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Italia e Unione Europea: oltre i numeri, il coraggio di cambiare

Italia e Unione Europea: oltre i numeri, il coraggio di cambiare

di Simone Bressan*

È certamente vero che i flussi finanziari non sono tutto e che la mera aritmetica tra quanto versiamo a Bruxelles e quanto riceviamo dall’Europa non può consegnare la cifra della nostra partecipazione al programma di integrazione europeo. Però quei numeri dicono comunque molto sul ruolo che abbiamo e su quello che dovremmo avere. Sediamo nei consessi europei con la timidezza dello scolaro che non ha fatto i compiti per casa quando invece dell’Unione siamo un pilastro irrinunciabile, oltre che un paese fondatore.

L’andamento della nostra economia nei 14 anni dell’euro è stato sempre peggiore della media dei nostri partner continentali, eppure il nostro paese non si è sottratto ai suoi compiti. Ha versato nelle casse dell’Unione più di quanto ha ricevuto in cambio, ha partecipato con 58 miliardi a strumenti di stabilità finanziaria di cui non ha usufruito, ha pagato con l’instabilità politica interna e un’endemica debolezza economica la sua partecipazione a mercato e moneta unica.

Ci sono stati certamente dei benefici e delle opportunità non colte: le frontiere che cadono, per un paese così votato all’export come il nostro, sono un indubbio vantaggio, così come Euro, BCE e fondi salva-stati hanno consentito all’Italia di ottenere sensibili risparmi sul fronte del costo del nostro ingente debito pubblico. Spazi di manovra che sono stati sfruttati male o dilapidati in un continuo rinvio delle riforme necessarie al paese e in una spesa pubblica che, al netto di annunci e proclami, si fatica a ridimensionare.

La posizione di contributori netti dovrebbe garantirci autorevolezza nell’ottenere flessibilità in cambio di buone riforme, ma non può in nessun caso diventare un alibi per frenare la modernizzazione del paese. Abbiamo il total tax rate sulle imprese più elevato del continente e una pressione fiscale reale vicina al 50%: se dobbiamo battere i pugni in Europa facciamolo per avvicinare la nostra economia a quella dei paesi più dinamici e non per difendere uno status quo che non conviene né all’Europa né tantomeno a noi.

*direttore del Centro Studi ImpresaLavoro

Con l’Ue è più dare che avere: 72 miliardi per contare zero

Con l’Ue è più dare che avere: 72 miliardi per contare zero

Il Giornale del 22 gennaio 2016

Chiedete a un tedesco mediamente informato (compresi alcuni giornalisti che lavorano nello Stivale) quale è il rapporto tra l’Italia e l’Europa. La risposta in molti casi sarà: prende soldi. Pregiudizio duro a morire. Quando Der Spiegel – autorevole settimanale di target medio alto – provò a dimostrare il contrario, forte dei dati della direzione bilancio della commissione Ue, sul web comparvero commenti poco lusinghieri per l’Italia. Il Centro studi ImpresaLavoro ieri ha messo in fila quattordici anni di rapporti finanziari tra l’ltalia e Bruxelles. Dove nel dare ci stanno i finanziamenti diretti dello Stato all’Ue e la quota di imposte girate alla contabilità europea; nell’avere i contributi arrivati nella penisola attraverso i vari programmi europei. Il risultato è una serie ininterrotta di segni meno, cioè un saldo negativo per l’Italia e positivo per le istituzioni europee. Come se non bastasse lo sbilancio a favore dell’Europa è cresciuto ininterrottamente con il tempo, anche negli anni più difficili per le casse pubbliche italiane.

