Jean-Claude Juncker

Gli “errori” della manovra che fanno litigare Italia e Ue

Gli “errori” della manovra che fanno litigare Italia e Ue

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

Non è una buona idea per Matteo Renzi entrare in polemica con Jean-Claude Juncker, particolarmente ora che il Presidente della Commissione europea è in difficoltà per antichi (più che  vecchi) trascorsi lussemburghesi. Per molti aspetti, Juncker è un suo alleato: intendono ambedue far uscire l’Europa dal rischio di deflazione. Hanno anche aspetti personali simili: vengono ambedue da origini familiari molto semplici – in Italia pochi sanno che il padre di Juncker era un operaio dell’industria siderurgica. A differenza di Renzi, Juncker è stato uno studente da 30 e lode in tutte le materie e ha esercitato la professione forense con successo prima di entrare, a 26 anni, in politica attiva. Lo stesso Presidente della Commissione europea ha detto che le “tecnostrutture” hanno espresso pareri molto più severi dell’esecutivo sulla bozza di Legge di stabilità dell’Italia.

In questo contesto, ci potrebbe essere qualcuno che “rema contro” per ragioni personali – ad esempio, un alto dirigente dei servizi della Commissione, ritenuto “prodiano di ferro” in quanto molto vicino al Professore di Bologna, amareggiato per non avere ottenuto il supporto politico sperato (e – dice – assicuratogli) per terminare la carriera in Italia alla guida dell’Ufficio parlamentare di Bilancio.

Tuttavia, non è tanto questione di ripicche quanto di sostanza. Tra Roma e Bruxelles ci sono differenze sostanziali di punti di vista. In primo luogo – ed è questo il punto fondamentale – è in corso un “dibattito segreto” (mentre dovrebbe esserlo alla luce del sole) su cosa debba considerarsi “equilibrio strutturale di bilancio”, oppure in altri termini il differenziale tra output potenziale ed effettivo. È il parametro essenziale per valutare il disavanzo di bilancio “accettabile” o meno così come la solidità delle coperture.

Prima della crisi, ossia verso il 2007, Commissione europea, Banca mondiale, Fondo monetario internazionale, Ocse e Banca centrale europea pubblicarono lavori differenti secondo cui l’output potenziale si poneva, per l’Italia, su una crescita del Pil dell’1,3% l’anno (rispetto al 2,5% della prima metà degli anni Ottanta), a ragione dell’invecchiamento della popolazione e dell’obsolescenza dell’apparato produttivo. Ora non è chiaro quale è l’output potenziale stimato dalla Commissione europea per l’Italia. In questi anni, al contrario, ci sono stati vari dibattiti sui “moltiplicatori” di spese (e di aumento della pressione fiscale) ma da Bruxelles non si è avuta un’indicazione chiara né sul metodo, né sul merito.

Ad esempio, i dati utilizzati a Bruxelles a supporto delle stime sulla finanza pubblica italiana attribuiscono alle ore di Cassa integrazione una riduzione permanente, anziché temporanea, delle ore lavorate, contribuendo a ridurre di un terzo il prodotto potenziale, il livello del Pil in condizioni normali e per implicazione imponendo politiche meno espansive di quanto, anche a mio avviso, sarebbero auspicabili. Il presidente del Consiglio e il ministro dell’Economia e delle Finanze dovrebbero chiedere un chiarimento, e se del caso un dibattito, in proposito.

In secondo luogo, però, ci sono aspetti rispetto ai quali l’Italia pare fare “la politica dello struzzo”, ossia nascondere la testa sotto la sabbia. Queste le principali:

1) Il debito. Viaggia verso il 137% del Pil ed è senza dubbio uno dei maggiori freni alla crescita. Non mancano proposte per ridurlo senza aumentare la già elevata tassazione patrimoniale: il delendo Cnel le ha messe a confronto in una conferenza da cui è stato prodotto un E-Book Astrid, “L’Italia c’è”, e altri gruppi hanno formulato altre proposte. Non si è fatto nulla. E quasi nulla in materia di privatizzazione: l’unica portata a termine è quella dell’Unuci (l’ente per le attività divulgative degli ufficiali in congedo), argomento di grande ilarità a Bruxelles.

2) Forti perplessità poi per la “stabilizzazione” dei precari e l’assunzione di 80.000 insegnanti. Non solo i dati Unesco affermano che siamo, a tutti i livelli della piramide scolastica, il Paese con il rapporto più generoso tra allievi e docenti, ma un’operazione analoga, nel 1972, per stabilizzare gli universitari ha distrutto numerosi atenei italiani. Nessuno ancora sa dove si troveranno i 3 miliardi l’anno necessari.

3) Insidiosa la decontribuzione dei nuovi assunti con contratti a tempo indeterminato. Date l’entità dello sgravio (riduce di un terzo il costo del lavoro) e la sua temporaneità (solo 2015) è probabile – come ha scritto Tito Boeri – che ci sia un forte effetto di sostituzione sia con posti di lavoro già esistenti che nel corso del tempo. “La manovra – afferma Boeri – può comportare veri e propri caroselli”. Dal punto di vista europeo, viene considerata un “aiuto di Stato” visto che è discriminatoria. Si poteva giungere allo stesso obiettivo con una riforma dell’Irap o un “tax credit”.

4) Il Tfr in busta paga – si pensa a Bruxelles – comporta un aggravio tributario e una riduzione della futura pensione. Quindi le stime di quanti opteranno per questa strada, e del pertinente gettito fiscale (2,5 miliardi), sono illusorie. Al pari di altre stime di aumenti delle entrate.

5) La spesa complessiva di parte corrente aumenta di circa 20 miliardi a ragione non solo dei bonus di 80 euro ma anche di tanti rivoli particolaristici (sussidi a questo e a quello che, secondo le direttive europee, dovrebbero essere oggetto di norme specifiche non della Legge di stabilità).

