la repubblica

Il petrolio sperimenta il libero mercato

Il petrolio sperimenta il libero mercato

Leonardo Maugeri – Affari & Finanza

Il 2015 si apre con un mercato del petrolio profondamente diverso da come lo abbiamo conosciuto per oltre 150 anni, affidato alle leggi della domanda e dell’offerta e non a ripetuti tentativi di controllo e addomesticamento. I tentativi cominciarono con la nascita stessa dell’industria petrolifera, nella seconda metà dell’Ottocento. Ci provò per primo John D. Rockefeller con la sua Standard Oil, convinto che il futuro del greggio non potesse essere abbandonato al libero gioco delle forze economiche. L’osservazione di quanto avveniva ai suoi tempi sembrava dargli ragione. I boom delle scoperte petrolifere provocavano eccessi di produzione, che a loro volta facevano crollare i prezzi, gli investimenti e alimentavano catene di fallimenti. Pochi anni e il petrolio veniva a mancare, i prezzi tornavano alle stelle, e il film ripartiva dall’inizio, con lo stesso finale. Il successo di Rockefeller nel controllare le repentine montagne russe del petrolio fu tale che la Standard Oil divenne oggetto della prima grande sentenza antitrust della storia, che portò allo smembramento della società in oltre trenta entità da cui presero vita compagnie come Exxon, Mobil, Chevron. Ma la maledizione che aveva spinto Rockefeller a perseguire il controllo monopolistico del mercato continuò a dominarlo.

A più riprese, per tutto il XX secolo, grandi scoperte inattese di giacimenti fecero crollare i prezzi, riproponendo la trama già sperimentata da Rockefeller. A partire dagli anni Trenta, spettò in successione alle autorità del Texas (per quasi quarant’anni il più grande produttore mondiale), poi alle Sette Sorelle e infine all’Opec il compito di imporre meccanismi di controllo a un mercato per sua natura volatile. Ma il tentativo di renderlo più prevedibile e stabile, in modo da poter affrontare immensi investimenti a lungo termine senza il rischio di rimanere con un pugno di mosche in mano, ebbe fortune alterne. Le fasi storiche di prezzi alti alimentarono sempre una feroce competizione, aprendo la strada a innovazioni tecnologiche e rendendo possibili scoperte di nuovi giacimenti. La combinazione di questi elementi provocò nuove ondate di offerta che nessuno pensava possibili, distruggendo i prezzi, com’è successo negli ultimi sei mesi del 2014. Ed è qui che si è innestato il cambiamento.

Convinta che l’Opec non sia più in grado di esercitare alcun controllo sul sistema petrolifero mondiale, l’Arabia Saudita ha voltato le spalle all’organizzazione dei grandi esportatori di petrolio che contribuì a fondare. Invece di cercare un accordo per tagliare la produzione e sostenere i prezzi, Riad ha deciso di lasciare tutti al proprio destino, lanciando l’industria petrolifera in un esperimento di libero mercato senza restrizioni. In realtà, qualche restrizione i sauditi l’hanno in mente. Segretamente, per oltre un anno hanno stimato gli effetti sui conti del Regno di prezzi del greggio a 60 e a 45 dollari: nel primo caso, si sono convinti di poter sostenere la propria spesa corrente per almeno quattro anni senza intaccare le ricche riserve di valuta accumulate (900 miliardi di dollari); nel secondo hanno calcolato di dover attingere alle riserve a un ritmo di circa 10 miliardi di dollari al mese, un sacrificio sostenibile per almeno un anno, secondo i circoli che contano di Riad. Alcuni nel paese ritengono disastrosa una simile prospettiva, ma non osano dirlo perché essa è stata tracciata e condivisa con Re Abdullah dai due uomini di cui il sovrano saudita si fida di più: il ministro del petrolio e quello delle finanze. Solo il futuro saprà dirci chi ha ragione.

Perché i sauditi hanno scelto questa strada? La loro logica sembra stringente. Lasciando il mercato privo di controlli i prezzi non possono che scendere a causa della troppa produzione. Tuttavia, parte della produzione è troppo costosa per sopravvivere a prezzi bassi, e quindi dovrebbe scomparire. I sauditi sono certi che non ci vorrà molto, e che a pagare il fio della loro strategia saranno in primis gli Stati Uniti, il Canada, e altri paesi che negli ultimi anni avevano visto lievitare le loro produzioni grazie agli alti prezzi del petrolio.

Questo modo di ragionare e gli obiettivi che delinea presentano molti punti deboli. Fino a pochi mesi fa Riad pensava che già a 75 dollari a barile buona parte della produzione americana sarebbe stata cancellata insieme a quella del Canada. In generale, i sauditi ritenevano che tutte le produzioni di greggio non convenzionale nel mondo sarebbero entrate in crisi. Così non è stato a causa di continui miglioramenti di tecnologia e abbattimento di costi che hanno reso quelle produzioni meno care. Nonostante la caduta dei prezzi del greggio americano sotto i 45 dollari a barile, nelle prime settimane di gennaio la produzione statunitense è cresciuta. Gli investimenti già fatti per sviluppare capacità produttiva stanno rilasciando risultati fatali, che arrivano sul mercato mentre la domanda rimane asfittica. Né è detto che bastino bassi prezzi del petrolio a far rimbalzare i consumi mondiali. Le legislazioni ambientali e di efficienza energetica riducono l’elasticità della domanda ai prezzi, e in molti Paesi i giovani aspirano a modelli di consumo che non prevedono più l’auto come oggetto del desiderio.