Dal 2000 al 2014 la somma di tutte le posizioni nette è di 72 miliardi. Ne abbiamo versati 213 e incassati 141. Contributori netti, senza nessun dubbio. Siamo a pieno titolo nel club dei Paesi che pagano un biglietto di prima classe per l’Ue. Anzi, in rapporto al Pil, siamo quelli che fanno maggiori sacrifici. Colpisce la progressione del saldo tra entrate e uscite. Una «tendenza preoccupante», per il Centro studi fondato da Massimo Blasoni. «Se infatti il 2000 si era chiuso con una differenza di poco superiore al miliardo di euro», questa forbice «si è andata progressivamente espandendo, fino a raggiungere i 4,2 miliardi del 2005 e i 7,3 miliardi del 2013 (17,1 in uscita e 9,8 in entrata)». Di 213 miliardi italiani finiti nel budget europeo, quasi 45 vengono dalla quota di Iva che va alle istituzioni Ue. Le risorse proprie dell’Unione, quelle provenienti da dazi, sono appena 22 miliardi, circa 1,4 all’anno. Tutto il resto è contabilizzato sotto la voce «reddito nazionale lordo». Cioè è la somma variabile che viene assegnata a ciascuno Stato membro. Sul fronte delle entrate, ben 74 miliardi sono riferibili al Fondo europeo agricolo di garanzia. Segue il Fondo europeo di sviluppo regionale con 35,7 miliardi, poi il Fondo sociale europeo con 15,4 miliardi.

La progressione dei versamenti è costantemente in crescita. Con la sola eccezione del 2006, 2007 e 2010 quando calarono. Le entrate hanno invece un andamento molto irregolare. La conferma che il problema è anche nazionale, cioè la scarsa capacità di spendere risorse europee. L’Italia è un contributore sempre più importante per l’Europa. Ma «a questo dato di fatto – commenta Blasoni – non corrisponde un ruolo altrettanto importante nelle dinamiche politiche europee. Ogni Paese, infatti, tende ancora a difendere i propri interessi nazionali senza alcuna solidarietà: dalle banche agli immigrati, senza dimenticarci i vincoli di bilancio, sono ancora molti i fronti aperti con Bruxelles. Questo però non può diventare un alibi: il nostro è un Paese ancora lontano dalla ripresa economica, con una pressione fiscale non più sostenibile e il fardello del debito pubblico che continua a crescere». La questione delle risorse resta centrale per l’Europa. La recente crisi italo-europea è stata causata principalmente dai contributi per la Turchia, che l’Italia vuole contabilizzare nel bilancio Ue.

Leggi l’articolo sul sito de “Il Giornale”

Blasoni su Panorama: “Vi spiego perché siamo la lumaca d’Europa”

Blasoni su Panorama: “Vi spiego perché siamo la lumaca d’Europa”

Massimo Blasoni – Panorama

Stiamo uscendo dalla crisi? La realtà non induce ad essere ottimisti. La ripresa registra un misero 0,7% nel 2015 quando nel resto d’Europa c’è chi va ben oltre: la Spagna è cresciuta del 3,4% e il Regno Unito del 2,3%. Peraltro né deficit né debito nel nostro Paese scendono. Anzi, quest’ultimo è aumentato negli ultimi due mesi di oltre 26 miliardi raggiungendo sostanzialmente il suo massimo storico. La spesa pubblica, al di là di ogni proposito di spending review, negli ultimi tre anni è continuata a incrementarsi in valori assoluti.

Queste difficoltà del “sistema Italia” si riflettono pesantemente anche sulla vita delle nostre imprese e rendono difficile la competizione con gli altri partner europei. Per darne un’idea proviamo con il confronto Italia – Germania utilizzando i dati di Doing Business, il rapporto annuale della Banca Mondiale sulle principali economie. Paragoniamo due imprenditori, uno brianzolo e uno bavarese, che vogliono sviluppare un’analoga attività manifatturiera.

Supponiamo che, per insediare la loro impresa, debbano costruire un edificio. Il nostro imprenditore attenderà mediamente la concessione edilizia 227 giorni contro i 96 del suo competitor tedesco: un maggior costo dovuto soprattutto alla burocrazia. Le start up ovviamente necessitano di credito bancario e tristemente l’imprenditore italiano scoprirà che i suoi prestiti costano il 20% in più. Anche l’energia necessaria alla produzione in Italia è più cara, è notorio, esattamente del 14%. Inoltre, la velocità dei nostri download è assai più lenta: siamo i penultimi in Europa. Se poi i beni prodotti saranno venduti alla Pubblica Amministrazione la disparità diventerà eclatante. Lo Stato in Italia paga mediamente a 144 giorni, in Germania gli stessi debiti vengono saldati in 19.

