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“Garanzia Giovani” labirinto burocratico: ogni offerta di lavoro è costata 58.700 euro

“Garanzia Giovani” labirinto burocratico: ogni offerta di lavoro è costata 58.700 euro

Emanuela Micucci – Italia Oggi

Garanzia Giovani sale a quota 273.124 iscrizioni, di cui 76.003, il 28%, sono giovani presi in carico e profilati. Mentre 29.229 sono i posti di lavoro disponibili. Un trend, quello delle registrazioni, salito negli ultimi due mesi a 50mila iscrizioni al mese, come ha sottolineato in Commissione Lavoro del Senato il ministro del Lavoro Giuliano Poletti indicandolo come «un buon risultato».

Dedicato ai 2.254.000 giovani tra i 15 e i 29 anni che né studiano né lavorano (i Neet), di cui circa 1,27 milioni hanno fino a 24 anni e tra questi 181mila sono stranieri, cioè il 21% dei ragazzi di questa fascia di età, il programma Garanzia Giovani «più che uno strumento efficace per offrire concrete opportunità di lavoro a centinaia di migliaia di giovani italiani, si è purtroppo rivelato un labirinto burocratico che non conduce da nessuna parte», osserva il Centro Studi ImpresaLavoro nella ricerca “Il labirinto della Garanzia Giovani” (www.impresalavoro.org). Analizzando i report periodici del ministero del Lavoro dall’avvio del programma (il 1 maggio scorso) fino al 9 ottobre, quando vi avevano aderito 250.770 giovani, di cui 59.150 sono stati poi effettivamente presi in carico dal sistema Garanzia Giovani ed erano stati offerti 25.747 posti di lavoro. Numeri leggermente aumentati a fine ottobre, come riportiamo in apertura del nostro articolo, ma che sostanzialmente confermano la conclusione di ImpresaLavoro: ogni ragazzo preso in carico è costato sin qui 25.600 euro e ogni offerta di lavoro ci è costata finora la somma ragguardevole di 58.700 euro.

«Sulla base dei dati sui Neet – spiega Giancamillo Palmerini, curatore della ricerca – il nostro Pese riceverà infatti risorse, a titolo della YEI (Youth Employment Initiative) pari a circa 567 milioni di euro. A questi si dovrà sommare un pari importo a carico del FSE, oltre al co-finanziamento nazionale. La disponibilità complessiva del programma sarà, pertanto, pari a circa 1.512 milioni di euro». Risorse su cui è intervenuto Poletti in Commissione Lavoro al Senato, indicando in 1,5 milioni la platea massima potenziale di giovani e in 900mila quella ragionevole, ma precisando che le risorse disponibili sono in grado di garantire il servizio potenzialmente a 400-500mila giovani». A oggi, ha aggiunto, «complessivamente sono stati impiegati 561 milioni di euro».

Secondo l’analisi di ImpresaLavoro, la maggior parte delle occasioni di lavoro è concentrata al Nord, ben il 71,7%, contro il 14,3% al Centro e il 13,9% al Sud mentre quelle all’estero rappresentano solamente lo 0,1%: percentuali rimaste invariate nel corso del mese.

Le tessere sindacali sono gonfiate

Le tessere sindacali sono gonfiate

Cesare Maffi – Italia Oggi

La polemica sui tesserati pretesamente falsi della Cgil ha riportato l’attenzione sui numeri milionari, ma altresì un po’ ballerini, degli iscritti ai sindacati. L’ultimo intervento al riguardo risale al febbraio 2012, quando una confederazione autonoma, la Confsal, denunciò la forte discrepanza esistente fra pensionati sindacalizzati certificati dall’Inps e pensionati dichiarati come iscritti dalle centrali sindacali. ItaliaOggi ne diede notizia (23 febbraio 2012): «Sindacati, oltre 3 milioni di tessere gonfiate». Quasi un milione e mezzo di differenza era riscontrato fra dati ufficiali e dati sindacali, con un’accentuata discordanza per l’Ugl. Ovviamente le altre confederazioni elevarono fiere proteste, in particolare appunto l’Ugl. A proposito di quest’ultima confederazione, sarà opportuno ricordare un curioso precedente.

Negli anni sessanta il Corriere della Sera, in un’inchiesta dedicata alle confederazioni sindacali, sparò una cifra: un milione di lavoratori era organizzato dalla Cisnal (la progenitrice dell’Ugl). Ovviamente i dirigenti della Cisnal furono ben lieti del numero attestato da una fonte autorevole, ma si trovarono in imbarazzo negli anni successivi. Infatti non poterono né serbare intatto quel livello né, ancor meno, denunciare una cifra minore. Furono quindi costretti a far lievitare i propri iscritti (quelli denunciati pubblicamente, non quelli veri), fino a raggiungere, sotto Renata Polverini, cifre plurimilionarie, che il segretario della Uil con un amichevole rabbuffo alla collega definì fantasiose.