Dove tutto questo porterà è ancora incerto. Ma è difficile che i sauditi rinuncino al loro obiettivo almeno per il 2015, sperando che nel corso dell’anno i produttori a più alto costo inizino a crollare come birilli. Con loro, però, potrebbero crollare i conti di molte società petrolifere e la stabilità di paesi critici per l’ordine internazionale, a partire da alcuni percorsi da brivido del fondamento islamico. Benvenuti nel nuovo mondo temerario del mercato libero del petrolio.

Vigili uniti in piazza per difendere la falsa malattia

Vigili uniti in piazza per difendere la falsa malattia

Francesco Merlo – La Repubblica

“Da una malattia vera si può guarire, da quella finta no” sarà lo slogan. E dunque sciopereranno per difendere il diritto alla finta malattia i vigili urbani di tutta Italia aderenti all’Ospol-Csa, che non è il nome del medicamento del dottor Dulcamara di Donizetti “l’odontalgico mirabile liquore / dei topi e delle cimici possente distruttore”. È invece la sigla del più affollato sindacato della polizia locale, 15 mila iscritti che il 12 febbraio manifesteranno per le strade di Roma in solidarietà con i pizzardoni infingardi che, nella notte di Capodanno, essendo – veramente – finti malati, furono costretti a presentate finti certificati che il sindaco di Roma ancora oggi si ostina a non prendere per veri. Non capisce, Ignazio Marino, che nulla è più doloroso e contagioso di una malattia finta.

L’Ospol-Csa, che si attribuisce “grande senso di responsabilità”, rivendica contro il Comune e contro il Governo “le risultanze numeriche” della notte di Capodanno, e dopo avere “discusso sino all’alba del 15 gennaio a San Benedetto del Tronto” attende ancora “l’inoltro formale per le correlate verifiche” della “possibile preintesa contrattuale”, contro “la cancellazione dell’equo indennizzo, la causa di servizio e la pensione privilegiata, che si aggiunge all’usurpazione della indennità di pubblica sicurezza”. Questo linguaggio che, a differenza delle malattie e dei certificati di Capodanno, è autentico non riesce più a suonare ridicolo, perché mai si era visto un oltranzismo corporativo così cieco, mai il tribalismo italiano di un mestiere organizzato come una cosca era arrivato al punto di marciare su Roma per difendere il non lavoro, la truffa del certificato patacca, la viltà del malessere simulato per inasprire la lotta sindacale godendosi, intanto, il cenone.

Purtroppo il Comune di Roma ha fatto ballare il totale degli ammalati di comodo, ma anche se “le risultanze numeriche” dei bugiardi sbugiardabili fossero davvero scese dall’ottanta al quaranta per cento, la sostanza non cambierebbe. La notte di Capodanno un agente patogeno espertissimo in sindacalese ha decimato i vigili urbani di Roma e qualcuno di questi poliziotti ha donato il sangue, qualcun altro si è rifugiato nell’assistenza retribuita di familiari disabili per dare una credibilità morale alla diserzione commessa come un reato associativo con la complicità dei soliti medici compiacenti e con la regia dei sindacati, anche quelli confederali nel ruolo inedito dei finti malati moderati.

Avevamo scritto che non c’è niente di peggio che usare le generose norme di civiltà come espedienti, come forconi, come fasci di combattimento sociale. Ebbene ci sbagliavamo. È infatti oltre ogni decenza e ogni logica l’annuncio che i finti malati d’Italia porteranno spavaldamente in corteo, da piazza della Repubblica a piazza SS apostoli, le ragioni dell’impunità, la forza antica e prepotente del clan, il diritto del topo di stare nel formaggio e del verme di avanzare nella mela. Non manifestano infatti soltanto per salvaguardare i salari proteggendo l’accumulo di piccole rendite di posizione e di incrostazioni paradossali come l’indennità stradale, la pulizia della divisa, la famosa seminotte che comincia alle 15,48… La verità è che i finti malati in piazza, al di là del pittoresco, non sono solo una deviazione sindacale estremista ma un avviso sgangherato, un assaggio della resistenza disperata dell’Italia delle corporazioni, siano essi impiegati di Stato, architetti, professori universitari, orchestrali o vigili urbani . È questa la vera malattia che i finti certificati rivelano. Perché si chiuda perfettamente il cerchio, il prossimo 12 febbraio i vigili urbani dovrebbero presentare un finto certificato medico e non andare alla manifestazione.

Una manina pericolosa

Una manina pericolosa

Alessandro Pace – La Repubblica

Dunque, per ammissione dello stesso Matteo Renzi, era sua la manina che ha infilato di soppiatto il testo dell’art. 19bis nella delega fiscale. Che Renzi abbia operato da solo o si sia avvalso della complicità di altre persone, ha poca importanza. È invece grave che l’ammissione di Renzi sia avvenuta dopo che si era consentito che si facessero i nomi del ministro Padoan, del viceministro Casero, della dottoressa Menzione ed altri.

Ed è grave che Renzi si sia macchiato dello stesso reato commesso da Berlusconi nel 2001, come ho ricordato su queste pagine l’8 gennaio. Pur ricoprendo entrambi la massima carica politica del nostro ordinamento costituzionale, essi hanno usato un sotterfugio perché una loro volizione ‘individuale’ assume le sembianze di una disposizione legislativa approvata con tutti i crismi: una volizione individuale che nel 2011 consisteva nel ritardare di 5 o 6 anni il pagamento del debito della Fininvest alla Cir; e che nel 2014 sarebbe sostanziata in un favore fatto da Renzi a Berlusconi per mantenerne l’appoggio alle discutibilissime riforme in atto. In paesi come il Regno Unito o la Germania, per assai meno già sarebbero state chieste le dimissioni del premier Cameron o della cancelliera Merkel. E non ho il minimo dubbio che negli Stati Uniti sarebbe stato chiesto l’impeachment del Presidente Obama.

