jobs act

A pagare il conto più salato saranno le partite Iva

A pagare il conto più salato saranno le partite Iva

Davide Giacalone – Libero

Al celebrato «popolo delle partite Iva» arriva la polpetta avvelenata. Gli obiettivi annunciati erano: a) diminuzione della pressione fiscale; b) semplificazione; c) elasticità. La legge di stabilità impone gli opposti. Prima 30.000 euro era il limite massimo entro cui forfettizzare un prelievo del 5%, ora si scende alla metà (15.000), ma con aliquota al 15%. Il reddito, però, è tassabile al 78%, supponendo costi al 22. Supposizione frutto di esoterismo burocratico, basata sul nulla, il cui unico effetto sarà quello di mettere fuori mercato le iniziative coraggiose di chi si spende oggi per guadagni futuri. Dovendo mettere fra i costi un fisco che non tassa solo il profitto, ma anche quel che si spende per raggiungerlo, chiuderanno bottega. Impoverendoci tutti.

Con il vecchio sistema forfettario un reddito autonomo di 30.000 euro ne pagava 1.500 di Irpef, con il nuovo ne pagherà 7.000. Queste stesse partite lva, inoltre, scopriranno che non conviene più il regime forfettario, talché sarà saggio tornare a quello ordinario. ll tutto mettendo nel conto anche la crescita della pressione previdenziale, generata dalla gestione separata Inps: 2 punti in più nel 2015, poi uno in più all’anno, fino a toccare il 33,72%. Morale: la promessa diminuzione della pressione fiscale ha generato il suo incremento e l’annunciata semplificazione ha partorito le complicazioni.

Veniamo all’elasticità: per quanto sembri strano, è la guancia su cui è stato assestato il più bruciante ceffone. Il governo aveva annunciato di voler puntare sull’elasticizzazione del mercato del lavoro, premiando chi ha meno protezioni con meno oneri e meno vincoli. Ricordate la storia di Marta? La giovane precaria cui si voleva assicurare una maternità serena, evitando che sia un privilegio delle sole lavoratrici dipendenti a tempo indeterminato? Ebbene, la Marta che ha una partita Iva non solo non ha alcuna protezione, avrà una maternità interamente a proprio carico,e contabilizzerà come minor reddito il tempo in cui non lavorerà. Ora pagherà più tasse e non potrà più scalare dal reddito tutte le spese sostenute per l’attività, ma solo il 22%. Volevano festeggiare Marta, l’hanno conciata per le feste.

Con il Jobs act si vuol portare maggiore flessibilità nel mercato del lavoro, ma intanto si bastona chi ne è l’incarnazione. Il lavoratore autonomo porta sulle proprie spalle l’intero carico del rischio e modula il proprio lavoro in rapporto alle esigenze del cliente. Per questo non ha un orario di lavoro, dato che potrebbe semplicemente non avere mai sosta. Questo esercito di lavoratori (circa 6 milioni e mezzo) rende ancora fluido il sangue che circola nel corpo produttivo. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è quella che si è fatta: punirlo.

Conosco a memoria (se non altro per esperienza diretta) il copione della polemica inutile: i lavoratori dipendenti pagano le tasse, mentre gli autonomi le evadono. Nessuna delle due cose è vera. I lavoratori dipendenti possono evadere le tasse, ad esempio i docenti facendo ripetizioni private in nero. Mentre i controlli sugli autonomi sono severi. Certo che c’è l’evasione fiscale, ma il conto reso intollerabilmente salato dalla legge di stabilità non lo pagheranno mica gli evasori, bensì le persone per bene. Fino a rompere l’elastico. La ciliegina sulla torta, la beffa dopo il danno, è il sentire i governanti continuare a pavoneggiarsi: abbiamo diminuito la pressione fiscale. È falso per tutti. Per i lavoratori autonomi è vero il contrario: è cresciuta e crescerà. Tutto per finanziare la spesa pubblica corrente, che continua intonsa la sua corsa verso l’abisso.

