jobs act

La ventunesima prova di forza

La ventunesima prova di forza

Alfonso Celotto – Il Tempo

Con il Jobs act siamo arrivati a 21 voti di fiducia, sono così tanti che non ci facciamo più caso. Il secondo governo Prodi ha avuto una media di una fiducia al mese, in tutto 28. Il successivo esecutivo, guidato da Berlusconi, riuscì addirittura a fare «meglio», con una media di 1,2 al mese (53 in tutto). Record per Mario Monti con un governo che fece ricorso a 51 voti di fiducia, una media di 3 al mese. A seguire l’allora premier Enrico Letta ne ha previsti «solo» 9, in media 0,9 al mese. E arriviamo ai giorni nostri. In poco più di 6 mesi il governo Renzi ha accumulato 21 voti di fiducia. Sul piano statistico siamo tornati ai tempi dell’esecutivo tecnico di Monti allorché si gridò alla morte della democrazia. Eppure la questione della «fiducia» resta un forte strappo alle regole costituzionali di esame e approvazione delle leggi.

Quando il governo ricorre a questa pratica produce due effetti: fa cadere tutti gli emendamenti presentati dai parlamentari, a cui impone di votare sul suo testo, e fa sì che la scelta avvenga per appello nominale, in maniera da evitare possibili «franchi tiratori». Insomma, la questione di fiducia è una «bacchetta magica» (o una clava) in mano al governo. L’hanno usata a destra e a sinistra. Ora tocca a un governo che dovrebbe essere il più forte degli ultimi anni: ha un leader carismatico e una grande prospettiva di crescita. Eppure Renzi ricorre continuamente alla fiducia. Segno di forza, di debolezza o di assenza di democrazia?

Lavoro, tutte le nuove misure (senza articolo 18)

Lavoro, tutte le nuove misure (senza articolo 18)

Lorenzo Salvia – Corriere della Sera

Quello a tempo indeterminato e a tutele crescenti sarà il tipo di contratto «privilegiato in termini di oneri diretti e indiretti». Per questo sarà possibile incentivarlo, sotto forma di taglio dei contributi o dell’Irap da quantificare successivamente con le norme attuative, in modo da renderlo più vantaggioso rispetto ai contratti a termine che altrimenti non avrebbero rivali, specie dopo la liberalizzazione di pochi mesi fa. E con l’obiettivo finale di arrivare al «superamento delle tipologie contrattuali più precarizzanti». Nell’emendamento al Jobs act , il disegno di legge delega per la riforma del lavoro sul quale oggi il Senato dovrà votare la fiducia, il governo fa qualche altro passo verso la minoranza del Pd, che però resta critica.

Licenziamenti
Dal pacchetto, otto pagine che ieri sera hanno avuto la bollinatura della Ragioneria generale dello Stato e stamattina saranno depositate formalmente in Senato, resta però fuori ogni riferimento alle nuove regole sui licenziamenti e all’articolo 18. La questione sarà confinata ad un semplice discorso che il ministro del Lavoro Giuliano Poletti farà in Aula. Dichiarazioni spontanee, nessuna votazione a seguire. Come indicato nel documento votato nella direzione del Pd, il ministro si impegnerà a mantenere il reintegro nel posto di lavoro per i licenziamenti disciplinari, quelli addebitati al comportamento del dipendente, che dovessero essere giudicati ingiustificati dalla magistratura. Ma solo in alcuni casi limite e comunque rimandando i dettagli al 2015, quando il Jobs act sarà stato approvato anche alla Camera e il governo scriverà i decreti attuativi.

La tipizzazione
A quel punto, ma solo a quel punto, il governo procederà ad una tipizzazione più stretta dei licenziamenti disciplinari ingiustificati, in modo da ridurre il margine di discrezionalità dei magistrati. E lascerà aperta la possibilità per l’azienda di scegliere comunque l’indennizzo, ma più caro, anche quando il magistrato dispone il reintegro. I decreti attuativi passeranno in Parlamento solo per un parere non vincolante, e il governo avrà gioco più facile rispetto al difficile compromesso che deve cercare adesso. Una semplice dichiarazione del ministro non è una garanzia sufficiente per la minoranza Pd, che con Cesare Damiano avverte: «La battaglia per migliorare la delega continuerà alla Camera». Ma potrebbe funzionare da scudo in futuro, se le norme attuative dovessero essere impugnate davanti alla Corte costituzionale perché vanno al di là della delega, visto che nel Jobs act manca un riferimento proprio all’articolo 18.

Mansioni e voucher
Nell’emendamento ci sono altri due passi verso la minoranza Pd. Il primo è sul demansionamento, cioè la possibilità di assegnare al lavoratore mansioni inferiori a quelle della categoria di appartenenza. L’operazione sarà possibile rispettando le «condizioni di vita ed economiche del lavoratore», il che non vuol dire necessariamente conservando lo stesso salario ma quasi. Mentre sui voucher, i buoni lavoro utilizzati per le prestazioni occasionali, resta fermo il principio di un tetto massimo al loro utilizzo, che però sarà definito sempre con le norme attuative.