Se nel settore pubblico vi sono dati di riferimento più solidi, come le deleghe sindacali o i voti nelle elezioni interne (questi ultimi non riguardano i soli tesserati), nel settore privato non può esservi alcuna certezza. Ecco quindi le differenze, di quando in quando ribadite, fra cifre denunciate per un fine e cifre segnalate per un altro. Un fatto è certo: la forza numerica dei sindacati dei lavoratori sta negli ex lavoratori, vale a dire nei pensionati.

L’inghippo sta nelle deleghe rilasciate dai pensionati nel momento in cui lasciano il lavoro: permettono l’automatica riscossione mensile sui ratei di pensione, attuata dall’Inps. Un esperto come pochi altri di faccende sindacali, quale Giuliano Cazzola, ha già indicato la strada per affamare le centrali sindacali: vietare all’Inps la riscossione permanente delle deleghe sindacali (ItaliaOggi, 17 ottobre). Obbligare a deleghe rilasciate anno per anno vorrebbe dire, fuor di dubbio, fornire il destro a centinaia di migliaia di pensionati di revocare, di fatto, l’autorizzazione a riscuotere i contributi sindacali.

Troppe tasse sulle casse private

Troppe tasse sulle casse private

Italia Oggi

La legge di Stabilità 2014 non perdona le Casse di previdenza private. Almeno nella stesura bollinata dalla Ragioneria di Stato e ora in discussione in Parlamento, la politica di maggiore spending del governo Renzi viene finanziata anche da un prelievo maggiore nel settore della previdenza a favore dei liberi professionisti, le cui rendite vengono tosate presumibilmente al 26%. Se fosse così, la tassazione avrebbe avuto una escalation senza precedenti nella storia sociale del nostro Paese: dall’11,5%, poi al 12,5%, poi al 20% con il Governo Monti e ora in predicato di schizzare al 26%. Casse strizzate il doppio nel giro di pochissimi anni.

«È chiaramente negativo il mio giudizio sui provvedimenti che il Governo è intenzionato ad adottare», afferma Valerio Bignami, presidente Eppi, che giudica con decisione il testo della manovra in approvazione. Non solo non si elimina il sistema di «doppia tassazione», non solo non si armonizza la tassazione sui rendimenti finanziari tra le Casse di previdenza private e i Fondi pensione complementari al 13% come ipotizzato solo quest’estate dal ministro del Welfare Poletti, non solo non si diminuisce l’imposizione fiscale, ma la si aumenta in modo considerevole. «È sconcertante e assolutamente imbarazzante», continua Bignami, «constatare che, ancora una volta, abbiamo un Governo il quale, invece di operare provvedimenti strutturali di vero e profondo mutamento, opta per scelte episodiche di emergenza che mai potranno contribuire al cambiamento radicale invocato dal presidente del consiglio Matteo Renzi. È come sparare sulla Croce rossa». Le conseguenze di una maggiore tassazione sono evidenti nell’intervista al professor Paolo de Angelis, uno dei relatori al prossimo Congresso straordinario dei periti industriali, che spiega come minori rendite comportano un sostanziale addio alle politiche di maggior adeguatezza delle pensioni.

Hai voglia a dire che il metodo contributivo non è generoso: se il governo taglia le rendite, le pensioni dei liberi professionisti resteranno a livelli al limite della dignità. Il sottosegretario all’Economia Baretta getta acqua sul fuoco, auspica un dibattito in Parlamento e insomma fa il suo mestiere: se i conti sono in difficoltà, bisogna raddrizzarli in qualche modo. Però, semplificando la questione, tagliare i fondi del Welfare significa bruciare i mobili di casa per ripararsi dal freddo: dopo che cosa rimane da fare? Quei soldi tagliati andrebbero non soltanto a sostenere le pensioni dei liberi professionisti, ma anche a finanziare politiche di investimento nell’economia reale: comporta avere meno risorse per far ripartire l’economia, oltre, ovviamente, ad inasprire gli animi. «Riguardo il sistema di tassazione doppio su contributi e pensioni, conclude Bignami, ritengo sia giunto il momento di rivolgersi alla Corte di giustizia europea, affinché il sistema fiscale verso le Casse di previdenza, assolutamente unico in Europa, venga finalmente dichiarato illegittimo».

Renzi rimette i sindacati al loro posto, finalmente

Renzi rimette i sindacati al loro posto, finalmente

Massimo Tosti – Italia Oggi

Qualche giorno fa si era diffusa l’opinione che Matteo Renzi parlasse unicamente alla destra del paese: l’intervista compiacente di Barbara D’Urso al premier e l’annuncio (nella sede domenicale di Mediaset) del bonus alle neo mamme avevano confortato questa tesi. Ma Renzi ha di nuovo sorpreso gli opinionisti e gli elettori (di destra e di sinistra), scegliendo il salotto di Lilli Gruber per rimettere a posto i rapporti istituzionali. «I sindacati trattano con gli imprenditori per migliorare la condizione dei lavoratori», ha spiegato. «Il governo è disposto ad ascoltare le proposte dei sindacati tese a migliorare gli indirizzi legislativi dell’esecutivo, ma non tratta con loro». Le leggi, ha precisato, si discutono in parlamento e non con le rappresentanze di categoria. Ha spiegato quella che è una verità assoluta, travolta (purtroppo) 40 o 50 anni fa dalla debolezza dei governanti di allora che accettarono di discutere con i Luciano Lama e i Pierre Carniti (gli antenati delle Camusso, delle Furlan e degli Angeletti) ogni iniziativa della politica (che di fatto abdicava alle proprie prerogative, consentendo ai sindacati di occupare uno spazio enorme che non era di loro pertinenza).

