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Gufi e Pil

Gufi e Pil

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Anch’io, come l’ottimo Giovanni Orsina, mi domando se Renzi mi abbia inserito nella lista dei “gufi” che da mesi evoca come i suoi veri oppositori (già, gli altri o fanno parte della maggioranza parallela o si sono liquefatti). E temo – pur contando sulla sua amicizia – che l’Elefantino mi voglia schiaffare d’autorità in quella che lui chiama, non senza ragione, «carognesca èlite» perché ho il vizio di badare alla fastidiosa variabile che si chiama andamento (congiunturale e strutturale) dell’economia. Sì, quel viziaccio che mi aveva procurato guai con il facondo Berlusconi (quello dei «ristoranti pieni»), con l’iracondo Tremonti (quello dell’Italia che «sta messa meglio degli altri»), con l’algido Monti (quello del «cresci Italia») e con il cocciuto Letta (quello della «luce in fondo al tunnel»). Tuttavia accetto il rischio e scanso ogni esitazione: l’avevo detto.

Sì, l’avevo detto che delle ripresa non c’era neppure l’ombra, anzi che saremmo tornati in recessione. L’avevo detto che gli 80 euro non si sarebbero tramutati in consumi e che quella non era la misura giusta (se non ai fini elettorali) per far riprendere la nostra economia. L’avevo detto che l’export non sarebbe bastato, intestato com’è a solo 12-15mila imprese, e che la crescita si fa solo con gli investimenti, a loro volta figli di una politica economica e industriale da piano Marshall. Così come avvertito di non dare la colpa a Bruxelles e Berlino – che pure ne hanno – perché sono un alibi a non fare. Come ora è un alibi dire che siamo in recessione perché si è fermata la Germania: il crollo dell’export è stato con i paesi extra Ue. Già, avevo visto meglio del Def (ci vuole poco). Ma non me ne vanto. E non traggo (ancora) conclusioni su Renzi e il suo governo. Insomma, io (come altri) guardavo la realtà, non facevo né il pessimista piagnone né tantomeno tifavo per la conservazione, né quella ideologica né quella in nome di interessi. Ho avuto ragione, ma me ne dolgo.

Non godo affatto nel sentire tornare la parola recessione nel lessico quotidiano. Non mi piace dover mettere in fila ben 17 trimestri con il Pil in rosso sui 28 trascorsi da inizio 2008. Anzi, soffro a vedere che ben 12 degli ultimi 13 trimestri hanno il segno medio davanti (unica eccezione il quarto trimestre 2013). E mi cospargo il capo di cenere. Sinceramente. Chiedo, però, solo una cosa: vorrei che chi ha sbagliato previsioni e scenari almeno avesse la franchezza di ammetterlo. E, soprattutto, che non diventasse recidivo. Eh sì, perché tra Renzi e Padoan non solo autocritica saltami addosso – abbiamo fatto tutto bene, la ripresa è lenta (veramente è la recessione ad essere svelta) ma se perseveriamo arriverà – ma pure giurano che «non c’è bisogno di fare alcuna manovra correttiva». Sicuri? Mi pare improbabile che, con il Pil che scende al denominatore (tre decimi di punto nel primo semestre), il deficit programmato nel Def al 2,6 per cento non sia da ricalcolare. Starà comunque entro il 3 per cento? Forse, ma sappiamo che l’Ue non farà sconti e visto che non ci ha concesso di far slittare il pareggio di bilancio dal 2015 al 2016 potrebbe chiederci di cominciare a limare fin d’ora. Inoltre molti dei provvedimenti del governo, a cominciare dagli 8 euro, sono assolutamente privi di reale copertura – se non si vuole usare la solita presa in giro dei proventi derivanti dalla lotta all’evasione e dalla spending review – e da qualche parte dovranno pur saltar fuori, e i margini di manovra sono stretti, come ha palesato la vicenda dei “quota 96” in cui la maggioranza ha dovuto rimangiarsi quanto promesso. Se infine aggiungiamo che, per effetto della deflazione, gli interessi sul debito ci costeranno altri 17 miliardi, solo parzialmente compensati dai bassi tassi pagati sui titoli di Stato, si capisce come l’intervento correttivo dei conti pubblici – per almeno una ventina di miliardi – sia una necessità e non l’ennesima invenzione dei menagramo. Anzi, rimandare a domani quello che andrebbe fatto oggi provocherà solamente l’acutizzarsi dei problemi e la necessità di intervenire ancor più pesantemente in futuro. No, purtroppo non c’è alcun iperbolico avanzo primario che tenga. La manovra andrà fatta. A meno che…

Ecco, c’è un solo modo per evitare i soliti tagli lineari e le solite tasse più o meno occulte: cambiare completamente registro. Sì, dotarsi di coraggio e dare la scossa che serve al paese attraverso una tripla azione di governo. Da un lato, un’operazione straordinaria sul patrimonio pubblico finalizzata sia all’abbattimento dello stock di debito che a rilanciare gli investimenti pubblici e favorire quelli privati, abbassando le tasse sulle imprese e sul lavoro. Dall’altro come ha suggerito il viceministro Calenda, un piano industriale nazionale che ci consenta di incrementare la quota sul Pil del manifatturiero e dei servizi ad alto valore aggiunto. Infine, avviare riforme strutturali – vere – che siano in grado di tagliare di 7-8 punti sul Pil quella spesa pubblica che, ultimi calcoli, nel 2014 arriverà a superare gli 825 miliardi., 16 in più di quanto programmato e il 7,8 per cento in più del 2013. Lo so, si tratta di politiche impegnative, faticose. Ma, senza, l’esito è già scritto. E ora, se credete, imbalsamatemi e mettetemi pure nella stanza dei gufi. Sic.  

