investimenti

Tagli di spesa per spingere su investimenti e infrastrutture

Tagli di spesa per spingere su investimenti e infrastrutture

Alberto Quadrio Curzio – Il Sole 24 Ore

La procedura che porta alla legge di stabilità inizierà a giorni e, purtroppo, non sarà una passeggiata né per il governo né per l’Italia. Siamo infatti in recessione-deflazione più della media (alzata, si fa per dire, dalla Germania!) dell’eurozona. La speranza sul programma del neo presidente della Commissione Juncker (e cioè investimenti nell’economia reale e nelle infrastrutture per 300 miliardi in tre anni) viene smorzata dalla critica tedesca all’apertura di Draghi su queste politiche espansive. Rimaniamo così in attesa sia della Bce per l’erogazione di liquidità finalizzata al rilancio dell’economia reale, sia delle politiche della nuova Commissione europea per spingere la crescita, sia della capacità dei governi di Paesi a crescita zero (o meglio negativa) come il nostro di contrattare flessibilità di bilancio in cambio di riforme. Anche perchè,malgrado i limiti delle nostre riforme, non è (tutta) colpa nostra se l’eurozona ha fatto la scelta sbagliata di rigore senza investimenti.

Riformare l’Italia
Il governo ha piani ambiziosi che speriamo possa migliorare (anche accettando le critiche costruttive) ed attuare. Per questo bisognerà analizzare bene il programma dei mille giorni, del «passo dopo passo». Intanto le previsioni sulla nostra crescita, disoccupazione e sui saldi di bilancio peggiorano anche se Renzi e Padoan rassicurano sul rispetto dei vincoli di bilancio europei. Intanto, il governo ha approvato lo «sblocca-iItalia» che ha misure interessanti per la crescita,anche tramite le infrastrutture. Una parte non piccola è però subordinata alle risorse finanziarie su cui aspettiamo la legge di stabilità. A questo proposito consideriamo una questione (tra le tante) sulla quale si valuterà la capacità del governo di fare le riforme durevoli. Si tratta della revisione della spesa pubblica, tema (tra gli altri) sul quale in una serrata intervista si sono intrattenuti ieri qui il presidente del consiglio e il direttore del nostro quotidiano.

Razionalizzare la spesa
Il presidente Renzi ritiene di poter tagliare 20 miliardi nel 2015 per liberare risorse da investire nella istruzione e nella ricerca. All’ovvia preoccupazione che ciò si faccia con i tagli lineari, la risposta è stata che non sarà così perché ogni ministero dovrà fare delle scelte e ridurre del 3% selettivamente la spesa. Lo speriamo e tuttavia riteniamo di richiamare all’attenzione sulla necessità di seguire le «nuove proposte di revisione della spesa» (Nprs) elaborate dal commissario nominato dal governo, Carlo Cottarelli e dai suoi collaboratori. Non si tratta di limitare la discrezionalità valutativa del governo ma di avere una precisa mappa sui cui muoversi. Le Nprs lo sono perché applicano all’Italia, su una serie di aree di intervento, le migliori pratiche dell’Ocse già usate in altri Paesi.Ottenere dai ministri e dai ministeri una riduzione razionale della spesa è pressoché impossibile senza avere un’indicazione precisa sulle opzioni di risparmi e riallocazioni. Queste sono fornite proprio dalle Nprs di Cottarelli che punta su 59 miliardi di risparmi nei tre anni 2014-16. I risparmi lordi massimi calcolati (che non considerano il calo indotto sulle entrate) sono di 7 miliardi nel 2014 (sui dodici mesi, ovvero 3,5 su sei che ci sono), di 18 nel 2015, di 34 nel 2016. Le Nprs sono su cinque macro-aree di intervento con i relativi risparmi su ciascun anno del triennio: efficientamento (per 19,4 miliardi); riorganizzazioni (7,9); costi politica (2); riduzione trasferimenti (13,5); settori: difesa, sanità, pensioni (15,1). Ciascuna macro-area è poi dettagliata per ogni anno e per varie voci di risparmio e di efficientamento a livello statale e di enti locali. Qualcuno ha ironizzato (sbagliando) su alcune piccole voci di taglio spese che mostrano invece la serietà delle Nprs perché anche la somma di micro-sprechi genera macro-sprechi.

Tre proposte-richieste al Governo
La prima è una proposta al presidente del consiglio. Data la struttura e la declinazione delle Nprs, è necessario che la stessa venga utilizzata appieno nelle trattative con i ministri (e non solo perché il presidente Renzi dice tra l’altro di voler mantenere Cottarelli nel suo incarico). Sarebbe diversamente difficile discutere con i ministeri operazioni articolate di razionalizzazione della spesa. Né bisogna correre il rischio di passare sbrigativamente ai tagli lineari (o quasi) che talvolta colpiscono anche quelle spese necessarie dove non ci sono resistenze corporative.

La seconda è una richiesta al Governo. E cioè accertare entro il 12 settembre quando ci sarà l’eurogruppo (e prima con Juncker) qual è la misura delle flessibilità chel’Italia può ottenere sui vincoli di bilancio europei. Comprendiamo la riservatezza di queste trattative ma almeno un segnale che sono in corso sarebbe utile. La questione è cruciale non per cambiare le Nprs ma per definire meglio il cronoprogramma delle misure specifiche perché le riforme strutturali della spesa sono più lente ma più efficaci anche in termini di recuperi di efficienza che si estende poi a tutto il sistema economico.
La terza è una proposta-richiesta. Non si rinvii il programma di razionalizzazione delle (quasi)aziende partecipate dagli enti locali che noi abbiamo così denominato il 31 agosto su queste colonne perché molte non sono imprese date le loro perdite croniche. La risposta del presidente Renzi nella citata intervista non soddisfa. Condividiamo con lui l’obiettivo di voler passare dalle circa 8.000 a 1.000 e che la Cassa depositi e prestiti con il Fondo strategico italiano potranno svolgere un ruolo importante al proposito.Tuttavia ci aspettavamo che il presidente Renzi prendesse posizioni sui tempi e sulle modalità (chiusure, aggregazioni, vendite, quotazioni) della ristrutturazione e/o che rinviasse al recente programma elaborato da Cottarelli e dai suoi collaboratori che prospetta un risparmio a regime di 3 miliardi annui dalla razionalizzazione. Al quale per noi si aggiungerebbe un notevole (e non misurato) aumento di efficienza delle economie locali che sono cruciale per l’Italia

Una conclusione
Difficile dire se le nuove proposte di revisione della spesa pubblica elaborate da Cottarelli andranno in porto, se l’Europa ci darà delle flessibilità di bilancio, se Renzi avrà la forza politica di ottenere queste flessibilità e di fare le riforme. Se tutto andasse al meglio (e anche l’euro-Germania rinsavisse) avremmo una proposta per le risorse che rimanessero disponibili. Spingere al massimo sugli investimenti (e non solo con riduzione delle tasse) nell’economia reale, nella tecnoscienza e nelle infrastrutture per rilanciare la crescita adesso e per garantirsi un apparato produttivo più moderno per il futuro. Cioè per quelle generazioni che Renzi giustamente cita spesso.

