la nazione

Controllori distratti

Controllori distratti

Pier Francesco De Robertis – La Nazione

Eravamo rimasti ai quarantacinque giorni di ferie dei magistrati (che poi sono trenta più quindici per stendere le sentenze, come se nel resto dell’anno non fossero pagati per quello) ma scopriamo che non era solo quello. Nell’universo dell’impiego pubblico c’è di tutto, specie nel “particolare”, quando le dimensioni dell’ente dell “erogatore” sono modeste e tutto possa più facilmente sotto silenzio. Perché piccolo non sempre è bello, almeno molto poco bello per la decenza. Ci sono le indennità speciali ai musicisti per muovere la testa, quella ai vigili urbani per stare in strada, ad alcune categorie di impiegati per essere presenti.

Un vero e proprio bestiario, che alle prime cinque righe dell’elenco fa un po ridere ma alla sesta fa già montare la rabbia. Tutti piccoli bonus via via elargiti da politici spreconi in cerca di consenso o dirigenti di enti lirici e similari per assicurarsi una pace sindacale. Non si capisce perché gli insegnanti non debbano avere uno speciale riconoscimento per stare in classe con gli studenti, gli stradini uno per ricoprire le buche, i forestali per andare nei boschi. Magari qualche comune o regione ci avrà anche pensato, quegli stessi che poi piangono con il governo perché mancano i soldi dallo stato centrale e si devono chiudere gli asili.

Ma il punto non è(solo) questo. I punti sono due: il primo è una ormai inconcepibile discrepanza di trattamento tra dipendenti pubblici e dipendenti privati (lo sappiamo tutti benissimo: non c’e azienda privata che avrebbe riconosciuto simili indennità); il secondo è la mancanza di controlli veri ed efficaci “centrali” sui livelli di contrattazioni periferiche. L’autonomia va bene, ma a patto di non sforare il ridicolo e sfondare l’erario. Riguardo al primo punto ricordiamo che è in atto da parte del governo una riforma della pubblica amministrazione, la famosa riforma Madia: evidentemente è il caso che la delega all’esame del Parlamento si occupi anche di questi aspetti che non sono secondari. Nel secondo aspetto citato, la domanda è: ma dove sono i controllori tipo Corte dei conti o organismi simili? Anche in questo caso girati dall’altra parte oppure mancano gli strumenti legislativi per permettono un intervento? Sia come sia, è il caso di rimediare. In fretta.

I conti non tornano

I conti non tornano

Giuseppe Turani – La Nazione

Se io prendo cento euro e li sposto dalla tasca sinistra a quella destra, non per questo divento più ricco. L’idea di mettere mezzo Tfr in busta paga subito, mese per mese, è un po’ la stessa cosa. Da una parte si dice che è urgente diminuire il costo del lavoro per le imprese, dall’altra lo si aumenta. La logica sarebbe quella di dare subito più soldi ai lavoratori, così i consumi ripartono. Il Tfr è un accantonamento che l’azienda deve fare. Di solito, come dice il nome, quando il lavoratore esce dall’azienda, gli viene consegnata una somma equivalente appunto a un mese di stipendio per ogni anno lavorato. L’idea, degna del mago Houdini, è questa: poiché quei soldi sono già del dipendente e poiché abbiamo bisogno di rilanciare l’economia, diamoglieli subito, così si compra un paio di scarpe nuove e l’economia riparte.

È un ragionamento che farebbe bocciare all’esame di economia in qualsiasi università (ma forse anche a ragioneria). Si tratta infatti di un aumento «artificiale» delle paghe, ottenuto non grazie a un miglior andamento dell’economia, ma grazie a una distribuzione immediata di quelli che sono i risparmi del lavoratore, custoditi dall’azienda. I soldi del Tfr, infatti, non sono depositati dall’imprenditore in un salvadanaio a forma di porcellino che viene rotto quando il dipendente se ne va (magari fra vent’anni). Anzi, quei soldi non esistono proprio.

