jobs act

Come cambiare il limbo del lavoro

Come cambiare il limbo del lavoro

Tito Boeri – La Repubblica

Il Governo ha ottenuto un’ampia delega dalla Camera per riformare le regole del mercato del lavoro, dalle norme sui licenziamenti individuali agli ammortizzatori sociali, dall’introduzione di un salario minimo alla semplificazione delle tipologie contrattuali. Ora si appresta a chiedere la stessa delega al Senato. Ci si aspetterebbe da parte dell’opposizione, sia in Parlamento che nelle piazze, una richiesta pressante di chiarimenti da parte del governo su come intende esercitare questa delega, su cosa precisamente intende fare su materie molto importanti e delicate. Invece, gli oppositori si pronunciano solo su come meglio bloccare l’iter della riforma. Fino a ieri si parlava di un ricorso alla Corte Costituzionale per eccesso di delega. Ieri, Susanna Camusso ha addirittura minacciato il ricorso alla Corte Europea. Bene ricordare che l’incertezza sul quadro normativo è la peggiore nemica della creazione di lavoro.

Tenere ancora più a lungo il nostro Paese in un limbo, in cui non si sa quali saranno le regole del mercato del lavoro, significa fare aumentare ulteriormente la disoccupazione perché i datori di lavoro, in queste condizioni, rimandano le assunzioni in attesa di maggiori certezze sul quadro normativo. Inoltre, una Corte può al massimo ripristinare lo status quo e questo è tutt’altro che invidiabile. Il nostro mercato del lavoro è il peggiore d’Europa, da qualsiasi parte lo si guardi: durata della disoccupazione, copertura dei sussidi di disoccupazione, produttività, formazione sul posto di lavoro, povertà tra chi lavora e l’elenco potrebbe continuare. Lo status quo è, in altre parole, aberrante, semplicemente indifendibile. Certo non aiutano i continui attacchi del nostro Presidente del Consiglio al sindacato. Sembrano dettati dal tentativo di accreditarsi in Europa e in fasce di elettorato tradizionalmente ostili al sindacato. Non se ne sentiva proprio il bisogno dato che si stanno riformando le norme sui licenziamenti individuali, non quelle sui licenziamenti collettivi in cui il sindacato gioca un ruolo cruciale. Fatto sta che, invece di rendere partecipi gli italiani di un confronto anche acceso su come e cosa riformare concretamente per migliorare le cose, si cerca di arruolarli nelle piazze e nelle urne per uno scontro di potere all’interno del partito di maggioranza relativa.

Vediamo allora quali sono i punti chiave su cui si gioca la possibilità di riformare davvero il nostro mercato del lavoro, un’opportunità che non possiamo assolutamente permetterci di perdere nuovamente. I decreti che seguiranno la legge delega dovranno ridurre l’enorme incertezza che oggi circonda i costi dei licenziamenti individuali in Italia. Significa semplificare le norme e ridurre la discrezionalità dei giudici. La minoranza del Pd ha ottenuto di creare un’asimmetria su come vengono trattati i licenziamenti economici e quelli disciplinari senza giusta causa. Per i primi non varrà mai il reintegro, per i secondi, in alcuni casi, sì. Come già discusso su queste colonne, questa asimmetria, per quanto confinata a casi molto specifici, rischia di aumentare il contenzioso, dunque l’incertezza. Il datore di lavoro vorrà sempre far valere ragioni economiche per il licenziamento mentre il lavoratore cercherà di dimostrare che le vere ragioni sono disciplinari. Nessuno ha interesse ad aumentare questa incertezza, tranne chi esercita la professione forense. Perché l’opposizione interna al Pd e lo stesso sindacato chiedono di trattare meglio chi presumibilmente può documentare di non essere gradito all’azienda perché si è poco impegnato sul posto di lavoro rispetto a chi invece “ha dato il massimo”, ma ha avuto la sfortuna di lavorare in un’impresa che, per colpe non sue, è entrata in crisi? Non sarebbe una battaglia molto più di sinistra chiedere al governo di introdurre nella legge delega il principio per cui il datore di lavoro paga un’indennità anche quando il licenziamento economico è legittimo? Oggi in Italia, a differenza che in molti altri paesi, non è così. Sarebbe un modo di tutelare di più chi è sfortunato e di tutelarlo maggiormente di chi ha presumibilmente qualche responsabilità nel deludente andamento dell’azienda presso cui lavora.

Un’altra battaglia che la sinistra non sembra voler fare riguarda il salario minimo. Ce ne sarebbe bisogno per ridurre il numero dei cosiddetti working poor balzati negli ultimi anni al 16 per cento della forza lavoro. La legge delega è molto reticente a riguardo, prevedendo sì «un compenso orario minimo», ma solo per i settori dove non c’è contrattazione collettiva. Ora, sulla carta tutto è coperto dalla contrattazione collettiva a meno che si sia nel settore informale. Quindi il salario minimo dovrebbe entrare in vigore solo dove nessuna legge viene applicata. Eppure, c’è un 13 per cento di lavoratori regolari che percepisce salari inferiori ai minimi contrattuali, con punte del 30 per cento in agricoltura e nelle costruzioni. Questi lavoratori senza alcun potere contrattuale continueranno a vedere il proprio salario orario avvicinarsi di molto allo zero. Perché la minoranza del Pd non chiede al governo di introdurre un salario minimo per tutti i lavoratori?