Basta aspirine, costringiamo l’Ue a sostenerci

Basta aspirine, costringiamo l’Ue a sostenerci

Gaetano Pedullà – La Notizia

Sai che sorpresa il dato dell’Istat! Come se vedere un +0,2 o un -0,2% cambiasse la realtà dei fatti: siamo alla canna del gas! Troppi anni di tagli agli investimenti, di disoccupazione galoppante e di consumi al lumicino non potevano che portarci nel baratro in cui siamo. Adesso la sfida sta nel tirarci fuori dalla recessione. E qui le strade sono due, a meno che non vogliamo continuare a curarci con l’aspirina: o si esce dall’Eurosistema – con tutti i problemi che questo comporta, ma con la certezza che dopo un anno di immani sacrifici la nostra produzione industriale schizzerà alle stelle per effetto della svalutazione sulla nuova moneta – oppure si va prima possibile a Bruxelles per offrire uno scambio all’Europa. Noi mettiamo sul piatto una serie di riforme strutturali e l’Unione ci permette di mettere cento miliardi l’anno per almeno tre anni a disposizione della crescita, tagliando tasse e cuneo fiscale sul lavoro.

L’Europa e i tedeschi soprattutto faranno di tutto per mettersi di traverso, ma oggi in queste condizioni l’Italia per assurdo ha un argomento fortissimo con cui farsi sentire: il nostro mostruoso debito pubblico. Una cifra che, diciamo la verità, nelle attuali condizioni non potremo restituire mai. Allora piuttosto che perdere tutto o gran parte dei crediti è ora che la comunità – se è tale davvero – ci faccia scudo e aiuti la ripresa. Se invece comunità non è, tanto vale tornare presto alla lira. Perché una fine spaventosa è sempre meglio di uno spavento senza fine. E la prospettiva di decenni di manovre fiscali e austerità sono peggio di un film dell’orrore.

L’Italia tornerà ai livelli pre-crisi solo nel 2042

L’Italia tornerà ai livelli pre-crisi solo nel 2042

Come dimostra plasticamente il grafico qui sotto il passo indietro del Pil certificato ieri dall’ISTAT non è un’eccezione nell’accidentato percorso post-crisi del nostro paese ma la triste regola. Nelle ultime 12 rilevazioni trimestrali, solo in un caso (quarto trimestre 2013) l’Italia ha fatto registrare un segno positivo: ma la dimensione della crescita registrata (+0,1%) fa pensare più ad una casualità che ad un seppur timido segnale di inversione di tendenza.

fonte grafico: Silvia Merler, http://smerler.wordpress.com/2014/08/07/italy-and-the-cycle-that-didnt-turn/

 

Il livello del nostro PIL in valori reali è oggi il più basso dal 2000 e mentre tutte le grandi economie europee hanno iniziato a dare segnali confortati di vitalità, il belpaese diventa sempre più – assieme al caso disperato della Grecia – il grande malato d’Europa. 

fonte grafico: Silvia Merler, http://smerler.wordpress.com/2014/08/07/italy-and-the-cycle-that-didnt-turn/

 

Questo grafico spiega la recessione italiana meglio di qualsiasi analisi tecnica: fatto 100 il Pil delle principali economie europee nel primo trimestre della crisi economica (il secondo del 2008) notiamo come tutti i paesi abbiano pagato la crisi con un arretramento del Prodotto Interno Lordo che inizia ad arrestarsi verso la fine del 2009, per ricominciare a crescere in tutto il continente. Francia, Germania e Regno Unito hanno tutti, in tempi diversi, riconquistato i livelli di Pil che avevano prima della crisi. La Spagna sembra avere finalmente invertito la tendenza mentre l’Italia rimane stancamente in coda, allontanandosi sempre più da quella linea rossa che rappresenta il Pil prima del terremoto dei mercati finanziari.

fonte grafico: Centro Studi Bruegel, http://www.bruegel.org/nc/blog/detail/article/1410-chart-the-uk-reaching-pre-crisis-gdp-levels

Quanto tempo ci servirà per tornare là dove eravamo? Difficile dirlo: continuando a non crescere, come è ovvio, non ci arriveremo mai. Ma anche immaginando di lasciarci andare al più sfrenato ottimismo tipico dei governi italiani c’è poco da stare allegri: volessimo rientrare ai livelli di ricchezza del 2008 in 6 anni avremmo bisogno di una crescita dell’1,5% che appare davvero poco plausibile mentre se crescessimo ai ritmi pre-crisi (+1,26% all’anno) ci torneremo nel 2021.
Tornando un po’ più con i piedi per terra, invece, e sperando di poter crescere nei prossimi anni con ritmi compresi in una forbice tra lo 0,1% e lo 0,5% l’obbiettivo non proprio esaltante di ritornare al 2008 sarebbe raggiungibile tra il 2031 con crescita allo 0,5%, il 2042 con crescita allo 0,3% e il 2096 se la nostra crescita dovesse dimostrarsi particolarmente debole (0,1%).  