Queste non sono che alcune divergenze tecniche di fondo tra Roma e Bruxelles. A “La Morte Subite”, la birreria di Bruxelles dove in queste fredde e umide serate di inverno si riuniscono funzionari e dirigenti dell’apparato europeo, ci si chiede se l’Italia non avrebbe fatto meglio a seguire la Francia: presentare una Legge di stabilità con un disavanzo pari al 5% del Pil unitamente a un drastico programma di privatizzazioni per ridurre il debito e insistere.

L’arma impropria del fisco europeo

L’arma impropria del fisco europeo

Adriana Cerretelli – Il Sole 24 Ore

Tra scontri e lanci di lacrimogeni, a Bruxelles ieri hanno manifestato in 100.000 contro il rigore, i tagli per 11 miliardi del nuovo governo di Charles Michel. “Le Soir”, il principale quotidiano francofono del Paese, titolava a 5 colonne: «Così il Lussemburgo aggira il fisco belga». Sta quasi tutto qui, tra le tensioni sociali anti-rigore che aumentano in tutta l’eurozona, fragilizzata da recessione, deflazione e disoccupati record, e le rivelazioni del Lux-leaks sul quasi azzeramento delle tasse a favore, non certo dei cittadini, ma delle società con sede nel Granducato, il nuovo paradigma esplosivo che potrebbe investire l’eurozona. E non risparmiare neppure la stabilità delle sue banche che proprio in Lussemburgo hanno uno dei loro “santuari ” preferiti: protetto, sia pure ancora per poco, da segreto bancario e fisco compiacente oltre che consumato artefice di finanza creativa, derivati e simili sfuggiti, come dovunque in Europa, agli esami su qualità degli attivi di bilancio e stress test che hanno nei giorni scorsi preceduto l’avvento dell’Unione bancaria europea. Ovviamente di mezzo ci sono anche l’ex-premier Jean-Claude Juncker, la nuova Commissione Ue che presiede e una possibile crisi inter-istituzionale qualora l’inchiesta in corso a Bruxelles da pura verifica circa l’esistenza o meno di illeciti aiuti fiscali di Stato si trasformasse in una valanga politica fuori controllo. Rischio remoto? Difficile dirlo.

La Commissione guidata da un altro lussemburghese, Jacques Santer, cadde per quasi niente: un favoritismo da quattro soldi al dentista del commissario francese Edith Cresson. Oggi l’eurozona è stressata da sei anni di rigore da cavallo, che in qualche paese sta riportando crescita, ma nel complesso l’ha ridotta all’area economica che nel mondo cresce meno di tutte le altre. Le cure dimagranti dei bilanci e le riforme non sono finite, al contrario sono la “condicio sine qua non” per sperare in un piano Ue di investimenti da 300 miliardi in 3 anni, in una boccata di ossigeno per la crescita europea. Tra le misure sollecitate da Bruxelles e condivise dai Governi c’è la lotta all’evasione e all’elusione fiscale: un tasto sensibile nell’immaginario collettivo perché una sorta di compensazione per i sacrifici fatti e la garanzia di equità nei confronti di tutti i contribuenti. Ma qui il terreno si fa molto scivoloso. Prima di tutto perché il Lussemburgo non è l’unico imputato di eccesso di generosità fiscale nei confronti delle multinazionali per attirarne i capitali. Gli siedono accanto, nell’inchiesta in corso, Irlanda e Olanda. E altri potrebbero aggiungersi in futuro: Gran Bretagna, Malta, Cipro e lo stesso Belgio. E poi perché i regimi societari iper-agevolati in Europa non sono affatto vietati.

I tentativi di armonizzare la pressione fiscale su questo fronte sono finora miseramente falliti, nonostante i ricorrenti assalti di Germania e Francia. Risultato: la concorrenza tra i vari sistemi fiscali è prassi lecita e consolidata, che ha tra l’altro l’implicito vantaggio di stimolare il calo della pressione in Europa: oggi supera di circa 10 punti quella degli Stati Uniti, per non parlare degli emergenti. Un evidente handicap competitivo. La questione che il nuovo responsabile Ue alla Concorrenza, la danese Margrethe Vestager, dovrà dirimere è stabilire se le agevolazioni concesse in Lussemburgo, come in Irlanda e Olanda, contengano o no aiuti pubblici illeciti in quanto distorsivi della concorrenza sul mercato interno. I bilanci nazionali affamati di risorse e il drenaggio di capitali favorito dalla globalizzazione e sempre più incontrollabile spingono i Governi Ue e Ocse a una stretta nelle regole. Le piazze in rivolta sono l’altra molla ad agire. Fino a far saltare la Commissione Juncker? «Ci sono troppi paesi in ballo nella vicenda. Ormai con le “confort letters” la Gran Bretagna batte l’Olanda» dice un esperto Ue. Molti però si chiedono come Juncker, con un passato da “vampiro” fiscale ai danni dei partner, possa oggi avere la statura morale per distribuire pagelle e sacrifici a molte delle sue vecchie vittime. Non ci fossero molti vampiri in Europa, e di tutti i tipi, il rilievo sarebbe ineccepibile. Purtroppo invece non è facile tranciare giudizi nei meandri delle troppe contraddizioni europee.

Perché Draghi non è amato in Germania

Perché Draghi non è amato in Germania

Giulio Sapelli – Il Messaggero

Non sono sorpreso dell’aria di fronda – molto diplomaticamentc ricomposta ieri – che spira attorno a Mario Draghi: il presidente della Bce cammina su un filo sospeso. Ma il problema non è il modo poco consensuale con il quale il banchiere italiano guida l’Istituto, come è stato scritto da taluni. Il punto è che il conflitto interno all’Eurozona si sta disvelando. E il simbolo di questo conflitto è il valore da dare alla moneta unica, in un sistema dei prezzi ormai sovranazionale e non più governato dalle vecchie sovranità statuali. Mi aveva colpito l’ondata di critiche venuta dalla Germania in occasione del drastico abbassamento dei tassi di interesse che solo a maggioranza la Bce aveva deciso alcune settimane fa. Tutta la Germania, che è istituzionalmente costruita su una possente architettura di società intermedie (associazioni di risparmiatori, di consumatori, di assicurati e di assicuratori, di piccoli e grandi banchieri, di forti e deboli risparmiatori, eccetera), tutta la possente Germania costruita sul sistema glorificato da Friedrich Hegel nei suoi scritti sulla Costituzione tedesca, tutta la Germania era insorta. La ragione di ciò è profonda e va oltre l’immediato danno materiale che sottoscrittori di titoli di Stato tedeschi possono subire per le manovre della Bce; la ragione si trova, forse non mai così magnificamente esplicitata, nel recente saggio di Michael Hüther, “Die Junge Nation”.