L’imprenditore li segna in bilancio perché così va fatto, ma in realtà usa quei soldi per le necessità correnti dell’azienda. Poiché sa quando i suoi lavoratori lasceranno l’azienda, si organizza in modo da avere nel momento dell’uscita il Tfr per 10, 20, 30 lavoratori. L’anno dopo se ne andranno altri 10, e l’imprenditore verserà l’equivalente di 10 Tfr. Se ha 200 dipendenti e se ne vanno 20 all’anno, dovrà avere in contanti i soldi per questi 20 Tfr. Il resto rimane nell’azienda. Se si decide che invece almeno metà del Tfr va versato mese per mese si ottiene certo di aumentare la paga dei dipendenti (a carico dell’azienda), ma in compenso si aggrava il costo del lavoro (subito) di una mezza mensilità, che a quel punto va tirata fuori per tutti i dipendenti e non solo per quelli che se ne vanno. Abbiamo passato mesi a dire che era centrale far scendere i costi per le aziende, e adesso andiamo a aumentarli?

Sorpassati dalla storia

Sorpassati dalla storia

Giuseppe Turani – La Nazione

Mentre prosegue il braccio di ferro sull’articolo 18, in giro per l’Italia sindacati e lavoratori firmano per lavorare anche alla domenica. È difficile non notare un contrasto stridente: il mondo va in una direzione, a dispetto di sindacati, minoranza Pd e di quelli saliti sulla barricata dell’articolo 18. Qualche tempo fa persino un uomo certamente di sinistra (anche se un po’ disastroso) come Fausto Bertinotti ha detto che la Cgil, ad esempio, aveva sbagliato nel non ritirare volontariamente i suoi dirigenti che risultavano in permesso sindacale, ma che erano pagati dalla pubblica amministrazione: in tempi di austerità e di difficoltà il sindacato avrebbe dovuto farsi avanti per primo. Invece ha aspettato che Renzi lo imponesse, e poi ha pure protestato.

La battaglia intorno all’articolo 18 ha un po’ lo stesso sapore di grave ritardo rispetto alla storia. E comunque la si pensi, non è il vero problema e nemmeno la minaccia più grande per il sindacato. La minaccia grave per il sindacato è quello che sta avvenendo a Bologna e altrove: lasciando perdere tutti i grandi dibattiti nazionali, politici e quasi filosofici, i lavoratori (dove c’è lavoro) puntano a prenderselo senza fare tante storie e a farsi pagare. Com’è giusto che sia. Poiché stiamo andando (anzi ci siamo già) verso un’economia che presenterà profonde differenze da settore a settore, da area geografica a area geografica, se il sindacato non cambia strada in fretta rischia di vedere che ‘sotto di lui’ il mondo del lavoro si organizzerà e contratterà le proprie retribuzioni. E rischia, quindi come in parte sta già accadendo, e come Renzi sembra aver capito benissimo, l’irrilevanza.

I tempi in cui i governi non usavano emanare nemmeno un decreto sul prezzo del pesce senza consultare prima i sindacati sono finiti. E quindi anche il tempo dei sindacati ‘quasi partiti’. Adesso, bisogna ritornare sul territorio e cercare, dove si può, di strappare condizioni di vita e salari migliori. Altrimenti la gente farà per conto proprio, città per città, fabbrica per fabbrica.

I soldi del diavolo

I soldi del diavolo

Marco Buticchi – La Nazione

Agli studenti di economia insegnavano che il bilancio è un artificio contabile. Vi confesso che mi suonava strano che l’incontestabile risultato a consuntivo di un’azienda potesse essere assimilato all’espediente tirato fuori dal cappello di un illusionista per raggiungere il proprio fine. Terminati gli studi, il vocabolo ‘artificio ‘passa nel dimenticatoio, estinguendosi poi come le molte nozioni con cui ci hanno riempito la gioventù. Il termine mi è tornato improvvisamente in testa poco tempo fa quando, nel bilancio della nostra augusta Nazione, ci hanno infilato il fatturato delle prostitute e ogni più turpe commercio illecito al grido di «tutto quanto fa PIL». Ancor più vibrante l’artificio si ripresenta oggi che, tirando i conti e le percentuali come la pelle di un pollo e alla luce dei fatturati non trascurabili dell’illecito, dal cappello dell’illusionista saltano fuori tre miliardi di dobloni.