Nota: Elaborazione ImpresaLavoro su dati Eurostat e Istat

Il confronto con i principali paesi europei e mondiali è impietoso. L’Italia è in ritardo tra i 21 e gli 86 anni rispetto a Svezia e Svizzera, tra i 20 e gli 85 rispetto a Usa, Francia e Germania e tra 17 e 81 rispetto al Regno Unito. Non c’è che dire: uno spread piuttosto alto.  
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C’è poco da twittare: il virus è l’austerity e una delle medicine si chiama tagliadebito

C’è poco da twittare: il virus è l’austerity e una delle medicine si chiama tagliadebito

Guido Salerno Aletta – Milano Finanza

C’è poco da twittare: non ci sono gufi dietro i dati del secondo trimestre che confermano che l’Italia è ancora in recessione. Ci sono invece responsabilità politiche gravi, errori di strategia economica e l’incapacità di comprendere che le manovre economiche restrittive, affastellate senza sosta da tre anni a questa parte, non potevano altro che portare la nostra economia al coma. Né sono scusanti: il + 0,8% di Pil per quest’anno non è un obiettivo ereditato dal passato, dall’esecutivo Monti o da quello guidato da Enrico Letta. I dati del Def per il 2014 approvato appena quattro mesi fa portano la firma di Matteo Renzi e di Pier Paolo Padoan. Che ora il ministro dell’Economia, preso in contropiede, annunci che non ci saranno manovre correttive per l’anno in corso suona quasi scherno, visto che per la maggior parte dei padroni di casa c’è ancora la Tasi da pagare, tutta insieme: una tassa nuova di zecca il cui pagamento è stato rinviato a dicembre per tutti i Comuni che non hanno fatto in tempo a deliberare le aliquote e gli sgravi. La batosta, dissimulata dietro il rinvio tecnico, arriverà: l’ultimo trimestre dell’anno sarà il peggiore di tutti.

Il miglioramento del Pil nel 2013 è stato temporaneo, determinato dalla sospensione del pagamento dell’Imu sulla prima casa, un pegno elettorale pagato dal governo Letta al Pdl: ma quest’anno l’eccezione non c’è stata e i risultati si vedono. L’Imu o la Tasi sulle prime case non sono altro che un’addizionale all’imposta sul reddito delle persone fisiche: sono queste le tasse che hanno abbattuto strutturalmente i consumi delle famiglie. La legge di Stabilità 2015 comporterà una correzione di circa 20 miliardi perché alle spese che vegono finanziate annualmente, dalla cassa integrazione alle missioni militari all’estero, c’è da aggiungere la copertura per le promesse fatte dal premier in occasione delle elezioni europee: il bonus fiscale di 80 euro al mese costa 10 miliardi, di cui solo 3,5 sono già stati indviduati. Questa misura da sola vale mezzo punto di Pil.

L’entusiasmo dei neofiti è messo a dura prova dai numeri diffusi ieri. D’altra parte, dietro la sarabanda riformista si cela una buona dose di cinismo: ben sapendo che c’è poco da giostrare con il deficit, si è spostata la barra sulle riforme istituzionali dividendo il Paese tra chi vuole cambiare e chi resiste nel voler mantenere i privilegi. Ora la strada del governo è in salita: occorreva dare un segnale vero ai mercati abbattendo il debito, ma anche sulle privatizzazioni i ritardi si accavallano: le Poste rinviano la quotazione in borsa, mentre del buyback di azioni dell’Eni non si sa molto. La relazione al Parlamento del ministro Padoan sulla spending review è stata rinviata a data da destinarsi. Le vendite degli immobili da parte del Demanio sono difficoltose, come del resto sono vani i tentativi di qualsiasi cittadino che voglia vendere casa in fretta: non c’è più mercato per nessuno. Sono anni che vengono adottate misure fiscali demenziali che hanno massacrato il Paese senza risanare le finanze pubbliche: mentre il Pil è tornato indietro di 14 anni, il debito non è stato mai così alto.

Al Tesoro non si illudano: non ci sarà alcuna Troika che verrà a togliere le castagne dal fuoco, perché il solo annuncio di un intervento in Italia farebbe tornare l’euro vicino al collasso. Fmi, Ocse, Unione Europea e Bce, tutti insieme, hanno diretto l’orchestra che ha guidato le politiche fiscali. Ora tacciono perché dovrebbero ammettere di aver sbagliato tutto.  

Tagliare le tasse

Tagliare le tasse

Giuseppe Turani – La Nazione

Matteo Renzi si aspettava un risultato un po’ scadente, ma non così tanto: meno 0,2 per cento nel secondo trimestre dell’anno rispetto al primo (che aveva già fatto segnare un arretramento dello 0,1 per cento) è un risultato che non si presta a equivoci. E ha un solo significato, chiarissimo: tutto quello che si è fatto (o non si è fatto) finora per agevolare la ripresa in realtà si è rivoltato contro di noi e ci ha rimandati indietro.