Scioperi e referendum
Non ci saranno invece, salvo sorprese, le norme sulla rappresentanza, sulla contrattazione aziendale e sul salario minimo, delle quali aveva parlato lo stesso Matteo Renzi nel corso dell’incontro con i sindacati avuto in mattinata. L’obiettivo è quello di impedire scioperi e referendum quando un accordo viene firmato dal 50% più uno dei rappresentanti sindacali, limitando il diritto di veto delle sigle più piccole (leggi Fiom). Mentre il salario minimo potrebbe sostituire in parte i contratti nazionali, indebolendo anche i sindacati più grandi. Il progetto resta in piedi ma con tempi più lunghi.

Il rischio da evitare per il vertice sul lavoro

Il rischio da evitare per il vertice sul lavoro

Adriana Cerretelli – Il Sole 24 Ore

Quasi certamente il terzo vertice europeo sul lavoro, che si terrà domani a Milano, non sarà diverso da quelli di Berlino e Parigi che l’hanno preceduto. Parole, impegni vaghi e poi silenzio più o meno pneumatico. Liturgie pubblicitarie utili a chi le celebra: che sia Matteo Renzi, Angela Merkel o François Hollande poco cambia e cambierà per i 26 milioni di disoccupati europei, giovani e non. La soluzione dei loro problemi, infatti, per ora non potrà che essere nazionale e solo in misura marginale targata Ue: anche perché le risorse del bilancio comunitario sono scarse e sempre più insufficienti a coprire il divario tra presunte politiche comuni e risorse disponibili.

Per questo il vero vertice di Milano si giocherà sull’ennesimo braccio di ferro tra il partito del rigore e quello della crescita, tra Germania e nordici da una parte, Francia e Italia dall’altra. La tensione della vigilia è altissima: la Merkel richiama all’ordine i renitenti ai sacrifici, Hollande le risponde picche sull’impegno a portare dal 4,3% attuale al 3% il deficit nel 2015 ma per questo rischia di vedersi bocciata a Bruxelles la legge di bilancio. E Renzi denuncia la vetustà delle regole vigenti pur affermando che non intende violarle, anche se a sua volta difficilmente riuscirà a far fronte alla tabella di marcia europea su conti pubblici e riforme strutturali.

Il tutto mentre si fa sempre più pressante e preoccupato l’allarme della Bce di Mario Draghi sulla crescita europea sempre più fragile e la deflazione che non passa. I dati congiunturali continuano purtroppo a dargli ragione. Ieri il turno degli ordini tedeschi all’industria, crollati in agosto del 5,7% su base mensile, il peggior scivolone dal 2009, con punte del 9,9% fuori dall’Eurozona e una caduta del 2% in Germania. Naturalmente le crisi russo-ucraina e mediorientale hanno dato il loro contributo negativo ma è soprattutto la debolezza dei partner euro a frenare la locomotiva tedesca. Se il buon senso prevalesse sulle profonde diffidenze reciproche e se tutti i protagonisti della partita facessero seriamente la loro parte, la soluzione dei malanni europei sarebbe possibile e anche a portata di mano.

Con un surplus dei conti correnti che supera ampiamente il tetto del 6% massimo previsto dalle regole Ue, Berlino oggi dispone dei margini finanziari per aumentare la spesa e rilanciare la domanda interna ed europea ma non intende usarli: ufficialmente perché conta di raggiungere il pareggio di bilancio nel 2015, nella realtà perché convinta che, allentando la pressione sui Paesi recalcitranti, otterrebbe l’effetto opposto a quello desiderato, inducendoli a fare ancora meno del poco o niente che oggi sono disposti a fare. Malfidenza eccessiva e ingiustificata? È difficile considerare Francia e Italia dei campioni di affidabilità: troppe promesse non mantenute, troppi immobilismi e competitività perduta, troppe divergenze economiche accumulate in un’unione monetaria che non può permettersene più di tanto se non vuole diventare ingovernabile.

Detto questo nessuno oggi, nemmeno la nuova Commissione Juncker che si insedierà il 1° novembre, sembra in grado di aiutare a uscire dal pericoloso impasse nel quale l’Eurozona senza crescita rischia di affondare. Ad ascoltare la pantomima delle audizioni parlamentari dei commissari che si susseguono in questi giorni, più che la generale consapevolezza della grande emergenza economico-sociale da affrontare e risolvere al più presto, si percepisce il solito gioco degli equivoci, degli equilibrismi impossibili, delle ambiguità europee senza fine. Non si capirebbe altrimenti come mai Pierre Moscovici, il socialista francese che fino a poco tempo fa prometteva di impugnare le bandiere della crescita e dell’occupazione a nome di tutta la sinistra europea, tenti ora di accreditarsi come il convinto paladino del rigore e delle regole Ue, come se da ministro delle Finanze non fosse stato proprio lui a ignorarli a ripetizione, con i noti risultati. Né si capirebbe Valdis Dombrovskis, il vice-presidente e falco collaudato che comunque ne controllerà da vicino le mosse, il quale sia pure con gran fatica prova a “colombeggiare” chiosando sulla futura dimensione sociale dell’Europa pur ripetendo che la crescita sarà il prodotto delle riforme e che comunque «nessuna legge impedisce agli Stati membri di uscire dall’euro». Cosa attendersi del resto dal premier lettone che ha portato il suo Paese nella moneta unica tagliando il Pil del 20% in 3 anni, i salari pubblici della stessa percentuale e le pensioni del 10%? Non si capirebbe nemmeno come mai il presidente Jean-Claude Juncker abbia promesso in luglio un piano europeo per la crescita da 300 miliardi che però, a quanto pare, punterà su capitali privati, niente fondi nazionali freschi e risorse “riciclate” tra quelle già allocate al bilancio Ue?

