Italia

L’Italia è divisa dall’economia

L’Italia è divisa dall’economia

Massimo Blasoni – Metro

Sono trascorsi appena quattro anni dalle celebrazioni dei 150 anni dell’unità d’Italia eppure nessun Paese europeo ha una coesione territoriale peggiore della nostra. Dopo oltre un decennio di processo federalista coesistono di fatto due realtà separate da un profondo divario socio-economico: da una parte il Centro-Nord, che presenta indicatori in linea con quelli di Francia, Germania e Regno Unito; dall’altra il Mezzogiorno, che soffre tassi di disoccupazione sempre più simili a quelli della Grecia.

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Mercato del lavoro e tasse sulle imprese: ecco dove ci batte persino la Grecia

Mercato del lavoro e tasse sulle imprese: ecco dove ci batte persino la Grecia

ANALISI

Pur strangolata dal debito pubblico e scossa da una profondissima crisi economica e sociale, la Grecia riesce comunque a battere l’Italia 12 a 0 sul fronte del mercato del lavoro e delle tasse sulle imprese. È quanto emerge da una ricerca del Centro studi “ImpresaLavoro”, che ha elaborato i dati più recenti pubblicati dal World Economic Forum e dalla Banca Mondiale.
Analizzando le classifiche del “Global Competitiviness Report 2014-2015” stilate dal World Economic Forum si scopre infatti che la Grecia occupa nel rank mondiale una posizione migliore della nostra per quanto riguarda l’efficienza generale del mercato del lavoro (è 118esima mentre l’Italia è 136esima), la collaborazione nelle relazioni tra imprese e lavoratore (108esima contro 137esima), la flessibilità nella determinazione dei salari (118esima contro 138esima), l’efficienza nelle modalità di assunzione e di licenziamento (92esima contro 141esima), il legame tra salari e produttività (121esima contro 139esima), l’effetto della tassazione sull’incentivo a lavorare (138esima contro 143esima), il merito nella scelta delle posizioni manageriali (98esima contro 122esima) e infine la capacità del sistema sia nel trattenere talenti (96esima contro 121esima) sia nell’attrarli (127esima contro 128esima).
Il recentissimo rapporto “Doing Business 2015” curato dalla Banca Mondiale certifica invece la situazione di indubbio vantaggio che le aziende elleniche godono rispetto alle loro concorrenti italiane. Non soltanto in Grecia il Total Tax Rate sulle imprese (49,9%) è infatti decisamente inferiore al nostro (65,4%) ma sul fronte delle modalità di pagamento delle imposte la Repubblica ellenica si dimostra meno matrigna della nostra per il numero sia degli adempimenti (8 contro 15) sia delle ore impiegate in media ogni anno da ciascuna azienda (193 contro 269).
«L’Italia ha certamente fondamentali economici migliori di quelli greci» osserva il presidente di “ImpresaLavoro” Massimo Blasoni. «Tuttavia occorre notare come l’analisi puntuale di due aspetti importanti dell’economia come efficienza del mercato del lavoro e tassazione sulle imprese dimostrino l’arretratezza del nostro Paese. Non è un dato banale perché i fondamentali economici sono figli delle scelte fatte in passato: liberare le nostre aziende da un fardello fiscale ormai insostenibile e produrre regole sul lavoro semplici e certe sono due passaggi non più rimandabili su cui il governo si dovrebbe impegnare maggiormente. Altrimenti il rischio è di scivolare sempre più verso la Grecia».
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Così Francia e Italia rispondono alle sculacciate di Juncker

Così Francia e Italia rispondono alle sculacciate di Juncker

Giuseppe Pennisi – Formiche

Commentando l’Ecofin, numerosi editorialisti hanno posto l’accento sull’ampliamento (vero o presunto) del fronte anti-tedesco (specialmente a ragione del caos che da Atene sta contagiando le Borse di mezza Europa). Pochi hanno riportato (e senza grande enfasi) i rimbrotti (sarebbe meglio parlare di sculacciate) di Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione Europea, all’Italia, inasprite dalla minaccia di “conseguenze spiacevoli” (per noi tutti) se in primavera non passeremo gli esami di riparazioni.