La tesi è quasi disarmante. Il brillante autore ci ricorda che i tedeschi sono una nazione non giovane, giovanissima. Si sono unificati non nel 1870 dopo aver schiacciato sotto il tallone degli Junker la Francia e aver incoronato il loro Kaiser Guglielmo nella Reggia di Versailles: una violenza inaudita di fronte a uno Stato sconfitto che generò un rancore infinito. No, i tedeschi si sono unificati solo nel 1989, con il crollo del Muro e con l’insediamento di 80 milioni di anime nel cuore dell’Europa. Ma queste anime sono così giovani e hanno tanto sofferto da non volersi e potersi assumere nessun ruolo in Europa rispetto all’Europa medesima. Possono e debbono pensare solo a se stesse e alla loro giovane nazione. Del resto, era ben questo che erano riusciti a fare quegli 80 milioni guidati da un capo eccezionale come Helmut Kohl che mise in scacco i Mitterrand e gli Andreotti prima parificando il marco tra Germania Est e Germania Ovest, poi imponendo il marco come modello archetipale al nuovo euro, plasmando lo statuto della Bce non in forma transatlantica (la Federal Reserve americana), ma nella forma dell’ordoliberalismo di Walter Eucken e della sua Nationale Ökonomie. Ossia pensando solo a battere l’inflazione perché la crescita di una nazione così giovane e con un’architettura cetuale sarebbe stata automatica. Chi non l’avesse seguita, quella crescita, sarebbe stato perduto. Ma questo non era e non è un problema dei tedeschi. Gli inglesi capirono subito che qualcosa non funzionava e quindi aderirono solo all’Unione per non lasciare sola la Francia, secondo una vecchia logica diplomatica che affonda le sue radici nel Congresso di Vienna. Tanto per farci capire quanto possa la storia, e quanto diversa sia la saggezza e lo spirito civilizzatore dei popoli. Gli inglesi condannarono sì Napoleone Bonaparte a una precoce morte in esilio ma salvarono la Francia una volta che il mostro era stato sconfitto. Ecco una lezione storico-generale tra ciò che è una politica di equilibrio internazionale e una politica, invece, di dominio internazionale. Chi ha orecchie per intendere, intenda.

Adesso per la politica di dominio è giunto il redde rationem, ossia l’ora della verità. È giunta la recessione, che lo squilibrio strutturale tra Paesi a dominanza teutonica e Paesi a dominanza mediterranea si fa preclara. Il problema, però, è che il plesso dei Paesi mediterranei o del Sud Europa, cui disgraziatamente si va sempre più assimilando la gloriosa Francia, non ha una vera leadership: si cammina in ordine sparso. Per questo da anni insisto nel dire che la solitudine di Draghi non è economica, ma politica. Ha come nemici organici i risparmiatori, gli investitori, le massaie tedesche e come reali amici in Europa inventa non ha nessuno. Una prova di ciò? Si guardi la composizione del nuovo governo europeo del signor Jean-Claude Juncker: domina la giovane nazione tedesca e gli altrettanto suoi giovani vassalli, a cominciare dalla Polonia per finire con gli stati baltici. L’Italia e la Francia sono in un angolo, la Spagna e il Portogallo non si può dire che abbiano dei leader nella Commissione. Del resto, basta pensare ai dieci anni di Manuel Barroso per capire quanto sia diverso il luogo di nascita dal modello culturale che si adotta, quando si assume una carica che sovranazionale e condivisa dovrebbe esserlo per sua stessa natura.

Non vi è dunque speranza? La forbice delle utilità tra le due Europa e dunque destinata ad allargarsi sino al punto da mandare in frantumi l’Europa stessa? Rimane un`ultima speranza: come sempre gli Stati Uniti d’America, oggi come ieri. Mi ha colpito la dichiarazione di Mitch Mc Connell, appena eletto senatore del Kentucky e capo dei repubblicani nell’Alta Camera che ha dedicato la sua prima dichiarazione alla politica commerciale di Obama. L’ha definita troppo timida, priva di risultati, tanto sul versante del Pacifico quanto su quello dell’Atlantico, che a noi europei interessa. Ecco che torna già in gioco il Trattato Transatlantico tra Ue e Usa ed è chiaro che quel trattato non si potrà mai siglare con un’Europa che va verso la deflazione e quindi la recessione. Le conseguenze delle elezioni nordamericane giungono così in Europa e sono l’unica vera speranza che può sorreggere sia Draghi – il solo che può disporre della leva capace di restituire vitalità all’Euroza, purché lo lascino fare – sia l’Europa. Die Junge Nation dovrà rapidamente invecchiare e giungere a una maggiore saggezza. E la saggezza, lo sappiamo, porta con sé l’equilibrio, non il dominio.

Meno di due mesi

Meno di due mesi

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Mancano meno di due mesi, anzi sei settimane tolte le feste di Natale, alla fine del semestre europeo a guida italiana. Il rischio è che il periodo si chiuda senza che abbia lasciato traccia alcuna. Nello stesso tempo, lo scontro che si è aperto con la Commissione europea – esplicito quello con Juncker, sotterraneo ma non meno duro quello con altri commissari, cui occorre aggiungere l’ostilità di molta della burocrazia di Bruxelles – e la distanza sempre più larga che ci separa dai tedeschi, vuoi per visioni divergenti vuoi per le diverse sensibilità personali, non rafforza la posizione dell’Italia in un momento in cui la nostra politica di bilancio deve passare il vaglio europeo e le grandi partite in corso nell’Eurozona e nel mondo richiedono più che mai credibilità e capacita negoziale.