Benedetto il ritornello di una vecchia canzone di Fabrizio de Andrè: «Ad ogni fine di settimana sopra la rendita di una p…». Risulta, però, troppo facile fare dell’ironia e, per evitare brutte parole, ci limiteremo a dire che tutto sta andando a… scatafascio. Per restare coi piedi per terra e scavare questa manna melmosa e illegale che, ahinoi, riabilita persino i conti della Repubblica, se tanto mi dà tanto, che succederebbe se marchette e traffici illegali venissero tassati? L ‘Italia riuscirebbe forse a rimettere a posto i suoi dissestati conti in un battibaleno? Resterebbero dei problemi di coscienza nei cittadini, ai quali si è sempre insegnato che solo il malaffare più bieco vive su certi proventi. Ma, si sa, davanti al vile dio denaro le asperità si smussano e le coscienze si rimpinzano. Sarà, forse, il primo passo per spostare l’esattore dalla malavita allo Stato?

Un’ultima cosa: i miei vecchi mi ripetevano spesso che i soldi del diavolo – ovvero quelli non guadagnati col sudore della fronte – vanno bruciati in fretta, senno il diavolo se li riprende. Prima che il diavolo si riprenda il suo tesoretto, esperti degli artifici contabili e dei proventi illeciti, spendetelo in fretta e spendetelo bene.

Prima o poi ci arrivano

Prima o poi ci arrivano

Raffaele Marmo – La Nazione

«Prima o poi ci arrivano, magari ma ci arrivano. Il problema è che non si guardano mai indietro e non contano mai i danni fatti nel frattempo». La chiosa è di un vecchio sindacalista che ne ha viste tante, quando parla della Cgil e dell’attuale sinistra Pd. È stato così proprio con lo Statuto dei lavoratori, non votato dall’allora Pci e mal visto dalla stessa Cgil e oggi difeso come fosse il frutto migliore della loro storica azione. Ma è stato cosi anche con il decreto di San Valentino sul taglio della scala mobile, contrastato sempre da Pci e Cgil-tendenza Botteghe Oscure fino a giungere al referendum dell’85 (clamorosamente perso, per inciso): salvo poi sostenere che la politica dei redditi, con annessa concertazione, aveva salvato l’Italia dalla bancarotta. Manca ancora un po’ e analoga sorte toccherà alla Legge Biagi, quando magari verrà messa pragmaticamente in discussione perché superata o superabile.

Ma fermiamoci qui. Sarebbe lungo l’elenco degli appuntamenti con la storia rispetto ai quali la sinistra-sinistra politico-sindacale, è arrivata con decenni di ritardo. E, dunque, non poteva che essere così anche nel passaggio cruciale di questi giorni nei quali vengono poste le premesse per il superamento dell’articolo 18. Senonché, a fare oggi la differenza, è che il presunto «attacco» ai diritti dei lavoratori non viene dalla «destra» sostanziale o formale (Craxi, Berlusconi) o dai «padroni», ma da colui che, fino a prova contraria, è il leader del loro partito. Da qui il disorientamento, la complicazione del quadro di riferimento, anche l’incapacità del «che fare» che attanaglia la sinistra di estrazione Ds-Cgil.

È saltato, insomma, il vecchio modello, all’interno del quale era agevole distinguere «buoni» e «cattivi», salvo accorgersi poi, a distanza, che i «cattivi» magari avevano avuto ragione. Questo è sicuramente un merito – il più importante a oggi – di Matteo Renzi: aver fatto saltare il comodo e confortevole schema di gioco che ha permesso alla sinistra poco riformista e tanto massimalista di non dover fare i conti con i propri errori. Non a caso è il primo vero atto blairiano del suo governo, all’insegna di quel passaggio – la rottura con la sinistra interna – che segnò la nascita del New Labour, perché, come avvisò Tony Blair nel 1995, «values don ‘t change, but times do», i valori non cambiano, ma i tempi sì.