In effetti, tenendo presente che il terzo Paese “rimandato” (il Belgio) è piccolo e (sui mercati finanziari) conta poco, Juncker conosceva in anticipo le misure approvate questa mattina 10 dicembre (in vista degli esami tra quattro mesi circa) dal Consiglio dei Ministri francese della Francia. In effetti, mentre in Italia ci si sollazza su come garantire in Costituzione che Villa Lubin diventi appannaggio della Corte dei Conti in un clima romano che ricorda la Mahagonny di Brecht e Weill (la città dove ormai il crimine è al comando e tutto l’illegale è lecito, anzi incoraggiato), il 36enne Emmanuel Macron ha tessuto la tela con i suoi colleghi e messo a punto un disegno di legge quadro di “Crescita e Attività” approvato il 10 dicembre alle 13 dal Consiglio dei Ministri e per il quale è prevista una “corsia preferenziale” all’assemblea nazionale. Macron ha detto che il provvedimento sarà varato entro febbraio e in marzo la Francia si presenterà a Bruxelles, anche con i primi decreti delegati.

Il provvedimento è di vasta portata. Dato che nel settore manifatturiero la concorrenza (e, quindi, le liberalizzazioni) sono regolate e vigilate a livello europee, la prima delle misure riguarda i servizi. Nel settore dei trasporti locali, le autolinee private sono messe in competizioni tra di loro e con il mitico, e sino ad ora monopolista, chemin de fer. In materia di giustizia civile vengono poste tempistiche serrate per risolvere controversie e, nel settore edilizio-urbanistico, per promuovere anche l’ingresso di “nuovi entranti”. Per favorire gli investimenti, vengono varate misure per incoraggiare i lavoratori ad investire i propri risparmi nelle imprese di cui sono dipendenti, diventandone azionisti (anche a livello di piccole e medie imprese). Altre misure riguardano il social housing, anche al fine di migliorare le periferie. Viene poi modificato il sistema lavoristico: le domeniche in cui i negozi ed i servizi resteranno aperti saranno definite a livello locale da ciascun sindaco, ma non potranno essere meno di cinque e più di dodici l’anno. Vengono modificate le regole di accesso alle professioni (anche a quella, potentissima oltralpe, dei notai) e definito che gli studi professionali possano avere “soci di capitale”.

Un vero programma “rivoluzionario” e liberale, anche se varato da un Governo socialista. Mette l’accento su quelle liberalizzazioni dei servizi e delle professioni che in Francia è sempre stato molto difficile effettuare (e dove neanche in Italia si è brillato). Vedremo quanto andrà effettivamente in porto e se verrà attuato il programma di “denazionalizzazioni” annunciato quasi in parallelo. Si tratta pur sempre di quelle “riforme di struttura” per rilanciare la produttività che Bruxelles si aspetta.

