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Marin: “Al Senato una mozione a tutela di tutti i pensionati”

Marin: “Al Senato una mozione a tutela di tutti i pensionati”

di Marco Marin*

L’Inps ha evidenziato le condizioni drammatiche in cui vivono i pensionati italiani: 11,5 milioni di loro percepiscono infatti pensioni inferiori a 750 euro al mese. Una cifra, questa, ben al di sotto del livello minimo di sopravvivenza che un Paese civile dovrebbe garantire a chi ha lavorato una vita. Proprio per questo ho provveduto a depositare una mozione al Senato, a mia prima firma, insieme ai senatori del gruppo di Forza Italia, per tutelare i pensionati. Ricordando bene come il governo Renzi non lo abbia invece fatto quando si è trattato di dare la giusta rivalutazione alle loro pensioni. Lo dichiara il senatore di Forza Italia Marco Marin. La nostra mozione vuole impegnare infatti il Governo a dare piena attuazione alla sentenza 70/2015 della Corte Costituzionale, prevedendo il rimborso completo di tutti i pensionati. Chiediamo inoltre che le modifiche annunciate per favorire la flessibilità in uscita avvengano senza penalizzare i lavoratori con riduzioni del trattamento pensionistico e l’aumento delle pensioni per i soggetti disagiati. Infine, riteniamo doveroso ridurre il livello di tassazione sulle pensioni, che è tra le più alte d’Europa. A differenza del premier abusivo, noi pensiamo alle cose concrete nell’interesse degli Italiani.

*Senatore di Forza Italia, vicepresidente della Commissione Istruzione pubblica e Beni culturali

Damiano: “Agli anziani la pensione, ai giovani il lavoro”

Damiano: “Agli anziani la pensione, ai giovani il lavoro”

di Cesare Damiano*

Il nostro obiettivo è cambiare la riforma Fornero. E il tema essenziale è quello della flessibilità in uscita: la nostra parola d’ordine è “agli anziani la pensione, ai giovani il lavoro”. Il sistema previdenziale ha bisogno di molte correzioni, in parte dovute a veri e propri errori, come nel caso delle ricongiunzioni, causato da una scelta sbagliata del Governo Berlusconi. Modifiche vanno anche apportate per quanto riguarda i lavori usuranti e i lavoratori precoci, riconoscendo che le attività manuali e più faticose hanno bisogno di un riconoscimento particolare perché la loro aspettativa di vita è mediamente più breve.

Nel prossimo Documento di Economia e Finanza che verrà presentato dal Governo ad aprile, dovrà esserci traccia del tema della previdenza: in caso contrario sarebbe disatteso l’impegno del premier Renzi di fare del 2016 l’anno della flessibilità.

*Presidente della Commissione Lavoro della Camera

Furlan: “Sistema sostenibile, ora rivedere la Fornero”

Furlan: “Sistema sostenibile, ora rivedere la Fornero”

di Annamaria Furlan*

Cambiare la legge Fornero sulle pensioni è oggi una priorità se vogliamo davvero dare lavoro ai giovani ed aprire una prospettiva nuova nel paese. Per questo occorre uscire da un dibattito astratto, fatto di annunci e promesse di intervento, aprendo un tavolo serio di confronto tra il Governo e le parti sociali, poprio per evitare  che questo tema così delicato diventi terreno di populismi e strumentalizzazioni politiche. È indispensabile ripristinare una flessibilità nell’accesso alla pensione, a partire dall’età minima di 62 anni, oppure attraverso la possibilità di combinare età e contributi. Si tratta di una esigenza urgente che riguarda migliaia di persone, soprattutto chi fa un lavoro usurante e faticoso, con una aspettativa di vita purtroppo differente rispetto ad altre professioni. Se pensiamo poi alle donne, sono state profondamente penalizzate dalla riforma, sia nel settore pubblico che in quello privato, visto che non si è tenuto in minimo conto il lavoro di cura e di assistenza anche ai familiari disabili che tante donne nel nostro paese svolgono nell’arco della loro vita.