Le smentite a questi dubbi e confusioni di intenti naturalmente saranno più che benvenute, se ci saranno come si spera. L’Europa non può permettersi di ignorare ancora a lungo i suoi problemi. L’impatto con la realtà, troppo a lungo snobbata e travisata, potrebbe infatti riservarle, prima o poi, pessime sorprese.

Il disoccupato riluttante

Il disoccupato riluttante

Massimo Gramellini – La Stampa

Nascere a Berna presenta i suoi vantaggi. Intanto c’è una disoccupazione al 2,6 per cento, per cui hai 97,4 possibilità di trovare un lavoro o di permettere a lui di trovarti. Ma anche nel caso in cui tu faccia le capriole per sfuggirgli, usufruirai delle meraviglie del Renzi Act, che nei cantoni elvetici non è una chiacchiera da bar etrusco ma una legge che garantisce ai senza impiego un sussidio di lauta sopravvivenza. E se lo Stato, in cambio del sussidio, osa accalappiare un lavoro e addirittura proportelo? Potrai sempre fargli causa per mancanza di buongusto.

È quanto è capitato a un laureato disoccupato e sussidiato, nonché padre di neonato, che da anni studia a spese dello Stato per sostenere l’esame da avvocato. Pur di inserire una dissonanza in quell’esistenza piena di rime, gli hanno offerto un posto da spazzino. Mestiere che in Svizzera rasenta il contemplativo, dato che gli abitanti di quelle lande ossessive raccolgono, oltre alle cicche, anche la cenere e passano la cera pure sui marciapiedi. Per impugnare una ramazza simbolica, al prode laureato hanno garantito uno stipendio di 3600 euro al mese. E lui giustamente si è offeso: non tanto per la cifra, quanto per il disprezzo che da una simile proposta trasudava nei confronti dei suoi studi: un laureato in legge può al massimo spazzare il tribunale o una raccolta di codici polverosi. Lo Stato svizzero lo ha posto di fronte a un ricatto odioso: niente ramazza, niente sussidio. Così il nostro gli ha fatto causa, la prima della sua vita, ma l’ha persa. Forse neanche l’avvocato è il suo mestiere.

Dopo la casa, il tfr: Renzi ora stritola le imprese

Dopo la casa, il tfr: Renzi ora stritola le imprese

Laura Della Pasqua – Il Tempo

Qualsiasi intervento sul Tfr sarà volontario e a costo zero per le imprese. Parola del governo. Alla vigilia dell’incontro con i sindacati ai quali il premier Matteo Renzi vuol far digerire il Jobs Act mettendo sul tavolo come compensazione l’anticipo delle liquidazioni sugli stipendi, si moltiplicano i messaggi rassicuranti soprattutto alle imprese che rischiano di più da questa operazione. Così prima il ministro dell’Interno Alfano e poi il viceministro all’Economia, Enrico Morando, hanno ribadito che se l’intervento andrà in porto, verrà «fatto in modo che per la liquidità delle imprese risulti neutrale e per i lavoratori non aumenti il prelievo Irpef. E comunque sarà volontario». Tra le opzioni sul tavolo anche quella di dare una compensazione alle imprese attraverso i nuovi prestiti della Bce alle banche.

Ma al di là delle rassicurazioni, resta il sospetto che il governo voglia acquisire al fisco maggiori risorse per finanziare gli 80 euro e renderli stabili. L’esperienza della Tasi che non avrebbe dovuto portare maggior onere fiscale rispetto alla vecchia Imu e che invece si è tradotta nell’ennesima batosta, è un precedente che induce a guardare con sospetto alle promesse del governo. Dai calcoli dei Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro emerge che mettere nelle buste paga il Tfr significa per i lavoratori un maggior reddito pari a circa 40 euro al mese (in caso di Tfr erogato al 50%), circa 62 euro al mese (in caso di Tfr erogato al 75%) e circa 82 euro al mese (in caso di Tfr erogato al 100%). Il Tfr maturato ogni anno è circa 21,451 miliardi di euro. Non c’è solo il problema di privare le aziende di liquidità ma anche di asciugare la fonte principale della previdenza integrativa a cui ogni anno vengono destinati 6 miliardi del Tfr. Il dibattito si è scatenato. «La soluzione dell’anticipo del Tfr a costo zero per le aziende, paventata dal governo, è tutta da verificare» afferma il deputato di Forza Italia Luca Squeri. Per Stefania Prestigiacomo sempre di FI, «darebbe solo un colpo di grazia al Paese». Michele Perini, presidente della Fiera di Milano, lancia l’allarme: «Sarebbe un guaio grandissimo per le finanze imprenditoriali che utilizzano quella liquidità anche per far funzionare il sistema». E lancia l’alternativa: «Si può semmai discutere di Tfr futuro ma con un accesso al credito al 2,75%».