Pil, consumi, investimenti: il barometro delle economie

Pil, consumi, investimenti: il barometro delle economie

Chiara Bussi – Il Sole 24 Ore

L’atleta americano sembra aver ritrovato slancio. L’eterno rivale cinese continua a correre, ma non viaggia più a pieni giri come prima. L’allievo giapponese, invece, fatica a rialzare la testa. E il Vecchio continente? Arranca sotto la spinta del mix letale tra recessione, deflazione e disoccupazione alle stelle. L’economia mondiale si presenta così alla prova d’autunno, con i nuovi rischi geopolitici in Ucraina e in Medio Oriente che si sommano alle incognite già esistenti. Tanto che a fine luglio il Fondo monetario internazionale ha ridimensionato le stime per l’anno in corso: il Pil mondiale crescerà del 3,4%, appena lo 0,2% in più rispetto al 2013. Una ripresina, insomma, con una forbice che va dal 7,4% della Cina all’1,1% dell’Eurozona e dove l’Italia secondo i pronostici rischia di essere la maglia nera tra i big, con una crescita di appena lo 0,3 per cento. E non sono da escludere ulteriori revisioni al ribasso nei prossimi mesi.

Tra le tante ombre si intravedono però alcuni spiragli di luce. La settimana scorsa la raffica di dati macroeconomici provenienti dall’altra parte dell’Atlantico ha portato buone notizie. Dopo la doccia fredda del primo trimestre da aprile a giugno il Pil americano ha segnato un balzo del 4,2 per cento. Non solo: i consumatori guardano con ottimismo agli sviluppi dell’economia e i prestiti alle aziende sono in netta accelerazione. Un test per verificare se esistono davvero buone prospettive per il terzo trimestre arriverà questa settimana con l’indice di fiducia del settore manifatturierio (previsto per domani) e con i dati sulle vendite di auto, in agenda per mercoledì.

Nei prossimi mesi gli occhi dei mercati saranno comunque ancora puntati sulla Fed. A ottobre, come preannunciato, calerà il sipario sul quantitative easing, il massiccio programma di acquisto di titoli di Stato, e il focus si sposterà sulla tempistica di un possibile rialzo dei tassi atteso nella seconda metà del 2015. Il numero uno della Fed, Janet Yellen, al simposio di Jackson Hole ha però scelto la strategia della prudenza e ha chiarito che la stretta potrebbe arrivare prima solo se i dati sul mercato del lavoro registrarenno un ulteriore miglioramento.

Dall’altro capo del mondo la Cina continua a correre, ma rallenta il passo. Il Pil del secondo trimestre ha segnato un rialzo del 7,5%, lo 0,1% in più rispetto ai tre mesi precedenti, ma ben lontano dalla performance a due cifre dei primi anni Duemila. L’obiettivo del governo è arrivare a una crescita «intorno al 7,5%» e puntare sui consumi interni. Nell’ultima pagella sullo stato di salute dell’economia cinese il Fmi ha però invitato il governo a evitare un eccessivo rallentamento. «L’andamento del Pil cinese nei prossimi mesi – sottolinea Ferdinand Fichtner, responsabile previsioni e politica economica del Diw di Berlino – è una delle grandi incognite per l’economia mondiale, perché non è chiaro se si tratti di un andamento pilotato o meno».

Il Giappone sembra aver definitivamente archiviato la deflazione che l’ha flagellato per una quindicina d’anni e il livello dei prezzi ha imboccato la via del rialzo. Il grattacapo principale per il premier Abe è ora la ricerca della via della crescita, dopo il segno negativo (-1,7% su base trimestrale e -6,8% annualizzzato) registrato nel secondo trimestre. Una contrazione così spiccata non si vedeva dal marzo 2011 ed è stata innescata dal crollo dei consumi di oltre il 5% scatenato dal rialzo progressivo dell’Iva. Il dato va di pari passo con una produzione industriale fiacca e investimenti in calo. Un duro colpo per l’Abenomics, l’ondata di riforme avviata da premier e Banca centrale nel 2012, con un quantitative easing su modello della Fed e numerosi propositi finora rimasti incompiuti. «L’unico modo che il governo ha per reagire a questa situazione di stallo – osserva Fichtner – è tenere la barra dritta e attuare le riforme annunciate».

In salita sarà nei prossimi mesi anche la strada della Zona euro. «Temo che dovremo convivere con la debolezza dell’area ancora per un po’», sottolinea l’economista di Diw. La spirale negativa del Pil è una minaccia sempre più concreta e nel secondo trimestre non ha risparmiato neppure la Germania. Come ridare vigore alla crescita? Fichtner non ha dubbi: «La strada è una sola: occorre ripartire dagli investimenti privati con la creazione di un nuovo Fondo europeo focalizzato sui prestiti alle Pmi, partendo dalla piattaforma già esistente alla Bei, la Banca europea per gli investimenti».

Se la mancata crescita toglie il sonno ai governi, gli ultimi dati hanno visto materializzarsi anche lo spettro della deflazione in Italia e Spagna. L’attenzione è ora rivolta alle prossime mosse della Bce e alla possibilità di un maxi-acquisto di titoli di Stato su modello della Fed. Per gli economisti di Intesa Sanpaolo la probabilità di un’azione in questa direzione resta però bassa ed è difficile che si avveri prima del nuovo anno. Ulteriori indicazioni potrebbero arrivare giovedì nella riunione dell’Eurotower. Comunque vada, in molti angoli del mondo l’autunno sarà rovente.

La scossa degli investimenti

La scossa degli investimenti

Roberto Napoletano – Il Sole 24 Ore

Il bonus da 80 euro non ha portato la scossa auspicata all’economia italiana, ma vendite al dettaglio in caduta del 2,6% rispetto all’anno scorso, nuovo balzo della disoccupazione (12,6%) e l’Italia in deflazione dopo oltre mezzo secolo. Non eravamo d’accordo con quella scelta e lo abbiamo detto subito. Il Paese esige serietà: la stessa somma poteva, da sola, consentire di cancellare il conto dell’Irap sul costo del lavoro privato. Un segnale così forte avrebbe tutelato gli investimenti in essere nazionali e esteri, probabilmente ne avrebbe attratti di nuovi, di certo avrebbe segnalato al mondo che stavamo cambiando per davvero.