La riforma del lavoro e l’orizzonte da guardare

La riforma del lavoro e l’orizzonte da guardare

Alberto Orioli – Il Sole 24 Ore

Li “scarteremo” sotto l’albero. I decreti attuativi del Jobs act sono in fase di elaborazione avanzata e verranno divulgati nel Consiglio dei ministri di mercoledì. Alle parti sociali è stato detto poco. C’è il sospetto che, via via che si entra nel dettaglio delle complessità del mercato del lavoro, la riforma prenda atto dei rischi possibili se l’approccio è poco sistemico e troppo contingente. Il contratto a tutele crescenti fa il conto con la fatidica soglia dei 15 dipendenti e costringe il Governo a pensare a una forma “scontata” per gli indennizzi a carico delle piccole imprese, altrimenti penalizzate dalla nuova disciplina. E ciò naturalmente riproporrà una nuova forma di dualismo nel mercato che già sconta quello tra vecchi e nuovi assunti perché la riforma non si è spinta fino a generalizzare le nuove regole. E si affianca all’altro dualismo tra contratti a termine, versione riforma Poletti, e i contratti a tempo indeterminato senza contribuzione che il Governo vuole più convenienti e che entreranno in vigore dal 1° gennaio.

Il pendant del superamento dell’articolo 18 è la creazione di nuovi ammortizzatori sociali e il disboscamento delle forme di precariato. Ma anche in questo caso sono possibili rischi di incongruenza. L’aver annunciato di voler superare i contratti di collaborazione e, allo stesso tempo, di volerli includere tra i possibili beneficiari del nuovo ammortizzatore sociale universale (l’Aspi) non sembra improntato a coerenza e, soprattutto, rischia di avere un costo che nessuna Ragioneria generale potrà mai bollinare. La riforma è un importante passo avanti; va però inserita in un orizzonte più generale. È tempo di ripensare l’idea di ammortizzatori sociali che ha portato ai paradossi di lavoratori con anzianità aziendale di 20 anni dei quali solo 6 o 7 lavorati effettivamente. Non ha senso immaginare vite lavorative fatte di un rosario di cassa integrazione ordinaria, straordinaria, contratti di solidarietà, mobilità, mobilità lunga, prepensionamenti. La riforma deve diventare l’occasione per rendere efficiente il mercato del lavoro e viverlo come tale, un bacino dove si creano e si distruggono posizioni in continuazione, e dove conta facilitare al meglio l’incontro tra domanda e offerta tramite la collaborazione tra pubblico e privato. Più facile a dirsi che a farsi. Ma il riformismo vero sta tutto nel far coincidere il detto con il fatto.

Ai giovani si dà poca garanzia

Ai giovani si dà poca garanzia

Claudio Tucci – Il Sole 24 Ore

Il ministro Giuliano Poletti ha dichiarato di voler apportare correttivi a Garanzia giovani per aiutare di più l’occupazione. «Bene le aperture del Governo. Non è un mistero, infatti, che il primo bilancio del programma Ue, finanziato fino al 2015 con 1,5 miliardi di euro, sia stato finora piuttosto modesto. E soprattutto poco attrattivo per le imprese». Il problema, spiega al Sole 24 Ore il direttore generale di Assolombarda, Michele Angelo Verna, è che Youth Guarantee è stata lanciata con una parola chiave: «occupabilità», come espressamente indicato nelle raccomandazioni europee, con l’obiettivo cioè di «offrire una risposta ai ragazzi al di sotto dei 25 anni, che ogni anno si affacciano sul mercato del lavoro dopo la conclusione degli studi, rafforzandone le competenze a vantaggio delle opportunità di un impiego». E invece cosa è successo? Che il programma è stato esteso anche agli under 29 «Neet», snaturandone così l’obiettivo iniziale e, nei fatti, rivolgendo Garanzia giovani esclusivamente ai ragazzi con maggiori difficoltà a entrare a contatto con le aziende», spiega Verna.