I lavori non sono tutti uguali. Questo è stato l’errore grave della riforma Monti-Fornero che con un colpo di accetta ha azzerato il futuro di tanti lavoratori e pensionati. Noi conosciamo la situazione difficile dei conti pubblici. Tuttavia non è vero che non ci sono le risorse per ristabilire i criteri di equità, solidarietà e flessibilità. Nel periodo che va dal 2013 al 2020 circa 80 miliardi di euro entreranno nelle casse dello Stato. Una cifra enorme che è stata, di fatto, prelevata dalle tasche dei contribuenti senza alcuna giustificazione visto che il sistema previdenziale italiano era stato giudicato sostenibile da tutte le istituzioni nazionali ed internazionali. Perché allora mantenere tutta questa rigidità? Perché questo accanimento contro i lavoratori? Si potrebbe utilizzare una parte di queste risorse per consentire il pensionamento anticipato a chi ha tanti contributi, senza penalizzazioni o collegamenti con l’attesa di vita. Ma dobbiamo anche chiudere le salvaguardie per i lavoratori “esodati” con una soluzione strutturale che garantisca a quei lavoratori il diritto pensione. Così come bisogna assicurare un trattamento pensionistico adeguato e dignitoso ai giovani, a chi svolge lavori saltuari, precari o discontinui, con retribuzioni, tra l’altro, basse.

Anche la gestione separata Inps va ripensata perché accorda tutele diverse e minori agli iscritti, rispetto alla generalità dei lavoratori. L’Italia è il paese con il più alto tasso di disoccupazione giovanile ed al contempo quello con il sistema pensionistico più rigido. È un cane che si morde la coda. Per questo noi proponiamo che sia incentivato anche il part-time fra i lavoratori anziani negli ultimi anni della carriera lavorativa, collegandolo all’assunzione dei giovani preparati all’uso delle nuove tecnologie, per un necessario turn-over nelle aziende e nella Pubblica Amministrazione. È inaccettabile anche la penalizzazione che si è fatta della previdenza integrativa e dei fondi pensione che invece andrebbero sostenuti ed estesi anche nel settore pubblico. Per questo bisognerebbe riportare ‪all’11‬ per cento l’imposta sostitutiva che oggi è al 20 per cento per una malintesa idea di equiparazione con le rendite finanziarie.

Il nostro paese è di fronte ad un bivio: come difendere il potere d’acquisto delle pensioni visto che su esse grava una tassazione doppia rispetto alla media europea. Come si può salvaguardare il valore degli assegni pensionistici, senza una rivalutazione annuale? Questi sono i nodi da affrontare, trovando le soluzioni giuste, perchè è in gioco il destino di tante famiglie italiane. Bisogna pensare ad una diversa politica fiscale che sostenga i redditi dei pensionati, realizzando la completa equiparazione della no-tax area con i lavoratori dipendenti. Ecco le ragioni della nostra mobilitazione sindacale di sabato : vogliamo cambiare radicalmente il sistema previdenziale nel segno della equità, della sostenibilità finanziaria e della giustizia sociale. Far sentire la voce di tanti lavoratori, pensionati, donne e giovani che chiedono maggiore rispetto ed un futuro più dignitoso.

*Segretaria Generale Cisl

Baratro Inps, perdite di bilancio per oltre 11 miliardi all’anno

Baratro Inps, perdite di bilancio per oltre 11 miliardi all’anno

di Gianni Zorzi

Più di undici miliardi all’anno è la perdita di bilancio che l’Inps subisce regolarmente dal 2012 (anno in cui ha incorporato l’Enpals e soprattutto l’ex Inpdap), e che stima di registrare anche al termine del 2016. Il patrimonio netto che cinque anni fa misurava oltre 40 miliardi di euro è ormai diretto verso la completa erosione, e con esso i 21 miliardi di euro incassati tramite un intervento straordinario di ripianamento delle perdite risalente a due anni fa.

Il conto a fine anno potrebbe essere ancora peggiore, innanzitutto perché per gli esercizi 2015 e 2016 il disavanzo è ancora una previsione, e in passato i consuntivi hanno fatto registrare delle perdite ben più ampie di quelle inizialmente preventivate. Anche se i dati per una volta risultassero in linea con le attese, il patrimonio netto fotografato al 31 dicembre 2016 non andrebbe oltre gli 1,8 miliardi, con la sostanziale imminente necessità di un ulteriore ripiano da parte dello Stato.

