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La spending review dall’alto

La spending review dall’alto

Massimo Riva – La Repubblica

Stavolta il fronte interno delle reazioni alla manovra 2015 minaccia di rivelarsi anche più caldo, se possibile, di quello esterno in Europa. In particolare sul versante degli enti locali: le Regioni innanzi a tutti. Si potrà dire che lo scontro fra Palazzo Chigi e i governatori è una costante nella stagione in cui si allestiscono le misure di aggiustamento del bilancio: anche ai tempi dei tagli lineari del duo Berlusconi-Tremonti si sono viste scintille infuocate. Quest’anno, però, c’è una novità politica da non prendere sottogamba: il conflitto si è aperto all’interno dello stesso schieramento della sinistra governante. Da una parte c’è il segretario del Pd che è anche presidente del Consiglio, dall’altra c’è Sergio Chiamparino, governatore del Piemonte e presidente della conferenza delle Regioni. Un personaggio di estrazione diessina ma che, nelle battaglie interne al Pd, finora si era manifestato fra i sostenitori di Matteo Renzi.

Alto, quindi, è il rischio che il conflitto sulla portata dei provvedimenti possa essere inquinato anche da tentativi di piccolo o grande cabotaggio per rimettere in discussione gli equilibri interni di un partito dove i non-renziani sono sì una minoranza e però non pacificata. I toni durissimi con i quali Chiamparino ha aperto le ostilità, purtroppo, non fanno presagire granché di buono. Né le prime reazioni di Renzi suonano particolarmente accomodanti. Ha detto il governatore del Piemonte che questa manovra per le Regioni è «insostenibile a meno di non incidere sulla sanità». Ha replicato il presidente del Consiglio: «Sono pronto a incontrare gli esponenti delle Regioni, ma dire che ora si alzano le tasse o si taglia la sanità è una provocazione». Controreplica di Chiamparino: parole offensive.

Così non va: in un’ottica di responsabilità istituzionale reciproca sarebbe auspicabile da parte di entrambi un linguaggio più legato alla sostanza delle questioni. Nessuno pensa che chiedere alle Regioni ulteriori sacrifici per oltre quattro miliardi sia come l’invito a una passeggiata. Così com’è vero che la spesa per la sanità costituisce la posta di gran lunga maggiore nei bilanci regionali. Ma davvero all’interno di questi consuntivi non ci sono altri spazi, meno socialmente odiosi, su cui operare risparmi di spesa? C’è qualcosa di non sempre credibile nelle reazioni degli enti locali alle richieste di tagli che vengono dai governi centrali. Non appena la scure si alza sui bilanci comunali, pronti i sindaci dichiarano che così dovranno chiudere gli asili nido. Quando la mannaia minaccia le Regioni, la risposta consolidata è: taglieremo i servizi sanitari. È una storia vecchia, che però rimane ancora del tutto irrisolta.

Come altrettanto totalmente irrisolta è un’altra partita che riguarda i bilanci patrimoniali degli enti locali da dove – molto meno dolorosamente per i cittadini – si sarebbero già potute ricavare non piccole risorse per migliorare lo standard dei servizi sociali e al tempo stesso risanare i consuntivi anno dopo anno. La partita è quella delle innumerevoli aziende partecipate da Comuni e Regioni che talora portano nelle casse pubbliche qualche buon profitto, ma più spesso operano in perdita a esclusivo benefico di coloro che hanno avuto – diciamo così – la buona sorte di trovarvi un canonicato, pingue per sé e inutile per gli altri.

Da quanti decenni sul tavolo della politica italiana è aperto questo problema? Quanti commissari alla spending review vi si sono spaccati invano la schiena? Ecco se il presidente del Consiglio, anziché parlare di provocazione, avesse puntato il dito su questo nodo forse si potrebbe sperare in un esito più proficuo – per i cittadini e i conti pubblici – del confronto che si aprirà fra governo e Regioni. Anche perché in materia risulta del tutto insoddisfacente quell’inciso della legge di stabilità in cui si richiede agli enti decentrati di predisporre entro il marzo prossimo un piano di cessioni e accorpamenti delle aziende controllate con riferimento anche alle retribuzioni dei dirigenti.