C’è poi la questione della semplificazione delle tipologie contrattuali. Renzi continua a sostenere che abolirà i contratti a progetto e i co.co.co. Ma come intende procedere? Cosa succederà a questi lavoratori? Come si pensa di ridurre il rischio che finiscano per alimentare le fila dei disoccupati? C’è un modo per scoraggiare l’abuso di queste figure contrattuali senza magari eliminarle del tutto? E ancora, cosa si vuol fare in concreto per ampliare la copertura degli ammortizzatori sociali ai lavoratori che hanno carriere discontinue? Se si vuole davvero estendere il diritto a essere assistito in caso di perdita di lavoro anche a chi ha versato contributi per soli tre mesi e a chi lavora nel parasubordinato, non bisogna forse mettere sul piatto più risorse di quelle oggi previste dalla Legge di Stabilità?

Perché nessuno pone queste domande al governo? Perché non chiede parimenti come intende assicurarsi che il diritto al congedo di maternità venga davvero esteso a tutte le lavoratrici, autoctone e immigrate, che lavorano nel nostro paese? Sono, immaginiamo, questi i quesiti che interessano milioni di italiani. Ma non è certo di questo che si parla. L’altra faccia della medaglia delle felpe rosse della Fiom sotto la giacca è un assegno in bianco. Quello che sta concedendo al governo chi dichiara il proprio dissenso sul Jobs Act, evitando di incalzare l’esecutivo su queste scelte fondamentali per il futuro del lavoro in Italia.

Bene il Jobs Act, ma i soldi?

Bene il Jobs Act, ma i soldi?

Massimo Blasoni – Metro

Riformare il mercato del lavoro non significa soltanto affrontare il tabù dell’articolo 18 ma costruire un mercato del lavoro nuovo. Se guardiamo alla legge delega sul Jobs Act – che prevede anche l’armonizzazione dei sussidi di disoccupazione, la riorganizzazione delle politiche attive e la creazione di un salario minimo legale – scopriamo però che le buone intenzioni rischiano di essere sconfitte dalla cruda realtà dei fatti. Insomma, mancano i soldi o -peggio ancora – vengono spesi male perseguendo logiche superate e inefficienti. La stessa legge di Stabilità prevede solo 2 miliardi per l’attuazione della legge delega e d’altronde nel testo di quest’ultima approvato prima al Senato e poi alla Camera possiamo leggere che «dall’attuazione delle deleghe recate dalla presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica». È realistico promettere un sistema di flexicurity senza avere un chiaro piano per le finanze pubbliche? La risposta è ovviamente no.
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Il Jobs Act c’è. Poche chiacchiere

Il Jobs Act c’è. Poche chiacchiere

Il Foglio

È sbagliato considerare chissà quale retromarcia i ritocchi annunciati al Jobs Act, compresa la possibilità di reintegra (peraltro demandata ai decreti D’attuazione) per circostanziati licenziamenti disciplinari. Chi lo dice guarda al dito anziché alla luna. Il primo soddisfa le temporanee vanità di minoranze e partitini che giustificano così la propria presenza. La luna è l’introduzione anche in Italia della regola aurea di ogni paese civile: non esiste lavoro senza giusto profitto, e non esiste l’abbonamento a vita al posto fisso, mentre in una vita è lecito e spesso utile cambiare più lavori. La riforma introduce il diritto dell’imprenditore a licenziare, dietro indennizzo, per motivi economici: è così ovunque, anche nell’Europa del Welfare state, ma per l’Italia pare una rivoluzione.

Gli stranieri, imprese e istituzioni come Banca centrale europea e Ocse, dicono che qui è più facile separarsi dalla moglie che da un dipendente. Basta guardare ai 118 milioni di ore di cassa integrazione, in gran parte straordinaria, erogati in dieci mesi per mantenere posti fasulli, spesso con aziende decotte o chiuse. L’equiparazione tra “lavoro” e “posto” non esiste nelle economie ad alta occupazione, ma resta un dogma per la Cgil dello sciopero surreale del 5 dicembre, e per la Fiom che ha cavalcato quello “sociale” di ieri. Nel quale sono echeggiate minacce per Matteo Renzi, proprio nelle ore in cui alcuni suoi collaboratori venivano costretti sotto scorta. In Italia per impedire le riforme del lavoro si è ucciso: non dimentichiamolo ora che si ha il coraggio di cambiare.

