investimenti

Valuta debole volàno per gli investimenti

Valuta debole volàno per gli investimenti

Giorgio Barba Navaretti – Il Sole 24 Ore

L’euro è debole, care imprese investite! La domanda interna continua a languire, ma raramente si sono verificate condizioni nei prezzi relativi dei beni più favorevoli alle nostre imprese. La svalutazione di oltre il 15% sul dollaro, il crollo del prezzo del petrolio, la stabilità dei prezzi interni e il credito a basso costo porteranno una crescita sostanziale dei volumi di beni venduti all’estero e un miglioramento significativo dei margini di profitto. Gli investimenti in macchinario sono stati negli ultimi tre trimestri del 2014 di 22 punti inferiori allo stesso periodo del 2008: un quarto di macchine da rinnovare o necessarie a espandere la produzione in meno. Se output e margini riprendono, inevitabilmente ripartiranno anche gli investimenti.

Paradossalmente la svalutazione sarà particolarmente benefica grazie agli anni in cui l’euro è stato forte. Nonostante le imprese italiane siano state sottoposte a condizioni competitive durissime, le esportazioni hanno continuato a crescere e i saldi di bilancia commerciale a migliorare già dal 2010. Il che è stato possibile grazie a ristrutturazioni draconiane e investimenti in qualità, tecnologia e marchi. In uno studio del 2008 Matteo Bugamelli, Fabiano Schivardi e Roberto Zizza avevano evidenziato come nei primi anni dell’euro la crescita della produttività fosse stata intensa in quei paesi come l’Italia, e in quei settori che più avevano utilizzato le svalutazioni competitive.

Oggi il sistema produttivo nazionale è radicalmente diverso rispetto al periodo pre-euro, quando le imprese competevano quasi solamente sulle condizioni di costo. Se dunque allora le svalutazioni erano indispensabili per la sopravvivenza del sistema, oggi sono una spinta per imprese che starebbero in piedi lo stesso. E queste imprese, proprio perché della svalutazione possono fare a meno, sono anche quelle più in grado di approfittarne. Infatti, i prodotti di alta qualità o basati su tecnologie particolari o con un marchio forte sfruttano solo marginalmente l’opzione di abbassare i prezzi in valuta estera. La svalutazione garantisce soprattutto un aumento dei margini di profitto, oltre e più che un aumento dei volumi esportati. E questi profitti devono essere utilizzati per quegli investimenti necessari a rafforzare ancor più la loro competitività globale.

La svalutazione, comunque continua ad avere un effetto benefico anche per le imprese meno efficienti. Il paradosso italiano del crollo dell’output industriale accompagnato dalla crescita dell’export durante gli anni dell`euro forte e della crisi è spiegabile solo in termini di eterogeneità delle imprese. Da un lato le imprese più avanzate crescevano all’estero, mentre quelle più deboli subivano in pieno il calo della domanda interna e l’euro forte. Ora quelle di questo secondo gruppo che sono riuscite a sopravvivere troveranno con la svalutazione un nuovo traino per riprendere a crescere con prezzi più competitivi all’estero.

Contratto sleale

Contratto sleale

Davide Giacalone – Libero

Giunge al Consiglio dei ministri la bozza di un decreto legge contenente il “contratto per dare certezze ai grandi investimenti produttivi”. Proposito lodevole. Ma quel che se ne legge è deplorevole. Talora sembra che si mettano problemi reali, slogan e idee confuse in un frullatore, sperando possa uscirne una bevanda energetica. Più probabile il bibitone energivoro.

L’idea, se capisco bene, è questa: occorre dare certezze agli operatori economici, non modificando continuamente i parametri amministrativi e fiscali che essi inseriscono nei propri business plan, mandando all’aria ogni razionale valutazione del rischio. Eccellente. Ma, scusate, non è la base su cui regge il patto sociale e fiscale di tutti i cittadini? Non è la lettera e lo spirito (mai incarnatosi) dello Statuto del contribuente? Perché se così fosse avremmo un’evoluzione perversa della politica degli annunci: s’annunciano sempre le stesse cose, fidandosi del fatto che poi non si fanno.