L’asta può attendere

L’asta può attendere

Giuseppe Turani – La Nazione

Il cavallo non beve? Ci sono i soldi ma le imprese li lasciano nelle banche? Probabilmente sì. La Bce ha messo a disposizione delle banche una prima tranche dei 400 miliardi stanziati da qui a dicembre. Ci si aspettava che in questa prima asta le richieste fossero almeno di 100 miliardi. Invece ci si è fermati poco sotto quota 83 miliardi. Mario Draghi, cioè ha messo sul tavolo 100 miliardi, ma non sono stati ritirati nemmeno tutti dalle banche (che avrebbero dovuto rigirarli alle imprese). Ma non c’era l’intera Europa affamata di soldi da investire? La vicenda è un po’ più complessa.

Intanto, questa prima assegnazione di fondi è caduta proprio nel giorno del referendum scozzese. Le banche, non sapendo quale sarà la situazione dell’euro il giorno dopo, hanno preferito muoversi con i piedi di piombo. Inutile rischiare quando si potrà partecipare alle altre aste. La seconda ragione della prudenza è molto tecnica. A ottobre scattano per le banche europee gli stress-test. Si faranno prove per vedere come i bilanci degli istituti reagiscono di fronte a una serie di difficoltà. Le banche lo sanno e si sono preparate (come hanno potuto). In pratica dovrebbero avere tutte i bilanci a posto, in grado di superare gli stress-test. In queste condizioni hanno preferito non complicarsi troppo la vita imbastendo operazioni finanziarie nuove a pochi giorni dall’avvio dei test.

Anche perché i soldi della Bce si potevano ritirare solo a fronte di reali prestiti alle aziende o alle famiglie. In sostanza, bisognava impostare delle operazioni di credito che invece si è ritenuto più prudente rinviare al fine di non “sporcare bilanci che, almeno in teoria, così come sono dovrebbero essere in grado di superare le prove previste. Ma quasi certamente c’è anche il fatto che le banche europee non hanno davanti ai loro sportelli la fila di aziende che chiedono soldi per nuovi e vantaggiosi investimenti. E la cosa è abbastanza comprensibile.

L’economia europea è quasi ferma (quella italiana va addirittura indietro). In queste condizioni anche l’imprenditore più avventuroso si guarda bene dall’investire visto che poi non saprebbe a chi vendere i suoi prodotti. Sembra di capire (ma bisognerà attendere le prossime aste) che mettere soldi sul tavolo non basta: bisogna anche che esista un mercato, cioè gente che abbia la voglia di fare acquisti e di spendere soldi. Oggi non è così.

Come Ue comanda

Come Ue comanda

Giuseppe Turani – La Nazione

La fretta e il piglio più deciso con cui Renzi sta affrontando la questione delle riforme ha una sola possibile spiegazione. Fra Bruxelles e Roma, senza che siano stati firmati protocolli o carte, è entrato in funzione quello che potremmo chiamare crono-programma. Il vertice dell’Ue ha spiegato molto chiaramente che, senza riforme, non ci sarà nessuna attenzione speciale per l’Italia. E, inoltre, ha anche fatto capire che non si può tirare tanto per le lunghe. Da qui il crono-programma: mano a mano che le riforme diventano reali da Bruxelles arriverà qualche attenzione (e qualche soldo) in più. Non è come avere la Troika in casa, ma la differenza non è moltissima: lasciano all’Italia la libertà di fare quello che va fatto. Altrimenti: applicazione severa delle norme comunitarie. In questi ultimi tempi gli appelli da Bruxelles sono stati ripetuti e molto chiari. E anche Draghi ne ha fatti almeno tre di appelli, sia pure nei modi felpati e nebbiosi propri dello stile di un banchiere centrale. Le tensioni delle ultime ore nascono proprio da questo: ci sono alcune cose che la Bce e la Ue considerano non più rinviabili. Il primo caso che viene in mente è quello del mercato del lavoro.