Un passo avanti e due indietro

Un passo avanti e due indietro

Gaetano Pedullà – La Notizia

Un passo avanti e due indietro, anche il Job Act si avvia a diventare legge. Doveva essere una rivoluzione, sarà invece una riforma zoppa. Per renderla meno indigesta a sinistra Pd e sindacati, torna infatti il reintegro in caso di licenziamento disciplinare senza giusta causa. Quali saranno queste giuste cause lo vedremo nei decreti delegati, ma dall’entusiasmo con cui si è ricompattata la minoranza Dem c’è da scommettere che le maglie saranno larghe. Renzi incassa così la sua riforma e, come effetto collaterale, un maggiore isolamento della Camusso, ormai mollata da Cisl e Uil. Alla politica e al sindacato che fa politica sfugge però che mentre ci si accapiglia per definire nuove regole (in questo caso del lavoro), c’è un’Italia vasta che delle regole (tutte) se ne sbatte. Le occupazioni abusive degli alloggi popolari a Milano e Roma – dove ieri c’è quasi scappato il morto – sono una prassi. Così come la violenza nelle periferie. E la rivolta degli abitanti di Tor Sapienza, nella Capitale, con i residenti che si fanno giustizia da soli per i furti degli immigrati, è il certificato di morte di uno Stato che continua a mettere e togliere regole. Senza la forza però di applicarle.

Né stop né retromarce

Né stop né retromarce

Fabrizio Forquet – Il Sole 24 Ore

Come una coperta corta il Jobs Act scopre le contraddizioni della maggioranza sul tema del lavoro. Mettere d’accordo Maurizio Sacconi, da una parte, e Cesare Damiano, dall’altra, su un tema ostico come l’articolo 18 è impresa difficile anche per un tessitore abile come Matteo Renzi. Non c’è da sorprendersi, quindi, se al momento di tirare le somme emergano quelle divergenze. Il tema della riforma del lavoro, come ribadito tra gli altri in queste ore dal presidente della Bce Mario Draghi, è però troppo importante per restare ostaggio delle divisioni. È sulla capacità di portare a termine entro la fine dell’anno le nuove regole dell’impiego, infatti, che si gioca la credibilità della capacità riformista non tanto di questo governo, ma dell’Italia nel suo complesso. Tanto più che dal 1° gennaio entrerà in vigore la decontribuzione per chi assume a tempo indeterminato e saranno disponibili nuove risorse per chi perde il posto di lavoro, così come è previsto nella Legge di stabilità.

Non è il momento perciò di stop o di inciampi. Nello stesso tempo va ribadito che non è una riforma purchessia quella che serve. Già ai tempi del governo Monti si è sacrificata l’efficacia della riforma del lavoro sull’altare della mediazione politica. La conseguenza sono stati tre anni di regole che hanno penalizzato e non favorito la creazione di posti di lavoro. Rifare lo stesso errore sarebbe un delitto. È presto per dire se l’accordo interno al Pd configuri appunto un passo indietro. Il testo sull’articolo 18 uscito dalla direzione del Partito democratico, che riapriva al reintegro nel caso dei licenziamenti disciplinari, lo era certamente rispetto all’impostazione originaria di Renzi. Ma la materia si presta a molte sfumature e a molte interpretazioni. Perciò bisognerà aspettare la formulazione degli emendamenti del governo per capire quanto l’esigenza di mediare con la sinistra del Pd possa comportare un effettivo indebolimento della riforma.

Le rassicurazioni che ieri sono arrivate dal premier, e dal suo delegato alla trattativa Filippo Taddei, fanno ben sperare sulle reali intenzioni del governo. Nessuno dalle parti di Palazzo Chigi sembra intenzionato a riallargare in modo ampio e pericoloso le tipologie per le quali ritorna il reintegro in caso di licenziamento. Tanto che anche la posizione del Nuovo centrodestra, dopo il primo allarme, si è fatta in serata più prudente e più ottimista sull’esito finale della trattativa. Il Jobs act ha un suo equilibrio che non va snaturato. Poi toccherà ai decreti attuativi, che saranno il vero cuore della riforma. E su questi il governo potrà avere le mani più libere. Purché, appunto, il Parlamento non introduca in extremis vincoli in una direzione conservatrice.

Alla flexicurity servono più risorse e strategie

Alla flexicurity servono più risorse e strategie

Alessandro Giovannini e Ilaria Maselli – Il Sole 24 Ore

Riformare davvero il mercato del lavoro in Italia, non vuol dire soltanto affrontare il tabù dell’articolo 18, ma costruire un mercato del lavoro nuovo. Una sfida che sembra essere raccolta dalla legge delega, la quale prevede anche l’armonizzazione dei sussidi di disoccupazione, la riorganizzazione delle politiche attive (ispirati alle linee guida della Strategia europea per l’occupazione e al modello di flexicurity) e la creazione di un salario minimo legale. Tutti elementi cruciali per trasformare il sistema nel suo complesso e aumentare l’efficienza del mercato del lavoro, ma sul cui merito si è poco discusso.

Per esempio, non si è discusso delle coperture. Nel testo approvato al Senato si legge: «dall’attuazione delle deleghe recate dalla presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica». La legge di Stabilità prevede poi solo 2 miliardi per l’attuazione della legge delega. È credibile promettere un sistema di flexicurity a spesa praticamente invariata? Basta confrontare la situazione italiana con quella del resto d’Europa, dove il sistema già esiste, per capire che difficilmente funzionerebbe.