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C’è un costo in particolare che l’Inps ha sempre regolarmente sottostimato fino ad ora nei suoi bilanci preventivi: il costo derivante dalla svalutazione dei crediti, ovvero di quella parte dei contributi che l’ente previdenziale si attende inizialmente di riscuotere ma che nei fatti viene persa. Il fenomeno è dovuto a cause diverse: a parte gli evasori si va dal caso di debitori falliti o liquidati, oppure deceduti senza eredi che ne abbiano accettato l’eredità, a quello di crediti caduti in prescrizione, o per i quali ne viene accertata l’insussistenza.

Per il 2016 l’accantonamento preventivato a conto economico sfiora gli 8 miliardi: un valore ben più allineato a quanto rilevato a consuntivo negli ultimi anni, anche in considerazione – riporta testualmente il bilancio Inps – della “vetustà dei residui attivi” e della “presunta probabilità di effettivo realizzo degli stessi”. Per l’anno appena chiuso invece le previsioni assestate contengono accantonamenti per 5,7 miliardi a fronte di meno di un miliardo messo in preventivo.

Concettualmente il problema è analogo a quello che affrontano le banche: i mancati incassi si accumulano nei bilanci (soprattutto in anni di crisi) e diventano a tutti gli effetti crediti deteriorati. Una parte di questi viene efficacemente recuperata mentre la restante quota perde progressivamente la probabilità di un recupero fino a essere soggetta a definitiva svalutazione.

Anche la gestione dei crediti e del loro recupero, del resto, è un’attività che richiede risorse e che può essere condotta in modo più o meno efficace ed efficiente. Talvolta può risultare conveniente delegarla a terzi attraverso strumenti quali la cartolarizzazione o la cessione del credito a operatori qualificati (in questo caso può effettuarsi con uno sconto, anche molto elevato, rispetto al loro valore nominale).

Per dare un’idea delle dimensioni del problema, la massa dei contributi non incassati dovrebbe superare a fine anno per la prima volta la quota dei cento miliardi, crescendo nel frattempo al ritmo medio di 740 milioni di euro al mese (è una tendenza ormai consolidata da anni). Il conto esatto sarebbe di oltre 104 miliardi, di cui oltre la metà (56,3) sottoposti a svalutazione.

Uno degli aspetti più delicati è proprio la stima di quanti crediti verranno effettivamente incassati e su quanti invece l’Inps dovrà inevitabilmente gettare la spugna. Ad oggi le svalutazioni previste o effettuate si basano essenzialmente su due parametri ben definiti: il primo è l’anno di riferimento del credito (più lontano è nel tempo è peggiore la probabilità di recuperarlo) e il secondo è la gestione specifica a cui si riferisce (per alcune gestioni il recupero è più difficile che in altre).

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Si scopre dunque che questi criteri sono stati rivisti al ribasso proprio negli ultimi bilanci. I crediti risalenti fino al 2009, indipendentemente dalla gestione cui si riferiscono (42,8 miliardi secondo gli ultimi dati disponibili), vengono svalutati al 99%, riconoscendone quindi la sostanziale irrecuperabilità salvo episodi del tutto sporadici.

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Per il triennio successivo (mancano informazioni aggiornate ma per il 2010-2012 è arduo stimarli in meno di 20 miliardi), la svalutazione è del 55% per le gestioni dei lavoratori dipendenti e gli agricoli, mentre è del 30% per gli artigiani e i commercianti e si limita al 10% per la gestione separata. Sui crediti relativi all’ultimo triennio è proposta una svalutazione media del 10%.

La gravità delle stime è in aumento sia per i parametri utilizzati (ben più pessimistici rispetto all’ultimo consuntivo), sia per il fatto che materialmente, anche se manca una relazione apposita in bilancio, il recupero crediti non sembra sinora riuscito a sostenerle: di anno in anno il volume di contributi non incassati cresce e nel contempo cresce pure la quota che l’Inps deve accantonare al rispettivo fondo di svalutazione.

Inoltre, le gestioni che mostrano le più basse probabilità di recupero sono – non sorprendentemente – quelle più rilevanti: 56,7 miliardi di crediti non incassati (il 54,3% del totale) si riferiscono alle gestioni dei lavoratori dipendenti (incluso le prestazioni temporanee) mentre in minoranza troviamo quelle dei commercianti (20,7%) e artigiani (15,3%). Solo per il 2,3% dei mancati incassi (e con anzianità dei crediti piuttosto bassa) pesa la gestione separata di parasubordinati e autonomi.