Per carità, l’eurosistema è un legno storto, una delle costruzioni istituzionali più imperfette al mondo. E può darsi che vada a schiantarsi (le possibilità non sono poche), forse per implosione – specie se a qualcuno dovesse venire in mente di impedire a Mario Draghi di portare a termine il suo disegno di politica monetaria espansiva – forse perché la finanza mondiale, dominata ancora da Wall Street e dalle grandi banche americane, rischia di propinarci un remake del 2008. Sta di fatto, però, che una nostra debolezza nel contesto europeo – che si aggiunge a quella strutturale della nostra economia – ci rende oltremodo fragili proprio mentre sarebbe necessario il contrario. Renzi deve capirlo: in Europa non è come a casa, dove la logica “molti nemici, molto consenso” funziona. Lì devi difendere i tuoi interessi – sapendo bene quali sono, perché non sempre ne siamo consapevoli – esercitando la leadership, cioè usando il carisma e facendo lobby. Il che avviene solo se metti l’empatia al servizio di dossier ben preparati e ben studiati. E non sbagli valutazione sulle possibili alleanze (credere che Hollande ci avrebbe fatto da spalla contro l’austerità di stampo tedesco è stata una evitabile sciocchezza).

L’esempio più clamoroso e fresco di asimmetria europea è quello del credito. Oggi si stanno ponendo le basi per realizzare l’Unione bancaria, cioè la prima integrazione importante dopo quella monetaria, e sbagliare mosse significa un indebolimento permanente di una struttura portante del sistema economico. Le regole con cui si sono fatti gli esami alle banche e si eserciterà la vigilanza in futuro non sono fastidiosi dettagli tecnici che interessano ai banchieri, ma decidono su chi conterà nel sistema creditizio europeo – e quindi mondiale, proprio ora che il Financial Stability Board si appresta a presentare al prossimo G20 di Brisbane la proposta di aumentare ancora i requisiti di capitale per gli istituti cosiddetti “globalmente sistemici” – ed essersene disinteressati, come hanno fatto gli ultimi governi italiani, è colpa grave. Così come occuparsi, sia come governo nazionale che in sede comunitaria, del Ttip, il partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti da cui dipendono le sorti del nostro comparto manifatturiero, non è una noiosa perdita di tempo, ma un impegno di governo fondamentale (anche se non spendibile mediaticamente).

Ma ovviamente, in prima battuta gli interessi da salvaguardare a Bruxelles sono quelli della nostra politica economica. Cosa che richiede anche il battere i pugni sul tavolo – senza farlo sapere, altrimenti chiamasi mossa elettorale finalizzata a prosciugare la pozza di anti europeismo in cui sguazzano i Grillo e i Salvini – ma soprattutto presuppone di aver fatto con diligenza i compiti a casa. Evitando, per esempio, di dire bugie che hanno le gambe corte. Quali? Le poste del bilancio. Per dirne una. Se domani Juncker ci scrivesse una lettera chiedendo come mai nella legge di stabilità abbiamo messo alla voce “recupero di evasione fiscale” 3,4 miliardi per il 2015 quando quest’anno il gettito da lotta all’evasione sarà meno di un terzo (lo stesso ministero dell’Economia ha annunciato come nei primi nove mesi sia stato di 760 milioni), cosa potremmo rispondergli? Che triplichiamo il recupero di evasione perché abbiamo ingaggiato dei veggenti? Che faremo l’ennesimo condono fiscale? Che faremo rientrare i capitali un’altra volta? Oppure, confessiamo la verità, ammettendo che quella cifra, così come quella relativa alla spending review è dilatata per far quadrare i conti?

Insomma, c’è poco tempo per imbracciare il coraggio e la saggezza: non solo perché tra 45 giorni finisce il nostro semestre e perdiamo un’arma utile, ma perché in primavera si rifaranno i conti e se non torneranno scatteranno le clausole di salvaguardia – su cui ora è stato deciso l’assenso della Ue alla manovra – le cui conseguenze saranno, specie dal punto di vista della pressione fiscale per imprese e persone, micidiali. E a rifare i conti non sarà solo Bruxelles, ma anche i mercati finanziari, che si sono messi in stand-by in attesa di dare una nuova zampata ai nostri titoli di stato e all’euro. E questa volta, rispetto a quella del 2011, sarà mortale.

Europa del rigore, Europa dei favori

Europa del rigore, Europa dei favori

Luigi Vicinanza – L’Espresso

Ma che Europa è? Quella prigioniera di parametri intoccabili e di percentuali dello zero-virgola. Quella che ci condanna alla deflazione e a tutto ciò che ne consegue: stagnazione, calo dei consumi, crisi industriale, disoccupazione, vita agra. E ancora quella dei più furbi e scaltri. Dove un Paese fondatore dell’Unione, il Lussemburgo, attira imprese e capitali grazie a un regime fiscale decisamente favorevole sottraendo – sia pure in modo del tutto legittimo – risorse ai partner. Un paradiso fiscale nel cuore del Vecchio Continente, a dispetto del rigore.

Strana Europa. Dalla doppiezza insopportabile, incomprensibile ai più. È ciò che raccontiamo con la nostra inchiesta di copertina, realizzata in esclusiva per l’Italia in collaborazione con un pool di testate internazionali, tra cui “Bbc”, “Guardian”, “Le Monde”, “Suddeutsche Zeitung”. Esiste un buco nero nell’Europa dei vincoli e delle prescrizioni, capace di ingoiare affari milionari, compensando banche, aziende e affaristi con una fiscalità inimmaginabile per chi è costretto a pagare le tasse sul suolo nazionale. Una contraddizione stridente rispetto al regime di regole comuni, pervasive, dettate dall’adozione della moneta unica. Se ne avvantaggiano multinazionali straniere e grandi aziende italiane, da Amazon a Finmeccanica.