Che questa vicenda non possa né debba concludersi soltanto con delle battute di spirito discende, sotto il profilo strettamente giuridico, dal fatto che Renzi ha rischiato di commettere un delitto punito con la detenzione da tre a dieci anni; e discende, sotto il profilo istituzionale, da due diverse ‘coloriture’ del sotterfugio. O lo stesso Renzi si rendeva conto della gravità del fatto e voleva tentare che l’aiutino a B. venisse conosciuto il più tardi possibile oppure Renzi considera da sempre i suoi e le sue ministre degli yesmen e delle yeswomen, che comunque appoggerebbero a scatola chiusa tutte le sue iniziative. Né si dica, come ha detto il Ministro Boschi in risposta al senatore Mucchetti, che tutto ciò che accade nel Consiglio dei ministri sarebbe coperto da segreto.

Ribadisco: il caso è troppo grave perché passi sotto silenzio, come appunto sta succedendo. È quindi doveroso che se ne discuta in Parlamento spontaneamente ad iniziativa dello stesso Renzi. oppure a seguito di una delle varie forme di sindacato ispettivo. Altrimenti, dopo il precedente di Berlusconi del 2011 e quello di Renzi del 2014, diverrebbe prassi che il premier, nonostante le sue prerogative ufficiali, possa portare avanti sue proprie iniziative legislative senza l’approvazione del Consiglio e per giunta di soppiatto. Il che costituirebbe un’ inammissibile sbrego per la nostra democrazia, le cui legale, per la formazione delle decisioni legislative, sono il dibattito e la trasparenza, come ha giustamente ricordato Nadia Urbinati su queste pagine lo scorso 11 gennaio, a proposito di questa stessa vicenda.

Crisi: ImpresaLavoro, con l’euro sono peggiorati tutti gli indicatori

Crisi: ImpresaLavoro, con l’euro sono peggiorati tutti gli indicatori

Repubblica.it

Dall’avvento dell’euro ad oggi tutti i principali indicatori della condizione economica del nostro Paese sono nettamente peggiorati: la disoccupazione è passata dal 9 al 13%, il rapporto debito/Pil è cresciuto di più di venti punti percentuali mentre l’Istat ha appena certificato come il rapporto deficit/Pil sia ormai arrivato nei primi tre trimestri del 2014 al 3,7%. Ad evidenziarlo il Centro studi di ‘ImpresaLavoro’ che azzarda anche un irriguardoso paragone calcistico: se si giocasse oggi Italia-Germania non finirebbe certamente 4 a 3 come nell’epico scontro dell’Azteca. I tedeschi, infatti, ci batterebbero oggi 7 a 0.

A tanto ammontano gli indicatori che il Centro studi ImpresaLavoro ha analizzato prendendo come base di partenza il 2001 (ultimo anno prima dell’entrata in circolazione dell’euro) e confrontandolo con gli ultimi dati disponibili. Ne esce un quadro chiaro nella sua drammaticità: l’euro – evidenzia l’istituto – ha fortemente avvantaggiato la Germania aumentando il divario con l’Italia e le rigidità che ci sono state imposte dalla moneta unica ci hanno impedito la flessibilità necessaria a fare riforme importanti in un tempo di crisi.

La moneta unica risulta determinante è nelle esportazioni. L’export tedesco ha visto salire il suo valore nominale dell’84,3% mentre quello italiano è cresciuto del 32,3%: mentre prima della moneta unica quindi l’export tedesco valeva il doppio di quello italiano, oggi vale quasi tre volte tanto (2,8 volte).

Quanto alla disoccupazione, in Germania i senza lavoro sono scesi di 2,2 punti mentre la nostra disoccupazione ha fatto segnare un’impennata del 4,4%. Se prima dell’euro il tasso di disoccupazione italiano era del 20% più elevato di quello tedesco, oggi per ogni disoccupato in Germania ce ne sono addirittura tre nel Belpaese.

La renzinomics inciampa sul fisco, la semplificazione resta un’utopia

La renzinomics inciampa sul fisco, la semplificazione resta un’utopia

Alberto Statera – Affari & Finanza

Anche al netto dell’incredibile vicenda dell’articolo l9 bis introdotto di soppiatto nel decreto fiscale di Natale, che secondo il costituzionalista Alessandro Pace meriterebbe una mozione di sfiducia e le dimissioni del presidente del Consiglio, il governo Renzi, come e peggio di quelli che lo hanno preceduto, si sta rivelando una calamità in materia tributaria. Non c’è intervento piccolo o grande che negli ultimi mesi non abbia prodotto pasticci, guai e relative crisi depressive di contribuenti e commercialisti. Dall’incubo Imu, Tasi, Tari alla norma retroattiva sull’Irap in spregio della Statuto del contribuente, fino alla comica finale dell’Imu agricola sui terreni “ex montani “. La riduzione delle esenzioni doveva coprire 350 milioni già spesi per il bonus degli 80 euro in busta paga, ma il pagamento è stato rinviato dal 16 dicembre 2014 al 26 gennaio 2015 (data vicinissima nella quale è lecito prevedere l’ennesimo incubo) perché di fatto la nuova norma era ragionevolmente inapplicabile, oltre che esposta a ogni genere di ricorso. Dovevano pagarla i terreni ricadenti in Comuni sotto i 600metri di altitudine, ma chi conosca un minimo la geografia italiana dovrebbe sapere che l’altitudine della sede comunale non coincide quasi mai con quella dei poderi,che spesso sono molto più in alto.