Dobbiamo peraltro auspicare che il nostro imprenditore non debba far valere i suoi diritti in una disputa commerciale in tribunale. Si troverebbe difatti ad affrontare uno dei peggiori sistemi giudiziari al mondo. Il rating internazionale ci classifica 111esimi, la Germania invece è al 12esimo posto. E se va riconosciuto che il costo del lavoro è più alto oltralpe, a rendere incontestabile la condizione di svantaggio delle nostre imprese è il dato relativo alla pressione fiscale. La total tax rate, cioè l’insieme di tasse e contributi sui profitti, ci vede ai vertici in Europa. Ogni imprenditore in Italia lascia allo Stato il 64,8% dei propri profitti. Ben diverso il prelievo per il suo concorrente tedesco: il 48,8%.

Si aggiunga che il numero degli adempimenti per pagare le tasse è quasi doppio in Italia, 14 contro 9. Ovviamente i tedeschi sono i primi della classe – qualcuno dirà –  e per questo il paragone è impietoso. Purtroppo è così anche nel raffronto con molti altri Paesi, ad esempio la Gran Bretagna. Non è un caso che il regno di Sua Maestà cresce a un ritmo tre volte superiore al nostro.

da “Panorama” del 14 gennaio 2016

Negli ultimi 35 anni Italia prima tra i paesi OCSE per aumento della pressione fiscale

Negli ultimi 35 anni Italia prima tra i paesi OCSE per aumento della pressione fiscale

L’Italia detiene un record molto particolare in campo economico: tra i paesi monitorati dall’OCSE, infatti, è quello in cui la pressione fiscale è cresciuta di più dal 1979 ad oggi. Prima degli anni ’80 il peso delle tasse nel nostro paese superava di poco il 25% del Prodotto Interno Lordo mentre nel 2014, secondo i calcoli dell’OCSE, si è stabilito al 43,6%. Un balzo in avanti di più di 18 punti di Pil che non ha eguali tra i paesi sviluppati. Solo Turchia, Grecia, e Portogallo fanno segnare performance simili, ma comunque inferiori, alle nostre mentre esistono paesi come gli Stati Uniti o il Regno Unito che vedono sostanzialmente stabile l’incidenza del prelievo fiscale sulla ricchezza prodotta. Per tacere di chi, come la Germania, paga oggi un po’ meno tasse (-0,2%) che nel 1979. A crescere negli ultimi 35 anni sono state tutte le principali tipologie di imposte: il prelievo sui redditi è aumentato dell’82,6%, quello sui consumi del 64,5% e le tasse sulla proprietà sono cresciute del 164,1% assorbendo oggi 1,6 punti percentuali di Pil. “L’elaborazione – spiega Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del Centro Studi ImpresaLavoro – dimostra che al di là degli scostamenti dello zero virgola, la questione fiscale nel nostro paese rimane una vera e propria emergenza che si può affrontare solo tagliando decisamente la spesa. La spending review è, invece, rimasta solo un annuncio: se non vogliamo accontentarci di tagli fiscali solo sulle slide, avremo bisogno di una revisione e di una riduzione coraggiosa del perimetro dello Stato”.

Acquisti on-line: nel 2015 italiani al quart’ultimo posto in Europa

Acquisti on-line: nel 2015 italiani al quart’ultimo posto in Europa

Negli ultimi 12 mesi solo il 26% dei cittadini italiani di età compresa tra i 16 e i 74 anni ha effettuato online l’acquisto di almeno un bene o servizio. Il nostro Paese si colloca così al quart’ultimo posto di questa particolare classifica europea, appena sopra Cipro (23%), Bulgaria (18%) e Romania (11%). Ai vertici della graduatoria 2015 si collocano invece i consumatori di Regno Unito (81%), Danimarca (79%), Lussemburgo (78%) e Germania (73%). Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro, realizzata su elaborazione di dati Eurostat.