Volendo scartare questa ipotesi, che sarebbe vergognosa, provo a immaginare reali novità. C’è un indizio: il governo dice che speciali accordi verranno offerti a chi investe più di 500 milioni (in cinque anni). Che accordi? Fiscali, mormorano. Fiscali? Non avrei obiezioni se si varasse un’aggressiva politica di tax ruling, ovvero di accordi su misura che attirino l’insediamento fiscale di società estere. Ma questo è esattamente il motivo per cui il Lussemburgo è finito sotto procedura d’infrazione. Queste è la politica che è stata contestata (a sproposito) a Junker. E seppure, con uno sforzo di fantasia, si supponga che abbiano in anima una scelta di quel tipo, chi volete che si fidi, nel mondo? Il governo che ha abbassato da 3,9% a 3,5 (con il decreto contenente anche i celeberrimi 80 euro) l’aliquota Irap, salvo poi, alla fine dello stesso anno, il 2014, riportarla dove era con valenza retroattiva, può supporre che qualcuno creda in una promessa di quel genere? Fatta in un Paese in cui qualche decina di giudici possono comunque demolirla? Una promessa in capo ad un governo che cambia le regole fiscali sui giochi e le scommesse, mentre gli operatori del settore affermano che non pagheranno perché prive di legittimità e violanti le regole precedenti? Direi che si tratta di supposizione troppo folle per essere vera. E allora?

Allora potrebbe trattarsi di un trattamento fiscale di favore, ma non diverso da azienda ad azienda, non sottoposto a rapporto contrattuale specifico. Bene, è una bella cosa. Ma se è questa, scusate, che lo fate a fare il decreto legge? Piuttosto date attuazione alla delega fiscale, che avete ancora nel congelatore. E che esista un congelatore costituzionale è idea che non smette di sembrarmi agghiacciante. Ove mai la delega non coprisse l’intera riforma necessaria, ove fosse necessario un intervento ulteriore, il minimo della serietà vuole che prima si attua quel che il Parlamento ha già votato e poi si passa ad aggiungere il resto. Altrimenti ne viene fuori la solita legislazione rococò, che è l’esatto contrario di quel che c’è scritto nel titolo del decreto.

Perché una regola, fiscale, amministrativa o di qualsiasi altro tipo, sia stabile nel tempo occorre non solo che non sia messa nelle mani ballonzolanti di chi cambia idea ogni cinque minuti, ma anche che sia credibile. Alla partenza. La stabilità è un valore, ed è encomiabile che al governo se ne accorgano, dopo avere praticato la traballarietà. Ma la credibilità è un pre-requisito.

Quel che fa rabbia, osservando l’azione di questo governo, è che la gran parte di quel che annuncia è condivisibile, mentre la gran parte di quel che fa è reversibile. Una pirotecnia che abbaglia, ma lascia sul terreno solo bossoli cartonati e mezze cartucce inesplose. Il successo comunicativo è dato dal fatto che chi lo fa osservare viene schiacciato fra gli oppositori dell’orale, mentre chi tace diventa complice dello scritto. E’ un giochino vincente (fin qui), ma inconcludente.

Investimenti fuori dal deficit per 3,5 miliardi nel 2015

Investimenti fuori dal deficit per 3,5 miliardi nel 2015

Giuseppe Chiellino – Il Sole 24 Ore

Le nuove linee guida della Commissione europea sulla disciplina di bilancio che dovrebbero rendere più flessibile la governance economica e spingere l’Europa verso la ripresa, per l’Italia contengono una notizia buona e una meno buona. La prima è che per beneficiare della cosiddetta “clausola degli investimenti” non sarà più necessario rispettare la regola di riduzione del debito pubblico. E questo è decisamente un passo avanti. Resta però l’altro vincolo, ed ecco la notizia meno positiva , rappresentato dal limite del 3% del rapporto deficit/pil. In parole povere, gli Stati membri potranno escludere dal computo del deficit gli investimenti realizzati per cofinanziare progetti europei dei fondi strutturali o dei programmi Connecting Europe, TEN, disoccupazione giovanile e del nuovo fondo EFSI. Questo però non significa che sarà consentito sforare il fatidico tetto del 3%. Sarà tollerato soltanto un «temporaneo scostamento» dall’obiettivo a medio termine del pareggio di bilancio.