Sono mesi che cercano di farci capire che con l’attuale organizzazione del lavoro non si va da nessuna parte. Il professor Giulio Sapelli, che peraltro è critico verso Ue e Bce, da tempo va sostenendo che la nostra legislazione sul lavoro va rasa al suolo e sostituita con qualcosa di più semplice e di più moderno. E il senatore Ichino a questo sta lavorando da anni. Nessuno ci ha dettato i particolari, ma le richieste europee si possono sintetizzare in una semplice frase: più flessibilità in entrata e più flessibilità in uscita. Questo significa che l’articolo 18 ha i giorni contati. E la stessa cosa si può dire di altre norme che ingessano il lavoro.

Di fronte a questo clima cambiato, la Cgil è già insorta e minaccia grandi mobilitazioni di massa, sostiene (non a torto) che la soppressione (totale o parziale) dell’articolo 18 è lo scalpo che l’Italia si appresta a offrire ai falchi europei. Rimane da capire quanto l’attuale organizzazione del lavoro abbia ancora senso in una società immersa nella competizione globale. E anche la resistenza della Cgil non sembra avere molte possibilità di vittoria: le pretese dei falchi, infatti, sono quelle del mondo moderno mentre la Cgil è un po’ ferma agli anni Cinquanta. Ma c’è di più. La vera grana per la Cgil è un’altra.- se l’articolo 18 può già considerarsi defunto, adesso la partita vera riguarderà la contrattazione aziendale e locale. In sostanza, la futura organizzazione del lavoro punterà a rendere meno importanti i contratti nazionali per dare più spazio alla contrattazione in sede locale o aziendale. Si vuole andare verso una maggiore aderenza al mercato. I dipendenti di aziende che vanno bene potranno chiedere salari più alti, quelli di aziende che vanno male dovranno accontentarsi di buste paga più esili. È facile capire come questa linea finisca per rendere più sfumato il ruolo delle grandi confederazioni sindacali nazionali, destinate a perdere di peso e di importanza. Il sindacato non accetterà tutti questi cambiamenti di buon grado. Ci sarà quindi una tensione crescente. Ma nemmeno la Cgil potrà andare contro la storia. Ormai il mondo va in questa direzione: più flessibilità e più spazio alle realtà aziendali. I contratti buoni dal Trentino alla Sicilia stanno per andare in pensione, assieme all’articolo 18.

Basta tasse, l’Iva non può essere alzata

Basta tasse, l’Iva non può essere alzata

Achille Perego – La Nazione

Ce lo chiede l’Europa. Quando un governo deve mettere le mani nelle tasche degli italiani – dalla riforma delle pensioni alle imposte sulla casa – si difende con la scusa di Bruxelles. Vista la sfida lanciata da Matteo Renzi ai “tecnocrati” europei, c’è da credere che questa volta non verrà utilizzato il solito ritornello per inasprire ancora le aliquote Iva. Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, dopo le voci circolate con forza negli ultimi giorni e l’immediato allarme lanciato da consumatori e commercianti, ha smentito nuovi interventi sulle tasse. Speriamo. Perché alzare di nuovo l’Iva (l’imposta più evasa dagli italiani, con una percentuale quasi doppia rispetto all’Irpef) si trasformerebbe nell’ennesimo colpo sui consumi. E soprattutto sulle famiglie a minore reddito dove verrebbe quasi annullato l’effetto bonus da 80 euro, che ancora non si è visto sul fronte dei consumi.

È vero che la Ue, tutti gli anni, raccomanda un’armonizzazione dell’Iva, ma le aliquote dei Paesi dell’Eurozona restano una vera e propria giungla. E un’eventuale riforma complessiva, nel nome di un’unione non solo monetaria ma anche fiscale, dovrebbe spettare a Bruxelles. Non si capisce, invece, perché l’Italia, dopo aver già alzato dal 20 al 22% l’aliquota ordinaria (oramai tra le più alte d’Europa) dal 2012 al 2013 – con ridotti risultati per l’Erario che nel 2013 ha perso 3 miliardi di gettito Iva su un totale di 112 – dovrebbe ancora affossare i consumi che dal 2008 sono crollati di quasi l’8%. E hanno visto bruciare ben 78 miliardi di spesa. Una caduta che non si è ancora arrestata anche se il fondo sembra ormai vicino.