Sarà per un modo di legiferare grossolano, al modo di Re Carlone dei poemi cavallereschi (da cui l’espressione “alla carlona”), sarà per inesperienza nel padroneggiare i sistemi legislativi, sara per la sindrome dell ‘uomo solo al comando attorniato da yes-men (e yes-woman). O, peggio, sarà per una strategia ambigua di stangatine per quanto possibile sotto traccia e contemporanee strizzatine d’occhio agli evasori in funzionedi futuro consenso elettorale, come fa sospettare il 19 bis che, a prescindere dall’utilità per Berlusconi, non è un condono, ma la certificazione per legge della quota che i grandi contribuenti sono autorizzati a frodare: una vera e propria licenza a delinquere. Fatto sta che la retorica del “fisco amico” e della “moral suasion” sembra annegare nell’attuazione lentissima e caotica di una delega fiscale, che rischia di scadere tra non molte settimane.

Prendiamo la promessa semplificazione, che dovrebbe essere il primo atto di un rapporto per quanto possibile meno devastante col fisco più squilibrato del mondo occidentale. Esclusa la legge di stabilità, il governo Renzi ha emanato 8 provvedimenti con 87 norme di carattere fiscale (per la serie dell’iperfetazione normativa) di cui 49 invece di semplificare complicano le ricadute burocratiche. Le sole norme che semplificano sono quelle contenute nel decreto legislativo sulle promesse dichiarazioni precompilate. Un po ‘ meglio, per la verità, della fabbrica delle complicazioni gestita dai govemi Monti e Letta (e dai precedenti), ma con un passo che promette decenni di attesa per vedere, se mai ci sarà, un’effettiva sburocratizazzione. Almeno a stare ai dati della Confartigianato, che ha calcolato in 269 ore all’anno il tempo necessario per affrontare gli adempimenti necessari al pagamento delle tasse, contro le 110 della Gran Bretagna, le 137 della Francia, le 167 delIa Spagna e le 218 della Germania.

In compenso, se fosse passata la depenalizzazione che Renzi ha attribuito alla sua stessa manina, avremmo ulteriormente migliorato, nel tempo di un Consiglio dei ministri natalizio, il nostro record europeo di mino numero di detenuti per frode fiscale: 156 (salvo che dai tempi della statistica non siano stati rilasciati con tante scuse).

Il ritardo sulle liberalizzazioni

Il ritardo sulle liberalizzazioni

Alessandro De Nicola – La Repubblica

Ormai da qualche settimana è stato pubblicato l’Indice delle liberalizzazioni curato dall’Istituto Bruno Leoni. Si tratta di un lavoro utile perché dà la percezione di dove potrebbe essere l’economia italiana e di quali benefici potrebbero godere i consumatori se solo il nostro Paese imitasse non Hong Kong o il Texas, ma alcuni Paesi europei di dimensioni paragonabili al nostro. Lo studio mette a confronto le economie dei 15 ‘vecchi’ Paesi Ue assegnando un punteggio di 100 alla nazione più liberalizzata nei 10 settori presi in considerazione (poste, ferrovie, trasporto aereo, mercato elettrico, telecomunicazioni, lavoro, televisione, carburanti, gas naturale, assicurazioni) e uno inferiore alle altre a seconda della distanza dalla prima. 100 non rappresenta un mercato ‘ideale’ , semplicemente il più concorrenziale tra i 15, fornendo così parametri concreti.

Come se la cava l’Italia? Malino, siamo i terzultimi davanti al Lussemburgo (che in realtà è un’economia aperta salvo per i servizi a rete, viste le dimensioni del Paese, e per trasporto aereo e ferroviario) e alla solita Grecia. Primo in classifica è da anni il Regno Unito con punteggio di 94 e il gruppetto di testa comprende Olanda, Spagna e Svezia seconde a pari merito con 79. La Francia condivide con noi il terzultimo posto col 66. Quali sono le caratteristiche di un mercato liberalizzato? L’Indice adotta una metodologia classica e sensata: rappresentano impedimenti alla concorrenza tutti gli ostacoli normativi, regolamentari, fiscali o parafiscali che limitino la libertà di ingresso di nuovi concorrenti (licenze o numeri chiusi), l’esercizio dell’attività imprenditoriale (basti pensare ad una rigida normativa giuslavoristca) e l’uscita dal mercato (ad esempio il salvataggio di carrozzoni decotti che si configura come concorrenza sleale nei confronti degli altri attori).

Dov’è più debole l’Italia? Purtroppo non eccelliamo in nessun settore, ma siamo particolarmente scarsi in termini assoluti nella distribuzione dei carburanti, poste e ferrovie e in termini relativi nel mercato della televisione (ultimi) e del lavoro (penultimi davanti ai poveri ellenici). Prevedibilmente, per la scarsa competitività del settore carburanti la colpa è dell’alta pressione fiscale e delle normative che richiedono ai nuovi entranti servizi obbligatori (tipo le pompe per l’idrogeno) per poter aprire. Lo Stato protegge gli incumbent.