Politiche attive, rilancio urgente

Politiche attive, rilancio urgente

Michele Tiraboschi – Il Sole 24 Ore

Superare la vecchia idea del posto fisso e l’articolo 18. È questo il progetto di Matteo Renzi e del Jobs Act per portare l’Italia nella modernità. Operazione certamente possibile. A condizione, tuttavia, di garantire a chi perde un lavoro un’efficiente rete di servizi al lavoro e adeguati programmi di riqualificazione professionale. Solo così si potrà realizzare il più volte annunciato passaggio da un sistema passivo di welfare, ormai alle corde, alle politiche attive e di ricollocazione del celebrato modello nordico.

Di politiche attive, invero, si parla da almeno vent’anni, a partire dalla legge Treu e, a seguire, dalla legge Biagi. Ma nulla è stato fatto. Anzi, la situazione si è non poco complicata con la riforma del Titolo V della Costituzione, che ha contribuito a una profonda frammentazione delle politiche del lavoro oggi gestite, con differenziali di efficienza preoccupanti quanto evidenti, su scala regionale. Si spiega così una delle novità più importanti contenuta nel progetto di Jobs Act: l’istituzione di un’Agenzia nazionale per l’occupazione, alla quale si intendono attribuite competenze gestionali in materia di servizi al lavoro, politiche attive e indennità di disoccupazione. Alle Regioni verrebbe garantito il mantenimento della definizione delle politiche attive del lavoro e anche un loro coinvolgimento nella costituzione dell’Agenzia nazionale. Quanto all’indennità di disoccupazione, poiché è una competenza dell’Inps, si prevede il raccordo tra l’Agenzia nazionale e l’Istituto, sia a livello centrale che a livello territoriale.

Pur con le difficoltà di coordinamento con i vari enti competenti di servizi e funzioni che essa dovrebbe gestire, ci si attende che l’Agenzia possa realizzare diversi obiettivi. Innanzitutto, superare la sostanziale mancanza di indirizzo e coordinamento a livello nazionale delle politiche attive e dei servizi per il lavoro dell’attuale regime. Inoltre, si spera che possa finalmente realizzare un più efficace raccordo tra politiche attive e passive e una vera condizionalità dei sussidi con un’effettiva attivazione dei lavoratori disoccupati, in particolare percettori di indennità di disoccupazione, pena la perdita del sostegno al reddito.

La realizzazione di tale obiettivo di collegamento di misure di sostegno al reddito e misure volte al reinserimento del disoccupato nel mercato del lavoro è attuata anche attraverso la grande novità degli accordi di ricollocazione stipulati tra agenzie per il lavoro o altri operatori accreditati e i percettori di un sostegno al reddito. Gli operatori privati sarebbero incentivati alla presa in carico dei lavoratori disoccupati per la loro ricollocazione mediante una remunerazione a fronte dell’effettivo inserimento nel mercato del lavoro per un periodo minimo e proporzionata alla difficoltà di collocamento del soggetto reinserito al lavoro.

Il rapporto tra servizi pubblici e privati per l’impiego si inquadra in un doppio canale. Accanto alla competizione per il ricollocamento di disoccupati e in particolare percettori di sostegno al reddito, si rilancia la promozione della collaborazione e la valorizzazione delle sinergie tra servizi pubblici e privati per il lavoro, con l’obiettivo di rafforzare le capacità d’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Con questo obiettivo paiono volersi ridefinire i criteri per l’accreditamento e l’autorizzazione dei soggetti che operano sul mercato del lavoro, nonché i livelli essenziali delle prestazioni nei servizi pubblici per l’impiego.

Dopo il fallimento della Borsa nazionale del lavoro, la delega del Jobs Act intende anche rilanciare i sistemi informatici esistenti per la gestione del mercato del lavoro e il monitoraggio delle prestazioni sociali erogate. Sarebbe questo uno strumento fondamentale, che dovrebbe essere a disposizione di tutti gli operatori del mercato del lavoro per garantire un efficace collegamento delle politiche attive e passive. Per rendere più efficace il sistema informativo del mercato del lavoro si prevede l’istituzione del fascicolo elettronico unico comprensivo di tutti gli elementi riferibili alla vita attiva della persona, dai percorsi educativi e formativi a quelli lavorativi, alle transizioni e ai relativi sussidi, fino al conto corrente previdenziale.

Tutto questo è condivisibile. La domanda, tuttavia, è se vi sono oggi le condizioni per realizzare progetti da tempo noti e presenti nelle riforme del lavoro che via via si sono succedute. La credibilità del Jobs Act si gioca, del resto, tutta qui: nella ragionevole aspettativa che il lavoratore che perde il posto non sarà lasciato solo e che una moderna rete di servizi al lavoro, pubblici o privati poco importa, lo accompagnerà verso la ricerca di un nuovo impiego.