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In Italia i consumatori più attivi online risultano essere quelli di età compresa tra i 25 e i 34 anni (40%) e i giovanissimi tra i 16 e i 24 anni (36%). Col progredire dell’età aumentano invece in proporzione la diffidenza e il digital divide, tanto che a comprare online sono soltanto il 17% dei cittadini di età tra i 55 e i 64 anni e il 7% dei cittadini di età tra i 65 e i 74 anni.

persone
Analizzando le scelte di questi consumatori negli ultimi 3 mesi, si osserva poi come resti bassissima la frequenza degli acquisti (quasi sempre uno o due acquisti a testa, solo il 5% ne ha effettuato da 3 a 5) e comunque per importi che non superano quasi mai la soglia dei 500 euro. Nell’ultimo anno i beni più acquistati dagli italiani sono stati viaggi e vacanze (11%), vestiti (10%), articoli casalinghi (7%), libri e abbonamenti a riviste (7%), biglietti per eventi (5%). Curiosamente, solo il 2% ha deciso di affidarsi alla Rete per l’acquisto di hardware per computer o servizi di telecomunicazione (banda larga, abbonamenti a canali televisivi, ricarica di carte telefoniche prepagate…).

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Multe: dal 2010 al 2015 gettito dei Comuni diminuito del 17,82%

Multe: dal 2010 al 2015 gettito dei Comuni diminuito del 17,82%

In rapporto agli abitanti Milano, Firenze e Bologna al top
Negli ultimi cinque anni il gettito extratributario per sanzioni amministrative, ammende e oblazioni riscosso dai Comuni italiani è diminuito di 272,5 milioni di euro. Le cifre complessivamente incamerate sono infatti passate da 1 miliardo 529 milioni 677 mila euro nel 2010 a 1 miliardo 257 milioni 141mila euro nel 2015 (-17,82%). Nell’ultimo anno il trend delle riscossioni è rimasto sostanzialmente stabile (+0,24%, pari a circa 3 milioni di euro), passando da 1 miliardo 254 milioni di euro del 2014 a un 1 miliardo 257 milioni di euro del 2015**. Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro su elaborazione dei dati SIOPE, il Sistema informativo sulle operazioni degli Enti pubblici del Ministero delle Finanze.

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ImpresaLavoro ha poi effettuato un’analisi incrociata dei dati SIOPE e Istat sulle sanzioni e ammende riscosse nel periodo 2013-2015 in un campione rappresentativo dei principali Comuni italiani. È risultato così che Milano è la città che in rapporto agli abitanti incassa di più da sanzioni, ammende e oblazioni (139,11 euro a testa per un gettito medio annuo di circa 157,35 milioni di euro), seguita da Firenze (96,36 euro a testa, per un gettito medio annuo di circa 31,39 milioni di euro), Bologna (93,58 euro a testa, per un gettito medio annuo di circa 31,14 milioni di euro), Parma (82,32 euro a testa ogni anno, per un gettito medio annuo di circa 13,23 milioni di euro) e Torino (68,68 euro a testa, per un gettito medio annuo di circa 52,47 milioni di euro). Nei primi posti di questa particolare compare anche la Capitale: Roma incassa 59,49 euro a per ogni cittadino maggiorenne residente e ricava un gettito medio annuo di circa 143,35 milioni di euro.

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**Dati 2008-2014 definitivi, dati 2015 stima ImpresaLavoro su andamento incassi Gennaio-Novembre.

Analfabetismo, pragmatismo e declino della civiltà

Analfabetismo, pragmatismo e declino della civiltà

di Carlo Lottieri

Una delle cause della crisi epocale che l’Occidente sta vivendo discende dal fatto che la maggior parte delle idee economiche condivise dalla popolazione, a ogni livello, sono semplice sbagliate. Le ragioni di questo diffuso analfabetismo sono numerose, ma tra le altre va certo ricordata l’influenza nefasta esercitata dalla scuola. In un libro di storia a grande diffusione destinato agli studenti delle scuole medie, ad esempio, si può trovare un passo come il seguente, volto a elogiare la politica economica di Francesco Crispi: “Sul piano economico la Sinistra (storica), come aveva promesso ai suoi elettori, adottò il protezionismo, grazie al quale riuscì a creare le premesse del decollo dell’industria”.