Interessanti i casi di ferrovie e poste. Per il trasporto su rotaia, che pure è migliorato grazie a un concorrente nell’Alta Velocità, uno degli elementi che favoriscono l’apertura del mercato è la separazione tra la società dei trasporti e quella proprietaria della rete. Inoltre, più in generale, le imprese che gestiscono infrastrutture o reti quando sono possedute dallo Stato godono di vantaggi sia nell’erogazione di fondi che nei rapporti col regolatore. Questo dovrebbe far riflettere il governo che sembra invece intenzionato a privatizzare parzialmente FS, mantenendone il controllo, e tenendo unite Trenitalia e Rfi: due mosse contrarie ad una politica liberalizzatrice. Diversa la situazione delle Poste che godono di un limitato monopolio nella notificazione di atti giudiziari e multe (chissà perché). Elementi distorsivi sono anche la modalità di compensazione dell’onere di servizio universale, il regime dei titoli abilitativi e la probabile esistenza di sussidi incrociati con i servizi bancari ed assicurativi.

Sfortunatamente, i piani di privatizzazione di cui si discute non sembrano occuparsi di tutto questo. Il ministro Guidi, quando ha presentato l’Indice, ha ricordato che grazie alle liberalizzazioni il Pil italiano potrebbe aumentare del 4% in cinque anni e dell’8% nel lungo termine. Ha promesso inoltre l’approvazione del disegno di legge sulla concorrenza. Bene, sembra che nel governo ci sia dunque consapevolezza del problema che comprende anche gli ostacoli normativi e regolamentari che favoriscono le imprese di proprietà statale.

Intervenire su questi snodi sarebbe un segno che qualcosa sta cambiando: purtroppo qualche giorno dopo la pubblicazione dell’Indice il ministro dell’Economia Padoan ha frenato sul processo di privatizzazione delle proprietà pubbliche menzionando in modo sibillino il fatto che rendere efficienti le aziende statali potrebbe avere conseguenze sull’occupazione. Il problema è che non risanandole, si dilaziona lo scioglimento dei nodi fino a farli diventare inestricabili. Poi si è sentito dire che il governo si appresterebbe a varare il decreto per la valorizzazione e la successiva quotazione delle Ferrovie. Sarà. Per ora atti concreti non se ne vedono e la legge sulla concorrenza è ancora in corsia di attesa: non un bel vedere per il “governo delle riforme”.

Come cambiare il limbo del lavoro

Come cambiare il limbo del lavoro

Tito Boeri – La Repubblica

Il Governo ha ottenuto un’ampia delega dalla Camera per riformare le regole del mercato del lavoro, dalle norme sui licenziamenti individuali agli ammortizzatori sociali, dall’introduzione di un salario minimo alla semplificazione delle tipologie contrattuali. Ora si appresta a chiedere la stessa delega al Senato. Ci si aspetterebbe da parte dell’opposizione, sia in Parlamento che nelle piazze, una richiesta pressante di chiarimenti da parte del governo su come intende esercitare questa delega, su cosa precisamente intende fare su materie molto importanti e delicate. Invece, gli oppositori si pronunciano solo su come meglio bloccare l’iter della riforma. Fino a ieri si parlava di un ricorso alla Corte Costituzionale per eccesso di delega. Ieri, Susanna Camusso ha addirittura minacciato il ricorso alla Corte Europea. Bene ricordare che l’incertezza sul quadro normativo è la peggiore nemica della creazione di lavoro.

Tenere ancora più a lungo il nostro Paese in un limbo, in cui non si sa quali saranno le regole del mercato del lavoro, significa fare aumentare ulteriormente la disoccupazione perché i datori di lavoro, in queste condizioni, rimandano le assunzioni in attesa di maggiori certezze sul quadro normativo. Inoltre, una Corte può al massimo ripristinare lo status quo e questo è tutt’altro che invidiabile. Il nostro mercato del lavoro è il peggiore d’Europa, da qualsiasi parte lo si guardi: durata della disoccupazione, copertura dei sussidi di disoccupazione, produttività, formazione sul posto di lavoro, povertà tra chi lavora e l’elenco potrebbe continuare. Lo status quo è, in altre parole, aberrante, semplicemente indifendibile. Certo non aiutano i continui attacchi del nostro Presidente del Consiglio al sindacato. Sembrano dettati dal tentativo di accreditarsi in Europa e in fasce di elettorato tradizionalmente ostili al sindacato. Non se ne sentiva proprio il bisogno dato che si stanno riformando le norme sui licenziamenti individuali, non quelle sui licenziamenti collettivi in cui il sindacato gioca un ruolo cruciale. Fatto sta che, invece di rendere partecipi gli italiani di un confronto anche acceso su come e cosa riformare concretamente per migliorare le cose, si cerca di arruolarli nelle piazze e nelle urne per uno scontro di potere all’interno del partito di maggioranza relativa.