I politici hanno la memoria corta, ma nell’ultimo trimestre del 2013 la ripresa c’era stata, l’abbiamo vista, l’Istat l’ha certificata. Una ripresa piccola (solo lo 0,1 per cento sul trimestre precedente), ma comunque ripresa. Fine del Pil che va indietro invece di andare davanti. E si pensava che da quello 0,1 per cento si sarebbe proseguito verso valori più interessanti e importanti. Lo stesso premier Renzi deve aver ritenuto che fosse una cosa naturale, molto semplice. Ma non è stato così. Il segnale d’allarme (forte e chiaro) è arrivato subito, nel primo trimestre di quest’anno, che ha fatto segnare un arretramento dello 0,1 per cento. La ripresina, cioè, si era bruscamente interrotta e bisognava immediatamente mettere in campo qualcosa per riacchiappare un Pil che stava andando indietro e non avanti come era nei sogni di tutti e nelle aspirazioni del governo. Si è fatto tutto quello che era necessario e che sarebbe stato utile? La risposta è: no, evidentemente. Il governo ha continuato a tessere la trama delle sue riforme nella convinzione, probabilmente, che ormai la crescita fosse come una pianta di fagioli che vien su da sola. Ma in economia (soprattutto di questi tempi) non c’è niente che mette radici e punta verso l’alto in modo spontaneo. Anche l’allarme del primo trimestre è stato ignorato.

Che cosa è mancato? Molte cose. Intanto una vera riforma del mercato del lavoro. Qualcuno dice che la nosra legislazione in materia andrebbe semplicemente buttata via e rifatta ex novo (professor Giulio Sapelli). Ed è difficile non concordare: più di 2mila articoli di legge regolano il lavoro in Italia. E solo specialisti di alto livello ci capiscono qualcosa. Figurarsi gli investitori stranieri, abituati a cose molto più semplici. Poi c’era l’eterna promessa di tagli alla spesa pubblica. Promessa ribadita in modo solenne da tutti quelli che sono passati per Palazzo Chigi negli ultimi vent’anni (e quindi anche da Renzi). Ma, salvo qualche limatura, non si è visto niente. Non avendo tagliato la spesa pubblica (in Italia quasi un milione e mezzo di persone vive alle spalle della politica e quindi delle casse pubbliche), non si è riusciti a far scendere la pressione fiscale. Pressione che ormai raggiunge, in termini reali, il 53 per cento. Questo è il nodo vero: può essere che veda decollare un Paese con una simile pressione fiscale, ma non ci credo. Con questo livello di tassazione la gente è assai poco motivata e vive nel terrore di non riuscire a pagare le imposte.

Ma adesso cosa si può fare? Per il 2014 è ormai un po’ tardi. Qualunque misura avrà effetto solo nel giro di mesi e siamo già vicinissimi alla pausa estiva. Inoltre, in questa seconda parte dell’anno, la congiuntura internazionale è meno favorevole. Quindi non rimane che puntare sul 2015. Ma stavolta facendo davvero qualcosa di significativo: vendere qualche auto blu non basta. E nemmeno distribuire 80 euro. Per ripartire sul serio l’economia vuole vedere la pressione fiscale che scende, decisamente e regolarmente. In misura consistente.   

Nazareno Economico

Nazareno Economico

 Davide Giacalone – Libero

La recessione, confermata dai dati Istat, è una sorpresa solo per chi ha voluto credere alle favole. La contemporanea crescita della produzione industriale non smentisce quel quadro fosco, semmai conferma che scivoliamo perché continuiamo a mettere sulle spalle dell’Italia che corre la zavorra insopportabile dell’Italia inerte. Della seconda fa parte anche una politica tutta concentrata nel mostrarsi dinamica su temi che, nel migliore dei casi, daranno frutti in un tempo troppo lungo. Al contrario di quanti non riescono ad accettare l’idea stessa che esista un patto fra Renzi e Berlusconi, pertanto, a me sembra che quello sia destinato a restare roba politicista, se non sarà in grado di estendersi alle scelte economiche. Serve un Nazareno dell’economia. Altrimenti il primo sarà solo una parentesi nel nulla.

Ne trovo conferma nelle parole di Pier Carlo Padoan, che, rispondendo alle domande di Roberto Napoletano, si mostra ripetutamente stralunato e isolato. Assicura, il ministro dell’economia, che non supereremo il 3% del rapporto fra deficit e prodotto interno lordo. Il direttore del Sole 24 Ore, gli chiede, incredulo, come questo sia possibile, visto che la spesa corre, il debito sale e il pil scende. Risponde: «In base alle informazioni che ho adesso …». Siamo ad agosto, mancano quattro mesi alla fine dell’anno. Se quelle informazioni sono esatte, ci dica quali sono e in che consistono. Se sono campate per aria vuol dire che al ministero dell’economia guidano bendati. In ogni caso, il tema della stagnazione recessiva non è un esclusivo problema di contabilità pubblica, lo scivolare indietro e il non riuscire a far presa sul terreno e riprendere a camminare, non è un malanno solo dal punto di vista dei parametri e dei conti statali, è un dramma collettivo, un danno economico, un segno che il guasto è profondo. E mentre sui numeri statali si può raggiungere un qualche accordo (ci credo poco), o anche barare (non è bello, ma neanche nuovo), i conti con la realtà non si possono eludere. Non ho visto la faccia di Padoan quando il capo del governo di cui fa parte, Matteo Renzi, ha detto che punto più punto meno, cosa volete che cambi, oppure che l’estate, prima o dopo, arriva (affermazione inesatta anche dal punto di vista meteorologico). Non l’ho vista, ma la immagino.