E i numeri, purtroppo, stanno parlando chiaro: finora da maggio 2014, quando è partito il piano Ue anti-disoccupazione, le opportunità di lavoro rese disponibili sono state 27.094, pari ad appena 38.528 posti, sufficienti a coprire solo l’11% degli iscritti complessivi (poco più di 355mila under 29) e l’1,6% dei «Neet» stimati dall’Istat (oltre 2,4 milioni). È chiaro che c’è stato anche un problema di «execution», ancor più grave considerato che qui siamo in presenza di un piano europeo largamente finanziato (degli 1,5 miliardi a disposizione infatti, oltre 1,1 miliardi arrivano direttamente da Bruxelles, poi c’è il co-finanziamento nazionale). Ci sono troppi meccanismi “tecnico-burocratici”. Qualche esempio? «È molto difficile accedere ai bonus occupazionali per la presenza di filtri che impediscono di destinare a tutti i giovani questa misura – osserva Verna -. Inoltre, il sito internet ministeriale è poco funzionale e l’attività di informazione è affidata essenzialmente agli youth corner che di solito sono situati nei centri per l’impiego, non certo luoghi frequentati da ragazzi».

Quanto disposto sul bonus occupazionale è, a dir poco, paradossale: «Le regole ministeriali hanno imposto una serie di limitazioni all’incentivo – dice il dg di Assolombarda -. Esso è riconosciuto esclusivamente per i contratti a tempo indeterminato e per quelli a tempo determinato e di somministrazione. Per questi ultimi con due ulteriori vincoli: che abbiano una durata già inizialmente prevista pari o superiore a 180 giorni; che i giovani siano profilati in fascia di aiuto “alta”o “molto alta”». L’aspetto peggiore è che non è previsto alcun bonus per le assunzioni in apprendistato professionalizzante, che è tipicamente un contratto di formazione sul lavoro e che doveva essere lo strumento principale di Garanzia giovani.

L’impatto di questi lacci e lacciuoli è evidente: in Lombardia su oltre 3mila giovani assunti, solo 270 hanno diritto al bonus occupazionale. Questo perché, principalmente, il profiling del ministero del Lavoro colloca il 95% dei giovani in fascia di aiuto “bassa” o “media” e quindi non titolari di bonus per le assunzioni a tempo determinato. Il rischio, molto concreto, è che, se le norme non dovessero cambiare, il bonus occupazionale di Youth Guarantee potrebbe rimanere inutilizzato, anche a fronte del nuovo sgravio contributivo triennale previsto dal Job Act per le assunzioni a tempo indeterminato a tutele crescenti. Un peccato, specie in regioni come la Lombardia, che premia e incentiva direttamente le imprese (e non finanzia la formazione fine a stessa). La vera scommessa deve essere la formazione finalizzata al lavoro, che di fatto è la formazione on the job. Per questo «c’è bisogno di modificare le regole. Il bonus occupazionale dovrà essere assegnato per i contratti a tempo determinato di 180 giorni, considerando anche le proroghe. Inoltre, va riconosciuto alle imprese che assumono giovani (a prescindere da filtri e discriminazioni) e deve essere utilizzato pure per i contratti di apprendistato professionalizzante».

Anche il sito ministeriale è da rivedere. Dovrebbe essere una “vetrina”. Invece basta aprirlo per capirne l’inefficacia, come sottolinea Verna: «I giovani dovrebbero trovarci offerte di lavoro, ma gli annunci non sono filtrabili né per tipologia di contratto né per titolo di studio,che è l’unica cosa che i ragazzi conoscono con certezza. Mancano sezioni specifiche per chi ha maturato esperienze lavorative. Manca, inoltre, una sezione per individuare l’offerta formativa nei territori: il primo vero canale di “ritorno in attività” dei giovani soprattutto se la formazione è di tipo professionalizzante e maggiormente orientata al lavoro». Senza considerare, poi, che le aggregazioni giovanili non profit sono state totalmente escluse da Garanzia giovani. Come, pure, è mancata la valorizzazione del ruolo delle scuole e delle università.

«Occorre correggere il tiro – aggiunge Verna – e prevedere l’istituzione obbligatoria di servizi di placement all’interno delle scuole sul modello di quanto finora ha attivato la sola Regione Lombardia. C’è anche una scarsa attenzione alla collaborazione pubblico-privato, che in molti territori non valorizza le Agenzie per il lavoro che sono essenziali per garantire la riuscita di Youth Guarantee. Vanno liberalizzati i servizi per l’impiego in un’ottica premiale: chi più aiuta i giovani a inserirsi in azienda, più deve essere finanziato. In nove regioni l’accreditamento delle agenzie per il lavoro non è stato ancora avviato». Insomma, il ministro Poletti, che finora ha mostrato grande capacità di ascolto, «deve dare forti segnali di discontinuità conclude Verna. «È vero, i giovani registrati al programma Ue sono pochi. Nei prossimi mesi cresceranno. Per loro Garanzia giovani rappresenta un’occasione per l’ingresso nel mercato del lavoro. Il Paese non può permettersi di deluderli».