Francamente da un decisionista come Matteo Renzi c’era da aspettarsi qualcosa di ben più ultimativo su una materia che, oltre tutto, potrebbe portare a risparmi anche parecchio superiori a quei quattro miliardi che hanno fatto così imbufalire Chiamparino e soci. Peccato, un’occasione persa: sulla quale sarebbe stato davvero interessante per i contribuenti assistere a un confronto fra governo ed enti locali. Magari per ascoltare questi ultimi chiedere conto allo Stato di ciò che intende fare per liberare il campo anche dai suoi tanti e persistenti enti inutili o addirittura dannosi. Purtroppo, non l’unica occasione persa di una manovra che comunque contiene buone misure mirate a spingere verso la crescita economica. Anche se talora contraddittorie: che senso ha, per esempio, aprire il capitolo dell’anticipazione del Tfr per poi richiuderlo con una maggiorazione delle imposte? Lo spazio di tempo per un riesame più sobrio e coerente di alcune misure non manca. C’è da sperare che – al lordo del conflitto con le Regioni – governo e Parlamento lo sappiano sfruttare.

La concorrenza che serve

La concorrenza che serve

Alessandro De Nicola – La Repubblica

Chi avesse seguito un po’ distrattamente la storia degli ultimi anni, sarebbe sorpreso di sentire quanto l’Italia sia bisognosa di liberalizzare l’economia. Ma come? Le norme europee, le authority, la legge antitrust, le lenzuolate di Bersani, le liberalizzazioni di Monti, i vari decreti Salva e Sblocca Italia: non ce n’è abbastanza? No, per niente. Soprattutto in tempi recenti la politica degli annunci ha sopravanzato le riforme concrete e le forze della reazione sono in agguato: basta vedere gli sforzi in Parlamento e nei consigli regionali per limitare gli orari di apertura degli esercizi commerciali.

Ecco perché è bene analizzare la prossima legge annuale sulla concorrenza, che dovrebbe recepire gran parte delle raccomandazioni difuse in luglio dall’Autorità Antitrust: da lì si potrà capire se il Paese è intenzionato ad uscire dalla palude burocratica e corporativa che ne ostacola la crescita. Dalle indiscrezioni che circolano si può dedurre che il ministro dello Sviluppo economico, Federica Guidi, intende mantenersi fedele ai suggerimenti dell’Autorità, non rinunciando ad aggiungerci del suo.

Vediamo di capirci qualcosa cominciando dalle professioni liberali, alcune delle quali, in particolare notai ed avvocati, hanno finora respinto i tentativi di cambiamento. In effetti il Mise fa buone proposte quali l’abolizione del divieto di ingresso di soci di capitali nelle associazioni professionali (legittimando anche quelle multidisciplinari), la possibilità per gli avvocati di partecipare a più studi legali, la rimozione della proibizione del patto di quota-lite. Altre richieste, quali la soppressione dei parametri di riferimento per determinare il compenso in caso di disaccordo col cliente, hanno vantaggi ma anche svantaggi, in quanto i parametri, se non obbligatori e solo residuali, abbattono i costi di transazione ed evitano disparità di valutazione a seconda del giudice competente.

Per i notai si vuole dare la possibilità agli avvocati di sopperire ad alcune delle funzioni dei primi. Ottima idea: per liberalizzare bisogna creare anche dei conflitti di interesse, anzi, allargherei pure ai commercialisti e ai magistrati in pensione la possibilità, ad esempio, di certificare la firma. Inoltre è giusto incoraggiare la concorrenza tra notari attraverso l’uso di pubblicità e procacciatori d’affari. Chi invoca inorridito la dignitas della professione si dimentica che nulla è più dignitoso che ampliare l’offerta e abbassare i premi per i clienti.

Bene anche l’abolizione del limite di titolarità di massimo 4 farmacie per soggetto: chi riuscirà a gestirne 20 o 40 porterà un beneficio ai consumatori. La sostituzione di un numero massimo di farmacie per area territoriale con un numero minimo, invece, non è convincente. La burocrazia non è in grado di programmare alcunché, quindi meglio lasciare libertà di apertura senza contingentamento e sarà il mercato a decidere. L’alternativa proposta dal Mise, vale a dire la possibilità di vendita di tutti i farmaci di fascia C in qualsiasi esercizio presidiato da un farmacista sembra preferibile. A completamento, l’eliminazione di alcuni passaggi burocratici per la commercializzazione dei farmaci generici va altresì nella giusta direzione.