Il fisco in Italia rispetto al resto d’Europa

Il fisco in Italia rispetto al resto d’Europa

SINTESI DEL PAPER

L’Italia ha uno sistemi fiscali più pesanti e inefficienti d’Europa: la pressione fiscale è elevata, soprattutto su lavoro e impresa, e il sistema fiscale è amministrativamente oneroso. Durante la crisi la situazione è ulteriormente peggiorata per via dell’aumento della pressione fiscale reso necessario dall’impossibilità politica di tagliare la spesa pubblica. Lo evidenzia una ricerca del Centro Studi “ImpresaLavoro” che analizza la struttura delle entrate fiscali nel nostro Paese, la loro evoluzione nel tempo e le loro caratteristiche rispetto ai maggiori paesi europei: Germania, Francia, Gran Bretagna e Spagna.
Considerando la pressione fiscale dal 1990 al 2012, si osserva come negli ultimi anni l’Italia – assieme alla Francia – abbia visto un forte aumento delle entrate fiscali, di quattro punti di PIL, nonostante la gravissima crisi economica. Buona parte dell’aumento risale agli anni immediatamente precedenti la crisi, per controllare il debito pubblico la cui virtuosa riduzione si era arrestata negli anni precedenti, ma le entrate fiscali hanno continuato ad aumentare anche con la crisi. Si è infatti deciso di ridurre il deficit e rispondere alla crisi economica sul lato delle entrate anziché su quello delle uscite, che hanno continuato ad aumentare sia in termini nominali che di percentuale di PIL, anche se di poco. La classe dirigente italiana ha cioè preferito preservare l’ingente spesa pubblica anche a costo di danneggiare ulteriormente l’economia reale, contribuendo ad aggravare e prolungare la crisi. È da considerare che l’Italia è caratterizzata da un maggior peso dell’economia sommersa rispetto agli altri paesi europei considerati, e quindi a parità di pressione fiscale sul PIL complessivo (che include anche una stima del sommerso), la pressione fiscale effettiva in rapporto al PIL prodotto alla luce del sole è ancora maggiore che negli altri paesi.
Rispetto alla Germania, l’Italia nel 2012 aveva una pressione fiscale superiore di ben quattro punti di PIL, pari a circa 65 miliardi di euro. Si noti che, anche se la Gran Bretagna ha una pressione fiscale ancora minore, nel 2012 aveva un forte deficit (oltre il 6%), quindi i dati di pressione fiscale possono essere fuorvianti, non essendo un forte deficit compatibile con la stabilità finanziaria nel lungo termine: la Gran Bretagna dovrà o tagliare la spesa o aumentare le tasse in futuro, e parte del vantaggio rispetto all’Italia potrebbe ridursi. Anche l’Italia ha un deficit superiore a quello tedesco (le cui finanze erano in pareggio nel 2012), e dunque una riduzione della pressione fiscale agli stessi livelli tedeschi richiederebbe una riduzione ancora maggiore della spesa pubblica.
La ricerca di “ImpresaLavoro”, elaborata dal fellow dell’Istituto Bruno Leoni Pietro Monsurrò, prende in considerazione anche i dati annuali di Eurostat (disponibili dal 2000 al 2012) sui diversi indici del livello di tassazione implicito (ITR) nei vari paesi europei. L’ITR è infatti il rapporto tra le entrate fiscali e la base fiscale relativa (un ITR sul consumo del 20% significa cioè che il 20% della spesa in consumi se ne va in tasse, e lo stesso vale per gli altri ITR). Analizzando ad esempio l’ITR sul lavoro, si osserva come l’Italia sia abbondantemente sopra i maggiori paesi europei, 3 punti più della Francia, 5 più della Germania, e addirittura 9 e 18 rispetto a Spagna e Gran Bretagna. Inoltre c’è stato un notevole peggioramento, di circa il 2%, negli anni precedenti la crisi. Le cose non cambiano molto se si considera l’ITR sul capitale, con l’eccezione che l’Italia è superata dalla Francia, che ha aumentato molto la pressione fiscale relativa durante la crisi economica. Anche l’Italia mostra un notevole peggioramento, pari circa al 4%, successivo all’intensificarsi della crisi, superando la Gran Bretagna che nel frattempo ha invece notevolmente diminuito il carico fiscale sul capitale. Se si considera infine l’ITR sul reddito di impresa delle società individuali e dei lavoratori autonomi, l’Italia tallona la Francia ancora una volta e mostra un notevole peggioramento del livello di tassazione nell’ultimo anno, a fronte di un notevole miglioramento della Gran Bretagna. In definitiva, la pressione fiscale italiana è particolarmente concentrata sul lavoro e sul capitale, cioè sui fattori produttivi. Un dato che scoraggia l’occupazione e gli investimenti, con conseguenze sul mercato del lavoro, sulla competitività, e sulla crescita economica.
La ricerca di “ImpresaLavoro” si sofferma inoltre sui costi indiretti del sistema fiscale, ad esempio i tempi e le procedure amministrative necessari ai contribuenti per pagare le tasse. A riguardo il sistema italiano risulta particolarmente inefficiente, come evidenziato dalla classifica Doing Business 2014 della Banca Mondiale. Per trovare il nostro Paese occorre infatti scorrerla fino al 138° posto (con 15 procedure amministrative e 269 ore necessarie). Un dato pessimo, sopratutto se confronto con i nostri maggiori competitor europei: la Gran Bretagna si piazza al 14° posto (con 8 adempimenti burocratici e 110 ore necessarie), la Francia al 52° posto (con 7 adempimenti burocratici e 132 ore necessarie), la Spagna al 67° posto (con 8 adempimenti burocratici e 167 ore necessarie) e la Germania all’89° posto (con 9 adempimenti burocratici e 218 ore necessarie). A fronte quindi di un livello di imposizione fiscale elevato, il fisco italiano aggiunge l’ulteriore costo di compilare moduli, leggere regolamentazioni, chiedere consulenze, etc.
«Il carico e la struttura del sistema fiscale contribuiscono alla stagnazione del paese in vari modi: riducendone la competitività, costringendo a sprecare tempo e risorse in procedure burocratiche, e in definitiva riducendo gli incentivi a produrre, lavorare e risparmiare» osserva Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi “ImpresaLavoro”. «Sebbene la stagnazione negli ultimi decenni e la fragilità economica messa in luce dalla crisi abbiano molteplici cause, le imposte rappresentano un fattore rilevante per le insoddisfacenti performance economiche del paese. Resta dunque prioritario riformare il sistema fiscale riducendone la complessità a parità di entrate, spostare la tassazione dal lavoro e dalle imprese ai consumi, e ridurre la pressione fiscale complessiva tagliando al contempo la spesa».
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Per una tassazione competitiva