Su questo fronte, la recente esperienza di Garanzia Giovani non lascia invero ben sperare. A fronte di uno stanziamento di 1,5 miliardi si è capito, dopo i primi mesi di sperimentazione, che per il nostro Paese il vero problema non tanto sono le risorse quanto la capacità di utilizzarle bene attraverso un’amministrazione pubblica in grado davvero di costruire le premesse dell’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro. Ebbene, nonostante la “garanzia” della presa in carico e del diritto a ottenere, entro quattro mesi, una proposta di lavoro o di stage o, in alternativa, un percorso di riqualificazione professionale, meno di un quarto dei 200mila giovani italiani registrati al programma Garanzia Giovani è stato convocato per un colloquio preliminare e poco altro. Tutti gli altri sono fermi davanti a una porta, quella delle politiche attive, che rimane incomprensibilmente chiusa anche quando le dotazioni finanziarie ci sono. Una prova ulteriore che le riforme del lavoro non passano necessariamente dalle leggi e dalla loro pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, quanto dalla capacità della nostra politica di attuarle giorno dopo giorno.

Sul lavoro le idee – come gli annunci e i convegni – non mancano. Ma se non vogliamo attendere il fallimento della quinta riforma del lavoro negli ultimi cinque anni è necessario un cambio di prospettiva che porti a prestare maggiore attenzione, più che alle regole, alla loro effettiva implementazione. Queste sono, del resto, le politiche attive. E non saremmo ancora oggi a parlare di introdurre una condizionalità dei sussidi, chiave di volta di un equo e moderno sistema di welfare, se avessimo dato attuazione a leggi vigenti da oltre un decennio.

Nel Jobs Act la mossa per abbattere l’ultimo tabù

Nel Jobs Act la mossa per abbattere l’ultimo tabù

Dario Di Vico – Corriere della Sera

Finora l’attenzione di merito sul Jobs act governativo si è concentrata quasi esclusivamente sulla riscrittura dell’articolo 18, cannibalizzando così un’altra scelta di grande discontinuità contenuta nel provvedimento sostenuto da Matteo Renzi: il salario minimo. In molti Paesi, europei e non, è in vigore da tempo, basta pensare allo Smic dei cugini francesi. In Italia, invece, l’introduzione del salario minimo è stata vista sempre come fumo negli occhi dai sindacati, gelosamente attaccati alla tradizione del contratto nazionale.

In linea di principio non c’è contraddizione tra una legge che stabilisca il salario minimo e un Ccnl stipulato tra le parti, ma in una fase di forte polarizzazione del sistema industriale finisce per rappresentare un’alternativa. Le differenze di mercato e di capacità di creazione di valore non sono più solo tra settori: passano all’interno dello stesso comparto. Dopo sei anni di Grande Crisi la distanza tra un’azienda che esporta stabilmente e un’altra che vivacchia di domanda interna è diventata abissale, come altrettanto ampia è la differenza tra industrie technology o labour intensive. Nello stesso settore metalmeccanico ci sono elettrodomestici e auto, che in virtù del basso valore aggiunto delle lavorazioni sono molto sensibili al costo del lavoro, ma anche le macchine utensili, in cui il livello delle paghe non è certo il principale dei problemi.

Con l’introduzione del salario minimo il contratto nazionale verrebbe fortemente limitato mentre ne uscirebbe esaltata la contrattazione aziendale. Il minimo stabilito per legge avrebbe poi un’altra valenza: far emergere il lavoro sommerso e combattere il caporalato in settori nei quali la rappresentanza sindacale tradizionale è evaporata e vige la pratica degli appalti al massimo ribasso. Si pensi, ad esempio, ad un business di grande rilievo come la logistica dove si è andato creando un far west di rapporti illegali, Cobas, false cooperative, sfruttamento degli extracomunitari e ricatto dei lavoratori. Costretti a retrocedere al datore di lavoro una parte del salario nominale stampato sulla busta paga. È chiaro che in situazioni come questa il salario minimo non è la panacea (servono anche tanti ispettori del lavoro!) ma potrebbe segnalare – specie agli stranieri – che le istituzioni non sono né cieche né sorde.

Quanto stato c’è nella Silicon Valley

Quanto stato c’è nella Silicon Valley

Mariana Mazzucato – La Repubblica

Renzi il mese scorso ha visitato la Silicon Valley con lo scopo dichiarato di portare in Italia innovazione, concorrenza e dinamismo. Il presidente del Consiglio fa bene a fissare questi obiettivi come priorità, se si pensa allo scarsissimo dinamismo che ha caratterizzato l’economia italiana negli ultimi vent’anni, a causa della stagnazione della produttività e conseguentemente della crescita. Purtroppo, però, invece di imparare da quello che è successo veramente nella Silicon Valley, sembra aver sposato gli slogan e i miti che circondano quell’esperienza, in particolare il mito che attribuisce il fenomeno della Silicon Valley all’impulso di imprenditori geniali, finanzieri disposti a prendersi grossi rischi e uno Stato che si dedica a ridurre i vari tipi di «impedimenti» che ostacolano questi risktakers. E infatti la riforma del lavoro che Renzi sta patrocinando in questo momento punta proprio a rimuovere tali impedimenti.