La fiducia delle famiglie italiane non si “ricostruisce” con 80 euro in più in busta paga, ma dando un lavoro a chi l’ha perso e una prospettiva ai nostri giovani. Il mondo “brucia”, l’Europa ha le sue colpe gravi, ma noi non ci dobbiamo mettere del nostro e dobbiamo fare in casa le cose giuste. In gioco ci sono il futuro del Paese e la dignità delle persone, guai a dimenticarcelo.

Banche di sviluppo per uscire dalla recessione

Banche di sviluppo per uscire dalla recessione

Giuseppe Pennisi – Avvenire

In che misura può l’investimento pubblico (e privato) in programmi a lungo termine aiutare l’Europa – e in particolare l’eurozona – a uscire da una recessione che dura quattro anni? Cosa possano fare le Banche di sviluppo per facilitare questo compito? Tutti gli Stati dell’area dell’euro hanno drasticamente tagliato i loro bilanci in conto capitale ossia gli investimenti pubblici. In media, l’investimento pubblico è passato dall’8% della spesa complessiva delle pubbliche amministrazione a meno del 4%. In effetti, è più facile ritardare programmi ben definiti che comportano investimento in capitale fisico che operare su spese correnti come gli stipendi per il pubblico impiego oppure i trasferimenti alle famiglie. Lo ha fatto anche la Germania. Nel breve periodo gli investimenti pubblici attivano capacità produttiva non utilizzata – in un’eurozona con un tasso di disoccupazione dell’11,5% della forza di lavoro ce ne è moltissima – senza innescare inflazione. Nel medio periodo migliorano la produttività dei fattori produttivi. È in quest’ottica che il neopresidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, ha proposto un programma speciale di 300 miliardi di euro (aggiuntivo ai fondi europei già in essere) su tre anni per rilanciare programmi di lungo periodo. Un anno fa è stato completato l’aumento di capitale della Banca europea per gli investimenti (Bei). Non ci sono, quindi, difficoltà a finanziare il programma, anche tramite obbligazioni targate Bei.
In Europa non manca liquidità, specialmente presso le famiglie, e il desiderio di impiegarla in collocamenti che non diano necessariamente rendimenti mirabolanti (numerose dita si sono scottate con le varie «bolle»), ma consentano di staccare cedole sicure, dormendo tra due guanciali. Ciò non vuole dire che la Bei debba diventare l’unico finanziatore di investimenti a lungo termine – compito immane che le sue strutture farebbero fatica a reggere.
Tuttavia, al mondo sono state censite circa 300 banche di sviluppo, in gran parte istituite negli ultimi cinquant’anni sulla scia del successo delle istituzioni di Bretton Woods (in particolare della Banca mondiale). I «puristi» ritengono cheVnesheconombank, creata in Russia nel 1917, sia la prima istituzione a potersi fregiare del titolo di «banca di sviluppo» .In Europa, oltre a banche di sviluppo regionali come la Bei e la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (Bers), esistono numerose banche di sviluppo nazionali di qualità. Le principali – ad esempio la Caisse des Dépôts et Consignation, la Cassa Depositi e Prestiti italiana, la German Kreditanstalt für Wiederaufbau tedesca, per citare le più note – hanno costituito nel 2009 un «club» di investitori a lungo termine non solo per forgiare strategie in comune, ma sopratutto per operare su alcuni fondi d’investimento a lungo termine ben definiti.
Da poco più di un mese il club è presieduto dalla Cassa Depositi e Prestiti, e quindi dal suo presidente Franco Bassanini. Gli strumenti non mancano. Occorre chiedersi se in questi anni difficili non sia stata ridotto, oltre al finanziamento all’investimento di lungo periodo, anche la progettazione. In molti Paesi – tra i quali l’Italia – sono stati costituiti fondi specifici per la progettazione (elaborazione di schemi progettuali, di progetti definitivi con computi metrici, documenti di gara). Sono stati utilizzati al meglio?
San Matteo non ha fatto il miracolo

San Matteo non ha fatto il miracolo

Mario Deaglio – La Stampa

Il coraggio – sospira Don Abbondio nel XXV capitolo dei «Promessi Sposi» – uno non se lo può dare. E nemmeno la fiducia, siamo tentati di aggiungere, guardando ai dati, appena resi pubblici dal’Istat, sul clima di fiducia degli italiani che segnalano una netta caduta per il terzo mese consecutivo. Il giudizio degli intervistati è peggiorato su quasi tutto: molto sulla situazione economica dell’Italia, poco o nulla sulla situazione economica attuale della loro famiglia, per la quale, però, è aumentato il numero di quanti si aspettano un peggioramento imminente. Rispondendo alle varie domande del questionario, gli intervistati, quando non vedono nero, vedono tutto con lenti con varie gradazioni di grigio. Questo clima nazionale di sconforto è tanto più deludente in quanto la caduta dell’indice di fiducia segue una sua impennata decisa di inizio anno (spesso attribuita a un «effetto Renzi») che l’aveva quasi riportato ai valori del 2008, ossia all’inizio della crisi.

Per fortuna il clima di fiducia non si traduce necessariamente in comportamenti, così come la salita primaverile non ha portato a una corsa agli acquisti, c’è da sperare – mentre invece le associazioni dei consumatori ne traggono previsioni infauste – che non andiamo incontro a uno «sciopero dei consumatori», peraltro già molto «svogliati» negli ultimi mesi. Dopo l’aggiornamento di questo indice è però più difficile pensare a un aumento, anche piccolo, dei consumi privati. Il «bonus» mensile di ottanta euro che dieci milioni di lavoratori stanno incassando non solo non ha inciso, come già si sapeva, sulle abitudini di spesa, ma non ha neppure aumentato il «buon umore economico» degli italiani. I motivi per i quali il «bonus» – una misura generica di rilancio, meno efficace di misure «mirate» a determinati settori economici o segmenti sociali – non si sta traducendo in un aumento di consumi, ma, al massimo, in una loro stabilizzazione sono nascosti nelle pieghe dei bilanci famigliari. E’ verosimile che, per non ridurre troppo il loro tenore di vita, negli ultimi 2-3 anni, molte famiglie abbiano contratto dei debiti e che usino quest’entrata mensile addizionale per ripagarli; è altrettanto verosimile che, prima dei normali beni di consumo, si pensi a spese sanitarie rinviate scarsamente coperte dal servizio sanitario nazionale (per esempio le cure dentarie).