Quanto vale, allora, per l’Italia la decisione presa ieri a Strasburgo e dibattuta dai tempi del governo Monti, al netto dei futuri- e per ora ipotetici – investimenti nazionali al fondo EFSI? Secondo le stime della banca dati della Commissione, per il 2015 l’importo complessivo di cofinanziamento già previsto nei programmi è pari a poco più di 3,5 miliardi di euro, quasi tutti per la programmazione 2007-2013. Solo pochi spiccioli (11 milioni) riguardano il periodo 2014-2020 di cui nei prossimi giorni Bruxelles dovrebbe approvare una dozzina di programmi italiani. In percentuale sul Pil stiamo parlando dello 0,2 per cento. In valore assoluto è di gran lunga la cifra più importante tra i 28 paesi dell’Unione che in totale quest’anno cofinanzieranno progetti europei per 13,8 miliardi. Al secondo posto c’è la Francia con meno di 1,8 miliardi, seguita dalla Spagna (1,4 miliardi), dal Regno Unito (1,1 miliardi) e dalla Germania, appena sotto il miliardo e poco sopra la Polonia, primo paese beneficiario dei fondi strutturali europei che però ha dimostrato finora di saper spcndere bene. Per gli anni a venire le cifre varieranno parecchio. Fino al 2020, la nuova programmazione prevede per l’Italia 39 miliardi di cofinanziamento ma è prevedibile che le risorse si concentreranno nella seconda parte dei 7 anni di programmazione. L’applicabilità delle nuove linee guida sarà tutta da veríficare. Per l’Italia molto dipenderà dalla capacità di regioni e ministeri di spendere le risorse disponibili, pari solo per quest’anno ai 3,6miliardi di euro (si veda il Sole 24 Ore del 9 gennaio).

Da queste valutazioni emerge un paradosso. Stando alle cifre, infatti, l’Italia potrebbe essere il principale beneficiario del nuovo corso che sta assumendo la disciplina di bilancio comunitario. Ma solo per demerito proprio e per i ritardi accumulati negli anni scorsi. Quei 3 miliardi e mezzo, infatti, fanno parte dei 13,6 miliardi che restano ancora da spendere e che, come ha ricordato il sottosegretario Graziano Delrio a questo giornale, devono essere necessariamente spesi entro la fine dell’anno, pena il disimpegno automatico della consistente quota comunitaria.

Il cammino quindi non è tutto in discesa. E non solo per le difficoltà tutte italiane di utilizzare le risorse comunitarie. La decisione di ieri della Commissione, infatti, è un passo importante e cercato da tempo dall’Italia, ma per beneficiare della “nuova” clausola degli investimenti è necessario che i conti pubblici superino il nuovo”esame” comunitario, fissato a marzo, quando Bruxelles dovrà valutare la legge di stabilità nella versione definitiva e soprattutto l’attuazione delle riforme strutturali. La Commissione dovrà decidere se è necessario proporre al Consiglio europeo l’apertura di una procedura contro l’Italia per il mancato rispetto della regola di riduzione del debito. Se ciò dovesse accadere l’Italia si ritroverebbe nel cosiddetto “braccio correttivo” del Patto di stabilità e di crescita, perdendo così il diritto di scorporare il cofinanziamento degli investimenti dal deficit. Per ora però il bicchiere è mezzo pieno.

Soltanto investire fa rima con ripartire

Soltanto investire fa rima con ripartire

Guido Gentili – Il Sole 24 Ore

Un grande sistema economico che abbia subìto i danni di una lunga guerra e che abbia ritrovato occupazione e reddito rapidamente, senza aver fatto leva sugli investimenti, pubblici e privati, non si è mai visto. Il discorso può valere in generale per l’Europa, che al suo interno presenta casi diversi, diverse velocità di uscita dalla crisi e profondi divari innovativi, ma che comunque si ritrova nel complesso più che un passo indietro rispetto agli Stati Uniti. Di sicuro il problema investe l’Italia, che dentro di sé – nel Mezzogiorno – rintraccia i numeri di una catastrofe demografica e sociale e un orizzonte di abbandono non solo industriale.

Senza investimenti può esistere un presente che compra un po’ di tempo per la sopravvivenza giorno per giorno, ma non c’è futuro. Così la fiducia dei cittadini e delle imprese, entrambi contribuenti super tartassati, non corre e non si propaga. E se poi a tutto questo aggiungiamo (si veda l’inchiesta su Mafia Capitale) il carico delle evidenze che emergono in tema di corruzione e di pubblica amministrazione, nessuno può meravigliarsi se il Paese non dà segni visibili di ripresa.

È probabilmente questo il quadro che ha fatto (e fa) da sfondo al tentativo del governo Renzi di alzare la domanda interna con i famosi 80 euro in busta paga (rinnovati anche per il 2015), il taglio del fisco sul lavoro e la riforma del mercato del lavoro prevista dal Jobs Act. Una scommessa difficile mentre procede, sempre sul filo del rasoio, il confronto con l’Europa e in un’Europa dove rispuntano gli incubi del caso Grecia, e mentre la carta del “piano Juncker” da oltre 300 miliardi di investimenti (ma solo sulla carta, come sappiamo) a tutto fa pensare meno che a un jolly vincente. Certo il nuovo, possibile corso della politica monetaria espansiva della Bce firmata da Mario Draghi può darci una mano. Ma sarebbe un errore molto grave pensare che la svolta di Francoforte possa sostituirsi a una politica riformista e innovativa. Dove gli investimenti sono a questo punto una componente decisiva e non incidentale.