Il Granducato del Lussemburgo è uno dei sei Stati promotori dei primi accordi commerciali e poi politici, ormai oltre 60 anni fa, alla base dell’odierna Unione europea. Dal Lussemburgo – di cui è stato primo ministro per 18 anni – proviene l’attuale presidente della Commissione, ]ean Claude Juncker. espressione del gruppo maggioritario nell’Europarlamento, il Partito popolare europeo: a capo di una struttura sovranazionale composta da 28 Stati e 300 milioni di abitanti. Il sogno di una generazione, l’utopia di un continente pacificato dopo i massacri e gli orrori del Novecento. Una speranza: il traguardo dell’euro, la valuta comune capace di rappresentare un’unità di valori ben oltre le persistenti diversità di culture e comportamenti sociali. Con i Paesi mediterranei additati come portatori di un lassismo nei conti pubblici tale da richiedere sempre e comunque vigilanza e rigore. Giusto, giustissimo. Se le regole sono davvero comuni per tutti…

Invece il Lussemburgo si manifesta come un buco nero del sistema fiscale. Chi ha capacità di contrattazione – e l’adeguato sostegno tecnico-finanziario – riesce a spuntare vantaggi strabilianti: 1.400 miliardi di euro all’anno, è stato calcolato, svaniscono dai conti dell’Unione. Tutto regolare. Ma non sempre ciò che non è illecito è opportuno. Eticamente e politicamente. «Non sono il capo di una banda di burocrati; l’Unione europea merita più rispetto, è legittimata non meno dei governi» ha detto Juncker in polemica con il premier italiano Matteo Renzi. Si parlava di debito pubblico, Pil e striminzite percentuali di crescita economica. Questioni essenziali prospettate in questi anni con una rigidità che cozza con la realtà accomodante che raccontiamo. È il corto circuito di una politica europea incomprensibile a larghe fasce dei suoi destinatari. Come in Italia i privilegi e gli sprechi di un ceto politico sordo e cieco hanno alimentato l’onda dell’antipolitica, così in Europa gli egoismi locali e gli opportunismi dei singoli governi stanno facendo montare un risentimento nazional-populista anti-unitario. Forse si può ancora correre ai ripari. Se l’Europa sa ripensare se stessa. La traccia da seguire ha sempre il colore dei soldi. Conduce nel piccolo e ordinato Lussemburgo, preziosa cassaforte del nostro scontento.

Vincoli Ue, partiamo col bonus

Vincoli Ue, partiamo col bonus

Gaetano Pedullà – La Notizia

Speriamo che duri. In altri tempi e con altri governi mica ce la cavavamo con un minuscolo Consiglio dei ministri e un aggiustamento di quattro miliardi e mezzo spostati con la punta di matita da una pagina all’altra della nostra Legge di Stabilità. Il piede con cui parte la nuova Commissione europea è però quello giusto. E di fronte a una crisi senza precedenti, che i trattati su cui si basa la stessa Unione non potevano immaginare nemmeno, il responsabile degli affari economici Katainen ieri si è scordato di essere stato messo li dove sta per fare il falco. Italia e Francia partono quindi con il bonus. Nessuno però si illude che questo sarà sufficiente a invertire un ciclo drammatico. Basta guardare i dati dello Svimez sul Mezzogiorno per capire che qui serve ben altro che l’aspirina dello zero virgola in più o in meno sul deficit con cui destinare qualche spicciolo alla ripresa. L’Italia e l’Europa hanno bisogno di un grandissimo piano di rilancio. Juncker ha promesso 300 miliardi. Ma consentire agli Stati di derogare un po’ di più ai vincoli riuscirebbe ad amplificare enormemente questo sforzo. Senza far finta di credere ai conti scritti a matita.

L’Europa eviti la deriva “dogmatica”

L’Europa eviti la deriva “dogmatica”

Alberto Quadrio Curzio – Il Sole 24 Ore

Il documento programmatico di bilancio 2015 (Dpb-2015, fondamento del disegno di legge di stabilità) dovrà superare due ostacoli. Quello del Parlamento italiano e quello delle Istituzioni Europee. L’Italia sta concludendo il sesto anno di crisi nel cui ambito gli ultimi tre anni sono stati di recessione piena. Intanto abbiamo cambiato quattro governi. È ora di rendersi conto che una delle condizioni necessarie per superare la nostra crisi è quella di mostrare la massima coesione all’Europa e ai mercati. Speriamo quindi che le rappresentanze istituzionali, economiche e sociali italiane sappiano guardare all’interesse nazionale tenendo conto delle scelte innovative del Governo in termini di spinta fiscale (unita a riforme) agli investimenti, alle imprese, all’occupazione. La Francia ha deciso di disattendere i parametri di bilancio europei e di premere, come pare, con qualche margine di successo, sulla Germania perché, ai tagli di spesa richiesti agli altri, affianchi in pari misura suoi investimenti infrastrutturali. L’Italia rispetta invece nella sostanza (salvo che per il debito) i parametri europei ma la sua strada non sarà tutta in discesa.

Rigore e sviluppo
Nel DPB-2015 inviato dall’Italia alla Commissione europea si pone un problema cruciale: come evitare che l’Eurozona affondi nella recessione-deflazione riprendendo invece a crescere creando occupazione nella stabilità. Il Presidente Napolitano, il presidente Renzi, il ministro dell’Economia Padoan si sono molto impegnati per mobilitare la fiducia e la responsabilità dell’Europa. Parlare, come fa la cancelliera Merkel, di compiti che vari Paesi (tra cui l’Italia) devono fare a casa, è per noi una banalizzazione di fronte a più di 18 milioni di disoccupati della Uem e a più di 3 milioni del nostro Paese. Questo spiega perché personalità tedesche autorevoli, tra le quali di recente Joschka Fischer, stiano criticando senza sconti la Merkel e il suo ministro delle Finanze. Le forze del rilancio, comprese quelle imprenditoriali europee, devono però essere più coalizzate non contro qualcuno ma per lo sviluppo. Anche il Parlamento europeo (ai cui vertici l’Italia conta parecchio) va valorizzato appieno perché lo stesso si è dimostrata in passato assai più lungimirante della Commissione e del Consiglio europeo. Bene fa perciò il DPB-2015 a sottolineare: che la crisi europea ha intaccato la fiducia di imprese e consumatori; che la politica monetaria non basta pur avendo evitato il peggio; che le necessarie riforme strutturali nei singoli Paesi producono effetti differiti mentre in recessione ci vogliono interventi ad effetto rapido; che senza crescita anche l’innovazione e la competitività si attenuano e la stessa sostenibilità dei debiti pubblici ne risente. La critica al rigore che genera crescita è chiara e su questa si innesta il programma italiano. Lo stesso coniuga una politica di bilancio euro-compatibile, che stimoli nel breve termine investimenti ed occupazione, con delle riforme strutturali che nel medio (1.000 giorni) e nel lungo termine generino più competitività e produttività del sistema Italia.