In linea di massima, nei libri messi in mano ai ragazzi le soluzioni statalistiche e tecnocratiche sono presentate come superiori a quelle liberali e basate sull’azione di imprenditori e consumatori. Ancor più è frequente la tendenza a sposare una sorta di pragmatismo in ragione del quale bisognerebbe talvolta essere liberali e in altri casi, invece, socialisti. E così è abbastanza comune l’idea che si dovrebbe essere statalisti quando l’economia è fragile, per poi invece sposare la dinamica del capitalismo competitivo quando il sistema produttivo funziona a pieno ritmo.

È questa una visione “pragmatica”, che si vuole laica e aperta, lontana da ogni ideologia, ma che nei fatti è solo teoricamente fragile e logicamente indifendibile. In primo luogo, va detto che ogni teoria economica cerca di rispondere alla medesima richiesta: a come sia possibile, insomma, favorire la crescita economica. E quindi non si capisce come una teoria economica possa essere valida nei giorni pari e non esserlo più in quelli dispari. È ad esempio credibile che il protezionismo possa aiutare un’economia a svilupparsi, ma poi debba essere abbandonato? E precisamente quando bisognerebbe lasciarlo per aprire il mercato?

Lo schema di questi confusionari sostenitori di una cosa come dell’opposto sembrano lasciarci intendere che i Paesi poveri dovrebbero essere statalisti, ma per poi diventare liberisti una volta ricchi. C’è però da chiedersi per quale motivo bisognerebbe abbandonare le logiche della burocrazia pubblica e del rigetto della concorrenza dopo che ci hanno aiutato a liberarsi dalla miseria… Sarebbe un non senso.

Resta solo un problema: che sia sul piano teorico sia sul piano storico regge davvero poco la tesi secondo cui l’intervento statale favorisca la crescita. È semmai vero l’opposto. Questo pragmatismo diffuso è non solo il segnale di una carenza di logica e di una cattiva conoscenza delle nozioni di base dell’economia: quelle che un non economista, per intendersi, potrebbe acquisire facilmente leggendo Frédéric Bastiat o anche L’economia in una lezione di Henry Hazlitt (ora disponibile in italiano grazie a IBL Libri). Più di tutto, però, questo pragmatismo segnala un declino morale, un degrado dei principi fondamentali, l’abbandono di regole un tempo considerate fondamentali e inviolabili.

L’atteggiamento di chi ritiene che talora, per esempio quando un’industria è nascente, sia legittimo e anzi doveroso porre barriere dinanzi all’iniziativa economica (scambi, integrazioni, fusioni e via dicendo) è caratteristico di chi ha smesso di rispettare l’altro e i suoi beni. Lo statalismo di questi pragmatici implica la negazione delle libertà altrui. Lo statalismo a giorni alterni degli orecchianti di economia, inclini a introdurre divieti e obblighi a loro piacere, sottende la dissoluzione del diritto e, prima di tutto ciò, un quasi totale disinteresse per l’altro e la sua dignità.

Per questo è sicuramente importante che i buoni argomenti della logica economica siano conosciuti e che le falsità su protezionismo, rivoluzione industriale, crisi del ’29, piano Marshall e via dicendo siano spazzate via da una conoscenza più attenta e meditata degli avvenimenti passati. La cultura è importante, ma in qualche modo non basta, perché la malattia è più profonda. Se oggi l’Occidente è tanto a disagio questo è in primo luogo conseguente a uno smarrimento etico sulle cui motivazioni è necessario riflettere. Forse nei Paesi di tradizione europea siamo tanto portati a essere ignoranti e superficiali dal nostro avere smarrito il senso autentico della realtà e dei rapporti umani. E se le cose stanno così è difficile essere ottimisti.