L’economista Jeffrey Sachs ha parlato di recente di «sciopero degli investimenti» (in particolare nel settore dell’energia sostenibile) negli Usa e in Europa e di come questa paralisi è stata interpretata dai neo-keynesiani e dai sostenitori dell’offerta. I primi finiscono per promuovere “espedienti” (tassi d’interesse zero e incentivi) invece di incoraggiare l’adozione di politiche ben definite e “liberare” gli investimenti pubblici e privati intelligenti. I secondi sono indifferenti alla dipendenza degli investimenti privati dagli investimenti pubblici complementari e auspicano una riduzione della spesa pubblica «pensando, ingenuamente, che il settore privato possa magicamente colmare le lacune, ma riducendo gli investimenti pubblici non fanno altro che ostacolare gli investimenti privati».

Dibattito intenso. Nella pratica l’Italia, oggi anche in nome di un pareggio di bilancio costituzionale che non prevede però tetti né per l’aumento delle tasse né per quello delle spese, ha fatto per anni e anni la scelta peggiore e più miope: giù gli investimenti pubblici strategici per il futuro del Paese, su le spese correnti e la pressione fiscale. E quanto alla “ricaduta” sugli investimenti privati, che questi, i privati, si arrangino (ma loro fanno anche assai di più, come dimostra il progetto per la Grande Milano degli industriali lombardi). In un quadro dove l’aumento dei costi burocratici e amministrativi si accompagna, nel rapporto con lo Stato e i suoi bracci operativi, a un assetto giuridico incerto, mobile e improntato alla più ampia discrezionalità anche sul terreno dei diritti proprietari.

Investimenti: una parola abusata, ricorrente all’infinito, che fatica però a ritrovarsi nei numeri che servono e soprattutto nei fatti. Non è una sorpresa, ma deve essere chiaro che senza questi non si esce dall’economia di guerra.

Consumi fermi, investimenti a picco

Consumi fermi, investimenti a picco

Rossella Bocciarelli – Il Sole 24 Ore

L’Istat conferma: nel terzo trimestre del 2014 il Prodotto interno lordo è rimasto in zona negativa e si è ridotto dello 0,1 per cento rispetto al trimestre precedente. La foto dettagliata del paese fornita ieri attraverso i conti economici trimestrali è perfino più scura di quanto già non si fosse capito attraverso la stima-flash. In primo luogo, infatti, la riduzione tendenziale del prodotto nei tre mesi compresi fra luglio e settembre 2014 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente è risultata pari allo 0,5% (nella stima flash si parlava di -0,4 per cento). Di conseguenza, ora, la variazione acquisita dell’attività produttiva per l’anno in corso, vale a dire la crescita che si avrebbe ipotizzando un quarto trimestre a incremento nullo, è pari a -0,4 per cento. Ma il fatto è che i dati di ieri mettono in evidenza la particolare debolezza della domanda interna nel nostro paese: rispetto al trimestre precedente, spiega infatti il comunicato dell’istituto, i consumi sono rimasti fermi mentre gli investimenti fissi lordi sono scesi addirittura dell’uno per cento; le esportazioni dal canto loro sono aumentate dello 0,2% mentre le importazioni sono diminuite dello 0,3 per cento.

C’è poi chi fa notare che lo storico traino della ripresa italiana, ovvero le esportazioni, stavolta ha funzionato poco, penalizzato dalla crescita inferiore alle attese di paesi emergenti ed Europa e dalle sanzioni Ue alla Russia: «Manca una stabilizzazione economica perché non c’è l’apporto del driver più importante, l’export, che avrebbe dovuto innescare la ripresa degli investimenti» commenta Riccardo Barbieri, di Mizuho. Quanto ai consumi, nei dati disaggregati è da notare il miglior andamento della spesa delle famiglie (+0,1%) rispetto a quella pubblica (-0,3%). Da un lato il lieve rialzo dei consumi privati beneficia molto probabilmente della introduzione del bonus da 80 euro per i redditi più bassi, dall’altro pesano l’attuazione della spending review e, a livello locale, del patto di stabilità interno.

In pratica i timori sul rischio deflazione espressi ieri dal ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan sono più che giustificati, oltre che per l’Eurozona, per il nostro paese. A proposito di prezzi impliciti, l’Istat rimarca che il deflatore del Pil è diminuito dello 0,1 per cento rispetto al trimestre precedente. Non bisogna dimenticare, inoltre, che il -0,1 per cento congiunturale del Pil realizzato dal nostro paese si confronta infatti con un aumento dello 0,2% della media di Eurolandia mentre il meno 0,5% tendenziale si misura con un +0,8% tendenziale dell’Eurozona. Insomma, è vero che in tutto il continente l’economia, più che crescere, sta ancora strisciando. Però l’Italia durante l’estate era ancora in recessione e solo per 1’ultimo scorcio dell’anno si incominciano a intravvedere segnali di stabilizzazione per l’attività produttiva, che prima o poi dovrebbe beneficiare della forte contrazione in atto nei prezzi petroliferi.