Per una tassazione competitiva

Salvatore Zecchini, membro del board scientifico di ImpresaLavoro, è docente di Politica Economica Internazionale all’Università Tor Vergata di Roma e presidente del Gruppo di Lavoro dell’OCSE su PMI e Imprenditoria.

In un mondo in cui da decenni sono caduti barriere commerciali e vincoli ai movimenti dei capitali l’Italia si trova ad essere sempre più stretta nella morsa della concorrenza tra sistemi economici nazionali. Non sono soltanto i prodotti italiani a doversi confrontare con la concorrenza estera, all’interno come all’estero, con in prima fila i partner comunitari, ma l’intero sistema economico e finanziario. Da anni si assiste a un progressivo disincanto verso il Paese come luogo di investimento e produzione (meno home bias), mentre si tende a investire in misura crescente là dove è più conveniente, indipendentemente dal paese. Il confronto con le convenienze offerte dai diversi paesi o regioni è quindi divenuto più pervadente e chiama in causa quasi tutti gli aspetti di sistema. La tassazione, in quanto parte inerente al sistema di produrre e finanziarsi, è assurta pertanto a terreno di contesa tra paesi per attrarre capitali, competenze, ingegni, imprenditori.
Come mostrano i dati comparativi dell’analisi di “ImpresaLavoro”, l’Italia non esce bene da questo confronto. Il riscontro si aveva da anni anche da altri dati, in particolare dagli investimenti diretti con l’estero, che mostrano dal 2000 un saldo tra i più modesti in Europa in termini sia di flussi, che di consistenze. Quali aspetti non vanno nella tassazione italiana nel confronto con i maggiori partner?
In breve, si può sostenere che il livello del prelievo, la sua distribuzione per classi di basi imponibili e tra soggetti (imprese, lavoratori, pensionati, altri percettori di reddito), la ripartizione tra consumi, investimenti reali e finanziari, e tariffe per servizi, la differenziazione tra regioni e la complessità del fisco e della sua amministrazione sono tutti punti deboli, che rendono poco attraente investire nel Paese. Da anni si richiede pertanto un radicale cambiamento di sistema, scevro da condizionamenti ideologici e diretto a rilanciare la competitività del Paese.
Una grande sfida, dato che queste scelte sono il vero specchio dei valori di uno Stato, una società, una democrazia. Sono scelte politiche dure, che non possono accontentare tutti per il fatto stesso che comportano scelte tra interessi contrapposti, ma che non hanno trovato un adeguato punto di ricomposizione nella politica. In realtà sono sfociate in una aggrovigliata ed oscura selva di norme e particolari esenzioni, senza giungere a una riforma di sistema.
In tale quadro non è nemmeno facile individuare come si distribuisce la tassazione. Il lavoro di IL è molto utile per gettare luce sull’intricata materia ed evidenziarne le differenze con altri paesi, ma restano punti interrogativi. Ad esempio, il rapporto col PIL, che è generalmente usato, non tiene conto che il peso sui contribuenti effettivi è maggiore di quanto mostra l’indicatore, perché gli evasori e gli esentati stanno all’interno della misurazione del PIL, ma non tra i colpiti dalla tassazione. I tributi locali complicano il confronto nella misura in cui si nascondono nelle forme di tariffe per servizi. Queste rappresentano una vera imposta se in contropartita non si danno servizi adeguati e si costringe il contribuente a dover pagare di nuovo per ottenere lo stesso servizio dal privato, come nel caso dei servizi idrici. Vi sono poi prelievi nascosti nei costi dell’energia, sotto voci di oneri di sistema, che peraltro non si applicano a tutti gli utenti, a causa delle esenzioni.
Anche l’attuale distribuzione del prelievo fiscale e contributivo pone difficili problemi di equità e di controversi effetti di incentivazione e disincentivazione di determinate attività. I troppi trattamenti pensionistici che superano di gran lunga le contribuzioni versate, costituiscono per chi lavora e deve coprirli un aggravio iniquo e non più tollerabile alla luce delle disparità di costo unitario del lavoro con i concorrenti e nel confronto intergenerazionale. Una tassazione crescente sui redditi da risparmio e da capitale scoraggia leve essenziali per la crescita economica. Lo stesso può dirsi per l’incremento di imposizione sui consumi, sebbene in questa area vi siano grandi sacche di evasione. Tassare i redditi d’impresa pesantemente scoraggia l’attività imprenditoriale, gli investimenti ed alimenta l’evasione.
La chiave di volta sarebbe un generalizzato arretramento della spesa pubblica a tutti i livelli e una sistemazione del macigno del debito pubblico accumulato. Ma si tratta di erodere diritti acquisiti anche se ingiustamente e di ridurre il welfare state, entrambi molto dolorosi.
Sono tutti dilemmi a cui si deve dare risposte appropriate al più presto. Si vedrà se la delega fiscale in approvazione al Parlamento saprà rispondere alla grande sfida per il meglio dell’economia e del Paese.
L’Italia tornerà ai livelli pre-crisi solo nel 2042