È chiaro che, in questo modo, Renzi ha bacchettato anche i «reduci» del Pd, nostalgici della Cgil «cinghia di trasmissione» del Pci, accorsi a piazza San Giovanni per applaudire la Camusso: loro condividono il giudizio del segretario della Cgil che ha definito «surreale» l’atteggiamento dei ministri, negli incontri dell’altro ieri che si sono dichiarati non autorizzati a discutere con la controparte (arbitraria) il merito della legge di riforma del mercato del lavoro. Lo scenario surreale era quello precedente: quando i sindacati potevano porre veti su ogni decisione della politica. Quella introdotta l’altra sera da Renzi (davanti alla Gruber) è una controriforma istituzionale decisiva, in quanto ripristina i corretti rapporti che devono intercorrere fra i rappresentanti dei lavoratori e lo stato sovrano. Contro il quale si può ricorrere allo sciopero generale quando non si apprezza una legge, ma non si può pretendere di ostacolarne l’approvazione in corso d’opera.

Sulla legge di stabilità un normale caos legislativo

Sulla legge di stabilità un normale caos legislativo

Marco Bertoncini – Italia Oggi

Il tira e molla sulla stabilità rientra nelle usuali riscritture di disegni di legge o addirittura di decreti-legge. Risultano deliberati in una seduta governativa, ma sono generici articolati da completare. È accaduto che siano perfino passate due settimane fra il voto in Consiglio dei ministri e la pubblicazione in Gazzetta di un decreto-legge: l’intervallo di per sé nega la sussistenza del requisito dell’urgenza.

Il dinamismo annunciatorio di Matteo Renzi contribuisce ai pasticci. Il bonus bebè è apparso d’improvviso, a qualche giorno dalla deliberazione del governo; alcuni tratti annunciati sono stati ridimensionati, poi, secondo un meccanismo a fisarmonica caratteristico della legislazione nostrana, riapparsi. I pasticci sono stati accresciuti dalle difficoltà frapposte dalla Ragioneria generale. È sempre avvenuto che il governo assumesse decisioni “salvo intese”, vale a dire riservandosi di approfondire specifici aspetti. Peccato che spesso si tratti di questioni tutt’altro che insignificanti. È avvenuto qualcosa del genere pure col disegno di legge di stabilità: dilatazione delle uscite prive di copertura, ricorso all’indebitamento, velati (ma non tanto) intendimenti tassatori.

Nel parlar corrente continuiamo, anche per ovvie esigenze di sintesi, a riferirci alla “legge” di stabilità. Di fatto, abbiamo avuto più stesure di un “disegno di legge”. Possiamo poi presumere che, com’è avvenuto ieri con la fiducia sul processo civile e con la posizione di fiducia sullo sblocca Italia, le modifiche apportate dalle Camere (e le nuove riscritture dello stesso governo) renderanno solo in parte riconoscibile il testo originale. Meglio: il testo annunciato in origine (senza avere un compiuto provvedimento).

Renzi è solo un disinvolto boyscout o sta cambiando la politica e il Paese?

Renzi è solo un disinvolto boyscout o sta cambiando la politica e il Paese?

Pierluigi Magnaschi – Italia Oggi

Renzi ha fatto macroscopici errori. Basti prendere la riforma del Senato. Aveva in mano una carta clamorosa, quella dell’abolizione completa, pura e semplice, del Senato stesso e l’ha sprecata puntando invece su una sua trasformazione pasticciata che non taglia i costi e, nei fatti, mortifica la democrazia. Ma, accanto agli errori, Renzi ha anche cambiato la politica, dentro e fuori il suo partito. Dentro e fuori anche dal perimetro della politica politicante. E lo ha fatto in un periodo di tempo incredibilmente breve, rispetto ai tempi brontosaurici della politica italiana. Renzi infatti ha conquistato il suo partito da solo un anno ed è al governo da soli sette mesi.

In un paese normale (ma l’Italia, sinora, non lo è stato) la classe dirigente politica apicale viene costantemente rinnovata, dall’andamento delle elezioni. Chi viene sconfitto dal voto, non viene immediatamente riciclato ma torna all’attività privata. Siccome però, in Italia, l’attività politica non è, di solito, una fase della propria vita professionale, ma soltanto l’intera e sola vita professionale di un leader politico, se quest’ultimo soccombe, non può essere mandato a casa perché, non sapendo fare nient’altro, finirebbe ai giardinetti, magari anche in relativa giovane età. La classe dirigente politica italiana è quindi a esaurimento. Non potendoci pensare gli elettori a darle il benservito, è solo la mano di Dio che, a un certo punto, ma per tutti, interviene dicendo: stop.