Intanto, però, anche sul lato dell’offerta i dati Istat relativi all’estate mettono in evidenza che la dinamica congiunturale è stata negativa per il valore aggiunto dell’agricoltura (-0,1%), dell’industria in senso stretto (-0,6%) e delle costruzioni (-1,1%) mentre il valore aggiunto dei servizi è rimasto stazionario. In termini tendenziali (terzo trimestre 2014 su terzo 2013) la caduta più forte è il meno 3,5% del settore delle costruzioni, seguito dal -1,1% dell’industria in senso stretto,dal -1,3% dell’agricoltura e dal meno 0,1% per i servizi.«È l’ennesima conferma di una situazione ancora critica per l’economia italiana» commenta l’ufficio studi della Confcommercio. Sebbene la dinamica dell’attività produttiva sia meno negativa rispetto a quanto registrato tra la fine del 2012 ed i primi mesi del 2013 – è la conclusione – non si scorge una sicura via d’uscita dalla recessione ormai triennale».

E’ il momento di recuperare gli investitori stranieri

E’ il momento di recuperare gli investitori stranieri

Alberto Mazzuca – La Gazzetta del Mezzogiorno

Statali in piazza, pensionati in piazza, disoccupati in piazza. Slogan, proteste e manganellate. È solo l’inizio dello scenario che avremo anche il prossimo anno. Sara infatti un 2015 migliore rispetto a questo 201l disastroso (-0,4 % del Pil). Ma sarà anche il quarto anno di recessione consecutiva. Il che significa dover sopportare altri disagi. La correzione al ribasso effettuata dall’Ocse sul Pil italiano (ripresina dello 0,2% nel 2015 e dell’1% nel 2016) ci colloca infatti al penultimo posto nei paesi del G20, davanti solo alla Russia. E ci racconta una storia in parte diversa da quella che il governo ci racconta mettendo tanta carne al fuoco, come se questo paese fosse in grado di correre i cento metri dopo essere stato ingessato per anni.

Non è questione, come sostiene il premier Renzi, di “pigrizia”. Basta leggere la relazione della Banca d”ltalia per vedere che nel 2014 il rapporto tra entrate fiscali e Pil rimane costante al 48,5 % e nel 2015 salirà mentre le spese correnti restano invariate. Viene ridotta di qualcosa solo la spesa in conto capitale. Significa che le misure decise sono troppo timide, che si fa affidamento sull’iniezione di liquidità che faranno la Bce (oltre mille miliardi) e l’Ue (i ridicoli 300 miliardi in tre anni), che si spera in una maggiore apertura di credito da parte del sistema bancario. Quest’anno le banche, dice l’Abi, hanno erogato più di 5 miliardi alle imprese ma l’unica cosa che salta agli occhi è la grande invasione di slot machine e gioco d`azzardo.

Per dare una vera svolta al paese ci vuole ben altro. Ci vuole un patto sociale (e non la guerra), ci vogliono soprattutto scelte precise che non mettano in fuga gli investitori stranieri. Non è l’art. 18 a spaventarli ma la criminalità che ha un impatto sul Pil di almeno l’1% e ha fatto perdere dal 2006 al 2012, in particolare nel Sud, ben 16 miliardi. E se l’Italia è con Grecia e Bulgaria ai primi posti in Europa come corruzione, è al quarto come criminalità organizzata dopo Romania, Bulgaria e Polonia. Eppure l’introduzione del reato di autoriciclaggio per chi reimpiega soldi ottenuti illecitamente va a passo di lumaca. Curioso: gli italiani debbono correre, i criminali hanno un occhio di riguardo.

Per gli investitori esteri l’Italia è ancora il regno di burocrazia, tasse e giustizia malata

Per gli investitori esteri l’Italia è ancora il regno di burocrazia, tasse e giustizia malata

Luciano Capone – Libero

L’Aibe, Associazione fra le banche estere in Italia, ha presentato la seconda edizione del suo indice che misura “l’attrattività dell’Italia presso gli investitori esteri”. I risultati non sono positivi, l’Italia viene superata dalla Spagna e fatta 100 l’attrattività dei primi della classe, gli Stati Uniti, l’indice per l’Italia si ferma a 38.