Dice, Padoan, che si deve accelerare sulle riforme. Vero. Ma quali? Quella del Senato arriverà a compimento, in un epico scontro fra chi sostiene che nulla si deve toccare e chi ritiene che basta deformare per poter dire che è bello cambiare, nella prossima primavera. Quando sarà arrivata non servirà a nulla, senza passare da uno scioglimento del Parlamento. Sono tempi manco parenti di quelli dell’economia. Ma, dice Padoan, conta la riforma del mercato del lavoro. Vero. Ma quale? Si rende conto che, fin qui, siamo solo a un decreto sui contratti a tempo determinato? Senza contare che lo si è fatto passare dicendo che non intacca l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, il che, a parte che lo ignora, supera e seppellisce, dimostra una dipendenza ideologica da un conservatorismo che non possiamo permetterci. Per il resto, al momento mancano anche solo i progetti. Poi c’è la riforma della pubblica amministrazione, dice Padoan. Vero, ma dimostra il contrario di quel che lui crede: nel corso di quella discussione non solo una maggioranza parlamentare, ma il governo stesso di cui fa parte, per bocca di ministri, sottosegretari e del suo presidente, festeggiavano l’idea di mandare anticipatamente in pensione i dipendenti pubblici, in modo da assumerne altri. Supporlo significa non avere capito nulla di quel che ci accade. È vero che a fermare questa roba è stata la Ragioneria generale dello Stato, quindi un’amministrazione che dipende da Padoan, ma ciò ripropone la dicotomia dissociata fra chi imposta la politica e chi garantisce i conti. Fatto non nuovo e comunque pessimo. A questo aggiungete che Padoan dice di apprezzare molto il lavoro di Carlo Cottarelli, spettacolarmente scaricato da Renzi, e avrete composto l’immagine di un ministro isolato. Quasi estraneo al governo. Come se ce lo avesse messo un altro. Che è proprio quel che è accaduto.

Alcune cose sono state realizzate, dice Padoan, come la delega fiscale. Vero, ma dimostra che serve un Nazareno economico. Perché quella delega è stata resa possibile anche dal lavoro di Daniele Capezzone, in qualità di presidente dell’apposita commissione parlamentare, esponente dell’opposizione. È la conferma di quel che sosteniamo, da mesi.

Non mi disturba affatto l’esistenza del Nazareno. Sostengo, però, che l’equivoco va chiarito al più presto: se porta alle elezioni, per consentire a Renzi di restare capo del partito maggioritario e a Berlusconi di restare dominus di quello indispensabile affinché il primo non pedali a vuoto, allora ci si deve sbrigare; se, invece, punta alla legislatura, allora deve allargarsi all’economia. Altrimenti diventerà un patto fra incoscienti, incapaci e disperati.

 

Ma quale Paese vuole Renzi?

Ma quale Paese vuole Renzi?

Roberto Napoletano – Il Sole 24 Ore

«Ma Renzi le cose le fa o non le fa?». Questa è la domanda di oggi. Dopo il 40,8% nell’urna, un risultato politico storico che ha dato forza alla speranza, è arrivato il meno 0,2% del pil che segue il meno 0,1% del trimestre precedente e fa ripiombare l’Italia in recessione, con una stima annua di meno 0,3%. Alla domanda che tutti si pongono, dai vecchi saggi dell’Europa alla comunità degli investitori, imprese, famiglie, giovani, da ieri non fa più seguito la positiva attesa di qualche mese fa, ma un’aspettativa di semplice attesa. La capacità di Renzi e del suo ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, deve essere quella di agire, alla voce fatti, prima che questa aspettativa neutra si trasformi in un sentimento comune (pericolosissimo) di attesa negativa. Potremmo dire (Ritorno alla realtà, 16 maggio, Il coraggio della verità, 11 luglio) che siamo stati facili profeti, ma non lo faremo. Abbiamo l’interesse esattamente contrario: sappiamo quanto sia vitale che il Paese riparta, lo vogliamo come italiani, sappiamo che qui ci sono le competenze per cambiare con le proprie teste e con le proprie mani.