Ma se è sbagliata la lettura della storia, sono sbagliate anche le politiche. La Silicon Valley è il risultato di imponenti investimenti pubblici diretti (non sussidi) lungo l’intera catena dell’innovazione, dalla ricerca di base e applicata fino alla fase finale della commercializzazione. Mentre i venture capitalists, mitizzati da Renzi, perseguono profitti nel breve termine e puntano a un’«uscita» rapida dall’investimento attraverso un collocamento in Borsa o l’acquisizione da parte di un’altra società, il Governo degli Stati Uniti ha dimostrato di essere un finanziatore paziente, fornendo (attraverso una rete decentralizzata di organismi pubblici) finanziamenti ad alto rischio ad aziende come la Compaq, l’Intel e la Apple. E oggi fornisce lo stesso genere di finanziamenti a compagnie della green economy di successo come la Tesla, che recentemente ha ricevuto un prestito garantito per 465 milioni di dollari, e meno di successo come la Solyndra, che ha ricevuto un prestito di 500 milioni: nel gioco dell’innovazione qualche volta si vince e qualche volta si perde.

Se Renzi fosse andato alla Apple Inc., avrebbe trovato designer straordinari come sir John Ives che lavorano accanitamente insieme a team di grande talento, ma di ricerca e sviluppo ne avrebbe trovata poca. La ragione è che la Apple storicamente ha messo insieme, con un brillante senso del design e della semplicità, tecnologie già esistenti. Tecnologie finanziate dallo Stato. Nel caso dell’iPhone, Internet, il Gps, il sistema di comando vocale Siri e lo schermo tattile, tutti finanziati dai contribuenti. Naturalmente la Apple non è l’unico esempio di questo tipo: l’algoritmo di Google è stato finanziato dalla National Science Foundation; il settore delle biotecnologie, quello delle nanotecnologie e dei gas di scisto sono tutti nati grazie ai fondi pubblici.

Pretendere che l’innovazione in Italia arriverà semplicemente abbassando le tasse e riducendo la regolamentazione (specie, come è ovvio, intorno al solito bersaglio facile, il mercato del lavoro), significa ignorare questa storia. Il paradosso è che Renzi ha scelto di copiare dagli Stati Uniti una cosa soltanto, il tanto criticato Jobs Act del 2012 (dove Jobs sta per Jumpstart Our Businesses , cioè «mettiamo in moto le nostre imprese»). E non sorprende l’accoglienza che ha ricevuto questa settimana nella City visto che sono proprio questo tipo di politiche a produrre uno degli aspetti più anomali del capitalismo dei giorni nostri: socializzazione dei rischi, privatizzazione dei benefici.

L’obbiettivo del Jobs Act era di ridurre ancora di più il rischio di investimento per venture capitalists già avversi al rischio allentando gli obblighi di rendicontazione finanziaria per le aziende «più piccole» (quelle con meno di 1 miliardo di dollari di ricavi annui). Oltre a questo, il Jobs Act legalizzava il crowdfunding, consentendo ai fondi di venture capital di reclutare una gamma più ampia di investitori (e singoli individui) al momento di quotare le aziende in Borsa. In che modo tutto questo possa generare crescita occupazionale non è dato sapere: sembra anzi fatto su misura per consentire ai venture capitalists di realizzare profitti smisurati con piccole aziende che rivendono tecnologie realizzate con fondi pubblici. In realtà si ingrossa sempre di più l’esercito delle piccole imprese che si lamentano per i danni provocati dall’atteggiamento speculativo e orientato esclusivamente al breve termine dei fondi di venture capital.