L’Aibe, attraverso un istituto specializzato come Ispo, ha posto una serie di domande ai vertici di grandi investitori internazionali 26 (multinazionali, private equity, investitori industriali) per misurare la loro percezione sull’attrattività del nostro “sistema paese”. Un’opinione molto rilevante per un paese che attrae pochi investimenti e che, vista la carenza di risorse interne, difficilmente potrà riprendersi senza l’arrivo di capitali esteri. L’indice ha segnato un leggero miglioramento rispetto alla rilevazione di sei mesi fa, ma la posizione relativa rispetto agli altri paesi è peggiorata. I miglioramenti derivano dalla maggiore stabilità del sistema politico e dalla percezione che qualcosa si sta muovendo sul fronte della riduzione del costo del lavoro e sulla flessibilità del mercato del lavoro. Nonostante i risultati degli stress test, che hanno segnalato la situazione critica di Mps e Carige, c’è molta fiducia nella solidità del sistema bancario, ma il vero punto di forza è l’elevata qualità delle risorse umane. I segnali positivi si fermano qui.

Per il resto, le criticità evidenziate dai potenziali investitori esteri sono le stesse che sono costretti ad affrontare gli investitori, i lavoratori e i cittadini italiani: eccessivo peso della burocrazia, poca chiarezza del sistema normativo, tempi della giustizia, eccessivo carico fiscale, incertezza sulle regole. Nonostante gli investitori guardino con favore alla maggiore stabilità politica garantita dal governo Renzi, non viene giudicata incisiva l’azione riformatrice: per il 54% l’Italia non è più attrattiva di 6 mesi fa e solo per una minoranza del 46% ha attuato una strategia per attrarre investimenti. La richiesta fatta al governo è quella di concentrarsi sulle riforme strutturali piuttosto che cercare un cambiamento delle politiche economiche europee. «Ciò che risulta inconcepibile agli occhi degli investitori esteri – sottolinea il presidente Aibe Guido Rosa – è la pessima abitudine di approvare norme fiscali retroattive, di decidere a novembre-dicembre di far pagare imposte a partire dal 1 gennaio». Un’abitudine anche di questo governo che ha aumentato retroattivamente l’Irap per il 2014.

Se Berlino approva investimenti «con rigore»

Se Berlino approva investimenti «con rigore»

Adriana Cerretelli – Il Sole 24 Ore

Esce la Commissione di José Manuel Barroso, entra quella di Jean-Claude Juncker. Due ex primi ministri, due popolari, uno portoghese, l’altro lussemburghese. Il cambio della guardia si celebrerà il 1° novembre. Sarà vera svolta? È il grande interrogativo che pesa sul nuovo quinquennio europeo che va a incominciare e alla vigilia di un nuovo vertice Ue che domani e venerdì a Bruxelles, nel mezzo di una congiuntura sempre più negativa, dovrebbe parlare di crescita e investimenti e invece quasi certamente ripiegherà sui soliti mantra del rigore e delle riforme strutturali, dei patti di stabilità quali veri e unici motori di uno sviluppo sano.

Da anni la chiave di tutte le scelte europee sta a Berlino dove regna Angela Merkel, la cui proverbiale cautela è sempre più condizionata da destra, da Alternativa per la Germania che erode ai fianchi la Cdu-Csu, invece che dai socialisti della Spd, i suoi partner nel governo di grande coalizione. A favorirne una benefica sterzata di sicuro non aiuta l’incomunicabilità crescente con la Francia di François Hollande, che sfida apertamente le regole Ue pur professando al contempo il proposito di rispettarle… con il tempo. Né aiuta l’altrettanto crescente divaricazione del credo e delle ambizioni di popolari e socialisti, i due maggiori partiti europei, alfieri gli uni di un’assertiva politica di risanamento e modernizzazione dei vari sistemi-Paese e gli altri di un grande piano europeo di investimenti capace di rimettere in moto crescita e occupazione, come complemento indispensabile della dottrina dei sacrifici e delle riforme.

La plateale cacofonia programmatica tra i due fronti, che del resto ricalca quella franco-tedesca, alla lunga rischia non solo di far saltare la grande coalizione che oggi governa anche l’Europarlamento ma di mettere alle corde la nuova Commissione Juncker e i suoi margini di mediazione in casa e fuori. Il tutto in un clima di ambiguità fatto apposta per aumentare la confusione sugli obiettivi condivisi e paralizzare una macchina decisionale già molto complessa. Del resto quando, per superare l’esame delle audizioni parlamentari, il socialista francese Pierre Moscovici, nuovo commissario agli Affari economici, invece di difendere, alla luce dei guasti indotti dall’austerità eccessiva, in modo forte e chiaro l’urgenza dello sviluppo nell’interesse collettivo e della tenuta dell’euro, ha preferito dissimulare le sue convinzioni facendo il “tedesco” tutto d’un pezzo, come sperare in un’Europa diversa e migliore?