Invece di attingere ai loro risparmi e convertirli in acquisti necessari, gli italiani continuano a investirli in titoli del debito pubblico che rendono pochissimo: ai tassi dell’asta dei Bot semestrali di ieri (nella quale la domanda si è rivelata molto abbondante, superando di oltre una volta e mezza la quantità offerta) il rendimento di 1000 euro basta appena a prendere un caffè ed e quasi dimezzato rispetto all’asta precedente. Certo, i titoli sono stati tutti acquistati da operatori finanziari, in parte esteri, ma una quota rilevante finirà, prima poi, grazie alla loro intermediazione, nei portafogli delle famiglie italiane che, per paura della crisi, esitano a utilizzare quelle risorse per spese necessarie.

Insomma, San Matteo Renzi ha dato una notevole scossa a molti aspetti del-la vita economica italiana e altre promette di darne con il prossimo Consiglio dei Ministri. Non è riuscito, però (ancora?) a compiere il miracolo di far sorridere gli italiani. D’altra parte, le notizie che giungono dal resto d’Europa mostrano che questo «male italiano» si sta lentamente diffondendo e che praticamente tutte le economie dell’Unione Europea sono in frenata. Per la prima volta ieri su organi di stampa tedeschi si è evocato lo spettro di una recessione,  attribuendone indirettamente la causa al conflitto ucraino che ha seriamente danneggiato le esportazioni della Germania (e dell’Italia) verso la Russia. Gli occhi degli europei, e non solo degli italiani, sono tutti puntati su San Mario Draghi, il quale, dall’alto dei 148 metri dell’Eurotower di Francoforte, dove ha sede la Banca Centrale Europea, sta preparando le sospirate misure «non convenzionali» che dovrebbero immettere denaro nell’economia, raggiungendo direttamente (ossia usando le banche principalmente come tramite) imprese desiderose di investire e famiglie desiderose di sottoscrivere prestiti per acquistare un’abitazione.

E’ ragionevole attendersi un miglioramento che permetta all’economia europea di non scivolare in deflazione, ma non aspettiamoci che le economie ripartano a razzo: in economia è difficile trovare dei grandi santi che risolvano i problemi. Milioni di italiani e di altri europei sembrano invece continuare a credere che la ripresa deve scendere dall’alto, derivare da fatti esterni senza accorgersi che in buona parte la si crea giorno dopo giorno, avendo il coraggio di compiere piccole scelte, comprese quelle di acquistare i beni che servono con spese che rientrino nelle normali disponibilità delle famiglie e di varare piani di crescita che restino nell’ambito della normale attività delle imprese. Decine di milioni di famiglie europee, con la somma delle loro decisioni, determinano in buona parte il «clima economico». Questi milioni di piccoli miracoli individuali sono la condizione necessaria, anche se non sufficiente, perché ci scuotiamo di dosso quest’infernale recessione.

La partita che l’Italia rischia di perdere

La partita che l’Italia rischia di perdere

Alberto Quadrio Curzio – Il Sole 24 Ore

Dal Consiglio dei capi di Stato o di Governo della Ue di sabato dovrebbero arrivare le designazioni sia dei commissari europei sia del presidente del Consiglio sia dell’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Sembra che il commissario per gli affari economici e monetari sarà francese, che il presidente del Consiglio (di cui Van Rompuy ha dimostrato l’importanza) sarà spagnolo, che l’Alto rappresentante (di cui la Ashton ha dimostrato l’irrilevanza) sarà italiana.

Noi abbiamo sempre sostenuto che l’Italia doveva avere un commissario per l’economia reale sia con un ruolo di coordinamento tra vari altri commissari sia per varare l’industrial compact. Così avremmo pesato davvero nei prossimi cinque anni sia nel governo economico dell’Europa sia nell’attenuare la linea (per necessità) filotedesca della Francia. Cioè quella del rigore senza crescita. Già ora non sono un buon segnale le dimissioni del governo francese per sbarazzarsi del ministro dell’economia che aveva accusato la politica economica francese di sudditanza alla Germania. Anche se Hollande stesso, sia pure garbatamente, ha più volte espresso riserve sulla politica del rigore.

L’urgenza della crescita. Il prossimo quinquennio istituzionale europeo sarà infatti cruciale per il rilancio della crescita perché la crisi occupazionale della Uem da socio-economica potrebbe diventare istituzionale. Sono preoccupazioni espresse nei giorni scorsi sia da Mario Draghi (con il garbo del suo status) sia più duramente dal premio Nobel Joseph Stiglitz che ha paventato un quarto di secolo di crisi europea se non si fanno investimenti infrastrutturali e non si spinge la domanda. Angela Merkel gli ha risposto direttamente (e forse indirettamente anche a Draghi) confermando la politica del rigore e delle sanzioni (da appesantire!) ai Paesi europei che non rispettano i vincoli di bilancio. Su queste premesse un confronto tra governi sarà inevitabile nei Consigli della Ue dove non basta la determinazione perché ci vuole anche potere e competenza. Carature che Draghi ha, ma che non userà certo per l’Italia essendo il suo ruolo nella e per la Uem.

Le valutazioni di Draghi. Nel recente simposio dei banchieri centrali negli Usa, Draghi scegliendo di trattare della “disoccupazione nell’area euro” ha ricollocato la sua funzione di banchiere centrale in quella ben più ampia di una personalità preoccupata della tenuta della Uem stessa. Così noi interpretiamo liberamente il suo intervento. Egli è stato netto sia sui danni pervasivi di una elevata disoccupazione che diventa crescendo sempre più strutturale in molti Paesi sia sull’urgenza di combatterla accettando il rischio di fare troppo piuttosto che troppo poco. Su questo obiettivo primario Draghi articola (garbatamente) le sue proposte di politica economica a tutto campo (monetaria, fiscale, delle riforme strutturali, per gli investimenti) con riferimento sia alle politiche della domanda che a quelle dell’offerta, per l’Eurozona e i singoli Paesi membri.
In premessa Draghi segnala che la Bce ha fatto e farà tutto il possibile per combattere la disoccupazione (che per noi si coniuga con deflazione-stagnazione) dell’Eurozona. Precisa però che la Bce, date le condizioni iniziali della Uem e i vincoli legali, non ha potuto (diversamente dalla Banche centrali di altri Paesi) attuare un acquisto generalizzato di titoli obbligazionari di Stato (e non) creando moneta (quantitative easing) e così supportando la politica fiscale.

Noi dubitiamo che adesso questa scelta sarebbe efficace nella Uem dove la fiducia s’è volatizzata e per questo preferiamo altre politiche economiche proposte da Draghi per rilanciare la Uem e ridurre la disoccupazione. Continuando nella nostra libera sintesi interpretativa (soprattutto per i riferimenti ai Paesi che egli non cita), Draghi rivolge moniti ai Paesi (come Italia e Francia) che non possono fare politiche espansive dati i vincoli di bilancio, invitandoli a riforme strutturali e ad una migliore composizione tra tassazione (da abbassare) e spesa pubblica (da ristrutturare). Rivolge anche moniti ai Paesi (come la Germania) che possono invece fare politiche espansive della domanda che contribuirebbero alla crescita di tutta l’Eurozona.