Servono investimenti interni ed europei, pubblici e privati, quelli veri, quelli possibili, non la farsa dei 43 miliardi annunciati all’Expo parlando dello sblocca-Italia. Serve un disegno di sviluppo condiviso che metta al centro l’investimento e Renzi deve dimostrare di averlo e di essere capace di realizzarlo. Mille giorni, bene, ma per fare che cosa? Chi ci osserva da fuori vuole capire se l’Italia è in grado di gestire situazioni difficili e la risposta non può non essere un disegno organico di azioni che riguardano l’economia e vengono comunicate e attuate in tempi certi. Con le risorse destinate al bonus di 80 euro, si poteva dare una scossa seria agli investimenti scegliendo la strada prioritaria di abbassare in modo significativo l’Irap, gli investimenti “producono” lavoro e consumi, ciò di cui si ha più bisogno. Non si è fatto e oggi i dati dell’Istat certificano che è, soprattutto, la caduta degli investimenti ad averci riportato in recessione. La linea di provvedimenti del fare del governo Letta (bonus per l’edilizia e altro) va proseguita e rafforzata. Non pensate che siano piccole cose, il pil si nutre di bonus che si ripagano. Si agisca, come promesso, su mercato del lavoro, riforma fiscale, macchina dello Stato e giustizia, a partire dalle due emergenze assolute che sono il civile e l’amministrativo. Sulla spending review si operi non con la logica del taglione (tolgo da qui e metto lì) ma con quella di un recupero di efficienza che riduca stabilmente i costi dello Stato. Queste sono le priorità, non le riforme istituzionali, che sono ovviamente importanti, ma vengono un attimo dopo e vanno messe a punto in Parlamento, consentendoci di uscire dalla trappola del bicameralismo perfetto evitando nuovi gattopardismi su ruolo e peso delle Regioni. L’urgenza è l’economia e guai se i mercati si dovessero convincere che chi ci governa sottovaluta. Il tema del debito pubblico e delle privatizzazioni si affronti con pragmatismo senza lasciare nulla di intentato, ricordandosi, però, sempre che la via maestra è quella di recuperare la strada della crescita.

Sia chiaro: la metà dei problemi non è colpa nostra. I troppi focolai di crisi geopolitica (Russia-Ucraina, Israele-Palestina, Siria, Iraq, Libia) frenano la crescita mondiale e chiudono fette di mercato per le nostre esportazioni, ma anche per quelle tedesche. Il vero rischio che corre l’Europa è quello di non prendere atto che, così com’è, la Germania non riesce ad essere una forza propulsiva per sé e per gli altri, manca il traino del suo mercato interno. Oggi, però, la Commissione è in stallo, la Bei non funziona come dovrebbe, la politica monetaria ha fatto e farà tutto il possibile per evitare la deflazione iniettando tanta liquidità in giro, ma perché la ripresa riparta ci vuole almeno una domanda potenziale. Per questo l’Europa sarà chiamata, nei tempi che riuscirà a darsi, a promuovere con forza un vero New Deal, dovrà dotarsi di un esercito e di una politica estera comuni. Per noi e per la nuova Europa in costruzione sarà vitale che il governo Renzi raddoppi gli sforzi e alimenti un circolo virtuoso di investimenti-aspettative-fiducia che si trasmette alle imprese e alle famiglie facendo sì che ritorni la voglia (sana) di spendere. Si deve percepire che ci sono il disegno e la reale volontà di attuarlo uscendo dalla logica del colpevole (l’Europa, la banca, il burocrate e così via) che aumenta i voti nell’urna, ma non risolleva l’economia.

Perché siamo gli ultimi della classe

Perché siamo gli ultimi della classe

Mario Deaglio – La Stampa

Perché mai quando il resto del mondo ricco si prende il raffreddore, l’Italia rischia la polmonite? Perché mai, gli altri Paesi fanno passi avanti, sia pure con fasi alterne, sulla via della ripresa mentre l’Italia si conferma sempre l’ultima della classe, pur avendo fatto molti sforzi negli ultimi anni? Questo interrogativo è riproposto con forza da una discesa superiore alle attese del prodotto lordo italiano. Indebolisce l’euro sui mercati finanziari, pone fine alla «luna di miele», breve oltre che tempestosa, tra governo e Paese, si riflette immediatamente sulle valutazioni che la finanza internazionale compie sul debito pubblico italiano, facendo aumentare il temutissimo «spread», vero termometro della nostra debolezza.

Per cercare un risposta occorre separare i dati dalla retorica dello sfascio. Tenendo anche conto dell’imprecisione delle misurazioni statistiche, i dati confermano un quadro di stagnazione assai più che denunciare un grave peggioramento; l’economia italiana non sta affondando. Si tratta però di un vecchio barcone che galleggia a fatica, pur presentando al suo interno segnali di ripresa, differenziati tra settori e regioni, che non riescono a rafforzarsi in maniera decisiva. La domanda interna ha tenuto e il rallentamento dell’economia deriva pressoché esclusivamente dal rallentamento delle esportazioni che ci hanno mantenuto a galla per tanto tempo. Non bisogna cedere a suggestioni troppo negative, alle reazioni a caldo di mercati finanziari che hanno sbagliato troppe volte. Tutto questo è corretto, ma sarebbe superficiale e anche irresponsabile cavarsela così. Ci sono alcune lezioni sgradevoli che il governo e l’opinione pubblica devono meditare.