Vediamo allora quali sono i punti chiave su cui si gioca la possibilità di riformare davvero il nostro mercato del lavoro, un’opportunità che non possiamo assolutamente permetterci di perdere nuovamente. I decreti che seguiranno la legge delega dovranno ridurre l’enorme incertezza che oggi circonda i costi dei licenziamenti individuali in Italia. Significa semplificare le norme e ridurre la discrezionalità dei giudici. La minoranza del Pd ha ottenuto di creare un’asimmetria su come vengono trattati i licenziamenti economici e quelli disciplinari senza giusta causa. Per i primi non varrà mai il reintegro, per i secondi, in alcuni casi, sì. Come già discusso su queste colonne, questa asimmetria, per quanto confinata a casi molto specifici, rischia di aumentare il contenzioso, dunque l’incertezza. Il datore di lavoro vorrà sempre far valere ragioni economiche per il licenziamento mentre il lavoratore cercherà di dimostrare che le vere ragioni sono disciplinari. Nessuno ha interesse ad aumentare questa incertezza, tranne chi esercita la professione forense. Perché l’opposizione interna al Pd e lo stesso sindacato chiedono di trattare meglio chi presumibilmente può documentare di non essere gradito all’azienda perché si è poco impegnato sul posto di lavoro rispetto a chi invece “ha dato il massimo”, ma ha avuto la sfortuna di lavorare in un’impresa che, per colpe non sue, è entrata in crisi? Non sarebbe una battaglia molto più di sinistra chiedere al governo di introdurre nella legge delega il principio per cui il datore di lavoro paga un’indennità anche quando il licenziamento economico è legittimo? Oggi in Italia, a differenza che in molti altri paesi, non è così. Sarebbe un modo di tutelare di più chi è sfortunato e di tutelarlo maggiormente di chi ha presumibilmente qualche responsabilità nel deludente andamento dell’azienda presso cui lavora.

Un’altra battaglia che la sinistra non sembra voler fare riguarda il salario minimo. Ce ne sarebbe bisogno per ridurre il numero dei cosiddetti working poor balzati negli ultimi anni al 16 per cento della forza lavoro. La legge delega è molto reticente a riguardo, prevedendo sì «un compenso orario minimo», ma solo per i settori dove non c’è contrattazione collettiva. Ora, sulla carta tutto è coperto dalla contrattazione collettiva a meno che si sia nel settore informale. Quindi il salario minimo dovrebbe entrare in vigore solo dove nessuna legge viene applicata. Eppure, c’è un 13 per cento di lavoratori regolari che percepisce salari inferiori ai minimi contrattuali, con punte del 30 per cento in agricoltura e nelle costruzioni. Questi lavoratori senza alcun potere contrattuale continueranno a vedere il proprio salario orario avvicinarsi di molto allo zero. Perché la minoranza del Pd non chiede al governo di introdurre un salario minimo per tutti i lavoratori?

C’è poi la questione della semplificazione delle tipologie contrattuali. Renzi continua a sostenere che abolirà i contratti a progetto e i co.co.co. Ma come intende procedere? Cosa succederà a questi lavoratori? Come si pensa di ridurre il rischio che finiscano per alimentare le fila dei disoccupati? C’è un modo per scoraggiare l’abuso di queste figure contrattuali senza magari eliminarle del tutto? E ancora, cosa si vuol fare in concreto per ampliare la copertura degli ammortizzatori sociali ai lavoratori che hanno carriere discontinue? Se si vuole davvero estendere il diritto a essere assistito in caso di perdita di lavoro anche a chi ha versato contributi per soli tre mesi e a chi lavora nel parasubordinato, non bisogna forse mettere sul piatto più risorse di quelle oggi previste dalla Legge di Stabilità?

Perché nessuno pone queste domande al governo? Perché non chiede parimenti come intende assicurarsi che il diritto al congedo di maternità venga davvero esteso a tutte le lavoratrici, autoctone e immigrate, che lavorano nel nostro paese? Sono, immaginiamo, questi i quesiti che interessano milioni di italiani. Ma non è certo di questo che si parla. L’altra faccia della medaglia delle felpe rosse della Fiom sotto la giacca è un assegno in bianco. Quello che sta concedendo al governo chi dichiara il proprio dissenso sul Jobs Act, evitando di incalzare l’esecutivo su queste scelte fondamentali per il futuro del lavoro in Italia.

Italia agli ultimi posti sulle liberalizzazioni, la legge è nel cassetto

Italia agli ultimi posti sulle liberalizzazioni, la legge è nel cassetto

Rosaria Amato – La Repubblica

Far pagare troppo poco il cliente svilisce la professione legale? Sembra di sì, a giudicare dalle argomentazioni del Consiglio Nazionale Forense, accuratamente riportate dall’Antitrust nel provvedimento che condanna l’organo professionale al pagamento di quasi un milione di euro. Completamente diversa la visione dell’Authority presieduta da Giovanni Pitruzzella: il tariffario imposto dal Cnf limita l’autonomia degli avvocati e restringe la concorrenza. Stessa lontananza di vedute per quanto riguarda la pubblicità su Internet: per il Cnf pubblicizzare tariffe convenienti su un sito «comporta in re ipsa lo svilimento della prestazione professionale da contratto d’opera intellettuale a questione di puro prezzo». Più banalmente, per l’Antitrust il singolare divieto importo dal Consiglio agli iscritti all’Ordine è “anticompetitivo” e potrebbe precludere agli avvocati l’uso di «un importante canale di diffusione dell’informazione». In generale, le due disposizioni sanzionate limitano direttamente e indirettamente «l’autonomia dei professionisti rispetto alla determinazione del proprio comportamento sul mercato».