L’Italia ha speso all’anno, in media, per le politiche del lavoro l’1,5% del Pil a fronte di una media europea dell’1,9 per cento. Se però si divide questa spesa per i disoccupati si scopre che la spesa per le politiche del lavoro in Italia è molto lontana da quella dei Paesi della flexicurity. Nel 2012 l’Italia ha speso in media 7.800 euro per il sostegno al reddito dei disoccupati, a fronte dei 18.100 in Danimarca e 21mila in Belgio. Nello stesso anno, l’investimento medio in politiche attive è stato di 1.800 euro in Italia, 16.900 in Danimarca e 6.500 in Belgio. È realistico promettere un sistema di flexicurity senza avere un chiaro piano per le finanze pubbliche?

Oltre l’aspetto finanziario, vi è poi quello della capacità amministrativa. I centri per l’impiego italiani sono capaci di svolgere l’attività di matching tra domanda e offerta dei mercati del lavoro locali? Sono capaci di soddisfare la domanda di formazione delle aziende nei loro distretti? Se no, perché e di quali strumenti avranno bisogno? I dati arrivati finora da Garanzia giovani non sembrano incoraggianti: a più di cinque mesi dal lancio dell’iniziativa, meno del 25% dei giovani registrati sono stati presi in carico e profilati dai Centri per l’Impiego (CpI). Questo nonostante le risorse siano già disponibili (più di 1,5 miliardi di euro). Come il Jobs Act vuole intervire su questo punto? Il testo approvato al Senato prevede un’«Agenzia nazionale per l’occupazione», che riesca a superare la frammentazione territoriale dei CpI attuali. Un’agenzia composta anche da «personale proveniente dalle amministrazioni o uffici soppressi o riorganizzati». Ma queste persone sono in grado di effettuare attività di front-office o andranno a ingrossare le fila della burocrazia di questa agenzia?

Considerato che con il Jobs Act cambia radicalmente l’impianto delle politiche del lavoro, volte non più alla tutela del posto di lavoro sempre e comunque, ma orientate verso la tutela dell’occupazione in generale e del reddito in caso di disoccupazione, è bene proporre una riforma solida e credibile altrimenti l’innesto di un sistema nuovo in un sistema che già fa resistenza rischia di creare un bel nulla. Per andare in questa direzione ciò che serve è prima di tutto ricordare che la flexicurity è un pacchetto e va implementata nel suo insieme. Non ha senso infatti pensare di attuare la flexibility prima e la security poi. In secondo luogo, è importante tenere a mente che la gestione moderna delle politiche del lavoro necessita di un approccio moderno alle politiche pubbliche, fatto di progettualità, monitoraggio e formazione. Non si possono infatti trasformare i funzionari dei centri per l’impiego semplicemente cambiando il loro job title. In maniera complementare rispetto a questo, è anche necessario stanziare risorse adeguate per finanziare politiche attive e passive, cosa che aiuterebbe a superare lo scetticismo di chi teme di passare da un regime a un altro.

I “dettagli” che zavorrano la manovra

I “dettagli” che zavorrano la manovra

Fabrizio Forquet – Il Sole 24 Ore

A quattro giorni dall’approvazione della legge di stabilità in Consiglio dei ministri, ancora nessun testo più o meno ufficiale è disponibile. Non è forse una novità, è però certamente un malcostume che non aiuta la credibilità del modo in cui in Italia si fanno le leggi. Viene da chiedersi, per dirne una, che cosa sia stato mandato a Bruxelles e che testo stiano analizzando i tecnici della Commissione in vista del giudizio di fine mese. Ieri sera da Palazzo Chigi si è fatto trapelare che per domani un testo sarà pronto per il Quirinale, non rimane che attendere. Intanto dalle bozze che stanno circolando si possono cominciare ad analizzare alcuni aspetti tecnici che dalle prime slide non erano emersi. Resta, allora, confermato il giudizio complessivamente positivo di una manovra a carattere espansivo, che dà e non toglie, in una fase di risorse più scarse che mai. Una manovra che taglia tasse e riduce (o almeno prova) spesa pubblica improduttiva. E tuttavia i nodi che meritano un approfondimento, e magari un ripensamento in Parlamento, non mancano.

Il taglio dell’intera componente lavoro dalla base imponibile Irap (che vale intorno ai 6 miliardi) è uno dei risultati più importanti di questa manovra. Impossibile sottovalutarne il peso, in termini effettivi di risparmio per le aziende e in termini di fiducia nella creazione e nella difesa di posti di lavoro. La copertura della misura è però garantita per una parte (2,1 miliardi) dal dietrofront rispetto alla riduzione del 10% dell’aliquota Irap stabilita con il decreto Irpef del maggio scorso. L’aliquota ordinaria Irap, dunque, tornerà dal 1° gennaio prossimo al 3,9% (dal 3,5%). Va anche considerato, poi, che – sempre in base alle bozze disponibili – il taglio previsto dalla Legge di stabilità si limita al costo del lavoro dipendente a tempo indeterminato, escludendo i lavori a termine e i collaboratori. Tutto questo significherà che talune aziende, quelle che non hanno o hanno pochissimi dipendenti stabili, saranno – per effetto della manovra – penalizzate. Per tutte le aziende, poi, viene meno la deduzione dell’Irap dall’imponibile Ires: questo è ovvio, ma riduce ulteriormente la portata – comunque positiva – del taglio dell’Irap.