In un paese normale, l’invasione sovietica dell’Ungheria del 1956, che aveva dato una bella salassata a tutta la nomenclatura comunista occidentale, avrebbe mandato a casa la vecchia classe comunista. Da noi invece quella terribile e illuminante vicenda è passata come l’acqua sulle piume di un’anatra. Il successivo crollo del Muro di Berlino, avvenuto 25 anni fa, ridusse, comprensibilmente, ai minimi termini il Partito comunista francese (Pcf), che pure era stato il secondo più importante partito comunista in Europa occidentale (dopo il solo Pci). Da noi invece il crollo del Muro si è concluso con il cambio del nome del Pci avvenuto alla Bolognina da parte dell’allora segretario Achille Occhetto che infatti, paradossalmente, ma non tanto, fu poi l’unico a essere stato rottamato. A capo del Pci, nelle sue successive diverse sigle, sono rimasti, senz’alcun imbarazzo, gli uomini che si erano formati alla scuola di partito sui sacri testi marxisti, ritenuti per buoni.

Renzi ha dovuto battersi contro questo enorme moloch organizzativo, fatto non solo di parlamentari ma anche di sezioni, di sindacato (Cgil), di coop e soprattutto di enti locali, di Asl, di municipalizzate, di patronati. Una ragnatela immensa di interessi, di consuetudini, di condizionamenti e di posti di lavoro. Il successo di Renzi, che oggi sembra ovvio, ha dell’incredibile. E il fatto che, successivamente, non sia stato divorato dal Pd (che ha tentato di reagire ma non aveva più fiato in corpo) è ancor più inspiegabile. Il merito di questo cambiamento epocale, che è stato radicale ed ormai è anche irreversibile, è tutto e solo di Renzi che, coscientemente o meno, ha colto il momento. Il corpaccione Pd (a gestione Pci, perché questa è la realtà anagrafica del partito) era diventato torpido, indebolito com’era dalla troppa lunga consanguineità, dovuta al mancato ricambio della classe dirigente. Non a caso la sinistra Dc, dai Prodi alle Bindi ai Fioroni, per intenderci, (che ci si era insinuata nel Pd) aveva accettato l’ospitalità della nomenclatura e si era accontentata dello strapuntino offerto da chi aveva in mano le redini del partito.

Ma Renzi ha fatto altro e di più. Ha osato riportare i sindacati alla fisiologia che compete loro, in una società pluralistica, mettendo in riga anche il sindacato che è sempre stato l’azionista di maggioranza del suo partito: la Cgil. Un sindacato che, durante gli anni del centrismo imperante, bastava che accennasse di voler fare (non, facesse) uno sciopero generale, per indurre il governo a dimettersi immediatamente dallo spavento. Era lo stesso sindacato che, in occasione delle Finanziarie, pretendeva di sedersi a fianco del governo per determinarne le scelte. Per rendersi conto del salto di qualità fatto da Renzi e della sua radicale rottura rispetto alle prassi del passato, basti pensare che col governo Ciampi (non secoli fa, dunque) le trattative dei sindacati con il governo durarono per ben 41 giorni. Ciò voleva dire, sul piano simbolico (e, in politica, i simboli sono quasi tutto), che il sindacato, se era in grado di bloccare per 41 giorni l’attività del governo, aveva preso, di fatto, il governo per il collo come se fosse un pollo e lo avrebbe lasciato andare solo quando avesse ottenuto tutto quanto il sindacato voleva ottenere da esso. Ora, se il sindacato (che rappresenta solo i suoi iscritti; che, tra l’altro, sono enormemente gonfiati) ha la meglio sul governo, che rappresenta invece la maggioranza di tutti gli elettori, ciò significa che è stata alterata (nei fatti, in concreto e in profondità) la fisiologia democratica specificamente dettata dalla Costituzione tanto lodata a parole, quanto violata, e per così lungo tempo, nei fatti.

Con i sindacati, Renzi ha subito detto che essi sono degli organismi corporativi (nel senso che rappresentano degli interessi settoriali; legittimamente, intendiamoci bene) e che quindi non hanno nessun titolo per voler cogestire, con il governo, la politica economica che, sempre ai sensi della Costituzione, è di esclusiva competenza del governo stesso. Inoltre, al pari di altri grossi organismi di rappresentanza economica, anche i sindacati confederali hanno il diritto di essere informati dal premier sulle intenzioni del governo. Cosa che è regolarmente avvenuta: Renzi ha convocato le organizzazioni sindacali alle 8 del mattino (uno scandalo, a Roma) e ha finito l’incontro un’ora dopo, a palese e pubblica dimostrazione che si trattava di un incontro per fare una comunicazione, non certo di un incontro per intavolare una trattativa.

