva un nuova conferma della tendenza in atto ormai da anni: nonostante la crisi, i rubinetti dei nostri istituti di credito restano sempre più chiusi. Da gennaio a ottobre il volume complessivo dei prestiti si infatti è ridotto di ulteriori 29 miliardi (-1,2%), passando da 2.309,6 a 2.280,8miliardi di euro. La stretta creditizia ha colpito in particolare tanto le imprese – passando da 837,9 a 819,4 miliardi (-2,2%) – quanto le famiglie, passando da 601,8 a 596,8 miliardi (-0,8%). Lo rivela un’analisi del centro studi «ImpresaLavoro» su elaborazioni di dati Bankitalia.

Rispetto poi al gennaio 2011, il volume complessivo dei prestiti risulta complessivamente ridotto di 61 miliardi di euro, essendo passato da 2.341,6 a 2.280,8 miliardi di euro (-2,6%). In questo periodo i rubinetti delle banche si sono ulteriormente chiusi in particolare per le imprese (-7,9%, pari a -70,7 miliardi di euro) e hanno ridottoilloro sostegno anche per le famiglie (-0,2%, pari a -1,3 miliardi di euro) e le pubbliche amministrazioni (-0,5%, pari a -1,4 miliardi di euro). Al tempo stesso si è invece registrato un sensibile aumento dei prestiti tra banche e altre istituzioni finanziarie (+ 2,1%, pari a +12,6 miliardi di euro).

«Ancora ieri le banche italiane hanno ricevuto in prestito dalla Bce nuova liquidità per 26,5 miliardi di euro, nell’ambito di un’azione di rifinanziamento con scadenza a 4 anni finalizzata a riportare il credito alle imprese, che nonostante tutto si ostinano a investire e a produrre» osserva Massimo Blasoni, presidente di “ImpresaLavoro”.«Adesso occorre agire rapidamente per non vanificare questa operazione».

Le banche si prestano denaro tra loro e lasciano a secco imprese e famiglie

Le banche si prestano denaro tra loro e lasciano a secco imprese e famiglie

Il Tempo

I rubinetti delle banche italiane. Da gennaio a ottobre di quest’anno il volume complessivo dei prestiti si infatti è ridotto di ulteriori 29 miliardi (-1,2%), passando da 2.309,6 a 2.280,8 miliardi di euro. La stretta creditizia ha colpito in particolare tanto le imprese – passando da 837,9 a 819,4 miliardi (-2,2%) – quanto le famiglie, passando da 601,8 a 596,8 miliardi (-0,8%). Lo rivela un’analisi del centro studi “ImpresaLavoro” su elaborazioni di dati Bankitalia. Rispetto poi al gennaio 2011, il volume complessivo dei prestiti risulta complessivamente ridotto di 61 miliardi di euro, essendo passato da 2.341,6 a 2.280,8 miliardi di euro (-2,6%). Al tempo stesso si è invece registrato un sensibile aumento dei prestiti tra banche e altre istituzioni finanziarie (+ 2,1%, pari a +12,6 miliardi di euro). Il sistema bancario giovedì scorso ha ricevuto in prestito dalla Bce nuova liquidità per 26,5 miliardi di euro, nell’ambito di un’azione di rifinanziamento con scadenza a 4 anni finalizzata a riportare il credito alle imprese. Bisognerà vedere quanti di questi fondi finiranno all’economia reale.

Crisi: i rubinetti delle banche sono sempre più chiusi, da gennaio 2011 i prestiti alle imprese sono diminuiti di 70,7 miliardi

Crisi: i rubinetti delle banche sono sempre più chiusi, da gennaio 2011 i prestiti alle imprese sono diminuiti di 70,7 miliardi

NOTA

Nonostante il perdurare della crisi economica, i rubinetti delle banche italiane continuano a restare sempre più chiusi. Da gennaio a ottobre di quest’anno il volume complessivo dei prestiti si infatti è ridotto di ulteriori 29 miliardi (-1,2%), passando da 2.309,6 a 2.280,8 miliardi di euro. La stretta creditizia ha colpito in particolare tanto le imprese – passando da 837,9 a 819,4 miliardi (-2,2%) – quanto le famiglie, passando da 601,8 a 596,8 miliardi (-0,8%). Lo rivela un’analisi del centro studi “ImpresaLavoro” su elaborazioni di dati Bankitalia.
Rispetto poi al gennaio 2011, il volume complessivo dei prestiti risulta complessivamente ridotto di 61 miliardi di euro, essendo passato da 2.341,6 a 2.280,8 miliardi di euro (-2,6%). In questo periodo i rubinetti delle banche si sono ulteriormente chiusi in particolare per le imprese (-7,9%, pari a -70,7 miliardi di euro) e hanno ridotto il loro sostegno anche per le famiglie (-0,2%, pari a -1,3 miliardi di euro) e le pubbliche amministrazioni (-0,5%, pari a -1,4 miliardi di euro). Al tempo stesso si è invece registrato un sensibile aumento dei prestiti tra banche e altre istituzioni finanziarie (+ 2,1%, pari a +12,6 miliardi di euro).
«Ancora ieri le banche italiane hanno ricevuto in prestito dalla Bce nuova liquidità per 26,5 miliardi di euro, nell’ambito di un’azione di rifinanziamento con scadenza a 4 anni finalizzata a riportare il credito alle imprese, che nonostante tutto si ostinano a investire e a produrre» osserva Massimo Blasoni, presidente di “ImpresaLavoro”. «Adesso occorre agire rapidamente per non vanificare questa operazione, così ripristinando almeno parzialmente i livelli di credito pre-crisi».