Riforme e crescita
Il DPB-2015, già approfondito su queste colonne, si fonda inoltre su un concetto centrale. Le riforme (con sostegni di bilancio rispettosi del vincolo europeo del 3% di deficit su Pil), generano crescita che favorisce il miglioramento nel tempo nei rapporti del deficit e del debito pubblico sul Pil. Questo concetto poggia su due basi. La prima base è sostanziale e riguarda le riforme strutturali sempre richieste dalla Ue all’Italia (pubblica amministrazione e semplificazione, giustizia, competitività e fiscalità, mercato del lavoro) per gli effetti sulla crescita, sull’occupazione e sulle finanze pubbliche. In termini di Pil, le misure che hanno costi di finanza pubblica (taglio Irap, bonus Irpef, jobs act e azzeramento triennale contributi, crediti di imposta per R§S), dovrebbero generare entro il 2018 un incremento cumulato di 0,7 punti percentuali che rimane poi incorporato nella dinamica del reddito nazionale specie per gli aumenti di investimenti e occupazione. L’effetto cresce considerando anche le riforme non meno importanti (semplificazioni e giustizia, fonti di potenziali risparmi e a costo zero) che avranno tuttavia forti resistenze e quindi effetti difficilmente misurabili. Quanto al debito pubblico sul Pil già dal 2016 sarebbe più basso di quello conseguibile “risparmiando” gli 11 miliardi che il DPB-2015 destina alla crescita . Quindi la minore correzione fiscale nei prossimi tre anni verrebbe presto compensata dalla crescita del Pil. La seconda base è istituzionale e riguarda il rispetto delle prescrizioni europee nel loro insieme. Il DPB-2015 argomenta da un lato che la grave recessione in atto (che peggiorerebbe con ulteriori rigidità fiscali) e dall’altro che le riforme in cantiere consentono il posponimento del pareggio strutturale di bilancio. Anche perché in tal modo migliora la sostenibilità di lungo periodo del debito pubblico sul Pil.

Una conclusione euro-italiana
L’Italia non “sfida” perciò l’Europa ma le chiede una lettura non dogmaticamente formale della situazione con l’uso di una razionalità politica ed economico-fiscale. Sono le argomentazioni condivisibili del DPB-2015 alle quali andrebbe sempre aggiunta quella, non meno importante, del rilancio degli investimenti infrastrutturali europei finanziati su scala europea con l’uso di europroject bond o eurounionbond. Strategia che si connette sia a quella del presidente della Commissione europea Juncker per il suo piano da 300 miliardi di investimenti in 3 anni sia ai gradi di libertà di cui potrà fruire Draghi per canalizzare liquidità agli investimenti. Quanto al nostro Governo, senza rinunciare alle critiche costruttive (su cui ritorneremo), crediamo si debbano attendere le prove dei fatti dando alle innovazioni aperture di credito come quelle di Moody’s e Financial Times. Due valutatori non abituati a fare sconti, specie all’Italia.

Sul lavoro meno leggi e sentenze, più mercato

Sul lavoro meno leggi e sentenze, più mercato

Giulio Sapelli – Il Messaggero

Il summit europeo di Milano sui temi del lavoro non deve essere sottovalutato o addirittura dileggiato, come taluni hanno fatto. Perché ha segnato l’inizio di un possibile punto importante di svolta delle politiche economiche europee. Jean-Claude Juncker e il suo vice finlandese sono stati richiamati alla realtà e al rispetto dei patti, ossia a dettagliare l’annunciato ma non ancora varato piano di investimenti per il lavoro. Tali investimenti devono essere uno strumento non monetario ma strutturale, ossia fondato sulla creazione di stock di capitali governati dalla mano pubblica europea anziché nazionale che ora è sottoposta a inaudite e assurde limitazioni.

Un cambiamento neokeynesiano? Non è questione di nominalismi, ciascuna forza politica europea e ciascuna cultura nazionale interpreta la situazione con i suoi valori e i suoi strumenti culturali. E la cancelliera Angela Merkel può pure continuare ad attaccare Mario Draghi sulle misure non convenzionali che ha in animo la Bce, l’importante è che la Germania riconosca la gravità della crisi e agisca di conseguenza. Del resto, la crisi da deflazione si sta radicando sempre più e inizia a essere chiaro a tutti, anche ai falchi del Nord, che occorre cambiare linea economica in Europa. La Francia si sta risvegliando dall’immenso torpore in cui era caduta dopo l’eliminazione politica di Jacques Chirac e del gollismo di combattimento che ispirava i suoi fedeli. E Nicolas Sarkozy è stato una meteora che non ha spostato di un etto lo squilibrio dell’asse franco-tedesco, ormai tutto orientato verso la Germania.