La governance dell’Eurozona. Draghi rivolge infine raccomandazioni per una governance dell’Eurozona affinché interpreti le regole di bilancio vigenti in modo flessibile così da ridurre i costi delle riforme e aumentare la crescita nei Paesi più deboli (leggasi scambio flessibilità-riforme) e dia corso a un programma di investimenti pubblici. Queste valutazioni chiariscono che il tempo si è fatto davvero breve e che urge la concretezza delle decisioni da combinare però con riforme a medio termine del governo dell’Eurozona. Ciò significa ripartire dai due programmi del novembre e dicembre 2012 per “un’autentica unione economica e monetaria” elaborati rispettivamente dalla Commissione europea e dai quattro presidenti (Van Rompuy, Barroso, Juncker, Draghi). Sulla loro base il Consiglio europeo del dicembre 2012 ha preso delle deliberazioni che si sono però concentrate sulle prescrizioni di bilancio e sull’Unione bancaria. Tenui sono invece le tracce di politiche per gli investimenti e le infrastrutture salvo un accenno a investimenti pubblici produttivi ricompresi nel quadro di bilancio poliennale della Ue e nel rispetto dei vincoli di bilancio per i singoli Stati. Adesso che la situazione si è fatta (ancora) più grave (anche perché allora non c’era deflazione) vanno forzate le tappe ricollocando i citati programmi per la Uem dentro quello del neo-presidente della Commissione Juncker (si veda il nostro articolo del 20 luglio scorso) e sfruttando le possibilità del Trattato di Lisbona sulle cooperazioni rafforzate dell’Eurozona.

Una conclusione: finanziare gli investimenti. Juncker ha prefigurato infatti un programma di investimenti per 300 miliardi nei prossimi 3 anni ponendo una forte enfasi sull’economia reale, sull’industria, sulle infrastrutture e sulla Bei. Juncker e Draghi, che hanno collaborato spesso, potrebbero dare una scossa alla Uem puntando subito ad una emissione di obbligazioni ventennali della Bei per 100 miliardi sottoscritta dalla Bce. Si potrebbero così spingere gli investimenti infrastrutturali e delle imprese per entità che, anche per i moltiplicatori e per i partenariati pubblico-privati, arriverebbero facilmente ai 300 miliardi del piano Juncker. La Bei darebbe la certezza di investimenti veri senza intaccare i bilanci dei Paesi deboli e così superando anche le obiezioni della Germania alla “golden rule” per i singoli Paesi.

La ricetta liberale anticrisi: meno tasse, più lavoro, crescita

La ricetta liberale anticrisi: meno tasse, più lavoro, crescita

Renato Brunetta – Il Giornale

Meno tasse; più consumi; più investimenti; più crescita; più lavoro; più gettito; più welfare; più benessere per tutti. È questa l’equazione del benessere: la ricetta liberale che l’agenda Berlusconi intende realizzare nel nostro paese. Agenda Berlusconi che, guarda caso, coincide con l’agenda Draghi, con le raccomandazioni della Commissione europea al governo Renzi e con quello che, da quando il debito pubblico italiano, cui fa da sfondo la lunga recessione, ha raggiunto livelli non più sostenibili, commentatori, economisti e opinion leader, da Alesina-Giavazzi a Guido Tabellini a Eugenio Scalfari, consigliano al governo: riforma del lavoro, da cui derivererebbe recupero di competitività per il sistema-paese; e riforma fiscale, per ridurre il peso della tassazione su famiglie e imprese, che blocca lo sviluppo e la conseguente ripresa dell’occupazione.

C’è, poi, un terzo grande tema: l’Europa e la Banca centrale europea. La politica monetaria espansiva della Bce deve essere accompagnata da riforme strutturali in tutti gli Stati dell’area euro. In particolare, riforme fiscali sincroniche che, via riduzione del carico tributario, portino all’auspicato indebolimento della moneta unica. E per fare questo, deve essere proprio la locomotiva d’Europa, se ancora vuole essere tale, a cominciare. La Germania deve mettere più soldi nelle tasche dei tedeschi e far crescere la propria domanda interna, con il giusto e buon livello di inflazione che ne deriverà. Per dirla con termini tecnici: la Germania deve reflazionare. E l’impatto sarebbe immediato sulle economie di tutti i paesi dell’eurozona. Lo dice anche la rigorosissima Bundesbank, nonché il presidente del consiglio economico della Cdu tedesca, Kurt Lauk. Entrambi evidentemente inascoltati da Angela Merkel e dal suo ministro delle Finanze, Wolfgang Schaüble.

Il compito di Matteo Renzi, se vuole riempire di significato questo semestre di presidenza italiana dell’Unione europea, così ricco di aspettative, ma ad oggi deludente nei risultati, è proprio quello di spiegare alla cancelliera Merkel l’importanza del ruolo della Germania e della reflazione tedesca in Europa. Ma non è solo di questo che si tratta: la Germania deve reflazionare anche per non incorrere nella procedura di infrazione per avanzo eccessivo della sua bilancia dei pagamenti, che tanti problemi ha creato a tutta l’eurozona. Squilibrio derivante da un euro tedesco sottovalutato rispetto ai fondamentali dell’economia tedesca, che ha reso le esportazioni di quel paese più competitive rispetto a quelle degli altri Stati dell’eurozona, senza alcun meccanismo redistributivo. La Germania colmi, quindi, questo gap di solidarietà rispetto agli altri partner europei, che significa anche rispetto dei Trattati, e tornerà a crescere a ritmi elevati e a trainare l’economia dell’intera area euro. Se davvero vuole che la moneta unica continui ad esistere.

Su questo tema, è stato il Fondo Monetario Internazionale il primo a lanciare la sfida alla Germania: lì il rapporto deficit/Pil oggi è pari a 0,1%. Se il governo tedesco aumentasse la spesa di mezzo punto di Pil, sarebbero 14 miliardi di euro all’anno in più in circolazione. E gli effetti si vedrebbero a cascata sull’intera area dell’euro. Ma si potrebbe andare anche ben oltre lo 0,5%. Prima che in Germania il deficit raggiunga il limite massimo del 3% ci sarebbe un margine fino a 75 miliardi. È questa la vera flessibilità di cui parlare. Piuttosto che chiedere sconti per l’Italia, Matteo Renzi, come abbiamo già detto, deve convincere la cancelliera Merkel a reflazionare l’economia tedesca, non solo a proprio vantaggio, ma anche, e soprattutto, per le ricadute positive su tutti i paesi dell’area euro.