Altro che posto fisso, si lavora solo a ore

Altro che posto fisso, si lavora solo a ore

Laura Della Pasqua – Il Tempo

Archiviata la prospettiva di un posto fisso, per molti l’unica alternativa alla disoccupazione è saltare da un impiego precario all’altro anche nella formula dei cosiddetti mini-jobs. Si tratta del gradino più basso del precariato, sottopagato e ad elevata incertezza. A guidare l’exploit i settori del commercio, della ristorazione, del turismo e dei servizi. A tirare un bilancio è uno studio della Cgia di Mestre. Casalinghe, pensionati, badanti, studenti, disoccupati e «dopolavorisiti» sono le categorie che usufruiscono più di tali voucher, ovvero della possibilità di essere «assunti» per qualche ora da un committente venendo retribuiti attraverso l’utilizzo di un «buono- lavoro» di 10 euro lordi all’ora (pari a 7,5 euro netti).

I mini-jobs proliferano soprattutto nel Nordest: l’anno scorso sono stati venduti oltre il 40% del totale nazionale dei «buoni»: il 28,5% nel Nordovest, il 16,6% nel Centro e il 14,8% nel Sud e nelle Isole. Dal 2012, dice ancora la Cgia, anno in cui questo strumento è stato esteso a tutti i settori economici, il ricorso è più che triplicato: da poco più di 23.800.000 ore utilizzate due anni fa si è passati a 71.600.000 ore previste per l’anno in corso. Numeri triplicati anche se si analizza il trend dei lavoratori interessati: nel 2012 sono state coinvolte poco più di 366.000 persone, quest’anno, invece, ne sono previste più di un milione.

Ma questa forma di precariato ha comunque un risvolto positivo. Il segretario della Cgia, Giuseppe Bortolussi, spiega che «proprio in virtù di questo strumento è stato possibile far emergere una quota di sommerso che altrimenti sarebbe stata difficile da contrastare. Ora, anche i lavoretti saltuari sono tutelati. In più, chi viene assunto per poche ore con questi buoni può menzionare nel suo curriculum questa esperienza. Inoltre, per limitare l’utilizzo improprio di questi buoni, il legislatore ha stabilito che ognuno di questi deve essere orario, datato e numerato progressivamente». Tuttavia, la possibilità di aggirare la norma non manca: purtroppo, questa possibilità è presente in qualsiasi caso, figuriamoci quando si tratta di un accordo che, come in questi casi, è di natura verbale.

I voucher rappresentano un sistema di pagamento che i datori di lavoro possono utilizzare per remunerare quelle prestazioni svolte al di fuori di un normale contratto di lavoro, garantendo al prestatore d’opera la copertura previdenziale presso l’Inps e quella assicurativa presso l’Inail. Sia per l’imprenditore sia per il lavoratore la legge stabilisce degli importi annui limite oltre ai quali l’utilizzo dei voucher non è più consentito. Lo scarto tra il numero dei voucher utilizzati e quelli venduti si sta assottigliando sempre di più: se nel 2013 l’incidenza dei primi sui secondi era dell’88,5, per l’anno in corso ale al 93,8%. Nel 2013, ultimo anno in cui sono disponibili i dati ufficiali, i settori maggiormente interessati dall’utilizzo di questi «buoni-lavoro» sono stati il commercio (25,2% del totale dei lavoratori coinvolti), il turismo-ristorazione (17,6%), e i servizi (13,6). Resta comunque molto elevato l’uso dei voucher anche nel settore manifatturiero (19,5%).