Anche la cancellazione dei contributi per i primi tre anni per chi assume a tempo indeterminato è una misura che va nella giusta direzione di creare incentivi per le imprese a creare posti di lavoro stabili. Gli sgravi, tuttavia, valgono solo per le assunzioni effettuate nel 2015 e per chi non ha lavorato a tempo pieno nei sei mesi precedenti. Non si tratta, dunque, di una misura definitiva, mentre va a sostituire un beneficio permanente che è quello previsto dalla legge 407 del 1990, in base alla quale i disoccupati da oltre due anni potevano essere assunti a zero contributi (o con il 50%) per un triennio. Salta anche lo sconto contributivo legato alla prosecuzione di un anno dei contratti di apprendistato dopo il triennio. La cancellazione dei contributi prevede inoltre un tetto annuo di 6.200 euro. Questo significa che potranno giovarsi dell’abbattimento totale solamente i contratti che sono intorno alla soglia retributiva limite, per tutte le altre retribuzioni lo sgravio sarà parziale. Non basta. L’incrocio tra tetto e somme stanziate permette di stimare in 161mila le possibili assunzioni annue, molto meno di quelle stimate dal Governo. Senza considerare, infine, il tentativo di una parte del Pd di far inserire nel testo la clausola che, se il rapporto di lavoro si interrompe prima dei tre anni, l’imprenditore sarebbe costretto a pagare tutti i contributi arretrati. Un modo per rendere più incerto l’incentivo e ridurre la spinta che può venire dalla misura.

Contraddittoria con la linea affermata dal Governo nel Jobs act appare anche la scelta di tagliare 200 milioni al Fondo che incentiva la contrattazione aziendale. Sulla scarsa convenienza fiscale del Tfr in busta paga per chi ha redditi oltre i 15mila euro e sui rischi per la liquidità delle imprese è già stato detto tutto. Va però anche segnalato il rischio di un ulteriore aggravio di procedure burocratiche per le aziende, legato alla certificazione Inps e alla pratica con la banca. Sui tagli di spesa vale la pena soffermarsi. In riferimento a Regioni e Comuni non si può che essere d’accordo con Renzi: i governatori hanno tutta la possibilità di far fronte ai tagli attraverso una maggiore efficienza della spesa ed eliminando gli sprechi. Vi sono Regioni (analisi di Gianni Trovati sul Sole di ieri) che, per il proprio funzionamento, spendono 192 euro pro-capite contro altre che si limitano a 22; Regioni che hanno una spesa corrente di 619 euro pro-capite a altre che si fermano a 275; Regioni che spendono per il personale 174 euro e altre solo 12. Gli spazi per l’efficienza e i risparmi, dunque, ci sono, eccome.

Ma è sui ministeri che il Governo deve dimostrare di saper fare la propria parte. In una tabella preparatoria della manovra sono indicati tagli molto specifici per oltre 3 miliardi, missione per missione, nella logica (quasi) di una vera spending review. Nella bozza della legge a oggi disponibile, quei tagli – come hanno raccontato sul Sole Marco Rogari e Marco Mobili – si riducono a poco più di 1,4. Cosa ne è di tutto il resto? Ci si piegherà ancora una volta alla logica degli interventi lineari, limitandosi a indicare l’obiettivo del 3% di riduzione? O si recupererà quella tabella voce per voce, magari con i dovuti aggiustamenti? Tra i due metodi c’è tutta la distanza che passa tra un Governo che si prende le proprie responsabilità e uno che demanda ad altri le scelte impopolari.

Sull’azzardo di mettere tra le coperture le stime della lotta all’evasione Il Sole-24 Ore si è soffermato tante volte, ma va anche detto che il Governo questa volta ha prudentemente messo da parte una riserva di 3,4 miliardi che può tornare utile, in questo senso, anche nella trattativa con l’Europa. Sul credito d’imposta alla ricerca si parte solo da 260 milioni, una cifra certamente insufficiente e si lega l’incentivo esclusivamente agli incrementi di spesa, anziché al volume complessivo degli investimenti, come chiedevano le imprese. Viene inglobato, tra l’altro, il bonus oggi esistente per l’assunzione dei ricercatori. È francamente poco per riattivare gli investimenti privati. Lo sconto Irap, certamente, dovrebbe fare di più. Ma quello che manca del tutto in questa manovra sono gli investimenti pubblici. Gli 1,7 miliardi che (come racconta Giorgio Santilli a pagina 2) il Governo ha reso disponibili in questi giorni in attuazione dello “Sblocca-Italia” sono utili, ma sono una goccia. Laddove il mare non può che essere, per un Paese con le nostre difficoltà di finanza pubblica, un mare europeo. Renzi ha più volte invocato una maggiore concretezza per il piano Juncker. Ma anche quando si parla di investimenti europei c’è una fondamentale responsabilità nazionale, che è quella di fornire buoni progetti.

L’Italia in questi anni è mancata totalmente in questa sfida: pochi buoni progetti e pochissima capacità di trovare il matching con i finanziamenti. In questi giorni finalmente c’è un tavolo governativo (coordinato da Del Rio e Pagani per conto di Padoan) che sta lavorando con gli uomini della Bei proprio per individuare i progetti possibili. C’è da augurarsi che produca risultati concreti. Perché non c’è dubbio che – come ha sottolineato il Governatore Visco proprio ieri nel suo intervento a Bologna – il rilancio dell’occupazione e della crescita può passare solo attraverso una ripresa degli investimenti. In attesa, certo, del testo definitivo della manovra.