tabella 1

 

Rassegna Stampa
Il Tempo
Ripresa? I numeri dell’Italia che “mettono all’angolo” l’Ue

Ripresa? I numeri dell’Italia che “mettono all’angolo” l’Ue

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

I fine settimana sono utili anche per assimilare rapporti, documenti e dati che nei giorni feriali hanno avuto una lettura superficiale, specialmente in quotidiani dove la pressione a “chiudere” non permettere di cogliere le sfumature. Ad esempio, il 27 novembre (Giorno del Ringraziamento negli Stati Uniti) è stata data molta enfasi, soprattutto in televisione, all’utile “Congiuntura Flash” del Centro Studi Confindustria (Csc), un documento che, proprio perché di poche pagine, richiede un’attenta lettura.

In effetti, mentre gran parte dei “mezzi busto” televisivi hanno sbrigativamente parlato di “ripresa dietro l’angolo” e alcune testate di livello hanno annunciato “una ripartenza in primavera”, il testo è molto più cauto: si limita a sottolineare come una crescita zero del Pil nel quarto trimestre (ma il dato sarà noto solo a fine gennaio/inizio febbraio) sarebbe “una buona base” per indicare che dopo sette anni di recessione si sta ricominciando a crescere. Soprattutto, la nota Csc enfatizza che “le riforme strutturali danno frutti nel medio periodo, ma nel breve rispondono al cambiamento e infondono fiducia”.

In parallelo con la nota Csc, è stato diramato il breve, ma succoso, rapporto mensile Istat sul clima di fiducia delle imprese; a novembre 2014 l’indice composito del clima di fiducia delle imprese italiane (Iesi, Istat economic sentiment indicator), espresso in base 2005=100, scende a 87,7 da 89,1 di ottobre. Il primo grafico a fondo pagina mostra a tutto tondo come non si sia ancora alla fase in cui riforme (peraltro in gran misura solo enunciate in termini approssimativi) infondano fiducia.

Contemporaneamente, l’Istat ha diffuso il rapporto periodico sulla produttività e competitività (si veda il secondo grafico a fondo pagina). In breve, il sistema è affaticato. Una ragione è la frammentazione. Le imprese attive dell’industria e dei servizi di mercato sono 4,4 milioni e occupano circa 16,1 milioni di addetti, di cui 11,2 milioni sono dipendenti. La dimensione media si conferma di 3,7 addetti. La spesa sostenuta per gli investimenti ammonta a circa 92 miliardi di euro e il valore aggiunto realizzato a circa 690 miliardi di euro.

Nell’industria in senso stretto, le imprese attive sono 437.650, assorbono 4,2 milioni di addetti – in larga maggioranza dipendenti (3,6 milioni, pari al 32,2% dei dipendenti complessivi) – e realizzano circa 245 miliardi di euro di valore aggiunto. All’interno del segmento delle microimprese, risulta rilevante la presenza di imprese con non più di un solo addetto (2,4 milioni di unità), che realizzano un terzo del valore aggiunto di questo segmento dimensionale. Le fasce dimensionali delle piccole (circa 190.000 unità con 10-49 addetti) e delle medie imprese (circa 21.000 unità con 50-249 addetti) assorbono rispettivamente 3,3 e 2 milioni di addetti, con una presenza relativa importante soprattutto nell’industria.

D’altro canto, le grandi imprese ammontano a circa 3.400 unità e impiegano 3,1 milioni di addetti su oltre 16 milioni. Alla produzione del valore aggiunto complessivo contribuiscono per il 22,3% le microimprese dei servizi, seguite dalle grandi imprese dei servizi (17,1%) e dalle grandi imprese dell’industria in senso stretto (13,8%). Le imprese delle costruzioni con almeno 10 addetti forniscono il contributo più basso alla realizzazione di valore aggiunto (in totale 3,7%).