Del resto con i redditi degli italiani tornati a livelli di 30 anni fa e il potere d ‘acquisto scivolato a meta anni Novanta, con 2700 euro all’anno spariti dalle tasche delle famiglie, era difficile sperare in una ripartenza dei consumi. Che restano fondamentali per vendere beni e servizi e quindi per la buona salute delle imprese. E per la difesa e la crescita dei posti di lavoro in un Paese che ha un 12,6% di tasso di disoccupazione e ben oltre il 40% per i giovani. Mettere una nuova “tassa sul pane”, alzando dal 4 al 10 o addirittura al 15% l’aliquota Iva agevolata (applicata su molti altri beni di prima necessità come il latte o l’ortofrutta) e colpire anche prodotti e servizi che oggi scontano un’Iva al 10% (tra i quali tutta la filiera del turismo, uno delle poche industrie tricolori che ancora tirano), rischia di trasformarsi in un boomerang anche per le casse dello Stato. Soprattutto se l’inasprimento delle imposte indirette scatterà – come sempre, purtroppo – senza ridurre e tasse sul lavoro e sulla casa. Così siamo sempre in recessione, la luce in fondo al tunnel si allontana e restiamo, come ci ha avvertiti l’Ocse, l’unico Paese del club dei Sette grandi al palo. Forse perché ci siamo dimenticati che la cura delle tasse, Iva compresa, non fa mai rima con la parola crescita.

Un uomo al comando

Un uomo al comando

Bruno Vespa – La Nazione

Anche se ha rallentato il ritmo delle scadenze (da “una riforma al mese” al passo dopo passo dei mille giorni), come comunicatore il Matteo Renzi visto l’altra sera a ‘Porta a porta’ resta un ciclone, La ‘concertazione’ fa parte ormai dell’archeologia industriale e sociale. La Cgil proclama uno sciopero? Faccia pure, anzi, visto che non ne ha chiarito la ragione, farò in modo di offrirgliela. L’Associazione magistrati è furibonda? Brrr, che paura! Gli 80 euro non fanno salire i consumi? Vedremo, ma intanto sono un elemento di giustizia sociale. Ci sono grandi resistenze ai tagli? Attenti, raggiungeremo i venti miliardi anche se me ne servirebbero soltanto sette. Lasciare la segreteria del partito per fare meglio il capo del governo? Non ci penso nemmeno per un nanosecondo. Non ci credete, fate i gufi? Non credevate nemmeno agli 80 euro, né alla Mogherini ministro degli Esteri europeo e nemmeno al rimborso dei 50 miliardi di debiti della pubblica amministrazione alle imprese.. (qui il governo è un po’ in ritardo e la trattativa sulla passeggiata al santuario di Monte Senario è aperta). E ancora: 149mila precari della scuola saranno assunti (ieri i primi 15mila), si troveranno i soldi per pagare una parte degli scatti maturati dai militari ma si eviteranno duplicazioni, le conferenze di servizi saranno monocratiche e dovranno decidere in un mese (se davvero sarà così, porterò in braccio Renzi a Monte Senario, visto che questo istituto è il frigorifero di ogni progetto).