La montagna e il topolino

La montagna e il topolino

Giuliano Cazzola – La Nazione

All’avvicinarsi della ‘prova del fuoco’ dei decreti delegati (gli schemi saranno predisposti nel Cdm della vigilia di Natale) emerge con chiarezza la caratteristica del Jobs Act Poletti 2.0, almeno per quanto riguarda la questione del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti con annessa la disciplina del licenziamento individuale. Per diversi motivi, durante il travagliato percorso della legge delega, si è assistito a un duro scontro politico che non trovava riscontro nelle norme che venivano profilandosi nella ‘navetta’ tra le due Camere. Il governo e la maggioranza dichiaravano intenti innovatori non riscontrabili nei principi e criteri direttivi; le opposizioni (a partire da quelle interne al Pd e dalla Cgil) denunciavano gravi abusi di cui non venivano ravvisate tracce nei testi. Alla fine, si è arrivati alla seguente mediazione: «… escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l’impugnazione del licenziamento».

Se è pacifico che, nel caso di nuovi assunti con il contratto a tutele crescenti, il licenziamento economico ingiustificato sarà sanzionato soltanto con un indennizzo (si sta discutendo sulla misura e se, oltre a un tetto massimo, debba essere prevista una soglia minima) è altrettanto chiaro che, per «specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato» il giudice potrà ordinare la reintegra. Corre voce che il governo si stia orientando a sanzionare così i casi in cui venga accertata l’insussistenza del fatto che ha determinato il recesso. Più o meno quanto già previsto nella legge Fornero. La montagna si appresta a partorire il topolino, come denunciano settori della maggioranza? Forse sarebbe stato meglio vigilare sulle mediazioni che il Pd conduceva al proprio interno, piuttosto che sperare di ignorarne la portata al momento dei decreti. Sarebbe almeno importante riconoscere al datore soccombente l’alternativa di optare per un’indennità risarcitoria, anziché attenersi all’ordine di reintegra.

Soltanto investire fa rima con ripartire

Soltanto investire fa rima con ripartire

Guido Gentili – Il Sole 24 Ore

Un grande sistema economico che abbia subìto i danni di una lunga guerra e che abbia ritrovato occupazione e reddito rapidamente, senza aver fatto leva sugli investimenti, pubblici e privati, non si è mai visto. Il discorso può valere in generale per l’Europa, che al suo interno presenta casi diversi, diverse velocità di uscita dalla crisi e profondi divari innovativi, ma che comunque si ritrova nel complesso più che un passo indietro rispetto agli Stati Uniti. Di sicuro il problema investe l’Italia, che dentro di sé – nel Mezzogiorno – rintraccia i numeri di una catastrofe demografica e sociale e un orizzonte di abbandono non solo industriale.

Senza investimenti può esistere un presente che compra un po’ di tempo per la sopravvivenza giorno per giorno, ma non c’è futuro. Così la fiducia dei cittadini e delle imprese, entrambi contribuenti super tartassati, non corre e non si propaga. E se poi a tutto questo aggiungiamo (si veda l’inchiesta su Mafia Capitale) il carico delle evidenze che emergono in tema di corruzione e di pubblica amministrazione, nessuno può meravigliarsi se il Paese non dà segni visibili di ripresa.

È probabilmente questo il quadro che ha fatto (e fa) da sfondo al tentativo del governo Renzi di alzare la domanda interna con i famosi 80 euro in busta paga (rinnovati anche per il 2015), il taglio del fisco sul lavoro e la riforma del mercato del lavoro prevista dal Jobs Act. Una scommessa difficile mentre procede, sempre sul filo del rasoio, il confronto con l’Europa e in un’Europa dove rispuntano gli incubi del caso Grecia, e mentre la carta del “piano Juncker” da oltre 300 miliardi di investimenti (ma solo sulla carta, come sappiamo) a tutto fa pensare meno che a un jolly vincente. Certo il nuovo, possibile corso della politica monetaria espansiva della Bce firmata da Mario Draghi può darci una mano. Ma sarebbe un errore molto grave pensare che la svolta di Francoforte possa sostituirsi a una politica riformista e innovativa. Dove gli investimenti sono a questo punto una componente decisiva e non incidentale.