Lo stesso atteggiamento, Renzi lo ha assunto anche nei confronti della Confindustria che aveva nutrito, con gli anni, nei confronti del sindacato, e in particolare nei confronti della Cgil, una sorta di sindrome di Stoccolma che è la sindrome che si impadronisce dei sequestrati quando, in occasione dell’assedio della polizia per liberarli, i sequestrati stessi finiscono per solidarizzare nei confronti di chi li tiene prigionieri, contro la polizia che vuole liberarli. La sindrome è inevitabile ma non per questo può essere accettata. Questa complicità (al posto della salutare conflittualità fra sindacati e datori di lavoro) era infatti il frutto rancido della passata concertazione quando sindacati e imprenditori, quando non riuscivano a mettersi d’accordo, chiedevano (e ottenevano) di far mettere dal governo, la parte che mancava, affinché potesse essere raggiunta l’intesa.

Insomma Renzi, forse senza accorgersene completamente, in questo è molto boyscout, ha tirato già in Italia il Muro di Berlino di un passato che, da noi, non riusciva a passare. Non so che cosa riuscirà a fare in futuro. Ma sicuramente, in sette mesi, sfidando un potere decrepito, ha fatto ciò che nessuno politico era mai riuscito a fare nei precedenti settant’anni.

Nel secolo di Internet tutti in attesa della bollinatura

Nel secolo di Internet tutti in attesa della bollinatura

Massimo Tosti – Italia Oggi

I retroscena sulla mancata «bollinatura» della ragioneria generale dello stato alla legge di stabilità porta ulteriore acqua al mulino di Renzi. Pare che la verifica sulla copertura finanziaria sia stata effettuata da una signora, alto funzionario della ragioneria, incaricata dei rapporti con palazzo Chigi (e delegata anche a partecipare alle riunioni preparatorie del consiglio dei ministri e del Cipe). Il ragioniere generale dello stato, Daniele Franco, si sarebbe irritato per essere stato scavalcato e, quindi, si sarebbe preso il tempo necessario per «bollinare» il provvedimento. Piccole beghe interne all’alta burocrazia, che (non a caso) il premier ha additato tra i responsabili dei ritardi, causati da procedure logoranti, che ostacolano l’azione di governo (e anche le attività imprenditoriali, e persino la vita dei comuni cittadini, costretti a riempire quintali di moduli inutili per sentirsi in regola con la piovra statale).

La «bollinatura», non a caso, è una pratica che risale all’Ottocento, quando il ragioniere generale aveva un bollo di stagno che apponeva sulla legge di bilancio. Erano i tempi di Silvio Spaventa e del pareggio di bilancio: preistoria rispetto alla comunicazione via web ed e-mail e al deficit spending. La burocrazia si muove ancora con la lentezza di centocinquant’anni fa, e dietro l’andatura da bradipo si nascondono anche le gelosie fra gli altri dirigenti. Il presidente Napolitano si è giustamente angustiato quando si è visto recapitare la manovra economica del governo senza i necessari bolli e controbolli, temendo che il governo avesse eluso l’obbligo di sottoporre all’organo di controllo la copertura finanziaria del provvedimento. Ma le cose non starebbero così (stando al gossip successivo).

Renzi esce rafforzato nel suo proposito di semplificare le procedure e di eliminare, per quanto possibile, l’onnipotenza dei funzionari. Quando, una decina di anni fa, Berlusconi denunciava l’impossibilità di governare questo paese, diceva una cosa giusta. Ma aveva il torto di essere l’uomo sbagliato per protestare. Renzi, che gode di un consenso popolare vastissimo, ha la chance di modificare le regole ed evitare le trappole insite in un sistema che fa acqua da tutte le parti.

Capezzone: «Manca una vera proposta di destra»

Capezzone: «Manca una vera proposta di destra»

Goffredo Pistelli – Italia Oggi

Daniele Capezzone non s’arrende alla deriva del centrodestra. L’uomo che fu decisivo, con le battaglie sull’Imu e su Equitalia, nella grande ricorsa di Silvio Berlusconi alle politiche del 2013, s’è messo a lavorare di buzzo buono, con la pazienza e il metodo dei radicali. Da tempo pungola tutti. Pochi giorni dopo la débacle alle europee di maggio, s’era inventato il «software liberale», un ebook in cui mette in file un po’ di idee degne del 1994, anno della rivoluzione berlusconiana mancata. Sabato scorso s’è infilato nella Leopolda blu, raduno milanese di chi vuol riaggregare a destra.

Capezzone, com’è andata a Milano?
«Intanto mi faccia ringraziare chi ha organizzato, a partire da Lorenzo Castellani (una delle anime di Formiche.net, ndr), perché ho trovato molto azzeccate le scelte di fondo».

Vale a dire?
«Che in attesa di altre primarie, quelle politiche, si comincino almeno con le primarie delle idee. L’unica cosa di cui aver paura è l’assenza di un dibattito sulle proposte. E poi, molto giusta mi pare l’indicazione di un modello stile Partito repubblicano americano, con l’ambizione di individuare poche cose ma che possano davvero unire per un’alternativa alla sinistra. Su tutto il resto, poi, ognuno resta con la propria cultura, i libri che preferisce, il background cui è affezionato. Insomma che “i cento fiori fioriscano”».