L’Italia tornerà ai livelli pre-crisi solo nel 2042

Come dimostra plasticamente il grafico qui sotto il passo indietro del Pil certificato ieri dall’ISTAT non è un’eccezione nell’accidentato percorso post-crisi del nostro paese ma la triste regola. Nelle ultime 12 rilevazioni trimestrali, solo in un caso (quarto trimestre 2013) l’Italia ha fatto registrare un segno positivo: ma la dimensione della crescita registrata (+0,1%) fa pensare più ad una casualità che ad un seppur timido segnale di inversione di tendenza.

fonte grafico: Silvia Merler, http://smerler.wordpress.com/2014/08/07/italy-and-the-cycle-that-didnt-turn/

 

Il livello del nostro PIL in valori reali è oggi il più basso dal 2000 e mentre tutte le grandi economie europee hanno iniziato a dare segnali confortati di vitalità, il belpaese diventa sempre più – assieme al caso disperato della Grecia – il grande malato d’Europa. 

fonte grafico: Silvia Merler, http://smerler.wordpress.com/2014/08/07/italy-and-the-cycle-that-didnt-turn/

 

Questo grafico spiega la recessione italiana meglio di qualsiasi analisi tecnica: fatto 100 il Pil delle principali economie europee nel primo trimestre della crisi economica (il secondo del 2008) notiamo come tutti i paesi abbiano pagato la crisi con un arretramento del Prodotto Interno Lordo che inizia ad arrestarsi verso la fine del 2009, per ricominciare a crescere in tutto il continente. Francia, Germania e Regno Unito hanno tutti, in tempi diversi, riconquistato i livelli di Pil che avevano prima della crisi. La Spagna sembra avere finalmente invertito la tendenza mentre l’Italia rimane stancamente in coda, allontanandosi sempre più da quella linea rossa che rappresenta il Pil prima del terremoto dei mercati finanziari.

fonte grafico: Centro Studi Bruegel, http://www.bruegel.org/nc/blog/detail/article/1410-chart-the-uk-reaching-pre-crisis-gdp-levels

Quanto tempo ci servirà per tornare là dove eravamo? Difficile dirlo: continuando a non crescere, come è ovvio, non ci arriveremo mai. Ma anche immaginando di lasciarci andare al più sfrenato ottimismo tipico dei governi italiani c’è poco da stare allegri: volessimo rientrare ai livelli di ricchezza del 2008 in 6 anni avremmo bisogno di una crescita dell’1,5% che appare davvero poco plausibile mentre se crescessimo ai ritmi pre-crisi (+1,26% all’anno) ci torneremo nel 2021.
Tornando un po’ più con i piedi per terra, invece, e sperando di poter crescere nei prossimi anni con ritmi compresi in una forbice tra lo 0,1% e lo 0,5% l’obbiettivo non proprio esaltante di ritornare al 2008 sarebbe raggiungibile tra il 2031 con crescita allo 0,5%, il 2042 con crescita allo 0,3% e il 2096 se la nostra crescita dovesse dimostrarsi particolarmente debole (0,1%).  