L’economista Jeffrey Sachs ha parlato di recente di «sciopero degli investimenti» (in particolare nel settore dell’energia sostenibile) negli Usa e in Europa e di come questa paralisi è stata interpretata dai neo-keynesiani e dai sostenitori dell’offerta. I primi finiscono per promuovere “espedienti” (tassi d’interesse zero e incentivi) invece di incoraggiare l’adozione di politiche ben definite e “liberare” gli investimenti pubblici e privati intelligenti. I secondi sono indifferenti alla dipendenza degli investimenti privati dagli investimenti pubblici complementari e auspicano una riduzione della spesa pubblica «pensando, ingenuamente, che il settore privato possa magicamente colmare le lacune, ma riducendo gli investimenti pubblici non fanno altro che ostacolare gli investimenti privati».

Dibattito intenso. Nella pratica l’Italia, oggi anche in nome di un pareggio di bilancio costituzionale che non prevede però tetti né per l’aumento delle tasse né per quello delle spese, ha fatto per anni e anni la scelta peggiore e più miope: giù gli investimenti pubblici strategici per il futuro del Paese, su le spese correnti e la pressione fiscale. E quanto alla “ricaduta” sugli investimenti privati, che questi, i privati, si arrangino (ma loro fanno anche assai di più, come dimostra il progetto per la Grande Milano degli industriali lombardi). In un quadro dove l’aumento dei costi burocratici e amministrativi si accompagna, nel rapporto con lo Stato e i suoi bracci operativi, a un assetto giuridico incerto, mobile e improntato alla più ampia discrezionalità anche sul terreno dei diritti proprietari.

Investimenti: una parola abusata, ricorrente all’infinito, che fatica però a ritrovarsi nei numeri che servono e soprattutto nei fatti. Non è una sorpresa, ma deve essere chiaro che senza questi non si esce dall’economia di guerra.

Con il Jobs Act arriva l’apartheid

Con il Jobs Act arriva l’apartheid

Michele Tiraboschi – Panorama

La storia si ripete sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa. Richiamare la celebre massima di Karl Marx per commentare il discusso superamento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, vero e proprio totem della sinistra ortodossa italiana, non vuole avere nulla di provocatorio e tanto meno di ironico. Semmai è un tentativo di fare chiarezza sulla reale portata del tanto atteso Jobs act di Matteo Renzi: un provvedimento giunto al nastro di partenza non senza, tuttavia, qualche incidente di percorso che ne ha ampiamente compromesso l’efficacia.

Di riforma dell’art. 18 si parla da anni. E non è certo il caso di richiamare vere e proprie tragedie (come l’omicidio di Marco Biagi) per segnalare quanto sia tormentata la strada del processo di modernizzazione di un mercato del lavoro, quello italiano, tra i peggiori d’Europa per numero di occupati e per reali opportunità di accesso specie per i giovani e le donne. In un Paese dalla memoria corta come il nostro, dove autorevoli dirigenti politici e sindacali che attaccavano la legge Biagi hanno oggi votato in Parlamento il testo del Jobs act, è sufficiente fare pochi passi indietro nel passato. Perché la tragedia inizia nel 2012, con le altisonanti promesse della legge Fornero, enfaticamente titolata: «Riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita».

Crescita che nessuno ha visto e che anzi si è subito tramutata, per colpa dei gravi errori del ministro del Lavoro di Mario Monti, in un drastico peggioramento di tutti i principali indicatori del mercato del lavoro. Un impianto, quello della legge Fornero, che poco o nulla si discosta dal Jobs act di Renzi: con un’immancabile enfasi su quelle politiche attive che nel nostro Paese non ci sono, come bene dimostra il flop di Garanzia giovani, e con nuove rigidità per le imprese, specie quelle di piccole dimensioni, in termini di (maggiori) costi e (minori) flessibilità contrattuali dovute al tentativo, del tutto antistorico, di ribadire la centralità dei contratti di lavoro dipendente a tempo indeterminato. Nel non comprendere la vera natura del lavoro del futuro, la tragedia si trasforma ora in farsa col Jobs act. Perché la promessa di superare l’art, 18, come tributo alla modernità, è solo nelle intenzioni.