La preoccupazione (lecita) è dunque già riferita al presente: sono sufficienti e realistiche le svalutazioni sinora effettuate dall’ente oppure sono ancora ottimistiche? È sufficientemente strutturata ed efficace l’attività di recupero dell’Inps, specialmente su volumi in consistente crescita? Si può affrontare il problema con strumenti migliori e, in tal caso, quanto può costare non attivarli per tempo?

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Alcuni strumenti come la cessione dei crediti e la cartolarizzazione (sempre che si dimostrino più efficienti per il recupero degli incassi) richiedono appositi strumenti normativi. Le ultime operazioni di trasferimento – delle quali l’esito non è reso chiaro – risalgono ormai al 2005: sappiamo solo che di 26 miliardi di crediti residui ben 11 sono insorti prima del nuovo millennio, e il 10% non risulta ancora svalutato.

I pur nutriti rendiconti dell’Inps (l’ultimo consuntivo misura complessivamente 3883 pagine) non brillano per esaustività con riguardo a questi aspetti. Nemmeno gli schemi sintetici (quelli più fruibili da una platea di non addetti ai lavori) riescono a descrivere con esattezza le dimensioni del problema, che nel dibattito nazionale è rimasto – salvo qualche eccezione e nonostante le sue crescenti proporzioni – sinora sorprendentemente sottaciuto.

 

 

Pennisi: “Che fine hanno fatto i dati su pensioni lunghe e silenti?”

Pennisi: “Che fine hanno fatto i dati su pensioni lunghe e silenti?”

di Giuseppe Pennisi

L’Inps dovrebbe inoltre fare chiarezza su due questioni sulle quali il suo sito non fornisce alcun dato preciso. La prima è quella sul flusso annuale delle ‘pensioni lunghe’ godute da una vastissima platea di uomini e donne che, in virtù di norme speciali, hanno iniziato a riscuotere assegni di anzianità quando non erano nemmeno quarantenni. Quante sono? Si vocifera di più di 80mila casi e quel che è certo è che non si tratta di pensioni correlate ai contributi versati. L’altra questione su cui vige una “congiura del silenzio” è quella – si permetta il gioco di parole – dei ‘silenti’: quanti sono e quanto è il ‘montante’ dei contributi di coloro che hanno effettuato versamenti senza poterne fruire perché non hanno raggiunto il minimo di anni contributivi o perché deceduti o perché emigrati? È in queste voci che si devono cercare risorse, non in quelle su pensioni di reversibilità a vedove ed orfani.

*Presidente del board scientifico di ImpresaLavoro

Lavoro: il 61% dei nuovi contratti a tempo indeterminato  sono assistiti dalla decontribuzione

Lavoro: il 61% dei nuovi contratti a tempo indeterminato sono assistiti dalla decontribuzione

Il 61% del totale dei contratti di lavoro a tempo indeterminato attivati nel 2015 è assistito dall’esonero contributivo: su 2milioni363mila assunzioni a tempo indeterminato o trasformazioni di contratto a termine, 1milione442mila hanno potuto beneficiare degli incentivi straordinari previsti dal governo. Lo rileva un’analisi del Centro Studi “ImpresaLavoro” effettuata su dati Inps.

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Nuove attivazioni e trasformazioni. Complessivamente nell’ultimo anno sono stati attivati 5milioni408mila nuovi rapporti di lavoro, un dato dell’11,1% superiore rispetto a quello dell’anno precedente. Di questi contratti il 62% è rappresentato da assunzioni a termine (3milioni353mila), il 3,4% da contratti di apprendistato (184mila) e il restante 34,6% (1milione870mila) da assunzioni a tempo indeterminato. Di queste nuove attivazioni non a termine il 57,7% è assistito dalla decontribuzione pubblica. In forza anche di questi incentivi i nuovi contratti a tempo indeterminato sono cresciuti su base annua del 46,9%, mentre è calato drasticamente il ricorso all’apprendistato (-20,3%) e rimangono stabili i contratti a termine (-0,4%).

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Per capire l’impatto del beneficio contributivo sul numero delle nuove attivazioni a tempo indeterminato è utile analizzare il loro andamento mensile. A dicembre, ultimo mese disponibile per accedere al beneficio, sono stati attivati 181mila900 contratti a tempo indeterminato contro gli 81mila558 medi mensili del resto dell’anno.