«Questa impostazione è tipica dell’Ordine forense, ed era tipica di tutte le professioni fino a qualche anno fa» rileva Silvio Boccalatte, avvocato, autore del capitolo sulle professioni dell’Indice delle liberalizzazioni, pubblicato ogni anno dall’Istituto Bruno Leoni. «Adesso però alcuni ordini, per esempio quello dei commercialisti, degli ingegneri, stanno cercando di far evolvere il loro quadro normativo verso una configurazione più moderna di prestazione professionale». La prossima edizione dell’Indice verrà presentata il 27 novembre. I nodi al pettine non sono molto diversi da quelli dello scorso anno, quando con valutazione 28 su 100 l’Italia è risultata il Paese meno concorrenziale d’Europa. Tanto poco concorrenziale che non c’è ancora traccia della nuova lenzuolata di liberalizzazioni annunciata oltre un mese fa dal ministro dello Sviluppo Economico Federica Guidi, in occasione della Giornata Europea della Concorrenza. La pubblicazione del disegno di legge, che dovrebbe recepire gran parte della segnalazione dell’Antitrust di luglio, era stata indicata come imminente, ma adesso fonti ben informate ipotizzano come periodo perlomeno gennaio, quando la legge di stabilità sarà finalmente alle spalle. E sui contenuti, bocche stracucite, per evitare le pressioni delle numerose lobby che temono moltissimo eventuali nuove limitazioni al loro campo di azione.

Le indicazioni di luglio dell’Antitrust sono estremamente ampie: vanno da provvedimenti che rendano meno care benzina e assicurazioni a misure che favoriscano il passaggio da una banca all’altra e una maggiore concorrenza nei servizi locali. Anche all’Istituto Bruno Leoni avrebbero qualche indicazione da dare al governo: «La sostanziale totale liberalizzazione delle forme di organizzazione professionale – suggerisce Boccalatte – e la assoluta totale liberalizzazione delle forme delle prestazioni professionali alla clientela, nel rispetto della concorrenza e nell’ottica della correttezza. E concretezza: basta con cose folli tipo le sanzioni contro “l’accaparramento della clientela”».

Certo, non sono solo gli ordini professionali a essere carenti sotto il profilo della libera concorrenza: «A mio avviso bisognerebbe ancora intervenire sulle rigidità del mercato del lavoro – dice Serena Sileoni, tra gli autori dell’Indice delle liberalizzazioni – e sicuramente tra le urgenze ci sono i servizi postali, sia il servizio universale che tutto il resto, e il trasporto ferroviario. Però non bastano le leggi: il provvedimento odierno dell’Antitrust dimostra che le restrizioni all’esercizio concorrenziale delle professioni possono dipendere soprattutto dalle barriere erette dagli ordini».

La terza recessione del Paese malato

La terza recessione del Paese malato

Tito Boeri – La Repubblica

Siamo ufficialmente il malato d’Europa. L’unico Paese, oltre a Cipro, con il segno negativo nel terzo trimestre 2014, l’unico a vivere tecnicamente una terza recessione. Ma non facciamoci ingannare dai decimali, soggetti ai margini cileno-re di queste stime. Il fatto nuovo è che anche la Germania è entrata in stagnazione e fa peggio del resto dell’area euro. Chi conta davvero in Europa non può continuare a far finta di nulla. Mentre il resto del mondo, dalla Cina all’India agli Stati Uniti, continua a crescere a tassi sostenuti. Un anno fa il clima di fiducia di famiglie e imprese volgeva al bello; sarebbe bastata una politica monetaria più espansiva, un accesso al credito meno difficile per imprese e famiglie per tradurre questo cambiamento di aspettative in comportamenti favorevoli alla crescita. Oggi i piani della Bce, anche qualora attuati compiutamente, non bastano più. Prevale l’avversione al rischio, si cerca liquidità, anziché investire in progetti imprenditoriali.

Per contrastare questa depressione delle aspettative ci vorrebbe un piano di investimenti pubblici a livello europeo, finanziato soprattutto da quegli Stati che possono permetterselo. Andrebbe anche a loro vantaggio. Ma chi ha sin qui agitato la bandiera degli investimenti europei, il Presidente della Commissione, Juncker, è oggi, a sole due settimane dal suo insediamento, un’anatra zoppa, delegittimato dalle rivelazioni sui favori fiscali concessi, con accordi segreti, alle imprese che investivano in Lussemburgo quando era alla guida del granducato. E non sarebbe la prima volta che un piano di investimenti pubblici europei si perde nel nulla: è già successo col piano di Delors del 1993, con la strategia di Lisbona del 2000 e con il Growth Compact del 2012. Eppure il vertice europeo che a dicembre dovrà decidere sul piano di investimenti pubblici non deve fallire.

Juncker, nel suo discorso di investitura, ha parlato di 300 miliardi, spalmati su tre anni. Significa circa lo 0,3 per cento del Pil dell’area euro. Troppo poco per stimolare l’economia in crisi, anche considerando moltiplicatori fiscali favorevoli. Ci vorrebbe almeno il doppio e soldi veri, non delegati ai prestiti concessi dalla Banca Europea degli Investimenti che, per ragioni di rating, evita di finanziare investimenti che hanno effetti positivi su tutti gli operatori economici anche se non sono magari molto redditizi. Devono anche essere spesi subito, senza le interminabili procedure che regolano l’accesso ai fondi strutturali. E devono essere spesi bene, da amministrazioni pubbliche non corrotte.