E allora sì, se Renzi vuole regalare all’Italia innovazione e dinamismo deve rendere il Paese più efficiente, ma deve anche evitare di focalizzarsi unicamente sulle «rigidità». Il dibattito dovrebbe vertere sul tipo di investimenti necessari, sia da parte del settore pubblico che da parte del settore privato, e soprattutto si dovrebbe chiedere alle imprese italiane di mostrarsi all’altezza della situazione: non piegarsi ossequiosamente alla City (e alla finanza italiana) ma chiedere invece al mondo della finanza di smetterla di fare pressioni per abbassare la tassazione dei capital gains, una politica da breve periodo e pretendere invece che co-investa nel lungo periodo in quelle aree che in una crescita trainata dall’innovazione richiederebbe. E smetterla di chiedere sussidi ed elargizioni, smetterla di lamentarsi della burocrazia (che non è tanto maggiore di altre parti d’Europa che stanno crescendo) e decidendosi a investire, in collaborazione con lo Stato, in quelle opportunità in grado di costruire un futuro innovativo per l’Italia. E quando gli economisti di destra gli dicono che tutto quello che deve fare è tagliare le tasse, dovrebbe farlo in modo oculato, riducendo le tasse sulle assunzioni e non sulle plusvalenze. E poi ricordarsi che ai tempi del presidente Eisenhower, repubblicano ed ex generale dell’esercito – non certo un comunista – l’aliquota più alta negli Stati Uniti sfiorava il 90 per cento: e fu sotto di lui che vennero realizzati alcuni dei più importanti investimenti in innovazione. E magari citare anche un altro che non è comunista, uno degli investitori più abili e di successo della storia, Warren Buffett, che al contrario di Renzi sembra aver capito che le pressioni della City hanno distrutto e non creato posti di lavoro: «Sono sessant’anni che lavoro con gli investitori e devo ancora vederne uno, nemmeno nel 1976-1977 quando l’aliquota sulle plusvalenze era al 39,9 per cento, rinunciare a un investimento sensato per via dell’imposizione fiscale sui potenziali guadagni. Le persone investono per fare soldi e le tasse potenziali non le hanno mai scoraggiate. E a quelli che sostengono che aliquote più alte penalizzano la creazione di posti di lavoro faccio notare che tra il 1980 e il 2000 sono stati creati quasi 40 milioni di posti di lavoro in più. Cos’è successo dopo lo sappiamo: aliquote più basse e molta meno creazione di posti di lavoro».

La sinistra e lo scoglio del “fare impresa”

La sinistra e lo scoglio del “fare impresa”

Mario Rodriguez – Europa

Non è per attizzare lo scontro sui massimi sistemi, le visioni del mondo, le ideologie (in accezione positiva). In un partito davvero plurale si dovrebbe preferire confrontarsi sulle conseguenze dei principi piuttosto che sui principi stessi. Ma forse il Pd non è ancora del tutto un partito plurale e allora il confronto apertosi sul Jobs Act per il suo un significato più generale, simbolico, “diciamo” di cultura politica, acquista una sua importanza. Si dice confronto sul Jobs Act ma in fondo si parla del fare impresa.

Mi pare particolarmente significativo che Matteo Renzi nella sua replica abbia fatto riferimento agli interventi di Soru, Scalfarotto e del ministro Poletti tutti centrati su una specifica visione del fare impresa e dell’imprenditore. E non a caso la polemica più significativa è stata attorno all’uso della parola “padrone” fatta da Massimo D’Alema. Lo scontro sul ruolo del fare impresa racchiude anche una questione forse ora in via di soluzione nella sinistra italiana e che ebbe già ai tempi del saggio su Proudhon, firmato da Craxi, un momento cruciale: un’altra sinistra non di ispirazione (più o meno) marxista è possibile. Quindi, non solo chi ha preso origine dal movimento comunista o socialista massimalista è titolato a usare il brand “sinistra”.

Per semplificare da un lato (chiamiamoli per comodità contrari al Jobs Act) c’è chi sostiene o teme che la nuova legge possa rappresentare il ritorno dell’arbitrio padronale nelle relazioni di lavoro, un’idea servile del lavoro, il ritorno all’800. E logicamente, per loro l’impresa è un meccanismo che spinge il “padrone” per sua stessa natura (dati i rapporti di forza) a schiacciare il lavoratore, a limitarne la dignità umana, lo aliena, lo rende merce. Anche se non lo si esplicita quella dei “contrari” è la visione residua di una concezione classista del rapporto capitale lavoro anche se impacchettata in una terminologia neo keynesiana. L’impresa è il luogo della “contraddizione insanabile”, è il motore unico o privilegiato della società, è il luogo dove si produce il valore ma anche l’emancipazione. E sotto, sotto c’è sempre l’idea che il ruolo del capitalista sia residuo, possa essere surrogato da un operatore collettivo, dallo stato. La società senza capitalisti può esistere e funzionare!

Dall’altro ci sono coloro (chiamiamoli per comodità favorevoli al Jobs Act) che vedono l’impresa come uno dei luoghi della generazione della ricchezza (non il solo), vedono il profitto come incentivo ad investire e misura di efficacia, non come meccanismo di sfruttamento abolibile; generatore di opportunità collettive (attraverso la fiscalità) e non solo come avidità egoistica individuale. Vedono l’imprenditore come soggetto socialmente meritorio oltre che utile, come contribuente e non come potenziale evasore. Come inventore, portatore di visioni e aspirazioni. Un innovatore capace di imporre un nuovo modo di soddisfare bisogni. Forza da imbrigliare in regole precise (per contrastare la naturale propensione a cercare posizioni di dominio o di rendita e spesso scorciatoie illecite) ma non tali da frustrarne le potenzialità. Più Schumpeter che Marx per intendersi.

Anch’egli, come i leader carismatici, forza da domare per utilizzarne il potenziale non da demoralizzare. Per questo i “favorevoli” pensano che sia opportuno che l’imprenditore abbia – soprattutto in momenti di crisi – maggiori certezze regolamentali e maggiori possibilità di fare le proprie scelte sui collaboratori e i lavoratori della sua impresa. Pensano che le valutazioni di un giudice – variabili di luogo in luogo, di soggetto in soggetto – non solo non siano all’altezza delle scelte da compiere ma non possano surrogare le decisioni manageriali.