In questa sfida, il presidente del Consiglio italiano avrebbe con sé non solo il Fondo Monetario Internazionale, che ha fatto i conti, ma anche la Commissione europea, e la fortissima sponda del dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti d’America.

L’euro tedesco, di fatto, contro ogni volontà e sogno, ha distrutto l’Europa, creando squilibri crescenti, appunto, nelle bilance dei pagamenti; e tassi di rendimento sui debiti sovrani divergenti, senza alcun meccanismo di redistribuzione e di riequilibrio. È questa la malattia mortale che ci affligge. Perché gli squilibri nei rapporti tra esportazioni e importazioni e nei flussi di capitali si riflettono sul deficit e sul debito pubblico degli Stati.

La soluzione, dunque, al di là di tutto quanto fatto (inutilmente) finora è una sola: i paesi che registrano un surplus nella bilancia dei pagamenti (che include sia i movimenti delle merci sia i flussi di capitali) hanno il dovere economico e morale non di prestare i soldi, non di “salvare” gli altri paesi, ma di reflazionare. Cioè aumentare la loro domanda interna.

A questo punto serve a poco il meccanismo di multe, elaborato ad hoc dalla Commissione europea e che fino ad oggi non ha funzionato, per i paesi che superano la soglia, troppo alta, quindi inefficiente, del 6% nel rapporto tra esportazioni e importazioni (alla Germania, che ha un surplus superiore al 7%, è stato fatto solo un semplice richiamo). La via da seguire è un’altra e più efficiente.

Le altre sfide del governo Renzi in campo economico sono, abbiamo detto, il mercato del lavoro (e se ne parliamo ancora vuol dire che il decreto Poletti, come avevamo previsto, è risultato insufficiente) e il fisco. Sul primo il dibattito è più che aperto e sembra andare nella direzione giusta se l’intenzione del governo è quella, auspicata tanto da Forza Italia quanto dal Nuovo Centro Destra di Angelino Alfano, di una sospensione per 3 anni dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. A cui aggiungere un maggiore spazio alla contrattazione aziendale rispetto alla contrattazione collettiva. Come chiesto all’Italia, tra l’altro, dalla Banca centrale europea nella famosa lettera del 5 agosto 2011, ove, tuttavia, si riconosceva l’importanza dell’accordo del 28 giugno 2011 tra l’allora ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, e le principali sigle sindacali e le associazioni industriali in tema di riforma del sistema di contrattazione salariale collettiva.

Per quanto riguarda la riforma del fisco, infine, il governo ha la strada segnata: basta solo procedere con i decreti legislativi di attuazione della delega fiscale, approvata in via definitiva dal Parlamento già a febbraio, che non possono più aspettare. Meno tasse dunque in Italia, finanziate dalla riduzione della spesa corrente, ma anche in Europa. In totale e piena sincronia, per avere un New deal e più consumi, più investimenti produttivi e infrastrutturali, più competitività e più crescita.

Sono queste le cose da fare: tre (mercato del lavoro, fisco, Europa), semplici e definite, onde evitare quell’affanno operativo e quella caotica inconcludenza temuti dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e che Commissione europea e mercati finanziari non ci perdonerebbero. Tre scelte che sono da sempre nell’agenda Berlusconi oggi, come già erano anche nel programma della coalizione di centrodestra con cui sono state quasi vinte le elezioni di febbraio 2013, grazie ai voti di dieci milioni di italiani. E come erano nell’agenda liberale del 1994. È questo il programma da realizzare per porre rimedio ai troppi errori che negli anni della crisi sono stati fatti dall’Europa a trazione tedesca. E su questo il governo sarà chiamato a confrontarsi, dopo la pausa estiva, con il Parlamento e con il paese. Non servono all’Italia redistribuzioni furbesche del reddito per comprare consenso, come è avvenuto nel caso degli 80 euro, che tanti guasti e squilibri hanno creato nei conti pubblici italiani (se n’è accorto perfino il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Delrio), ma di una limpida visione. Meno tasse, più lavoro, più crescita, più Europa.

L’unica strada per competere

L’unica strada per competere

Mariana Mazzucato – La Repubblica

L’economia dell’Eurozona è tornata in prima pagina: la crescita è scesa a zero rispetto al primo trimestre. L’Italia è tornata in recessione (ma ne era mai uscita?) e il dato di Francia e Germania è più basso del previsto. Le autorità tedesche danno la colpa al maltempo, ma di sicuro il problema più grande è la disparità di competitività tra i vari Paesi europei: il calo della domanda in certi Paesi penalizza le vendite in altri. Ma se il presidente della Bce Mario Draghi ha ragione a preoccuparsi di una ripresa «debole, fragile e disomogenea», il problema è che la diagnosi dei fattori alla base della competitività continua a essere sbagliata.

Quando scoppiò la crisi finanziaria, nel 2007, i Paesi europei non furono colpiti tutti nello stesso modo e nelle stesse proporzioni. Quelli che da decenni non investivano nelle aree fondamentali per potenziare la crescita economica (per esempio l’istruzione, la formazione del capitale umano, la ricerca e lo sviluppo) hanno subito i contraccolpi maggiori. E infatti i Paesi a cui Goldman Sachs ha appiccicato l’infamante etichetta di Pigs (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna) sono in fondo alla classifica per questo genere di investimenti. E quando la crisi finanziaria è diventata crisi economica è in questi Paesi che la crisi del debito sovrano e la crisi di “competitività” sono esplose con maggior durezza.

Politiche di austerità indiscriminate stanno aggravando le recessioni, come hanno dimostrato questo mese i dati relativi all’Italia. Ma anche se le riforme “strutturali” (come Draghi caldamente chiede) fossero attuate, sarebbero sufficienti, da sole, a stimolare la crescita nella periferia dell’Eurozona? La risposta è no: senza una grossa spinta agli investimenti pubblici e privati, non saranno sufficienti. I Paesi deboli devono aumentare, non diminuire, gli investimenti in quelle aree che aumentano la produttività e producono crescita, come l’istruzione, la formazione e la ricerca; e devono anche creare istituzioni pubbliche dinamiche, in grado di garantire i fondamentali collegamenti tra scienza e industria e dar vita a una comunità finanziaria disposta a investire a lungo termine.