La prima lezione è che la recessione passerà quando passerà la paura degli italiani. Le famiglie italiane – nel loro complesso e tenendo conto di situazioni di crescente disagio reale – hanno le risorse per dare una forte spinta positiva alla domanda interna effettuando i normali consumi che le loro finanze sono in grado di sostenere. Preferiscono invece aumentare i risparmi perché influenzate dal taglio negativo delle notizie economiche. Le riprese vere non avvengono per magia. Non si può pretendere che quelle riforme approvate dopo vent’anni di immobilismo agiscano in circa trenta settimane di un nuovo governo. Si tratta di un processo lungo e duro che oltre ai tecnicismi richiede l’ottimismo. Senza ottimismo, senza progettualità, senza piani aziendali e piani di vita personali è difficile che ci sia davvero una ripresa che vada al di là di un rimbalzo tecnico. Il governo deve prendere atto che, pur avendoci provato e pur godendo di un largo e sostanziale consenso, quest’ottimismo non è (ancora?) riuscito a suscitarlo.

La seconda lezione è che le cose non si cambiano con sforbiciate più o meno lineari sulla spesa pubblica e con la distribuzione a pioggia di piccoli benefici fiscali. Le cose cambiano davvero solo se esistono vere politiche di cambiamento: lo sapeva anche la signora Thatcher che, con tutto il suo iper liberismo, impostò con decisione alcune linee guida per lo sviluppo dell’economia britannica. Queste linee sono carenti nel programma del governo – che ha dato prova in questi giorni di voler tornare ad antiche abitudini di spesa che sono alla base del nostro debito pubblico – ma, quel che è peggio, sono pressoché totalmente assenti nel dibattito politico. Non possiamo rilanciare davvero l’economia se non abbiamo un’idea, per quanto approssimativa, del tipo di Paese che vorremmo che l’Italia diventasse tra dieci o vent’anni e se non la perseguiamo con coerenza e decisione.

La terza lezione è che questi cambiamenti sono intrinsecamente dolorosi, proprio perché sono dei cambiamenti. L’esperienza politica – e in particolare quella parlamentare – dell’ultimo anno mostra una grande diffusione della convinzione che i cambiamenti devono soprattutto riguardare gli «altri». Per non modificare la propria situazione – giusti o sbagliati che siano i cambiamenti proposti – piccole categorie di lavoratori sono disposte a bloccare tutto, come si è visto con un’importante prima teatrale e con il servizio bagagli dell’aeroporto di Fiumicino. Se non si è disposti a cambiare non si riparte. È questa la vera lezione dei brutti dati economici del secondo trimestre.

Il Paese soffocato

Il Paese soffocato

Nicola Porro – Il Giornale

Ieri l’Istat ha certificato che l’Italia è tornata in recessione: la sua ricchezza diminuisce. Negli ultimi tre anni non ci eravamo ancora accorti di esserne usciti. Oggi gli economisti ci spiegheranno perché. Non ascoltateli. La gran parte sono diventati come i becchini, ci spiegano semmai perché il paziente è deceduto a tragedia avvenuta. Bella forza.

Ci permettiamo di fare un elenco micro (economico) per far capire come mai le questioni macro (economiche) non girano per il verso giusto. Tutti si affannano a parlare di numeri (macro), ma il problema è di comportamenti. È del tutto evidente che il buon senso, pensando all’attuale premier, ci sia, ma che per paura del senso comune venga sconfitto. Andiamo per ordine.

Il Pil non cresce perché a quattro sindacalisti si permette di bloccare i bagagli dell’Alitalia, a un violinista e qualche suo socio si consente di fermare le rappresentazioni dell’opera di Roma e alla minoranza dei metalmeccanici è stato consentito di mettere in discussione in tribunale le decisioni di Marchionne sulla Fiat. Chiaro? Siamo un po’ duri e antisindacali? E chissenefrega di questo senso comune. Il buonsenso dice che l’occupazione la creano le imprese e che la parte debole e da tutelare oggi siano loro.

Il Pil non cresce perché un guru della cultura italiana, Setis, scrive su Repubblica che è disgustato dalle file al Louvre; perché un vicepresidente emerito della Corte costituzionale, Maddalena, scrive che i giovani che occupano il Teatro Valle sono dei volenterosi; perché invece di ringraziare uno come Della Valle che ha messo qualche milioncino per pulire il Colosseo lo abbiamo ostacolato in tutit i modi; perché il sindaco Marino ha trovato un paio di milioncini per la festa dell’orgoglio Rom e non un euro bucato per celebrare i 2000 anni del mausoleo di Augusto. Siamo un po’ tranchant? Se aveste un albergo a Roma, pagando una supertassa di soggiorno, e dovendo difendere i vostri clienti dagli assalti alla stazione Termini, la pensereste come noi. Se vi fate un mazzo così e vi dicono che i vostri tavolini a piazza Navona sono illegali, e nel frattempo si dà spazio a bivacchi di evasori totali con borsette di marca ma false, be’ allora il vostro spirito sarebbe simile al nostro.

Il Pil non cresce perché siamo riusciti a indagare Finmeccanica, una delle nostre poche industrie manifatturiere, e poi dopo qualche anno ci siamo accorti aver esagerato. Abbiamo praticamente ucciso, senza ancora una sentenza che sia una, una delle più importanti industrie siderurgiche europee, come l’Ilva. Non trivelliamo l’Adriatico dove c’è un mare di petrolio e 15 miliardi di investimenti privati da fare perché si rovinerebbe il panorama. La Regione Toscana ha di fatto messo per strada 20mila lavoratori delle cave di marmo, le stesse del monte Altissimo di Michelangelo, per fare un parco naturale. Un grande scultore come Giovanni Manganelli ha definito il nostro sfruttamento di quelle aree come un misero graffio su montagne impetuose. Un altro regalo ai nostri concorrenti.