Nel grande malessere che contrassegna il principio del nuovo quinquennio c’è però anche dell’altro. C’è l’ignavia di Francia e Italia, seconda e terza economia dell’euro: non brillano per coerenza e serietà nel rispetto di regole e impegni europei eppure non esitano a contestarli in nome della causa giusta della crescita, che però diventa inevitabilmente meno giusta alla luce delle rispettive e incontestabili inadempienze. C’è la sfiducia della Germania circa le reali intenzioni dei suoi maggiori partner, tanto profonda da indurla al pareggio di bilancio nel 2015 invece di rilanciare domanda e investimenti: prima di tutto nell’interesse della sua economia che frena in modo sempre più allarmante. E poi nel suo ricorrente auspicio di una politica monetaria della Bce meno sensibile ai problemi del Sud e più favorevole agli interessi tedeschi, per esempio a ritrovare tassi di interesse più remunerativi per il risparmio di una popolazione che invecchia. C’è infine la stanchezza tra i tradizionali alleati di ferro di Berlino, come Austria, Finlandia, Olanda e Belgio, che pur non misconoscendo, al contrario, il valore aggiunto di conti in ordine e riforme, invocano con insistenza una spinta a crescita e occupazione. «La sollecitazione di Bruxelles a raggiungere il pareggio di bilancio nel 2015 è un’opinione interessante che non condividiamo. La frugalità è una cosa buona ma l’austerità non serve per stimolare l’economia» ha dichiarato il cancelliere austriaco Werner Faymann. Insomma il rigore va bene ma non al punto di fermare gli investimenti necessari alla ripresa.

Nel suo testardo rifiuto di una politica espansiva che altro non sia che il meritato premio di sacrifici, cure dimagranti e riforme, la Germania appare autolesionista e sempre più isolata, con il solo conforto di Paesi come Portogallo, Spagna, Irlanda che sono passati e usciti dal calvario della troika e ora pretendono che a nessuno sia risparmiato. Il prossimo giudizio sulle varie leggi di bilancio nazionali appena consegnate a Bruxelles, il modo con cui sarà reso e articolato dirà molto presto se in Europa esiste ancora e fino a che punto lo spazio per venirsi incontro, per arrivare a ragionevoli compromessi. Al momento appare molto stretto. Strappare però la corda tra gli opposti estremismi in campo, rischiare la rottura con la Francia equivarrebbe a un salto nel buio. Il cancelliere Helmut Kohl amava ripetere al presidente francese François Mitterrand: «Per fare una buona politica europea devo prima vincere le elezioni». Angela Merkel ne ha già vinte tre ma ancora non ci riesce. Forse non ha la stoffa né il coraggio dei grandi leader.

Incentiviamo chi investe

Incentiviamo chi investe

Bruno Villois – La Nazione

No patrimonio, no credito bancario, parafrasando una nota pubblicità televisiva. Questa è la sintesi della diminuzione dell’erogazione dei prestiti bancari. Il sistema creditizio è stato obbligato ad accantonare miliardi di euro, per crediti inesigibili, imputabili per oltre i due terzi alle piccole imprese, le quali a causa della crisi e in non pochi casi al mancato pagamento da parte delle PA di forniture e servizi, stanno vivendo la loro peggior stagione.

L’inadeguata patrimonializzazione e l’insufficiente ricorso al capitale di rischio, da parte della stragrande maggioranza delle piccole aziende, è all’origine del costante aumento della contrazione dell’erogazione dei prestiti. Per rianimare i processi espansivi della nostra economia e fondamentale alimentare una dose massiccia di investimenti. Le norme fiscali hanno sempre favorito l’indebitamento bancario consentendo la detrazione degli interessi passivi dalle tasse, nessuna agevolazione, né incentivo, sono stati concessi a favore del conferimento di capitale di rischio, con il risultato di allontanare il versamento di capitale proprio degli imprenditori. La crisi ha fatto emergere la debolezza patrimoniale della maggioranza delle nostre imprese, il ridotto accesso al credito ne è stata la conseguenza naturale.