C’è un piano che soddisfa questi tre requisiti. Si tratta di assicurare l’accesso alla banda larga su tutto il territorio dove si paga in euro. Sarebbe un piano gestito a livello di istituzioni sovranazionali europee, facilmente soggette allo scrutinio dell’opinione pubblica. L’accesso alla banda larga permette di migliorare l’ efficienza delle imprese allargando i mercati perché riduce i costi di transazione. In questo modo stimola la crescita. Secondo alcuni studi sui paesi Ocse, un incremento della penetrazione della larga banda di 10 punti percentuali porterebbe ad aumentare il tasso di crescita del reddito pro capite dell’1,5 per cento all’anno. In Germania è stato stimato che l’ampliamento della banda larga comporterebbe una crescita addizionale cumulata di 33 miliardi in dieci anni. È un investimento che favorisce anche i Paesi in cui la banda larga è già ampiamente diffusa, perché permette alle imprese di vendere ai consumatori oggi localizzati in aree in cui il commercio online è meno sviluppato per i limiti della rete. Al tempo stesso sono i Paesi che oggi hanno maggiore bisogno di stimoli fiscali, come l’Italia, quelli più indietro nello sviluppo della banda larga, e in cui gran parte degli investimenti avrebbe luogo. Da ultimo, è un investimento percepibile dai cittadini, darebbe quel senso al fatto di appartenere all’area dell’euro che oggi manca soprattutto nel sud del continente. Al punto che molti demagoghi di professione, a Beppe Grillo si è ieri aggiunto Stefano Fassina, hanno ormai deciso di abbracciare la causa dell’uscita dall’euro.

Il governo Renzi sembra aver compreso la centralità dell’investimento in banda larga, tant’è che sulla carta vuole mobilizzare fino a dieci miliardi attingendo ai fondi strutturali. Ma gli obiettivi dell’Agenda digitale velocizzano l’accesso a chi è già connesso, portandola fibra fino ai palazzi anziché collegare chi oggi è di fatto tagliato fuori. In altre parole, si muovono più nello spirito degli investimenti privati che di quelli pubblici. Proponendosi, invece, di ridurre davvero il digital divide ci si potrebbe presentare a Bruxelles a dicembre con ben altra forza e credibilità. Gioverebbe non poco avere anche una riforma compiuta da esibire. Dovendo esprimere un giudizio sul governo Renzi, viene da pensare a quei candidati a posizioni di professore di ruolo che hanno tanti lavori in corso, ma ancora nessuna pubblicazione. I working paper possono riempire le pagine dei giornali, ma non rientrano nei curricula che vengono presi in considerazione a livello internazionale.

È fuga dei giovani dalla campagna: under 35 solo il 5% degli agricoltori

È fuga dei giovani dalla campagna: under 35 solo il 5% degli agricoltori

Jenner Meletti – La Repubblica

Sembrava che tutto stesse cambiando, nei nostri campi. Giovani laureati, armati di zappa e computer, impegnati in aziende capaci di rilanciare il Made in Italy. Vendita diretta dal coltivatore al consumatore, mercati dove il contadino porta frutta e verdura e mette la sua faccia. Una ricerca di Nomisma – curata da Denis Pantini e Massimo Spigola – racconta invece che la nostra agricoltura non è un mestiere per giovani (tranne rare eccezioni) e che dalle campagne è in corso una vera e propria fuga. Con un rischio pesante: che la terra diventi ancor più un bene rifugio per chi già possiede ricchezza e non risorsa per chi, nelle campagne, potrebbe trovare un futuro per sé e per il Paese.

Dal 2008 al 2013 – questi i primi dati della ricerca che sarà presentata oggi alla fiera di Bologna a cura dell’Informatore Agrario – gli occupati in agricoltura sono calati del 6% mentre i giovani con meno di 24 anni sono diminuiti del 15%. Alzando l’asta ai 35 anni, si scopre che i giovani agricoltori sono 82.000, il 5,1% del totale.Quelli che invece superano i 65 anni – età in cui negli altri settori si va in pensione – sono 603.390, pari al 37,2%. Diversa la situazione in altri Paesi europei, nostri diretti concorrenti. In Spagna gli under 35 sono il 5,3, in Germania il 7,1, in Francia l’8,7. Ancor più netta la differenza se si guarda al peso degli anziani. Gli over 65 sono appena il 12% in Francia e il 5,3% in Germania. Nelle campagne italiane la «rigenerazione» diventa difficile. Sono al lavoro infatti 14 giovani ogni 100 anziani. In Francia gli under 35 sono 73 ogni 100 anziani, in Germania arrivano addirittura al 134%.

Non è soltanto una questione di età. «Oggi – spiega Denis Pantini di Nomisma – è difficile avviare un’attività davvero produttiva con meno di 20 ettari di buona terra. E invece la Sau – superficie agricola utilizzata – dei giovani agricoltori italiani è in media di 13,6 ettari, mentre in Germania è di 49 ettari e in Francia di 68,5. Anche la nostra dimensione economica è fra le più contenute, con un valore inferiore ai 55.000 euro di produzione standard, mentre in Francia è di 118 mila euro e in Germania di 130.000».

Qualcosa si muove, comunque. Nelle aziende italiane le attività remunerative oltre a quella agricola (ad esempio fattorie didattiche, produzione di energia rinnovabile…) sono pari al 4,7%, nelle aziende di chi ha meno di 40 anni arrivano al 46,4%. Con una disoccupazione giovanile al 42%, il lavoro nei campi potrebbe essere una soluzione. E invece l’attrazione è davvero bassa. Settore pubblico e libera professione sono ai primi posti. La «stabilità occupazionale» è il primo desiderio, con il 40,7%. «Possibilità di lavorare all’aria aperta» registra solo l’1,7%. E chi fra i giovani non coltivatori ha amici o parenti in agricoltura, associa a questo lavoro le parole «fatica e povertà». «Un’agricoltura in mano agli anziani – raccontano i curatori della ricerca – non si impegna negli investimenti e nell’innovazione e così perdiamo potenzialità proprio mentre il Made in Italy è richiesto in tutto il mondo».