Tre assunti al prezzo di due, grazie ai contributi azzerati

Tre assunti al prezzo di due, grazie ai contributi azzerati

Marco Sodano – La Stampa

Risparmiare quasi novemila euro su una busta paga che al lordo ne costa 22mila: ecco cosa vuol dire, tradotto in cifre, l’annunciato azzeramento dei contributi per i neoassunti. Un impresa che abbia programmato – poniamo – due assunzioni ne potrà fare, con gli stessi soldi, tre. Almeno, sempre stando all’annuncio dato dal premier Matteo Renzi, nei primi tre anni di lavoro dei nuovi arrivati. Il taglio complessivo del costo del lavoro arriverebbe al 35%. Cifre che lasciano prevedere un grande successo per il contratto a tutele crescenti che il governo si prepara a far diventare legge con il Jobs Act.

Certo, al momento degli annunci seguirà per forza di cose la fase della calibratura: probabile che l’azzeramento vero e proprio, fatti i conti, sia possibile solo per alcune fasce di reddito. Altre potrebbero avere sconti meno consistenti, ma la base è quella di un intervento davvero incisivo. Resta da capire se i numeri reggeranno alla prova della calibratura. Scettica Susanna Camusso: «La domanda è come verrà compensato l’azzeramento. Dire che non si pagano dei contributi significa dover governare una copertura previdenziale per questi lavoratori». Il ministro del Lavoro Poletti garantisce: «I contributi saranno pagati comunque, dallo Stato». Tuttavia, il segretario della Cigl sostiene che la cifra messa sul piatto, un miliardo e mezzo, sarebbe più efficace «se utilizzata in un piano di assunzioni e lavori da fare».

La Fondazione Hume ha provato a fare due conti (sia pure con gli elementi, non precisissimi, a disposizione), rifacendosi ai dati disponibili (anno 2013). I numeri del Ministero del Lavoro parlano di quasi 1,6 milioni di assunzioni, quelli dell’Istat che lo stipendio netto medio era di mille euro. A queste condizioni, applicare la decontribuzione a una platea così ampia costerebbe nove miliardi l’anno. Più che troppo. È però anche vero che qualcuno potrebbe aver trovato più di un lavoro: i dati parlano di assunzioni, non di persone. Considerando allora solo gli assunti a tempo indeterminato nel 2013 che nel 2014 non avevano cambiato o perso il lavoro il costo complessivo di una decontribuzione totale assomma a 3,7 miliardi l’anno.

Bisognerà infine valutare anche altre variabili: anzitutto, lo sconto sarà applicabile solo ai nuovi contratti a tutele crescenti, e quindi non prima che il Job Acts sia diventato legge, nei primi mesi dell’anno prossimo (e questo potrebbe voler dire che nel 2015 basteranno 700 milioni). In secondo luogo, che le cifre prese in considerazione dalla Fondazione Hume riguardano le assunzioni effettive del 2013. La decontribuzione è studiata per aumentare il numero dei neassunti. Più funziona più costa.

Tfr e Irap: i conti della liquidazione in busta paga, deducibile il costo del lavoro

Tfr e Irap: i conti della liquidazione in busta paga, deducibile il costo del lavoro

Lorenzo Salvia – Corriere della Sera

Dopo un lungo tira e molla, il capitolo Tfr entra nel disegno di legge di Stabilità che oggi sarà approvato in Consiglio dei ministri. L’anticipo in busta paga del trattamento di fine rapporto sarà su base volontaria, possibile fino al 100% della somma maturata nell’anno, e riguarderà anche i lavoratori che hanno scelto di spostare il Tfr verso i fondi pensione. Per gli ultimi dettagli è in corso un confronto con l’Abi, l’Associazione delle banche. A ieri sera dal meccanismo erano esclusi solo i dipendenti pubblici. Ma potrebbero restare fuori anche altre due categorie: agricoltura più colf e badanti.

Per le colf si sta valutando se l’anticipo sarebbe un vantaggio per le famiglie, che già oggi possono liquidarlo anno per anno, oppure una spesa che finerebbe per mangiarsi buona parte delle misure a loro sostegno, compreso il bonus da 80 euro. A proposito di bonus, la misura viene confermata e allargata ma solo per le famiglie numerose con un solo stipendio. Come previsto, rispetto ai 26 mila euro lordi l’anno fissati a giugno, il tetto massimo di reddito sale a 31 mila euro con due figli a carico, a 40 mila con tre, a 50 mila con quattro. In parallelo dovrebbe arrivare un ritocco agli assegni familiari.