Per riattivare un flusso importante di prestiti è indispensabile che le imprese si patrimonializzino, così da poter garantire, in misura appropriata, quanto loro concesso dalle banche. Un’importante ondata di nuovi prestiti creerebbe le condizioni per rilanciare gli investimenti in modernizzazione, innovazione, ricerca e formazione, tutte componenti indispensabili per consentire alle imprese di poter competere a livello internazionale. Il governo insiste ad operare su linee strategiche che non tengono conto della reale situazione del sistema imprenditoriale nostrano, perché non pone in atto politiche a sostegno delle imprese. Le banche non possono caricarsi il fardello di ulteriori crediti inesigibili, servono politiche fiscali che favoriscano la patrimonializzazione delle imprese, premiando i soci che conferiscono capitale, come accade in molti altri Paesi, con la detrazione dai loro redditi di quanto versato. Per aiutare la ripresa bisogna rilanciare il sistema imprenditoriale, favorirne la crescita è una condizione essenziale.

Il grande gelo degli investimenti

Il grande gelo degli investimenti

Riccardo Gallo – Corriere della Sera

Il governo non ha abbastanza tempo e soldi per fare tutte le riforme necessarie. L’ideale sarebbe individuarne una che fosse tanto virtuosa da rendere le altre meno urgenti. Questo bandolo della matassa però non l’ha cercato ancora nessuno. Cominciamo col dire che ci può essere crescita economica e lavorativa solo se le imprese private tornano a investire. L’ha detto anche Mario Draghi.

In un lavoro di ricerca abbiamo analizzato dal 1992 al 2013 l’insieme delle imprese industriali censite da Mediobanca. È venuto fuori che l’anzianità dei mezzi di produzione è raddoppiata: nove anni nel 1992, undici nel 2003, diciannove nel 2013. Da tempo le imprese non rinnovano gli impianti, tirano il collo a quelli vecchi, con rischi per ambiente e sicurezza. Per ridurre i costi fissi, fanno fare sempre più cose ad altri. Il valore aggiunto, si sa, è quanto un’impresa ci mette di suo in quello che vende. Ebbene si è quasi dimezzato: nel 1992 era il 27% del prodotto, nel 2005 era sotto il 20%, nel 2013 appena il 15%. Gli impianti più vecchi sono già ammortizzati, perciò gli ammortamenti ancora da fare sono pochi e così, finché le fabbriche reggono, e nonostante il crollo del valore aggiunto, restano margini per utili incredibili.

Tutti festeggiano, anche il Fisco. Non spendendo per nuovi investimenti, né per impianti né per acquisire aziende, la cassa è piena e serve a ridurre l’esposizione bancaria. Alla fine, anche se i prodotti continuano ad avere domanda di mercato, le imprese chiudono gli impianti vecchi. Perciò mese dopo mese la produzione e gli ordini calano, ma mica solo per congiuntura avversa. È che l’Italia si deindustrializza. Dall’analisi si vede che gli indicatori sono peggiorati un po’ dopo l’euro. Ciò fa pensare a una resa degli imprenditori per la rigidità del cambio. Tra tutti gli indicatori però ce n’è uno che fa eccezione. Il surplus di cassa (per mancati investimenti) comincia a essere evidente già nel 1999, un istante prima del debutto dell’euro. La causa originaria del declino va dunque cercata in un momento antecedente.

Qualcos’altro dev’essersi rotto nella seconda metà degli anni Novanta nel modello industriale italiano. Per cinquant’anni gli imprenditori avevano evaso il Fisco, avevano portato capitali all’estero, avevano promosso investimenti di ampliamento, avevano chiesto mutui agli istituti di credito industriale, li avevano ottenuti dopo un esame di merito, spesso a condizione che prima ricapitalizzassero la società, avevano ubbidito e avevano riportato dall’estero i capitali a casa, senza condoni, anzi orgogliosi. Quasi mai licenziavano i loro collaboratori. È stato il modello di un’Italietta irregolare che se la cavava e cresceva.

Nel 1993 il varo della banca universale ha superato la bipartizione tra banche commerciali che finanziano il breve e istituti di credito industriale a medio-lungo termine. Tra il 1994 e il 1999 le banche commerciali hanno incorporato sei istituti di credito industriale e ne hanno disperso il mestiere. A quel punto le imprese industriali non hanno più chiesto o ricevuto mutui. Nel 1992 su 100 euro di capitale di rischio ce n’erano 60 di mutuo, nel 1998 ne restavano 37. Le imprese hanno smesso di fare investimenti tecnici, poche hanno fatto shopping societario all’estero. Tutto si è ridotto al breve: magazzino, incasso dai clienti, pagamento dei fornitori. Sono aumentate le sofferenze delle banche verso le imprese più piccole. Stentano i titoli ABS, le cartolarizzazioni. Abrogato il modello dell’Italietta, non è decollato l’altro per un’Italia moderna. Può essere questo del finanziamento degli investimenti il bandolo della matassa?