Come disse il grande nocchiere Mao Tse Tung…
«Sì, per indicare un metodo, anche se questa prassi è molto anglosassone».

Le sue, quali sono?
«Il centro sta nella questione fiscale. E non lo dico per passione liberale, quanto per il bene del Paese. Se ha tempo le do qualche numero con cui, chiunque faccia politica, oggi si deve confrontare».

Avanti…
«Sono dati della Banca mondiale sul Total tax rate, ossia l’indice che riguarda l’imposizione fiscale delle imprese. Bene l’Italia è al 65%, Francia 64%, Spagna 58%, Germania 49, la media europea 41, Gran Bretagna 34 e la Croazia 19».

Beh, cifre impressionanti…
«Aspetti. Ora le do quelle sui fallimenti del primo semestre di quest’anno: sono stati il 10% in più dello stesso semestre 2013. E, se si considera l’ultimo trimestre di quel periodo, cioè aprile, maggio e giugno 2014, quella percentuale sale al 14%».

Dal che, se ne deduce?
«Che ci vuole uno shock fiscale e il centrodestra si deve ripensare su questo. A Matteo Renzi potrei fare mille critiche: ha aumentato le tasse sulla casa, sul risparmio, ora sui fondi pensione e, quando nei prossimi giorni avremo la legge di stabilità troveremo setto-otto tasse occulte…».

E invece, dove lo critica?
«Sulla cosa migliore che farà, se fosse vera, ossia l’intervento sull’Irap, annunciato intorno ai sei miliardi».

Infatti, è sorprendente. E perché lo critica?
«Perché quell’intervento rischia di fare la fine degli 80 euro e cioè di non essere incidente. Mi spiego: gli 80 euro magari sono finiti in affitti arretrati, multe da pagare, conti in sospeso, anziché nei consumi».

E l’Irap in meno?
«Idem, perché gli imprenditori sono già molto in difficoltà. Per questo le dico che quella misura non basta, che ci vuole ben altro. Forza Italia e il centro destra prendano questa bandiera: “Giù le tasse”. E non come parola d’ordine, cui siamo meccanicamente affezionati ma vera esigenza del Paese».

Senta, però per far manovre simili si deve tagliare la spesa clamorosamente, mentre uno dei vostri potenziali alleati, la Lega, vuol addirittura abolire la legge Fornero…
«Dobbiamo decidere se vogliamo solo una curatela fallimentare del centrodestra o il rilancio. Il rischio c’è. Per noi di Forza Italia, per esempio, la tentazione è la gestione dell’esistente. Per il Carroccio, che se la passa meglio, il successo nella marginalità cioè accontentarsi di fare quello che faceva Rifondazione ai tempi del centrosinistra, arrivando sino al 9%, ma scegliendo l’opposizione perenne e rinunciando all’alternativa. Oggi inveece, grazie a B., siamo al bipolarismo».

E cioè?
«Oggi si deve stare o di qua o di là. Anzi, siamo quasi alla referendizzazione del voto: c’è una parte importante che può votare da una parte e poi, la volta dopo, su certi temi, andare dall’altra. Io dico: mettiamo al centro di uno schieramento la proprietà privata, la casa, il risparmio, le tasse e la diminuzione della spesa pubblica e costruiamo l’alternativa a Renzi».

Su questi temi lo battete?
«Già ora. Perché non sta tagliando abbastanza sulle municipalizzate, sugli acquisti dei beni e servizi, su costi standard. E delle tasse le ho già detto».

Capezzone, però voi potete fare le leopolde blu ed elaborare progetti, però dovete fare i conti col «fattore B»., come la vicenda di Raffaele Fitto, che il Cavaliere ha quasi cacciato dal partito.
«Io dico che nelle scelte Fitto ci sia una grande novità positiva. Domandiamoci chi è Fitto?».

Risponda lei…
«È uno che è stato davvero vicino a Berlusconi nelle ore difficili, quando non era facile, non era comodo. Altri, tipo Gianfranco Fini, se ne andarono picconando un governo di centrodestra. Oppure, tipo Angelino Alfano, lo abbandonarono, per mantenere la poltrona ministeriale. Fitto è stato e starà dentro, a fornire idee e proposte. E poi vorrei dire un’altra cosa».

Prego…
«Mi viene in mente Proust, quando parla di quel rimorso che prende scendendo le scale, dopo un incontro, quando non si è detto tutto quello che si pensava. Non dobbiamo aver quel rimorso: ognuno deve offrire tutta intera la propria opinione.

Cioè, lei dice che il Cavaliere accetterebbe…
«È una persona lungimirante e rispettosa, molto di più dei consiglieri che ha intorno. Rifletterà su questi temi e vedrà che ha ancora una missione da compiere: costruire il partito gollista in Italia. D’altra parte, essendo colui che ha reso fisicamente possibile il bipolarismo, può dare un contributo anche qui».