Il ddl di Stabilità prevede interventi per 30 miliardi di euro, di cui 11,5 finanziati in deficit, il resto in arrivo soprattutto da tagli di spesa. Per le imprese diventa più leggera l’Irap, l’Imposta sulle attività produttive, dalla quale sarà interamente deducibile il costo del lavoro per un valore di 6,5 miliardi di euro. Ma ad avvantaggiarsene saranno soprattutto le grandi aziende mentre resteranno fuori quelle senza dipendenti, il 70% del totale come ricorda Rete imprese Italia. Sempre dal lato delle imprese sul piatto c’è anche un miliardo di euro per azzerare i contributi sulle nuove assunzioni, quelle che saranno fatte con il contratto a tutele crescenti previsto dal Jobs act , che però deve ancora passare l’esame della Camera.

Salvo sorprese dell’ultima ora, viene rinviato ancora una volta il riordino delle agevolazioni fiscali. La legge di Stabilità si limiterà a costituire un gruppo di lavoro per sfoltire quella lista composta oggi da 700 voci. Ma il criterio base è già stato fissato: non si procederà con sgravi modulati a seconda delle fasce di reddito, come pure si era pensato di fare in un primo momento, ma alcune agevolazioni saranno eliminate per tutti. Non dovrebbero essere toccate quelle ad alto impatto sociale, come le detrazioni sulle spese mediche o sugli interessi per i mutui sulla prima casa. L’ipotesi iniziale era di ricavare da questo riordino almeno 1 miliardo di euro. Per far quadrare i conti potrebbe essere ulteriormente rafforzato l’aumento della tassazione sulle slot machine, anche se gli operatori dicono che, limitando le vincite, lo Stato finirebbe per incassare meno. Rinvio, sempre salvo sorprese, anche per la tassa unica sulla casa, che fonderà Tasi, Imu e Tari, con il ripristino delle vecchie detrazioni Imu: 200 euro per l’abitazione principale, più 50 euro per ogni figlio a carico.

Tfr, scelta volontaria
L’anticipo in busta paga del Tfr, il trattamento di fine rapporto, sarà possibile su base volontaria. Il lavoratore potrà chiedere di ricevere mese per mese fino al 100% della somma maturata nel corso dell’anno. Il Tfr maturato negli anni precedenti non può essere oggetto di anticipo. Sono esclusi i dipendenti pubblici, si ragiona su agricoltura e colf. Potranno fare domanda anche i lavoratori che hanno scelto di spostare il Tfr verso i fondi pensione. Proprio sui fondi il prelievo a carico dell’iscritto salirebbe dall’11,5 al 12%. Mentre verrebbe ridotta dal 20 al 12% la tassazione sugli investimenti.

Bonus di 80 euro
Confermato il bonus da 80 euro per i lavoratori dipendenti. Come previsto l’intervento viene allargato ma solo per le famiglie numerose che hanno un solo reddito: per loro il limite massimo di reddito sale rispetto ai 26 mila euro lordi l’anno fissati con il decreto che ha introdotto il bonus. E arriva fino a 31 mila euro con due figli a carico, a 40 mila con tre figli, 50 mila con quattro. In tutto la misura dovrebbe costare 500 milioni di euro. In parallelo è in arrivo anche un ritocco degli assegni familiari. Possibile il ritorno delle detrazioni fisse per i figli (50 euro) per la nuova tassa unica sulla casa, che metterà insieme Tasi, Imu e Tari. Nessun intervento sulle pensioni.

Pressione fiscale
Diventa più leggera l’Irap, l’Imposta regionale sulle attività produttive. Dall’anno prossimo sarà interamente deducibile il costo del lavoro, per un taglio del carico fiscale pari a di 6,5 miliardi di euro. La misura è stata accolta con grande entusiasmo da Confindustria. Ma riguarderà soprattutto le grandi aziende, mentre resteranno fuori 3 milioni di aziende senza dipendenti, il 70% del totale. Nel disegno di legge di Stabilità c’è anche un miliardo di euro per azzerare i contributi sulle nuove assunzioni, quelle che saranno fatte con il nuovo contratto a tutele crescenti introdotto dal Jobs act .

Più tasse sui giochi
Non c’è solo l’aumento della tassazione sulle slot machine. Nel disegno di legge di Stabilità ci sono anche altre tasse, che però potrebbero scattare solo come clausola di salvaguardia, cioè come piano B per garantire la tenuta dei conti se qualcosa dovesse andare storto. Possibile un ritocco delle accise sulla benzina, ma anche un aumento dell’Iva e delle imposte indirette che porterebbe in dote 12,4 miliardi nel 2016, 17,8 nel 2017 e 21,4 nel 2018. Salvo sorprese, viene rinviata ancora una volta la revisione delle agevolazioni fiscali, quella lista di 700 sconti che vengono recuperati nelle buste paga di luglio. Se ne dovrebbe occupare un comitato ad hoc.

La riforma dei contratti è la priorità

La riforma dei contratti è la priorità

Vincenzo Visco – Il Sole 24 Ore

Il dibattito sulla riforma del mercato del lavoro si è concentrato sulle modifiche all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, argomento che tutti gli esperti considerano di scarso rilievo pratico, ma che ha una valenza altamente simbolica e quindi risulta politicamente molto rilevante. Il motivo per cui l’articolo 18 è percepito come un simbolo ha a che vedere con la storia stessa del movimento operaio a partire dalla fine dell’800. Il problema di fondo è se il lavoro debba essere liberamente scambiato sul mercato o invece debba essere diversamente regolato e tutelato. La questione rievoca le battaglie sul lavoro minorile, la tutela delle lavoratrici e della maternità, l’orario di lavoro, l’ambiente di lavoro, i diritti di rappresentanza, ecc… In sostanza l’articolo 18 evoca il principio secondo cui i datori di lavoro non possono fare quello che vogliono o ritengono più opportuno nei confronti dei loro dipendenti. Il venir meno di certe tutele o di certi principi rievoca tempi in cui l’equilibrio necessario tra lavoratori e datori di lavoro era profondamente squilibrato e il rischio che si possa tornare indietro.