Ancora più preoccupante il quadro occupazionale (nel grafico a fondo pagina). A ottobre 2014 gli occupati sono 22 milioni 374 mila, in diminuzione dello 0,2% rispetto al mese precedente (-55 mila) e sostanzialmente stabili su base annua. Il tasso di occupazione, pari al 55,6%, diminuisce di 0,1 punti percentuali in termini congiunturali mentre aumenta di 0,1 punti rispetto a dodici mesi prima. Il numero di disoccupati, pari a 3 milioni 410 mila, aumenta del 2,7% rispetto al mese precedente (+90 mila) e del 9,2% su base annua (+286 mila). Il tasso di disoccupazione è pari al 13,2%, in aumento di 0,3 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 1,0 punti nei dodici mesi.

I disoccupati tra i 15 e i 24 anni sono 708 mila. L’incidenza dei disoccupati di 15-24 anni sulla popolazione in questa fascia di età è pari all’11,9%, in aumento di 0,1 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 0,7 punti su base annua. Il tasso di disoccupazione dei 15-24enni, ovvero la quota dei disoccupati sul totale di quelli occupati o in cerca di lavoro, è pari al 43,3%, in aumento di 0,6 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 1,9 punti nel confronto tendenziale. Il numero di individui inattivi tra i 15 e i 64 anni diminuisce dello 0,2% rispetto al mese precedente (-32 mila) e del 2,5% rispetto a dodici mesi prima (-365 mila). Il tasso di inattività si attesta al 35,7%, in diminuzione di 0,1 punti percentuali in termini congiunturali e di 0,8 punti su base annua.

Ciò indica l’urgenza di una politica industriale volta non a sussidiare questo o quello, ma a facilitare, anche tramite concentrazioni e fusioni, maggiori dimensioni medie d’impresa – essenziali per raggiungere adeguate economie di scala e un’efficiente utilizzazione di ammodernamenti tecnologici.

Bene la stretta fiscale, ma occhio al pressing delle multinazionali

Bene la stretta fiscale, ma occhio al pressing delle multinazionali

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Saremo sempre a giocare a “gatto e topo”, ossia a rincorrere chi ricorre continuamente a nuove astuzie – ci dice Pascal Saint-Amas che dirige il centro per la Politica e l’amministrazione tributaria dell’Ocse –  tuttavia oggi esistono autostrade non viottoli per evitare di pagare tasse e imposte. Il sistema tributario internazionale è obsoleto. Con questa intesa cominciamo a porre le basi per modernizzarlo». Un giudizio, quindi, equilibrato da chi da anni lavora per una migliore trasparenza in materia tributaria e per evitare scappatoie molto facili (come il transfer pricing, ossia la creazione di filiali, oppure di case madri più o meno fittizie, in Paesi a bassa tassazione).

L’accordo, raggiunto poco più di un mese fa in seno all’Ocse e ora sostenuto dal G20, prevede essenzialmente scambi di informazione e una più stretta collaborazione tra le autorità tributarie a tutti i livelli (da quello della formulazione delle politiche a quello della loro applicazione). È un passo importante perché per lustri si è tentato di giungere ad una formulazione che accontentasse i maggiori Stati della comunità internazionale. Lo stesso Segretario Generale dell’Ocse, Angel Gurrìa, afferma che «siamo solo a metà del cammino », anche perché, come documentato da una recente inchiesta sul New York Times, tutte la maggiori multinazionali (iniziando da quelle dell’economia digitale, come Google, Facebook, Astrazeneca) e le principali banche e assicurazioni hanno accentuato la campagna di pressioni sui governi e sui Parlamenti (che hanno il compito di tradurre l’accordo in leggi e regolamenti nazionali) per introdurre “misure di flessibilità”, ove non proprio per spalancare le finestre e consentire di continuare ad operare con le abitudini che hanno fatto la loro fortuna (riducendo il peso tributario sui loro conti).

«Non vedremo cambiamenti radicali nell’immediato», afferma Judith Freedman che dirige il centro di tassazione sulle imprese dell’Università di Oxford, aggiungendo che «senza questo passo non si sarebbe neanche potuto pensare a un percorso verso una maggiore equità e trasparenza tributaria internazionale». I governi che, in questi ultimi anni, si sono succeduti alla guida dell’Italia, sono sempre stati tra i sostenitori più coerenti dell’accordo. Tuttavia, uno dei maggiori specialisti in materia, Joel Slemrod, sorride nel dire che «si sono presi spesso in giro di soli» poiché i suoi studi sull’economia dell’evasione concludono che quanto più un sistema tributario è complicato e sempre in cambiamento tanto più è facile eludere ed evadere.