Però c’è il nodo del Patto del Nazareno. Lei pensa che non esista, come dice Giuliano Urbani, e che B. veda davvero in Renzi un continuatore di certe sue idee, vent’anni dopo?
«Non sono interessato ai retroscena, meno che mai a letture maliziose, maligne o malpensanti. Dal punto di vista di Renzi starei attento però: rischia di essere egemone ma, per le ragioni economiche richiamate prima, rischia di esserlo fra le macerie. Come diceva Rino Formica, c’è qualche intrattenimento del pubblico e il Paese va come va».

Qualche problema, questo premier ve lo crea, non lo neghi.
«È evidente che non è facile avere a che fare con un leader diverso, che ci sfida in campo più moderno dei suoi predecessori. Prima la sinistra era solo tasse, Cgil e manette. Ora c’è un leder che si tira fuori da quella trimurti, anche se magari, a guardar bene, non sempre e non del tutto. Però, a maggio del 2014, ci sono stati nove milioni di italiani che non ci han votato più o si sono astenuti: partite Iva, imprenditori, professionisti che riconoscono in Renzi uno che ha archiviato il Pci ma che voterebbero una proposta di destra, subito».

Lei dice bene, ma intanto domenica Renzi ha fatto il pieno di audience nell’ammiraglia di Mediaset, Canale 5, in una delle trasmissioni che più berlusconiane non si può, il salotto di Barbara D’Urso, con una proposta che piace tanto a moltissimi vostri elettori: il bonus bébé.
«Che le devo dire, spero solo che prossimamente a Renzi non si affidata anche la conduzione del Tg5 delle 20».

Caustico, lei.
«Ma no, è un battuta. Il lavoro che vogliamo fare va aldilà dell’episodio di giornata. Ricordo anche io prime pagine del Giornale inneggianti a Renzi e delle reti Mediaset abbiamo sorriso anche in una recente riunione di presidenza di Forza Italia».

In che senso?
«Nel senso che ho ricordato al presidente come i tg di Mediaset avessero fatto cronaca politica quest’estate».

Ce lo ricordi…
«Un servizio di 2-3 minuti sulle attività del governo, quindi il pastone politico di tutti e poi, in coda, 15 secondi ad esponenti di Forza Italia che dicevano, in pratica, di essere lieti protagonisti dell’azione governativa e di dialogare con Renzi».

E Berlusconi?
«Ne ha riso anche lui. Con una copertura così, c’è solo da stupirsi che il premier non sia più alto nei sondaggi. Ma il tema non è la rivendicazione centimetrica di pagina di giornale o spazi tv. Bisogna fare come Andrea Pirlo».

Pirlo?
«Massì, alzare la testa, guardare il gioco. Qui si tratta dei prossimi cinque o dieci anni. Merito a Fitto, allora, di aver posto la questione, merito alla Leopolda Blu d’aver iniziato il dibattito».

In questo nuovo centrodestra, c’è posto anche per Corrado Passera che, nel frattempo, se ne è autoproclamato guida?
«Chiunque è il benvenuto. Nessuno può dire «no tu no» a nessuno. Quelli che lo dicono alla Lega, a Fratelli d’Italia, a Passera non hanno capito niente. Ma guai a fare, verso Renzi, l’errore che ha fatto la sinistra verso B. e cioè fare solo a tavoli, in stanzette chiuse, con dieci partitini che partoriscono non si sa cosa».

Ottimisti nel mungere l’evasione

Ottimisti nel mungere l’evasione

Domenico Cacopardo – Italia Oggi

Da oggi, in mare aperto, esposti ai refoli di burrasca e ai momenti di bonaccia. La nostra barca è vecchia, lo scafo è corroso e tante incrostazioni impediscono di navigare regolarmente. Così, la rotta che l’attuale capitano ha impostato (legge di stabilità) si presta a numerose critiche. Esse non possono essere risparmiate a chi promette di condurci fuori dall’area di rischio e di rilanciare la boccheggiante economia. Prima di tutto facciamo ammenda dei rilievi rivolti al sottosegretario Delrio a proposito dell’evasione fiscale e della sua importanza nella manovra. Diceva la verità. Come si faceva in passato, alla fine, se, per esempio, mancavano duemila miliardi di lire per quadrare i conti, si inserivano duemila miliardi di ricavi da lotta all’evasione e il problema era risolto.

Nella legge di stabilità Renzi-Padoan (più Renzi che Padoan) ci sono 3,8 miliardi di lotta all’evasione. Tanto per dare un’idea precisa a chi ha più di cinquant’anni, qualcosa come 7.600 miliardi di vecchie lire. Chi ha appostato questa somma o era in preda a ubriachezza molesta o era in malafede. Propendo per la seconda ipotesi ed è un’aggravante. 3,8 miliardi di lotta all’evasione sono la più palese testimonianza di assenza di realistiche analisi della situazione della nostra economia e degli strumenti di cui dispongono le autorità.