Del resto anche oggi in Paesi non certo poco importanti la tutela del lavoro appare squilibrata, carente, precaria e talvolta assente. È comprensibile quindi l’attenzione con cui si guarda a questo problema. Queste sono le questioni che, più o meno consapevolmente, sono dietro le polemiche attuali che hanno ovviamente una valenza ideologica e politica in quanto riguardano i poteri effettivi o immaginati della parti in causa. Naturalmente le questioni relative ai licenziamenti discriminatori o disciplinari o comunque privi di una giusta causa possono essere (e sono in pratica) risolti diversamente nei vari Paesi, e non è detto che il reintegro sia necessariamente preferibile al risarcimento, né che l’intervento del giudice sia da preferire a una soluzione arbitrale. Tuttavia è evidente che qualsiasi soluzione si volesse adottare, sarebbe opportuno che fosse condivisa e non imposta, e al tempo stesso che non è utile né ragionevole rifiutarsi di discutere delle soluzioni alternative possibili, se cambiare può portare a miglioramenti.

Ma le questioni rilevanti del nostro mercato del lavoro sembrano altre: l’articolo 18 ha, come si è detto, una importanza concreta marginale, anche se sul piano politico la sua aggressione può apparire utile. Il problema di fondo risiede invece nella sistematica perdita di competitività del Paese dopo l’ingresso della moneta unica che avvenne, è bene ricordarlo, in un contesto in cui in tutti i Paesi partecipanti l’inflazione era sotto il 2%, il disavanzo sotto il 3% del PIL, e la bilancia dei pagamenti era in equilibrio, il tasso di cambio lira/euro inoltre – checchè se ne dica – fu a noi favorevole. Subito dopo tuttavia, dall’inizio degli anni 2000, inizia un processo di divaricazione tra la dinamica della produttività (stagnante) e quella dei salari nominali (crescente). La divergenza riflette due fattori fondamentali: l’andamento dell’inflazione, superiore alla media europea, e la carente capacità di innovazione del sistema.

In poco più di 10 anni abbiamo così perso 30-40 punti di competitività rispetto alla Germania che ha affrontato l’ingresso dell’euro con una incisiva riforma del mercato del lavoro e della contrattazione promossa dal governo, ma condivisa da imprese e sindacati. In Italia il meccanismo contrattuale è rimasto invece lo stesso, furono inoltre assicurati in più occasioni rinnovi dei contratti del pubblico impiego che si sarebbero dovuti evitare e che hanno svolto la funzione di pivot rispetto al resto del mercato del lavoro; inoltre anche negli altri settori protetti dalla concorrenza si manifestavano fenomeni analoghi, e alla fine anche i contratti dell’industria erano spinti verso una crescita non giustificata dalla produttività. Il risultato è stato una perdita di esportazioni, di reddito e di occupazione, una carenza di investimenti, un peggioramento delle condizioni di bilancio, nonostante l’aumento della tassazione. L’esplosione della crisi finanziaria e la pretesa dei Paesi creditori di imporre ai soli Paesi in deficit l’onere dell’aggiustamento hanno fatto il resto. È dal sistema di contrattazione che occorre quindi iniziare, esso va reso flessibile sia a livello privato che pubblico, sia a livello aziendale che territoriale, con l’obiettivo di far crescere contemporaneamente sia la produttività (investimenti pubblici e privati) che i salari.

Oggi ciò non avviene, anzi avviene il contrario. Per esempio, se si esamina l’ultimo contratto dei metalmeccanici si vede che esso prevede per il 2014, anno di recessione e di deflazione, un incremento salariale superiore al 2% che poteva apparire modesto e moderato quando il contratto fu firmato nel dicembre 2012, ma che risulta oggettivamente stravagante ex post nella situazione attuale in cui non tutte le imprese, anzi probabilmente molto poche, sarebbero in grado di onorare gli impegni senza conseguenze negative. Gli interventi sul mercato del lavoro dovrebbero quindi farsi carico e trovare soluzioni per questi problemi che sono quelli rilevanti. E non si dica che l’Italia è diversa dalla Germania a causa della presenza prevalente di piccole imprese, in quanto la necessaria elasticità salariale e di organizzazione del lavoro potrebbe essere assicurata anche da apposite contrattazioni in sede locale e territoriale, tenendo conto della localizzazione delle imprese, e di altri specifici fattori di costo. I cambiamenti necessari sono quindi molti e profondi. Si tratta di avere coraggio e consapevolezza da parte sindacale e imprenditoriale ed equilibrio e capacità di leadership da parte del governo. Ma nella situazione attuale non mi sembra esistano altre alternative.