Sul fronte delle variazioni contrattuali di rapporti di lavoro esistenti (le cosiddette trasformazioni) si registrano per il 2015 578mila trasformazioni in contratti a tempo indeterminato (+44,8% rispetto al 2014). L’85% di queste trasformazioni sono riferite a contratti a termine con una crescita su base annua del 49,4%. Il restante 15% è costituito da contratti di apprendistato trasformati in rapporti a tempo indeterminato; in questo specifico segmento la crescita su base annua è stata del 23,2%.

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Il 73.8% di queste trasformazioni ha potuto beneficiare degli sgravi contributivi previsti dal governo che hanno ovviamente influito moltissimo sul ricorso a questa forma di stabilizzazione. Basti pensare che a dicembre (ultimo mese utile per accedere all’incentivo) sono stati trasformati il 25% del totale dei contratti stabilizzati. L’ultimo mese dell’anno ha fatto registrare, infatti, 90mila575 trasformazioni: un dato triplo rispetto ai mesi di settembre, ottobre, novembre e addirittura di sei volte superiore rispetto a gennaio e febbraio.

 

Gli statali si ammalano di più, il lunedì il giorno preferito

Gli statali si ammalano di più, il lunedì il giorno preferito

di Filippo Caleri – Il Tempo

Statali più cagionevoli di salute. Forse perché il loro posto di lavoro è più sicuro rispetto al privato. Dove infatti ci si ammala di meno nel corso dell’anno. In ogni caso in entrambi i settori se proprio si deve stare a casa con il termometro sul comodino si preferisce il lunedì. Il primo giorno della settimana è scelto per comunicare la malattia al datore di lavoro nel 30% dei casi. I dati sono stati elaborati dall’osservatorio statistico dell’Inps che ha contabilizzato tutte le giornate di malattia nel 2014 sia nel pubblico sia nel privato. In tutto si tratta di oltre 109 milioni di giorni (77.195.793 giornate nel privato e 31.525.329 nella pubblica amministrazione). La conferma della fragilità della salute dei ministeriali è confermata anche nei dati percentuali. L’Istituto guidato da Tito Boeri ha registrato lo scorso anno un aumento dello 0,8% (6.031.362) dei certificati di malattia presentati dai lavoratori pubblici e un calo del 3,2% (11.494.805) di quelli dei dipendenti privati.

A confermare che la salute è più debole tra i dipendenti pubblici si è aggiunto ieri il Centro Studi ImpresaLavoro, che ha rielaborato i dati Inps, giungendo alla conclusione che i circa 3,2 milioni di dipendenti pubblici si ammalano in media quasi il doppio delle volte rispetto ai circa 14 milioni di dipendenti privati registrati presso l’Inps. La base di calcolo sono stati i 71,5 milioni di certificati che dal 2010 (anno della riforma che impone l’invio via web della malattia da parte dei medici di famiglia) sono arrivati all’Istituto di previdenza: 2,6 milioni nel 2010 (periodo in cui il sistema telematico non era ancora entrato a regime), 16,4 milioni nel 2011, 17,2 milioni nel 2012, 17,8 milioni nel 2013 e 17,5 milioni nel 2014. Ebbene dal 2011 al 2014 le giornate di malattia nel settore privato sono state circa 312 milioni 134 mila, mantenendosi stabili ogni anno dopo aver registrato un calo iniziale di 2,4 milioni dal 2011 al 2012 (79,8 milioni nel 2011, 77,4 milioni nel 2012, 77,6 nel 2013 e 77,1 milioni nel 2014). Nello stesso periodo di tempo sono invece costantemente aumentate le giornate di malattia nel settore pubblico, per un totale di oltre 116 milioni 770 mila (25,8 milioni nel 2011, 28,5 milioni nel 2012, 30,7 milioni nel 2013 e 31,5 milioni nel 2014).

L’Inps osserva pure che i lavoratori con almeno un episodio di malattia sono per la maggior parte maschi (56,l%) nel privato e femmine (69%) nella Pubblica amministrazione. E per quanto riguarda poi il numero di assenze per malattia, nel pubblico risultano esser doppie rispetto al privato: i 3 milioni di lavoratori della Pubblica amministrazione, infatti, hanno fatto in media 10,5 giorni di malattia mentre i 13,6 milioni di dipendenti del settore privato sono stati malati in media per 5,67 giorni.