Gli investimenti italiani all’estero

Gli investimenti italiani all’estero

di Paolo Ermano

Una nuova invasione?
Negli ultimi anni, probabilmente a causa delle paure suscitate dalla crisi economica, gli organi d’informazione nazionali hanno più volte riportato notizie di aziende straniere che facevano “shopping”, questo è il termine comunemente utilizzato, nel nostro Paese, comprandosi imprese rilevanti del panorama economico italiano. L’effetto percepito dalla cittadinanza è stato quello di una sorta di colonizzazione economica: le imprese di paesi considerati fino all’altro giorno poveri, Cina o India, o di paesi troppo forti con cui confrontarsi, come la Germania, erano rappresentate come invasori, quasi a voler risvegliare l’atavica paura di un popolo che dalla fine dell’impero Romano ha troppe volte subito il dominio altrui.
I recenti casi, molto eclatanti, di Pirelli acquisita da China National Chemical Corporation e di ItalCementi venduta al gruppo tedesco Heidelberg Cement, hanno riacceso la polemica sul presunto colonialismo straniero verso le imprese italiane.
E’ il caso di sottolineare che l’immagine di un Paese colonizzato non solo non risulta veritiera, in quanto gli italiani sono, in questi termini, più colonizzatori che colonizzati, ma il fatto che aziende straniere investano nelle nostre imprese può anche essere un ottimo segnale per il sistema Paese.
L’Italia che compra
Se andiamo ad analizzare in prospettiva storica l’impatto degli IDE, gli investimenti diretti all’estero, scopriamo un’Italia più predatrice che preda. Gli IDE quantificano l’investimento di un’azienda con base nel Paese A verso un’azienda posta nel Paese B. Si possono identificare due tipologie di IDE: l’acquisizione di quote azionarie di un’impresa o un processo di acquisizione o fusione fra due imprese.
Come si può vedere dalla seguente figura , fin dagli anni ’90 il flusso in uscita dalle aziende italiane verso l’estero è sempre stato superiore al flusso in entrata: le imprese italiane investono le proprie risorse per acquisire il controllo, parziale o totale, di aziende straniere in misura maggiore di quanto accada per le imprese estere nel nostro paese.
Figura 1: Consistenza di IDE in entrata e in uscita in rapporto al PIL (valori %)

Figura 1: Consistenza di IDE in entrata e in uscita in rapporto al PIL (valori %). Fonte: Bankitalia

 

Dopo un allineamento nei primi anni 2000, la situazione è migliorata, dal punto di vista delle imprese italiane che fanno “shopping” all’estero, dal 2008, con l’inizio della crisi: mentre il flusso in entrata si stabilizzava rispetto al PIL (che ricordiamo è sceso dal 2008 al 2014), il flusso in uscita cresceva in termini di PIL del 10% circa. E’ interessante notare la composizione degli investimenti, sia in termini di settore, che di destinazione geografica, come emerge dalla tabella 1:
Tabella 1: stock di IDE in uscita per settore e area di destinazione (valori %). Fonte: Bankitalia

Tabella 1: stock di IDE in uscita per settore e area di destinazione (valori %). Fonte: Bankitalia

 