Come la banca statale tedesca, KfW, è stata fondamentale per il successo dell’industria tedesca e come la Banca statale cinese per lo sviluppo è stata cruciale per l’affermazione di aziende innovative (come Huawei nelle telecomunicazioni, Lenovo nell’informatica e Yingli nelle energie rinnovabili) così l’Europa deve imparare a usare le sue istituzioni finanziarie pubbliche per indirizzare gli investimenti in questo senso. Perché anche se la Bce diventasse finalmente una Banca centrale a tutti gli effetti, quel prestatore di ultima istanza necessario per placare i timori dei mercati finanziari speculativi, resterebbe il fatto che il Quantitative Easing da solo non basta: il denaro finirebbe semplicemente nei forzieri delle banche, che non lo destinerebbero al credito. La creazione di denaro dev’essere invece “indirizzata” verso le aree produttive dell’economia reale, e in quasi tutti i Paesi di successo del mondo questo è avvenuto attraverso istituzioni pubbliche come quelle descritte sopra. Il programma di misure di stimolo di Obama e il piano quinquennale della Cina (1.700 miliardi di dollari in 5 nuovi settori, dalle tecnologie ecocompatibili ai nuovi motori) sono stati indirizzati in larga misura a rendere “verdi” tutti i settori dell’economia.

Perché l’Europa non assegna un mandato altrettanto ambizioso alle sue istituzioni pubbliche? Perché ha paura: e la mancanza di solidarietà nell’avviare un “piano di crescita” serio alla fine porterà al declino anche i Paesi “forti”. La Germania può crescere senza vicini forti? No. È ora di cambiare rotta, e subito – soprattutto adesso che il costo del denaro è quasi zero. L’euro può funzionare solo con un’Eurozona meno squilibrata nella competitività. Competitività non significa pagare poco i lavoratori ma è la capacità di produrre prodotti di alta qualità, a costo competitivo, che il mondo vuole acquistare. Siemens non vince contratti di appalto per costruire treni in Inghilterra perché paga poco i suoi lavoratori (come ci vorrebbero fare credere quelli che pensano che i problemi dei Pigs dipendono dal fatto che lavoratori guadagnano troppo) ma perché fa i treni più veloci e più verdi – risultato di una forte politica industriale e di innovazione.

Una volta riconosciuto che i diversi livelli di competitività nell’Ue sono colpa delle marcate differenze nei livelli di investimenti pubblici e privati, dobbiamo mettere in moto ogni strumento di investimento disponibile, sia a livello nazionale che a livello transnazionale. Per esempio il budget della Commissione europea per l’innovazione (80 miliardi di euro!), i fondi strutturali della Commissione europea destinati a progetti innovativi con adeguate prospettive di fattibilità e vantaggio “sociale” – e ovviamente la Banca europea per gli investimenti (Bei).

Quando è scoppiata la crisi finanziaria, la Bei ha incrementato i prestiti approvati dagli 890 milioni di euro del 2007 ai 4,2 miliardi del 2009. Nel 2011 questa cifra è scesa drasticamente a 703 milioni, soprattutto a causa dei timori che la Bei potesse perdere il suo rating in tripla A e a causa della mancanza di consenso, tra i Paesi dell’Unione Europea, sul grado di attivismo dell’istituto. Se si vuole che la Bei oggi giochi un ruolo attivo, è necessario ricapitalizzarla usando i fondi strutturali non utilizzati e ricorrendo al cofinanziamento delle obbligazioni della banca con quelle emesse dalla Bce. Ma per fare una cosa del genere è indispensabile che la Bei venga vista come uno strumento importante per favorire investimenti produttivi, in particolar modo nei Paesi della periferia (i Pigs).

Ovviamente sarà necessaria anche una gestione adeguata “sul terreno” di questi investimenti: i ministeri e le aziende delle nazioni che ricevono i prestiti devono essere gestiti in modalità conformi ai parametri europei correnti. I salvataggi e i prestiti dovrebbero essere vincolati a questo tipo di parametri e “condizioni”, non alle condizioni del fiscal compact basate sull’austerity, che servono solo a determinare un circolo vizioso di assenza di crescita – salvataggio – misure di austerità – assenza di crescita – salvataggio e così via. E quello che forse è il pericolo maggiore: una perdita di solidarietà tra i Paesi europei che alimenterebbe le forze conservatrici e produrrebbe solo paura – non il coraggio necessario per cambiare strada.

E’ ora che lo stato torni a investire

E’ ora che lo stato torni a investire

Alessandro Zeli – Il Sole 24 Ore

Gli squilibri generati sui mercati esteri e quindi i disavanzi del settore privato si scaricano infatti, con l’acuirsi della crisi, sul bilancio pubblico. I canali attraverso i quali si innesca la crisi del debito sono da una parte la diminuzione delle entrate dovuta al calo delle attività e dall’altra l’aumento per la spesa per il sostegno alla disoccupazione e alle perdite bancarie. Il debito raggiunge via via traguardi sempre maggiori accelerando negli ultimi anni anche a causa della politica pro-ciclica dei tagli alla spesa e di aumento delle entrate raggiungendo e superando la soglia dei 2000 miliardi di euro. La crescita del debito deriva, naturalmente, dall’aumento dell’indebitamento (grafico 1) che nonostante le politiche deflattive del governo Monti tende a crescere anche negli ultimi anni a causa soprattutto della componente legata alla spesa per interessi.

Se si analizzano più in dettaglio le varie componenti delle uscite, escludendo dall’indebitamento le spese per interessi, le tendenze possono sottolineare aspetti diversi (grafico 2). Come si può notare dal grafico ormai il bilancio dello Stato si trova stabilmente in una situazione di avanzo primario con l’eccezione del 2009 dovuta all’approfondirsi della prima fase della crisi. Le politiche di contenimento della spesa sono, pertanto, sempre più finalizzate al servizio del debito creando un circuito redistributivo che va dal contribuente (o dal beneficiario dei trasferimenti statali) verso i creditori (nazionali ed esteri) dello Stato, ossia il sistema finanziario. È interessante notare come il governo Monti abbia garantito i creditori esteri facendo scendere la percentuale di titoli del debito in loro possesso da circa la metà a circa un terzo del totale.

Le dinamiche comparate della spesa primaria e della spesa per interessi mettono ancor più in evidenza il divaricamento in favore di queste ultime. La spesa primaria e, quindi, tutte le spese dello Stato per la sua organizzazione e le spese per i trasferimenti alle famiglie (pensioni, sanità, welfare) per la prima volta, negli ultimi tre anni diminuiscono. Questo testimonia, ulteriormente, che la crescita del debito primario è stata messa sotto controllo. Gli interessi passivi registrano, invece, una dinamica accelerata rispetto al resto della spesa con una tendenza ad un’ulteriore crescita proprio negli anni del rigore montiano per effetto della manovre di tagli pro-ciclici che hanno diminuito la spesa e quindi anche il gettito creando una situazione di “sovraggiustamento”.