L’Inps stana i furbetti del lunedì, tutti malati dopo il weekend

L’Inps stana i furbetti del lunedì, tutti malati dopo il weekend

di Gian Maria De Francesco – Il Giornale

Il certificato di malattia è uno degli stratagemmi più utilizzati per allungare il weekend. È quanto emerge dai dati dell’osservatorio statistico dell’Inps che hanno messo in evidenza come nel 2014 un italiano su tre si sia ammalato di lunedì. La distribuzione del numero degli eventi malattia per giorno di inizio l’anno scorso è stata simile sia nel settore pubblico che in quello privato. Il primo giorno della settimana si sono registrati 2.576.808 eventi nel privato e 1.325.187 per la Pa, pari rispettivamente al 30,2% e al 27,2% del totale. Il sospetto che il certificato medico possa essere utilizzato per godere di un «meritato» riposo è giustificato dalla distribuzione degli eventi malattia per classi di durata. Se si guarda a quelli compresi da uno a tre giorni, si registrano 3,7 milioni di casi nelle aziende (43% del totale) e oltre 3 milioni (62%) nel comparto statale e parastatale. Il dubbio, pertanto, è più che legittimo.

Cadere nella trappola dei luoghi comuni è facile. Purtroppo i numeri certificano quella che è un’opinione abbastanza condivisa: i dipendenti pubblici non paiono eccessivamente «attaccati» al loro posto di lavoro. Essi, infatü, tendono ad ammalarsi il doppio rispetto ai loro colleghi che lavorano nelle imprese private. I primi, infatti, hanno consumato 31,5 milioni giornate di malattia contro i 77,2 milioni dei loro colleghi. Ma se si considera che i dipendenti delle pubbliche amministrazioni in Italia sono circa 3,2 milioni, mentre coloro che lavorano nel privato sono circa 14 milioni, si vede bene come l’incidenza di malattie e infortuni sia di gran lunga superiore, osserva il Centro studi Impresa Lavoro. Le assenze medie sono, infatti, di 10,5 giorni da una parte e di 5,67 giorni dall’altra.

La Lombardia è in testa alla classifica delle assenze sia per il settore privato (894.175 lavoratori; 22% del totale). Quanto invece ai casi di malattia, seguita da Veneto, Emilia Romagna e Lazio (poco più del 10%) che nel pubblico (12,5%) dove precede Lazio (11,9%) e Sicilia (10,3%). Se, però, si guarda alla densità di occupati nel settore pubblico emerge che al Sud ove, in media, un lavoratore su cinque è al servizio dello Stato il problema assume dimensioni rilevanti. Ad esempio in Calabria circa un dipendente pubblico su tre (61mila su 191mila) l’anno scorso si è dato malato. Nel Lazio il rapporto diventa uno su due (209mila su 396mila) e cosi pure in Campania dove 3 su 5 (181mila su 293mila) hanno dato forfait almeno una volta. È un trend comune a tutta l’Italia, è vero, perché 1,7 milioni su 3,2 milioni di lavoratori della Pa sono stati malati almeno un giorno l’anno scorso. Ma nel pubblico tutto questo non è accaduto perché a marcare visita sono stati 4,4 milioni su circa 14 milioni.

Anche il comparto aziendale non è esente dal problema «furbetti»›. Ad esempio, le frequenze più alte degli eventi malattia si sono riscontrate nelle classi da 20 a 49 dipendenti (13,8%) e in quella superiore ai mille (17,7%). Da questo si evince che più è alto il numero dei dipendenti più è difficile controllare e che, in particolare, lo Stato è un pessimo controllore. «Le assenze dal lavoro nel settore privato, sopratutto nelle piccole imprese, sono limitate anche da eventuali sanzioni che arrivano dagli stessi colleghi», ha commentato il presidente del Centro studi Impresa Lavoro, Massimo Blasoni. «Nel pubblico impiego – aggiunge – le censure sembrano essere molto meno efficaci». Ed è difficile dargli torto: dai 25 milioni di giornate di assenza del 2011 si è ritornati in pochi anni sopra quota 30 milioni. Un chiaro segnale che l’abbandono della riforma Brunetta ha prodotto, in particolare nel Mezzogiorno, un effetto «liberi tutti».