Detta così una visione sembra tutta conflitto e lotta e l’altra tutta armonia e amore per il prossimo. Ovviamente non è così. Il sindacato, anche la Fiom di Landini, sa negoziare tenendo presenti le esigenze produttive e le scelte manageriali come nel caso Ducati. E Poletti, Soru e Scalfarotto sanno benissimo che il conflitto non solo non è eliminabile in qualsiasi società ma è utile, è fisiologico, aiuta a migliorare, difende i più deboli e contrasta arroganza e abuso di potere. Una visione democratica prevede la competizione, la cooperazione e il conflitto, riconosce le diseguaglianze e combatte le discriminazioni. E non si preoccupa solo della discriminazione sul luogo di lavoro come parte del conflitto di classe: mi licenzi perché sono sindacalizzato o lotto contro i padroni. Ma la combatte come un problema sociale di libertà individuale e autorealizzazione umana, di dignità. Le discriminazioni per ragioni di genere, razza, opinioni devono essere combattute ovunque e il ricorso alla tutela della legge deve essere diffuso in tutta la società affinché diventi costume generalizzato.

Per questo credo che il confronto sul Jobs Act serva per riprendere un cammino avviatosi con la nascita stessa del Pd e abortito con il rilancio della bocciofila: quello della costruzione di un partito di sinistra plurale e post ideologico a vocazione maggioritaria, non il partito di una classe (anche se quella operaia) ma della nazione. In questo forse sta l’importanza poetica e non solo prosaica del confronto della direzione pd.

L’unica via d’uscita è trasformare i risparmi in lavoro

L’unica via d’uscita è trasformare i risparmi in lavoro

Giuseppe Berta – Il Secolo XIX

La crisi, in cui siamo entrati nell’autunno di sei anni fa e di cui non riusciamo a vedere la fine, presenta una differenza fondamentale rispetto alle precedenti: non è un passaggio congiunturale, una fase che una volta superata lascia ritenere che le cose riprenderanno più o meno come prima. No, la crisi attuale rappresenta una distruzione tale di ricchezza e, soprattutto, di capacità produttiva che prepara un declino strutturale del sistema economico del nostro Paese. L’Italia già oggi non assomiglia più alla realtà che era ancora pochi anni fa. Ieri ce lo ha detto con inconsueta chiarezza e drammaticità il Cnel (a proposito, non era uno degli enti soppressi dal governo in carica? Fino a quando farà ancora sentire la sua voce?). Dal punto di vista occupazionale, non si tornerà alla situazione precedente alla crisi. Mancano all’appello due milioni di posti di lavoro e non si sa come potrebbero essere creati, dal momento che sono venute meno le basi economiche da cui dipendevano. L’Istat non è stato più rassicurante, anche se ha usato toni meno drammatici: prezzi e consumi continuano a flettere e segnali di ripresa non si vedono. Il mercato interno prosegue nel suo ripiegamento. L’occupazione complessiva ha fatto registrare un lievissimo miglioramento, ma quella giovanile è scivolata ai suoi minimi.

Questi gli indicatori che fanno da sfondo alla discussione politica sul Jobs Act. Ma a questo punto bisognerebbe mettere gli italiani di fronte alla vera questione che abbiamo davanti: se non cambieremo il corso della nostra economia, l’Italia tomerà a essere il Paese povero che era stato negli ultimi secoli, fino alla seconda guerra mondiale. Ciò vorrebbe dire che la popolazione attuale ha avuto la sorte di vivere una parentesi felice, quei cinquanta-sessant’anni inaugurati dal “miracolo economico” che per un po’ ci hanno fatto credere che potessimo diventare “ricchi”, assimilandoci progressivamente al nucleo forte dell’Europa. Ora stiamo scoprendo che è stata un’illusione. A meno che…

A meno che ci decidiamo finalmente a mobilitare i nostri risparmi e a impiegarli nello sviluppo di una serie di attività in grado di ricostituire la ricchezza della nazione, dando un posto di lavoro decente ai nostri concittadini, specie quelli più giovani, che hanno diritto a coltivare una speranza. Serve un’operazione in grande stile, cui non siamo abituati. Serve un grandioso esercizio di leadership condotto non sui particolari (come l’articolo 18), ma sulla sostanza. Nelle condizioni in cui l’Italia è oggi, bisognerebbe varare qualcosa di analogo alla Commissione economica della Costituente del 1946: consultare gli operatori economici e chiedere quale via di sviluppo potremmo seguire per uscire dalle sabbie mobili. E poi mobilitare risparmio e lavoro per una strategia di investimento che rilanci la nostra economia, ma su basi nuove rispetto a quelle del passato (che in buona parte non esistono più). In altre parole, invece di amministrare con cautela e parsimonia un patrimonio destinato a consumarsí, significherebbe investirlo, essendo disposti a rischiare. Sta a noi tutti – e non solo alla nostra carente classe dirigente – decidere se farlo oppure se rassegnarci al grigiore del declino.