Certo, la crisi economica è devastante e da qui il guizzo di orgoglio nazionale con la sfida francese sul superamento del parametro del 3% che l’Italia renziana si è affrettata a rilanciare, ricevendo prima un richiamo duro dalla Merkel e ora, con un cambiamento di toni radicale, un abbraccio caloroso per l’iniziativa parlamentare in corso sui temi del lavoro. Un’apertura di fiducia che non è casuale o solo frutto dell’iniziativa italiana: segnala che la crisi morde anche una Germania che esporta il 57% del Pil in Europa – sì, proprio in Europa – e che sta comprendendo che ora deve cambiare politica. Renzi può approfittarne, purché non fallisca sugli stessi terreni di gioco che si è scelto.

Qui siamo dinanzi alla tipica situazione del cosiddetto bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto. Mi spiego. Se sono gli investimenti che creano lavoro, bisogna credere sino in fondo in questa battaglia e l’Europa deve fare da volano e da corona. Ma poi ogni Stato deve fare la sua parte. In primo luogo con intermediari e istituzioni finanziarie pubbliche che allarghino il fronte degli investimenti a livello appunto nazionale. Ma se si accettano i parametri nuovi dell’investimento creatore di lavoro come strumenti essenziali anticrisi, non si può contestualmente continuare a sostenere che la liberalizzazione del mercato del lavoro di per sé sola crea occupazione.

A questo assunto, chiunque non abbia interessi di parte, non ci crede più. E i primi a non crederci sono gli imprenditori cui non piace licenziare tanto per farlo, se lo fanno ci sono costretti. Succede quanto capita in guerra. I militari – salvo qualche eccezione – sono gli ultimi a volerla fare perché sanno quanto sia terribile. Lo stesso vale per i licenziamenti: ciò che l’impresa chiede è poter decidere quando e chi assumere e, per converso, chi eventualmente licenziare. Due secoli di lotte sociali in Occidente hanno affermato il principio universale che anche i lavoratori debbono dire la loro su questo tema, allorché si tratta del loro futuro. È scritto nella storia: i sindacati dei lavoratori sono nati per questo, così come quelli dei datori di lavoro.

L’alternativa inevitabile a questo modello di confronto negoziale, se non si vuole sprofondare nel caos della microconflittualità e dello scontro sociale, è trasformare il modello di negoziazione e di confronto in un modello statualistico di regolazione del mercato del lavoro fondato sulla iperlegiferazione, la giurisprudenza, gli avvocati e i magistrati con danni immensi ai fattori di lavoro e di produzione. Non è un caso se l’Italia sino agli anni Settanta ha avuto alti tassi di crescita pur con forti livelli di negoziazione sindacale.

Certo, i dati macroeconomici non vanno ignorati ma vorrà pur dire qualcosa se dopo lo Statuto dei lavoratori l’Italia non ha più avuto una pace sociale vera, un sindacato negoziale associativo prevalente su quello classista e una rappresentanza imprenditoriale fondata sul self help e non invece sull’infausta cultura statualistica come quella dell’accordo del 1974 tra Giovanni Agnelli e Lucio Lama che portò al punto unico di scala mobile con le conseguenze drammatiche che conosciamo. Renzi e i suoi ministri, in primis quello del Lavoro, devono avere chiaro l’obbiettivo finale: costruire finalmente un sistema di relazioni industriali di modello anglosassone, ossia intersindacale a più livelli di contrattazione non confliggenti e sovrapposti. Per fare ciò occorre una moratoria di tutte le leggi e leggine che uccidono un Paese di piccole imprese con decine di modelli di assunzione che fanno, altresì, dimenticare al sindacato che deve essere in primo luogo un agente contrattuale e non un portatore dell’invadenza statuale. I lavoratori l’hanno già capito.

Coloro che ricorrono al famoso e infausto articolo 18 in caso di licenziamento scelgono non il magistrato (con anni di attesa) ma il risarcimento economico. Senza questo il bicchiere di Renzi e Poletti resterà mezzo vuoto. Se non si farà questa svolta, che è l’unica vera modernizzazione, continueremo a essere nelle mani di avvocati, magistrati e parlamentari. Ma se ci sarà la svolta, si vedrà allora che più che il conflitto prevarrà l’ordine e la ragionevolezza. Anche queste virtù fanno aumentare il Pil.

La svolta keynesiana dei paladini neo-liberitsti

La svolta keynesiana dei paladini neo-liberitsti

Stefano Lepri – La Stampa

«Arrendetevi, siete circondati» si potrebbe con humour gridare ai governanti tedeschi. Di fronte a una crisi che non vuole finire, matura dappertutto nel mondo l’idea che occorra provare soluzioni diverse dall’austerità pura e dura. Anche il Fondo monetario internazionale, a lungo dominato dalla dottrina neo-liberista secondo cui la spesa pubblica è perlopiù nociva, ritorna alle sue origini keynesiane e rooseveltiane: ampi investimenti in infrastrutture sarebbero utili alla ripresa.

Si può dare lavoro a chi non l’ha costruendo per il futuro. Se non ora, con un costo del denaro cosi basso, quando? In Europa è Berlino a ostacolare il progetto di investimenti transnazionali del nuovo presidente della Commissione Jean-Claude Juncker e le proposte ancora più ambiziose del governo polacco. Eppure all’interno della stessa Germania la gente si lamenta di ponti da rifare e strade malandate. Con una punta di malignità, il Fmi giudica efficace la «regola d’oro» di tenere i bilanci pubblici in pareggio al netto degli investimenti: era nella Costituzione tedesca, prima che fosse inasprita per dare l’esempio ai Paesi spendaccioni. Vale la pena di dare l’esempio facendo male anche a sé stessi? La Germania continua a rinfacciare alla Francia i bilanci in deficit, ma i suoi li tiene in ordine investendo la metà rispetto alla Francia.

Sarebbe forse meglio tornare a quella regola aurea. E intanto compiere uno sforzo eccezionale qui e ora per uscire dalla crisi: nei Paesi con bilanci solidi e come Europa nel suo insieme. L’Italia da sola, troppo indebitata, non può permetterselo. E poi non dobbiamo dimenticare che le nostre infrastrutture sono carenti non perché negli anni passati abbiamo speso poco, piuttosto perché abbiamo speso male. Il timore che si costruisca non ciò che serve, ma ciò che fa guadagnare qualcuno, diventa senso comune; alimenta le proteste, giustifica ogni tipo di ostilità al nuovo. Oggi quasi tutti preferirebbero una tassa in meno piuttosto che il cantiere di una metropolitana in più: occorrerà prima tornare a fidarsi dei poteri pubblici.