Nota: Elaborazione ImpresaLavoro su dati Eurostat e Istat

Il confronto con i principali paesi europei e mondiali è impietoso. L’Italia è in ritardo tra i 21 e gli 86 anni rispetto a Svezia e Svizzera, tra i 20 e gli 85 rispetto a Usa, Francia e Germania e tra 17 e 81 rispetto al Regno Unito. Non c’è che dire: uno spread piuttosto alto.  
 Pil wp
Piccole imprese di Spagna e Italia le più colpite dal credit crunch

Piccole imprese di Spagna e Italia le più colpite dal credit crunch

La Stampa

Sono le Pmi di Italia e Spagna le grandi vittime della crisi del debito sovrano che si è abbattuta sull’Europa negli ultimi quattro anni. Lo rivela, o meglio lo conferma, uno studio pubblicato dalla Bce nel suo bollettino mensile di luglio. «L’impatto della crisi del debito sovrano sui finanziamenti e sui bilanci della banche – osserva l’Eurotower – ha probabilmente avuto conseguenze più pesanti sulle aziende più piccole e che dipendono maggiormente dai prestiti bancari e sulla loro attività reale, come mostrato anche dai primi studi empirici effettuati su dati italiani». L’andamento disomogeneo in Europa dei tassi sui prestiti alle imprese non finanziarie, «soprattutto a partire dal 2011, suggerisce considerevoli differenze nei costi di finanziamento delle piccole imprese localizzate in Francia e Germania da una parte, e in Italia e Spagna dall’altra. Simili disparità riflettono probabilmente sia il contesto economico e il rischio sovrano associato sia i rispettivi costi della raccolta delle banche nazionali», spiega la Bce. In particolare, «tra le aziende spagnole e italiane non solo il livello assoluto dei tassi bancari era sostanzialmente più elevato rispetto alle imprese francesi e tedesche ma anche i maggiori premi versati alle Pmi» in termini di interessi bancari «rispetto alle grandi aziende sono aumentati considerevolmente nel 2011 e nel 2012».

La forbice tra piccole e grandi aziende si spiega in due modi: le Pmi si finanziano quasi esclusivamente attraverso prestiti bancari e l’assenza di canali di finanziamento alternativi le rende più vulnerabili; le piccole aziende dipendono dalla domanda interna più delle grandi (che invece riescono a spalmare il rischio su più mercati) e dunque i loro bilanci hanno sofferto maggiormente all’apice della crisi, soprattutto in Paesi come Italia e Spagna. Le Pmi italiane e spagnole insomma si trovano a dover fronteggiare una situazione molto più complicata delle loro concorrenti tedesche e francesi. Oggi per ottenere un credito a breve termine (inferiore a un anno) per un importo superiore al milione di euro una Pmi spagnola paga un tasso d’interesse medio del 5%, una italiana del 4,3%, una tedesca del 3% e una francese del 2,3% circa. La situazione è migliorata solo in minima parte nell’ultimo anno. Il tutto in un contesto congiunturale che stenta a migliorare. I dati negativi della produzione industriale in Italia, Francia e Germania a maggio fanno pensare a una frenata del Pil nell’area euro nel secondo trimestre dopo il già non esaltante +0,2% del primo trimestre. «I rischi geopolitici nonché l’andamento dei Paesi emergenti e nei mercati finanziari mondiali – afferma la Bce – potrebbero influenzare negativamente la condizioni economiche, anche tramite effetti sui prezzi dell’energia e sulla domanda mondiale di beni e servizi provenienti dall’area euro». Secondo l’Eurotower «un altro rischio è connesso a riforme strutturali insufficienti nei Paesi dell’area».