Il Pil non cresce perché dobbiamo aderire all’embargo dell’unico Paese che ha una buna dose di miliardari che ci amano, come la Russia; perché abbiamo spernacchiato l’intesa con la Libia di Gheddafi subendo le prevaricazioni dei francesi e oggi facciamo fatica con i nostri interessi là, mentre siamo inondati di clandestini qui; perché al nostro ministero della Sanità si occupano del colore della pelle della fecondazione eterologa e non della peste suina in Sardegna che ci impedisce di esportare i nostri insaccati in ricchi mercati esteri. Il buonsenso direbbe che la nostra politica estera sia rivolta a fare business, noi pensiamo a utilizzarla per liberare un posticino all’interno del governo per procedere ad un possibile rimpasto.

La lista, incompleta, potrebbe durare molto. E chi attribuisce al solo premier Renzi la colpa della recessione fa un gioco miope. Certo era meglio piazzare i dieci miliardi di sgravi fiscali alle imprese. Ma non sarebbe bastato comunque a raddrizzare il legno storto della nostra economia. Ha ragione il premier a perseguire con forza riforme istituzionali che spuntino i poteri delle regioni e rendano l’esecutivo più forte e il bicameralismo più debole. Ma la vera battaglia per riprendere a crescere è quella del buonsenso. È riprendere a credere che i quattrini e l’occupazione vengono fatti solo dalle imprese e che lo Stato deve fare di tutto per metterle nelle condizioni di competere al meglio. Meno tasse certo, ma è tutto il resto che oggi ci soffoca. Prima l’impresa e poi lo Stato, prima l’individuo e poi il burocrate e la sua norma.

Bagno nella realtà

Bagno nella realtà

Dario Di Vico – Corriere della Sera

È andata peggio del previsto. I dati Istat ci restituiscono l’immagine di un Paese in recessione. Lo 0,2 in meno di Pil rispetto al trimestre precedente è una botta e non ha senso tentare di minimizzare. Una botta che azzera i segnali di cauta speranza che pure venivano da settori industriali vivaci (macchine utensili, occhialeria), dai territori più dinamici (Padova, Vicenza e l’Emilia), dall’indice di fiducia delle imprese e persino dagli ultimi dati sull’occupazione. La verità è che in questi anni sono state le esportazioni a salvare il Paese e quando qualcuno dei mercati-chiave per i nostri prodotti batte in testa i riflessi negativi sull’Italia sono immediati. Poi, che la misurazione a mezzo Pil non sia uno strumento perfetto e che i meccanismi di previsione/valutazione siano invecchiati davanti agli sconvolgimenti della Grande Crisi è più che un’ipotesi, che vale anche per economie come l’inglese e la spagnola che comunque crescono.

Sul breve però dobbiamo capire che cosa questo dato ci comunica e individuare un percorso per uscire dallo stallo. Cominciamo sgomberando il campo da un equivoco: la comunicazione governativa sta esagerando nel danno di immagine procurato ai gufi, che sono animali miti, saggi e considerati nel Medioevo come dei portafortuna. Non è colpa loro se l’effetto Renzi ha una provata efficacia nella raccolta del consenso (il Pd oggi è valutato attorno al 42%) ma non si trasmette all’economia. Del resto è dal tempo di Pietro Nenni che dovremmo sapere che non esistono le stanze dei bottoni, tanto più in presenza di economie che si sono autonomizzate, globalizzate e che usciranno dalla recessione diverse rispetto a come sono entrate. Un’amministrazione responsabile però ha alcuni doveri. Primo: evitare la bulimia legislativa e curare meglio l’accompagnamento dei provvedimenti che sceglie o ha ereditato.

Degli 80 euro finora non abbiamo usufruito in termini di crescita del mercato interno causa le tante tasse da pagare, dei provvedimenti di politica industriale spicciola varati anche dai governi Monti e Letta veniamo a sapere che per la maggior parte sono fermi causa la mancanza di decreti attuativi e il rimpallo di carte tra ministero dello Sviluppo e Tesoro. Potremmo continuare, la fenomenologia è ricca e persino gli addetti ai lavori fanno fatica a districarsi tra i tanti decreti/pacchetti annunciati e solo formalmente approvati. Nella confusione normativa e nella delusione da Pil calante c’è il rischio di buttare al macero gli ultimi mesi del 2014: siccome le previsioni ci dicono che incroceremo la ripresa solo nel 2015 potremmo cadere nella tentazione di un ritorno dalle ferie a bassa intensità. Si provi, invece, a imbastire accanto a quello europeo un semestre italiano. Chiamando alla mobilitazione e alla responsabilità tutte le componenti dell’economia. Anche tra loro serpeggia la disillusione, si accontentano di compilare periodicamente i quaderni delle lagnanze e non prendono invece veri impegni. L’hashtag per loro è #inclusione.