Certificati di malattia: i dipendenti pubblici si ammalano in media quasi il doppio dei dipendenti privati

Certificati di malattia: i dipendenti pubblici si ammalano in media quasi il doppio dei dipendenti privati

I circa 3,2 milioni di dipendenti pubblici si ammalano in media quasi il doppio delle volte dei circa 14 milioni di dipendenti privati registrati presso l’INPS. Lo dimostra una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro condotta su elaborazione dei dati raccolti dall’Istituto Nazionale di Previdenza.

Grazie a una riuscita riforma organizzativa delle modalità di trasmissione dei certificati di malattia, promossa dall’allora ministro della PA e Innovazione Renato Brunetta, dall’aprile del 2010 tutti i lavoratori dipendenti non sono più costretti a inviare a proprie spese i loro certificati di malattia tramite due raccomandate all’INPS e al proprio datore di lavoro. A sbrigare questa pratica tramite il proprio pc sono adesso i medici di famiglia e ospedalieri, che hanno finora trasmesso via web all’INPS più di 71,5 milioni di documenti: 2,6 milioni nel 2010 (periodo in cui il sistema telematico non era ancora entrato a regime), 16,4 milioni nel 2011, 17,2 milioni nel 2012, 17,8 milioni nel 2013 e 17,5 milioni nel 2014.

Dal 2011 al 2014 le giornate di malattia nel settore privato sono state all’incirca 312 milioni 134 mila, mantenendosi stabili ogni anno dopo aver registrato un calo iniziale di 2,4 milioni dal 2011 al 2012 (79,8 milioni nel 2011, 77,4 milioni nel 2012, 77,6 nel 2013 e 77,1 milioni nel 2014). Nello stesso periodo di tempo sono invece costantemente aumentate le giornate di malattia nel settore pubblico, per un totale di oltre 116 milioni 770 mila (25,8 milioni nel 2011, 28,5 milioni nel 2012, 30,7 milioni nel 2013 e 31,5 milioni nel 2014). Limitando l’analisi ai certificati per malattia trasmessi nel 2014, si registra rispetto all’anno precedente un calo del 3,2% nel settore privato e un lieve aumento dello 0,8% nella Pubblica pubblica amministrazione.

Osservando meglio questi dati si osserva poi un dato curioso: dal 2010 a oggi il giorno della settimana in cui ha inizio la malattia è sempre stato di gran lunga il lunedì. Una circostanza confermata anche nel 2014, che ha registrato in quel giorno 22 milioni 994mila giornate di malattia per il settore privato (29,8%%) e 8 milioni 888mila giornate di malattia per la pubblica amministrazione (28,2%).

Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro, osserva infine che «i dati Inps segnalano come il numero medio di eventi di malattia e la loro durata aumentano con l’aumentare della dimensione aziendale: è un segnale evidente del fatto che le assenze dal lavoro nel settore privato, sopratutto nelle piccole imprese, sono limitate anche da eventuali sanzioni che arrivano dagli stessi colleghi. Nel pubblico impiego, invece, i controlli e le censure sembrano essere molto meno efficaci: solo così si può spiegare un’incidenza delle giornate di malattia per lavoratore quasi doppia rispetto al settore privato».

Pensioni Inps, chi ciurla nel manico della   Consulta

Pensioni Inps, chi ciurla nel manico della Consulta

Giuseppe Pennisi – Formiche

Da quando è iniziato il noir della Consulta e della previdenza mi sono chiesto chi è Il Terzo Uomo di questa puntata della saga pensionistica. Vi ricordate il film di Carol Reed da cui Graham Green, autore della sceneggiatura, trasse un romanzo (uscito un anno dopo il thriller cinematografico? Joseph Cotten ed Alida Valli sanno che c’era certamente un “terzo uomo” accanto al carro funebre in cui sarebbe stata la salma di Orson Wells. L’intero avvincente film riguarda la ricerca del Terzo Uomo, il personaggio interpretato da Orson Wells non solo non è stato ucciso come si pensava dopo le prime inquadrature ma sarà lui ad assassinare il portiere dello stabile in cui abita poiché costui era l’uomo che sapeva troppo.

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