Il peso del servizio del debito tende ad aumentare per via della diminuita credibilità del Paese a restituirlo, tuttavia la credibilità è una medaglia che presenta due facce in sé contradditorie. Da un lato, in un’ottica di breve che si può definire finanziaria-speculativa, si esigono sempre maggiori tagli alla spesa primaria per poter avere maggiori disponibilità per il pagamento degli interessi con effetti depressivi sulla domanda interna, dall’altra, con un’ottica di lungo che si può definire di economia reale, lo spread, e quindi il livello tendenziale dei tassi sul debito, tende ad aumentare in assenza di prospettive di crescita, quest’ultima depressa, appunto, dal calo di domanda.

Il Paese si trova, pertanto, stretto tra le due braccia di una tenaglia: la prima data dalla perdita di capacità produttiva e quindi in prospettiva di piena ripresa e pieno utilizzo dei fattori produttivi dovuta alla perdita di competitività all’interno dell’area Euro e, l’altra, dal drenaggio di risorse sempre più cospicue verso i finanziatori del debito: interni ed esteri.

In conclusione manca un mix di politica economica a livello europeo tale da poter risolvere i reali problemi di competitività della nostra economia. La politica monetaria guidata dalla Bce ha svolto il compito di fermare la crescita dello spread (almeno per il momento) e di tenere i tassi a livelli molto bassi. La politica fiscale, da parte sua, non può avere come scopo solo i tagli di spesa (cui peraltro il nostro Paese ha ottemperato meglio e prima di altri, in possesso di ranking e credibilità anche superiore al nostro). È arrivato il momento di ricostituire un programma di investimenti pubblici per indirizzarli sia verso un reale recupero della competitività, sia verso un sostegno della domanda interna e della capacità di spesa di imprese e famiglie.

Capitali cinesi

Capitali cinesi

Davide Giacalone – Libero

Non mi spaventano i soldi che i cinesi investono in Italia, mi preoccupano quelli che non investono. E’ curioso che ci si agiti, con animo giulivo o contrito, per l’acquisto di pacchetti azionari di società quotate, ovvero per quello che la proprietà aveva già venduto. Semmai si dovrebbe avvertire che la pretesa di vendere e restare proprietari, esercitata mediante artificiali ostacoli al mercato, già esistenti (come le soglie basse per far scattare l’obbligo di segnalazione) o che si vogliono introdurre (come il voto plurimo in capo a chi è già azionista), è uno di quei sintomi che rivela quanto la globalizzazione venga vissuta come minaccia, anziché opportunità. Tre sono le osservazioni che devono essere fatte, per capire quel che succede e per trarne il massimo vantaggio.

1. Considerato che l’Italia è la seconda potenza industriale e la terza economica d’Europa, le operazioni cinesi (e non solo) d’ingresso nel capitale delle grandi società è largamente al di sotto del nostro peso effettivo. Detto in modo diverso: sono poche e per valori bassi. Rothschild Italia calcola che le operazioni fatte da noi sono state 35, su 400 relative all’intera Unione europea. Segno che l’attrattività del nostro mercato è inferiore alla sua importanza e ricchezza. Sicché, a dispetto di quelli che vanno strillando circa l’ipotetica invasione cinese, il problema è opposto: vanno più altrove che qui.

2. Si deve distinguere fra le operazioni attivate da istituzioni finanziarie e quelle che hanno come protagonisti dei soggetti industriali. Se prendiamo gli acquisti che hanno dato luogo a segnalazioni rivolte all’autorità di controllo (Consob), vediamo che banche cinesi hanno investito in titoli come Eni o Enel. In buona sostanza, sono delle rendite. La banca diversifica il rischio, per conto dei propri clienti e correntisti, acquistando quel che assicura un guadagno. Eni ed Enel non ci guadagnano nulla, sono i loro guadagni ad arricchire gli azionisti. Chiunque questi siano. Poi c’è Fca, la fu Fiat, che è quotata anche in Italia, ma è ardito definire italiana. Investire in quel titolo non significa avviare una conquista, piuttosto scommettere sulla riuscita del disegno industriale, sostenuto anche dal mercato cinese. Telecom è azienda mal messa, da tempo priva di strategia e con investimenti bassi. Comprare significa puntare sulla sottovalutazione del titolo, oppure, più realisticamente, sulla convinzione che l’attuale assetto proprietario non è in grado di reggere. Se si avviasse una scalata, quegli acquisti si dimostrerebbero un ottimo affare.

Poi ci sono gli investimenti industriali: State Grid compra il 35% di Cdp reti e Shanghai Eletric compra il 40% di Ansaldo energia, perché fanno mestieri simili. Potenzialmente sinergici. La cosa singolare è che le vendite che comportano una certa cessione di sovranità (perché essere proprietari esclusivi delle reti di distribuzione energia o esserlo in società con altri non è per niente la stessa cosa) vengono fatte dallo Stato. Sia nella versione Cassa depositi e prestiti che in quella Finmeccanica. Il fatto che ciò avvenga dopo un viaggio in Cina del ministro dell’economia e del presidente del Consiglio può essere casuale. Ma anche no. In quei casi sarebbe stato ragionevole che qualcuno avesse da eccepire. Non è succeso. Se i cinesi (o altri) investono in rendite, quali queste sono, si mettono nella condizione d’importare ricchezza (nostra) senza esportarne (loro). Non è un dettaglio.

3. Le istituzioni finanziarie si muovono seguendo i rating, come pollicino seguiva mollichine e sassolini. Il guaio, serio, è che resta fuori dal tracciato la parte succosa e promettente della ricchezza italiana, fatta d’innovazione e prodotti eccellenti, ma assistita da gracilissima o inesistente finanza: la piccola e media impresa. Come restano fuori gli investimenti infrastrutturali. Se al governo stessero cercando crescita, e non solo soldi, dovrebbero subito approntare una seria collaborazione finanziaria con la Cina (e non solo), destinata a portare l’irrigazione verso il terreno più fertile, ma anche più aggredito dall’aridità. Ci guadagnerebbero i cinesi, perché un fondo di quel tipo avrebbe rendimenti non immediati, ma alti. Ci guadagneremmo noi italiani, perché vedremmo crescere la nostra capacità produttiva e d’esportazione, non solo il bisogno e la voglia di vendere pezzi di proprietà.

Questi sono i denari che non vengono investiti. Questi quelli che mi preoccupano. Questo il lavoro che lo Stato potrebbe fare, senza mettere le mani nel mercato, ma aiutandolo ad avere libere e forti le proprie mani. Se restassero cinque minuti liberi, mentre ci si occupa di nomine nei mille enti misteriosi (quando non del tutto inutili), si potrebbe dedicarli a far nascere una politica di cooperazione finanziaria, capace di trasformare in piante d’alto fusto quei germogli e quei cespugli cui, oggi, si nega luce e acqua. O che se le trovano da soli, sperando di non essere visti.