In termini di stock di investimento, il peso del settore manifatturiero scende, dal 30% circa al 20%, per lasciare maggior spazio agli investimenti nel settore dei servizi e costruzioni, con particolare interesse verso i servizi finanziari e assicurativi, che nel 2010 rappresentavano il 54% dell’intero stock di IDE, pari a poco meno di 200 miliardi di euro su un totale di 366 miliardi. Si pensi, ad esempio, alla diffusione di Unicredit sul territorio europeo per avere un’idea di cosa si intenda con IDE nell’ambito dei servizi finanziari. Infine, come si può osservare nella tabella 2, la forbice fra gli stock di IDE in uscita e in entrata nel nostro Paese è aumentata considerevolmente dal 2005 a oggi, passando da un valore positivo di circa 6 miliardi a 143 miliardi. A titolo di esempio, ricordiamo che l’acquisizione di Pirelli da parte di ChemChina vale 7,1 miliardi, 1/20 della suddetta forbice.
Ideconf
Per dare maggiore consistenza ai numeri riportati nella tabella 2, ricordiamo che stiamo parlando di 30.351 imprese nel mondo con un fatturato complessivo di oltre 560 miliardi di euro, che danno lavoro a oltre 1,5 milioni di dipendenti (dati 2013) e sono diffuse in oltre 160 Paesi: il 52% dislocate nei Paesi dell’UE-27, un 10% in altri Paesi europei, un altro 19% tra Nord America (11%) e Sud America (8%).
Chi investe in Italia?
L’altra questione rilevante è comprendere quali aziende investono in Italia: quali sono i settori coinvolti, quali la loro origine geografica, quali le conseguenze sul sistema Paese? Nel 2013 in Italia 9.367 imprese erano partecipate da aziende estere, occupando poco più di 915.000 dipendenti, per un fatturato complessivo poco al di sotto di 500 miliardi di euro, circa 1/3 del PIL italiano. Le imprese estere interessate al nostro mercato provengono per il 60% da Paesi dell’UE-27, per un altro 20% dal Nord America e solo per l’8% dai Paesi asiatici: in generale, è geograficamente molto più ampia la distribuzione geografica delle imprese italiane con partecipazioni all’estero che viceversa. Non dimentichiamoci che sono Paesi nostri alleati storici quelli da cui provengono la maggior parte delle imprese che investono in Italia. Un altro aspetto da rilevare è l’interesse che le imprese estere hanno per il meglio dell’imprenditoria italiana. Secondo il rapporto dell’ICE “Italia Multinazionale 2014”, il valore aggiunto medio per dipendente delle imprese a partecipazione estera nel 2012 era pari a €114.500, contro una media per le imprese italiane con più di 20 dipendenti (quindi, escludendo molte PMI) era pari a €74.300: una discrepanza «coerente con la teoria e le verifiche condotte internazionalmente circa le superiori prestazioni delle filiali delle [imprese multinazionali] rispetto alle imprese domestiche, grazie alle maggiori competenze, tecnologie, capacità manageriali e ai vantaggi di scala e di network» . In sostanza, quando l’Italia attira IDE lo fa in forza della sua capacità competitiva e non in quanto preda da cui spolpare delle risorse. Per di più, il knowhow che si può acquisire dal diretto contatto con imprese estere è un’opportunità che dovrebbe essere colta e non vista come possibile minaccia.
Criticità
Alcune considerazioni finali. La letteratura economica evidenza 4 motivi per cui un’impresa dovrebbe investire all’estero: primo, ricercare vantaggio in termini di costo di produzione, per esempio grazie a manodopera a basso costo; secondo, avvicinarsi ai clienti nei mercato, superando barriere doganali e riducendo i costi di trasporto; terzo, assicurarsi l’approvvigionamento di materie prime o risorse scarse; quarto, investimenti volti ad acquisire brevetti, tecnologie, conoscenze. Gli IDE dall’estero verso l’Italia rispondono a 2° e al 4° motivo: siamo un mercato interessante per le aziende straniere e un sistema ricco di competenze. Mantenere vivo l’interesse verso gli IDE dall’estero, il famoso “shopping”, può implica sia ravvivare il mercato italiano, sostenendo ad esempio la domanda interna, sia arricchire ancor di più il sistema di personale qualificato e di aziende competitive: non è un caso che il Paese col più alto stock di IDE in entrata rispetto al totale degli IDE sia gli Stati Uniti (17,2% nel 2012). Casomai, l’attenzione dell’opinione pubblica dovrebbe orientarsi su come favore le imprese italiane nell’acquisizione di partecipazioni all’estero. Ricorda la Banca d’Italia che le aziende che investono in partecipazioni all’estero risultano essere in termini di valore aggiunto in media 3 volte più grandi delle aziende esportatrici e 5 volte più grandi di quelle orientate al solo mercato interno . Se vogliamo continuare a essere investitori attivi e non vittime della globalizzazione, la chiave è sempre e solo una: investire in capitale umano, in conoscenza, in efficienza del sistema produttivo.
Crisi: negli ultimi sei anni sono fallite 75mila imprese. Italia al top tra i paesi Ocse: +66% rispetto al 2009