Le difficoltà del governo sono oggettive. Mettersi contro le lobby è rischioso, tagliare con ‘testa politica’ è complicato. Cottarelli da tecnico usa l’ascia, Renzi deve usare il bisturi. Eppure questi scogli vengono sommersi dalla straordinaria capacità comunicativa del premier che gioca a fare il Davide contro tutti i Golia che hanno paralizzato il paese. I sondaggi dicono che la popolarità del presidente del Consiglio resta alta, superiore a quella del governo e ai voti (tanti) presi dal Pd alle ultime elezioni. «Lo zoccolo duro del mio partito è del 25 per cento – dice Renzi – Il resto è fatto da persone che abitualmente non votano per noi». Quanto durerà questa luna di miele? È già finita, come insinuano i grandi giornali anglosassoni o ha ancora lunghe prospettive? Lo capiremo da qui alla fine dell’anno. Lo capiremo in parte a Natale, quando vedremo se gli 80 euro e un clima generale di maggiore fiducia porterà la gente alla ripresa dei consumi che per ora restano fermi. E capiremo l’effettivo rilievo delle riforme annunciate. Vedremo se davvero la riforma della giustizia sarà incisiva come lascia intendere Renzi o molto compromissoria come temono altri. Vedremo soprattutto come andrà quella del lavoro. I sondaggi trasmessi l’altra sera a ‘Porta a porta’ coincidevano in modo impressionante su un punto: due terzi degli italiani sono favorevoli alla flessibilità che consenta di licenziare con maggiore facilità in cambio di assunzioni più semplici. Metà del campione si irrigidisce sulla modifica dell ‘articolo 18, ma se la domanda si pone in modo diverso c’è un radicale ammorbidimento. Anche sui ‘mini jobs’ alla tedesca (part time di 15 ore alla settimana con stipendi che partano da 450 euro) c’e un interesse maggioritario. Questo dimostra due cose: i sindacati, in particolare la Cgil, combattono una guerra ideologica di retroguardia; la gente chiede provvedimenti radicali e immediati.

Il governo Monti cominciò il suo declino quando non riuscì a fare per decreto la riforma del lavoro, dopo aver fatto per decreto quella delle pensioni. Il decreto Poletti è soltanto un antipasto. Se il grosso del provvedimento andrà in una legge delega che impiega 18 mesi per andare in porto, la medicina sarà recapitata al malato dopo il suo funerale. Mario Draghi ha sconvolto il sonnolento mondo dei banchieri con provvedimenti choc, mai visti nei 24 anni di vita della Banca centrale europea. Renzi, il migliore interprete della ‘fretta’ nell’agire, prenda esempio da lui.

Ultima chiamata

Ultima chiamata

Paolo Giacomin – La Nazione

Fedele alla linea del fare «tutto ciò che occorra» per salvare l’euro, Mario Draghi ha sostanzialmente dato un po’ di liquidità al mercato tagliando i tassi al minimo storico e un po’ di sostegno (teorico) alla crescita annunciando l’acquisto dalle banche di pacchetti di crediti deteriorati contratti da famiglie e imprese. Solo un mezzo colpo di bazooka, dice la pattuglia di quanti aspettavano un’ondata di quattrini dall’elicottero in stile Fed di cui la Bce ha solo discusso per rinviare qualunque decisione a data imprecisato. Un colpo di bazooka ben assestato, invece, guardando la reazione dei mercati: Borse in festa e spread in picchiata, da un lato. Euro in decisa discesa sul dollaro a beneficio dell’export e a danno del costo del petrolio e dell’energia.

Draghi poteva fare di piu? No, ha fatto tutto quello che poteva: un colpo anche più duro di quello atteso e al costo di una rottura – ammessa esplicitamente – del board della banca centrale con i tedeschi della Bundesbank e non solo, schierati molto probabilmente contro sia al taglio dei tassi sia all’acquisto dei crediti. Sono gli stessi banchieri che Draghi dovrebbe convincere che è cosa buona e giusta inondare di soldi il vecchio continente a uso e consumo degli stati spreconi e in barba ai trattati. Missione impossibile, o quasi.

Insomma, Draghi ha fatto molto. Difficilmente potrà dare di più e, al dunque, tocca ai governi mettersi al passo necessario per uscire dalla crisi: è l’ultima chiamata per le riforme perché, ha rimarcato lo stesso presidente della Bce, ciascuno deve fare il proprio mestiere: all’Eurotower oneri e onori della politica monetaria per togliere l’eurozona dai rischi di deflazione e dalle sacche della recessione. Ai governi spetta la responsabilità di riforme tanto note quanto rinviate e sempre più inevitabili perché, e non ci sono dubbi di interpretazione, non esiste crescita senza riforme. Alla politica spettano le scelte che possano cambiare verso all’Europa e, di conseguenza, alle regole di ingaggio e consentire alla Bce di alzarsi in volo con l’elicottero degli euro. Aspettarsi qualcosa di diverso è come sperare che cada la manna dal cielo. Ma quello fu un miracolo, non cosa di questo mondo.