L’ambiguo compromesso parlamentare che ha consentito l’approvazione del testo di legge non supera affatto l’art. 18 e il conseguente spazio di intervento della magistratura che mantiene ampi margini per ordinare al datore di lavoro la reintegra nel posto di lavoro. Nessuna reale semplificazione delle regole del diritto del lavoro pare del resto possibile in un contesto normativo che vedrà convivere, almeno per i prossimi 15-20 anni, due diversi regimi di tutele tra loro profondamente differenziate a seconda della data di assunzione, prima o dopo il 2015. Oltre a inevitabili dubbi di legittimità costituzionale, la scelta di mantenere il vecchio art. 18 per chi già oggi è assunto a tempo indeterminato finirà anzi per ridurre la propensione a cambiare lavoro anche per il rischio oggettivo, nel passaggio a rapporti meno stabili, di pregiudicare la piena maturazione dei requisiti pensionistici.

Insomma, poco o nulla cambia rispetto al passato. Se non che si introduce ora una nuova e più odiosa forma di apartheid nel nostro mercato del lavoro: quella trai nuovi e i vecchi assunti. Con questi ultimi che, esclusi dal campo di applicazione del nuovo art. 18, manterranno a vita le tutele ereditate dal Novecento industriale contribuendo cosi alla creazione di nuove e insospettate barriere per i giovani nell’accesso al mercato del lavoro.

Matita blu per il professor Giavazzi

Matita blu per il professor Giavazzi

Il Foglio

Non è vero che il Jobs Act, con la norma sul contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti ingessa il mercato del lavoro, come sostiene Francesco Giavazzi in un editoriale del Corriere della Sera di domenica scorsa. Se fosse vera la tesi dell’economista del quotidiano di via Solferino, la norma del Jobs Act sarebbe una trappola e una scatola quasi vuota, anche se stabilisce che il lavoratore dipendente, con i nuovi contratti di lavoro, potrà esser licenziato per motivi economici con una indennità che cresce nel tempo (mentre, per i licenziamenti disciplinari, il reintegro varrà solo in casi speciali). Infatti, argomenta il professor Giavazzi, in Italia ogni anno ci sono 1,5 milioni di nuovi contratti a tempo indeterminato. Essendo i lavoratori a tempo indeterminato 14,5 milioni, se il totale di addetti con questo contratto non varia, ogni anno se ne rinnova un 10 per cento.

Giavazzi ne desume che annualmente un lavoratore a tempo indeterminato su 10 si sposta dalla propria azienda a un’altra con un nuovo contratto dello stesso tipo; poiché l’articolo 18 non varrà più per i nuovi contratti, gran parte di questi addetti non vorrà spostarsi e la rigidità del lavoro, col Jobs Act, aumenterà. Ma non è vero che, con occupazione invariata, ci sono solo spostamenti da un’azienda all’altra (Giavazzi non ricorda, per esempio, che una parte degli occupati va in pensione). Ipotizzando anzianità medie di 35 anni, ogni anno si liberano 438 mila posti a tempo indeterminato, circa il 3 per cento. In 4 anni se ne rinnova il 12 per cento. Inoltre non è vero che il cambiamento di contratto implichi il cambiamento di impresa. Molte volte si tratta di un’altra azienda della stessa impresa e di un diverso tipo di occupazione con un altro contratto di categoria (“chimico” anziché “tessile”, “commerciale” anziché “industriale”, “specializzato” anziché “operaio”).

Il senatore Pietro Ichino, tra i padri della nuova legge, risponde a Giavazzi che già ora queste mobilità vengono attuate evitando le perdite di diritti del precedente contratto, come l’anzianità acquisita, i bonus e gli incentivi precedenti. Sicché non ci saranno ostacoli alla mobilita. Il professor Giavazzi obietta che ciò vuol dire che per gran parte dei contratti rimane l’articolo 18. Ma si sbaglia anche in questo. In primo luogo perché con le clausole indicate dal professor Ichino, il lavoratore monetizza il reintegro al posto di lavoro rinunciandovi in cambio di benefici economici. E, soprattutto, il licenziamento disciplinare d’ora in poi sarà possibile, salvo “casi speciali”. Non è una rivoluzione del mercato del lavoro, ossia una macelleria sociale in tempo di crisi. Ma una incisiva riforma strutturale. Si chiama riformismo.