La sfida di Junker

La sfida di Junker

Sergio Fabbrini – Il Sole 24 Ore

Non è di grande aiuto lo schema “destra-sinistra” per capire se la Commissione Junker promuoverà politiche per la crescita oppure confermerà le politiche per l’austerità fiscale. Certamente, su 28 membri della Commissione, gli esponenti socialisti sono meno del 30%, mentre la componente maggioritaria è quella dei cristiano-democratici, con una buona presenza di liberali. Nella visione tradizionale, si potrebbe dire che siamo di fronte ad una grande coalizione, con il suo baricentro spostato a destra. Eppure, lo schema destra-sinistra dice poco o nulla rispetto ai futuri orientamenti della Commissione.

Dopo tutto, anche nel Parlamento europeo, quando si è trattato di votare su questioni che toccavano gli interessi nazionali (come è stato il caso del voto sugli Eurobonds del 15 febbraio 2012), la distinzione tra destra e sinistra non ha retto e i parlamentari si sono allineati sulle posizioni dei rispettivi paesi. Piuttosto, la domanda da porsi è un’altra: è la Commissione Junker in grado di promuovere un punto di vista sovranazionale che bilanci la logica intergovernativa che è alla base delle politiche di austerità? Sulla base dei fatti, la mia risposta è negativa.

Le politiche dell’austerità sono l’esito di una visione della politica economica europea basata sulla centralità decisionale dei governi nazionali (all’interno del Consiglio europeo e dell’Euro Summit, così come all’interno dell’Ecofin e dell’Eurogruppo). Se le politiche economiche vengono decise dai governi nazionali, è evidente che i governi più forti, anche perché espressione dei paesi più grandi e più ricchi, sono destinati ad imporre la propria agenda, la propria visione e i propri interessi. La Germania non ha complottato per imporre la sua visione su come rispondere alla crisi dell’euro, ma sono state le sue dimensioni demografiche e le sue capacità economiche a trasformarla nel leader dell’Unione e dell’eurozona. Ma queste possono funzionare solamente se vi è un equilibrio tra gli stati che le compongono, equilibrio che richiede il riconoscimento dei loro diversi ma altrettanto legittimi interessi. Per tutta la crisi dell’euro, i legittimi interessi degli stati del sud, il cui modello politico-economico è sostanzialmente diverso da quello proprio degli stati del nord, non sono stati presi in considerazione all’interno delle istituzioni intergovernative. È legittimo auspicare, dunque, che sia la Commissione a introdurre un punto di vista sovranazionale nella logica intergovernativa che è divenuta predominante. Un punto di vista sovranazionale è né di destra né di sinistra, ma esprime (o dovrebbe esprimere) l’interesse dell’Unione e della Eurozona nel loro complesso. Questo interesse non coincide con la somma degli interessi nazionali, né tanto meno con gli interessi nazionali degli stati più forti, perché si sostanzia nel favorire la crescita dell’Unione o dell’Eurozona in quanto tali. Se così è, allora sarebbero necessarie politiche anti-cicliche a livello europeo così da equilibrare gli effetti pro-ciclici delle politiche domestiche di consolidamento fiscale. Potrà la Commissione Junker fermare la deriva intergovernativa?

In realtà la Commissione ha aumentato il suo tasso intergovernativo. Considerando l’incarico che avevano prima della nomina, tra gli attuali commissari vi sono 5 ex primi ministri, 1 ex vice-primo ministro e 12 tra ex ministri o vice-ministri. Ovvero 2/3 dei commissari sono (stati) esponenti dei governi nazionali. Certamente si tratta di una Commissione “politica”, perché composta di leader politici, ma non perché portatrice di un suo programma politico. Se poi si guarda la distribuzione dei portafogli, con ben 4 ex primi ministri nella vice-presidenza, e ai loro orientamenti di politica economica, allora i dubbi sulla capacità della Commissione di esprimere un punto di vista sovranazionale sono destinati a crescere. Come si potrebbe pensare diversamente, se il paese alfiere di un nuovo approccio alla politica economica (come la grande Francia del commissario Moscovici) dovrà farsi coordinare dai due vice-presidenti (come gli ex primi ministri Dombrovskis and Katainen delle piccole Lettonia e Finlandia) che sono stati i più convinti sostenitori delle politiche di consolidamento? Se poi si guarda all’insieme delle nomine europee di questi giorni, allora i segnali sono ancora di meno rassicuranti. Il Consiglio europeo ha eletto, come suo presidente ma anche come presidente dell’Euro Summit, il polacco Donald Tusk, cioè l’esponente di una paese che non fa neppure parte dell’Eurozona. La cosa fa piacere agli inglesi che, insieme ai paesi esterni all’eurozona, potranno condizionare le scelte di quest’ultima. Ma soprattutto la scelta di Tusk viene incontro agli interessi della Germania che potrà esercitare la sua influenza in quelle cruciali istituzioni intergovernative senza dover fare i conti con un presidente dotato di una sua autonoma autorevolezza.

Naturalmente in politica le cose possono cambiare. Così come è possibile che il presidente Juncker possa utilizzare i fondi della Bei per promuovere politiche di sviluppo che abbiano effetti keynesiani sull’Unione nel suo complesso. È anche probabile che le gerarchie interne alla Commissione possano saltare. Tuttavia, se Federica Mogherini, nella sua qualità di vice-presidente della Commissione e non solo di alto rappresentante per la politica estera, vuole promuovere un punto di vista sovranazionale, allora sarebbe auspicabile che non rimanesse prigioniera dello schema sinistra-destra. Non c’è un punto di vista “socialista” da promuovere, ma un interesse alla crescita da rappresentare con i commissari che sanno cosa ha prodotto l’austerità nei loro paesi.