Crisi: negli ultimi sei anni sono fallite 75mila imprese. Italia al top tra i paesi Ocse: +66% rispetto al 2009

In Italia resta purtroppo altissimo il numero dei fallimenti: il nostro Paese è infatti uno dei pochi tra quelli monitorati dall’OCSE che continua ad avere un numero di aziende fallite nettamente superiore ai livelli pre-crisi. Lo rivela una nota del Centro studi ImpresaLavoro che, rielaborando i numeri forniti dall’OCSE, evidenzia come rispetto al 2009 i fallimenti nella nostra penisola siano cresciuti del 66,3%, passando dai 9.383 del 2009 ai 15.605 del 2014.

Andamento Fallimenti

Il costante aumento del numero di aziende italiane fallite non ha eguali se confrontato con gli altri Paesi monitorati: nel 2014 il numero di fallimenti negli Stati Uniti è stato inferiore a quello del 2009 del 55,1%, nel Regno Unito del 23,4%, in Germania del 20,5%. E anche laddove l’uscita dalla crisi è sembrata più lenta, come in Francia, si segnala un calo del fenomeno dell’1,1%. Solo l’Italia è ancora ampiamente al di sopra dei livelli pre-crisi, con un escalation che solo quest’anno accenna a fermarsi.
Italia
«I primi due trimestri del 2015 – spiega Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del Centro Studi ImpresaLavoro – lasciano intravedere un rallentamento nel numero di fallimenti. La nostra stima è un calo di 1.300 fallimenti rispetto al 2014, con un livello complessivo che dovrebbe attestarsi sui valori del 2013. L’inversione di tendenza si annuncia importante ma c’è poco da sorridere: anche con questo miglioramento rimarremmo il Paese che da questo punto di vista ha reagito peggio alla crisi. Nei sei anni tra il 2009 e il 2014, infatti, sono fallite nel nostro Paese ben 75.175 aziende».
Record italiano nel prezzo dei carburanti

Record italiano nel prezzo dei carburanti

Nonostante la sensibile riduzione del costo del petrolio, in Italia il prezzo dei carburanti continua a restare tra i più alti in Europa: +17% rispetto alla media europea e in particolare +9% rispetto alla Germania, +13% rispetto alla Francia, +19% rispetto alla Slovenia e addirittura +26% rispetto all’Austria. Lo attesta una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro su elaborazione dei dati della Commissione Europea (Weekly Oil Bulletin, 27 Luglio 2015).
maggior costo
A incidere in maniera determinante sul caro carburanti nel nostro Paese sono le tasse e le accise, che incidono infatti per il 63% sul prezzo finale praticato al consumatore. L’Italia si colloca al terzo posto di questa speciale graduatoria, subito dopo il Regno Unito (66%) e l’Olanda (64%) e un gradino sopra Grecia (62%), Finlandia, Irlanda e Francia (tutte al 61%).
incidenza
In particolare, il costo della benzina in Italia è di 1,6164 euro al litro: si tratta del terzo prezzo più caro in Europa – dopo quello praticato in Olanda (1,6460 euro al litro) e Regno Unito (1,6338 euro al litro) – a fronte di un prezzo medio europeo di 1,3872 euro al litro. I cinque Paesi nei quali è più conveniente rifornirsi sono la Repubblica ceca (1,2245 euro al litro), la Lettonia (1,2217 euro al litro), la Polonia (1,2135 euro al litro), la Bulgaria (1,1801 euro al litro) e soprattutto l’Estonia (1,1710 euro al litro).
prezzo benzina
Quanto al diesel, il suo costo in Italia è di 1,4329 euro al litro: si tratta addirittura del secondo prezzo più caro in Europa – dopo quello praticato nel Regno Unito (1,6410 euro al litro) – a fronte di un prezzo medio europeo di 1,2206 euro al litro. I cinque Paesi nei quali è più conveniente rifornirsi sono l’Austria (1,1310 euro al litro), la Polonia (1,1171 euro al litro), la Lettonia (1,1006 euro al litro), l’Estonia (1,0570 euro al litro) e soprattutto il Lussemburgo (1,0361 euro al litro).
prezzo diesel