La seconda posta deludente riguarda i tagli ai trasferimenti alle regioni e ai comuni e alle spese dei ministeri, all’interno del capitolo spending review. «Sostiene Pereira» (Renzi) che sarà nell’autonomia dei soggetti percossi dove e come tagliare. In questo modo, si dà la zappa sui piedi: in sostanza, ripropone i tagli lineari che tanto abbiamo criticato in passato e che dimostrano l’incapacità del governo di compiere scelte coraggiose, intestandosene il merito e assumendosene le relative responsabilità. E dire ch’è in possesso del ponderoso e ragionato documento redatto da Carlo Cottarelli, in procinto, ormai, di tornarsene a Washington. C’è da chiedersi con preoccupazione perché il documento non sia stato mai pubblicato se non per brevi stralci. Le peggiori ipotesi sono sul tappeto: la più convincente riguarda il timore che si sarebbe messo in evidenza il mancato intervento del governo sui casi eclatanti, quelli da cui traggono alimento corrotti e corruttori al Nord come al Sud. E che, comunque, la mancata decisa introduzione dei costi standard consentirà ancora alla regione Sicilia di pagare le siringhe, ormai emblematiche, una trentina di volte di più che il Veneto.

Il premier ribadisce che è nella responsabilità di ministeri, regioni e comuni stabilire come e dove risparmiare e che si tratta di una specie di doveroso atto di fiducia. Follie. Mentre i disastri di Genova, Parma, Maremma, Trieste e Piemonte sono precisi atti di accusa nei confronti dei carrozzoni Regione, comunque realizzati, capaci solo di dissipare risorse senza contribuire al buon andamento del Paese, l’affermazione di Renzi appare viziata da ipocrita condiscendenza o da ammissione di grave impotenza.

Fermiamoci qua. Il testo della legge di stabilità è a Bruxelles e trova un ambiente meno arcigno del passato, viste le difficoltà generali che investono l’Unione europea. È possibile che, dopo gli accordi riservati tra Germania e Francia (come avevamo previsto, Hollande, incassato l’appoggio di Renzi, s’è occupato solo del suo Paese) che garantirebbero un’imprevista indulgenza della cancelliera di ferro, anche per l’Italia si manifesti un tasso (minore) di comprensione. In ogni caso, avremo un «cahier» di prescrizioni che ci costringeranno a svolgere difficili compiti a casa. Tutti i problemi tutt’insieme: l’economia, l’occupazione, Ebola e la politica estera con i dossier Isi, Ucraina-Russia, la Libia. Tante decisioni interconnesse da adottare nelle prossime settimane. Senza un soggetto politico unitario o unitariamente concepito. L’Europa è nana, divisa e senza leader con qualità adeguate.

C’è anche chi non cerca lavoro

C’è anche chi non cerca lavoro

Michele Tiraboschi – Italia Oggi

I dati del mercato del lavoro e i principali indicatori economici dell’arco temporale 2007-2013 forniscono una fotografia della crisi molto diversa da quelle che sono le principali notazione dell’opinione pubblica e dei mezzi di comunicazione. È vero che si segnala un raddoppio del tasso di disoccupazione dal 6% a 12%, sia per l’intera popolazione che per i giovani, per i quali il tasso ha superato il 40%. È anche vero che il tema centrale non è solo il lavoro precario, che occupa gran parte dei dibattiti, visto che lavoro temporaneo in Italia è ancora al di sotto del 15%.

I veri problemi
Dall’analisi degli indicatori economici diffusi dall’Eurostat altri sono i problemi principali del nostro mercato del lavoro, primo tra tutti il bassissimo tasso di occupazione regolare, quindi l’ampio numero non solo persone che non hanno un lavoro ma anche di coloro che non lo cercano e che non sono quindi considerati nel numero dei disoccupati.

I numeri
Tre cifre ci aiutano a dipingere la situazione italiana in modo chiaro: in una popolazione di 60 milioni, tra cui una potenziale forza-lavoro di 39 milioni, solo 25 milioni hanno un impiego effettivo o cercano lavoro. Questo spiega tutto, con una popolazione lavorativa sotto i 25 milioni, una persona deve lavorare per sé e per altri due, il vero problema è quindi l’inattività.

Le donne
Questo è evidente guardando la popolazione femminile, inchiodata da trent’anni sotto il 50%, una su due non lavora e se lavora è in nero, in mezzogiorno solo una su quattro. Un ulteriore problema è certamente il tasso di disoccupazione giovanile superiore al 40%, ma più preoccupante è il dato dell’occupazione dei giovani che non supera il 16%. La grande maggioranza quindi non ha un lavoro e non lo cerca.

Gli over 50
È invece significativo il fatto che durante crisi vi sia stato un notevole incremento degli occupati over 50, se ai tempi della Legge Biagi erano uno su tre, oggi siamo a 50%, con 50 italiani su 100 obbligati a lavorare dalla morsa della crisi. Anche in questo caso, oltre agli effetti della riforma Fornero delle pensioni, incide il fatto che molti over 50 sono costretti a lavorare per mantenere quell’ampia fetta di popolazione, soprattutto di giovani, che non lavora e non cerca lavoro.

Conclusione
La semplice lettura di questi dati ci conduce quindi ad ampliare le nostre analisi consuete e a leggerle da un punto di vista differente, con un occhio sì attento alla crisi, ma che guarda anche auna condizione storica del me