Ma se questi appena citati sono interventi dovuti anche per il loro carattere simbolico, ve ne sono altri che potrebbero avere un impatto economico notevole. Mi riferisco alla riforma del sistema di accreditamento delle strutture private all’interno del Servizio Sanitario Nazionale, eliminando il criterio di assegnazione del budget sulla base della spesa storica (che elimina ogni incentivo all’efficienza) e facilitando l’ingresso di nuovi operatori. Si introdurrebbe così una concorrenza virtuosa tra pubblico e privato lasciando a medici e pazienti la possibilità di scelta della struttura senza aggravi per loStato, grazie anche ad un sistema di trasparenza per la comparazione della performance dell’attività medica e della qualità del servizio erogato.

Ficcanti sono poi le proposte in tema di trasporto pubblico locale. Si favorisce l’ingresso di nuovi operatori persino in sovrapposizione alle linee già esistenti, liberandoli dal pagamento di oscure ‘compensazioni aggiuntive’ all’ente pubblico. Si vuole inoltre non solo abrogare la possibilità di affidamento diretto del servizio di trasporto locale. ma anche premiare le Regioni che procederanno a gare competitive. Infine, potenzialmente più esplosiva del Tfr, è la previsione della portabilità dei fondi pensione chiusi da parte del lavoratore, il quale sarebbe libero, nel caso in cui non fosse contento del rendimento, di spostare il patrimonio accumulato verso altri fondi più redditizi, chiusi o aperti. Questa riforma scardinerebbe rendite di posizione e farebbe fruttare meglio il denaro dei lavoratori.

Sono presenti altre proposte sulla separazione tra banche e fondazioni, sul governo societario delle banche popolari, sulla portabilità dei conti correnti, e sui contratti di assicurazione e di distribuzione del carburante. Una certa timidezza la si riserva alla liberalizzazione delle Poste e, benché sia spiegabile al fine di non ‘disturbare’ la privatizzazione, è secondo me un errore. Le eventuali conseguenze patrimoniali di una maggiore concorrenza verrebbero così scaricate sui risparmiatori e si ritarderebbero i benefici sistemici di un contesto più competitivo. Ciò detto, bisognerà seguire con attenzione l’evolversi della situazione: Lobby Continua è sempre occhiuta in questi casi e a volte il Ministero, con l’ansia di imporre la liberalizzazione, introduce solo nuova regolamentazone. Insomma, speriamo sulla determinazione del governo, ma contiamo sulla vigilanza dell’opinione pubblica.

Evasione, la Ue dice addio al segreto bancario

Evasione, la Ue dice addio al segreto bancario

Andrea Bonanni – La Repubblica

Dopo decenni di battaglie, i governi hanno decretato ieri la fine del segreto bancario in Europa. I ventotto ministri delle Finanze dell’Unione, sotto la presidenza dell’italiano Pier Carlo Padoan, hanno finalmente trovato un accordo nella loro riunione a Lussemburgo per aderire ad un meccanismo di scambio automatico di informazioni tra le amministrazioni che prevede tra l’altro anche quelle relative ai dati bancari oltre che ai redditi da lavoro, alle pensioni, ai redditi patrimoniali e immobiliari. In pratica qualsiasi amministrazione fiscale potrà ottenere in modo automatico dalla controparte di un altro stato membro tutte le informazioni patrimoniali relative ad un proprio contribuente che abbia redditi, depositi o immobili in quel Paese.

L’accordo che, come ha spiegato Padoan, «costituisce una pietra miliare nella lotta contro l’evasione fiscale», è stato possibile grazie al fatto che Austria e Lussemburgo hanno rinunciato ad opporre il veto che avevano mantenuto per anni contro qualsiasi decisione in materia. La svolta è maturata dopo che in seno all’Ocse e al G-20 si era formato un consenso generale tra i governi interessati per generalizzare lo scambio di informazioni in modo da mettere un freno all’evasione fiscale.

La direttiva, che era stata proposta più di un anno fa dalla Commissione europea, entrerà in vigore al primo gennaio dell’anno prossimo. Ma il meccanismo di scambio automatico, che richiede l’adozione di uno speciale software da parte delle amministrazioni fiscali degli stati membri, diventerà operativo solo entro il 2017. L’Austria, che ieri ha dato il proprio accordo politico all’intesa, ha chiesto e ottenuto una proroga dì un anno per adeguarsi alle nuove norme, e dunque entrerà a far parte del sistema solo a partire dal 2018. Il Lussemburgo, invece, ha fatto sapere che si adeguerà al sistema di scambio automatico entro i tempi previsti.

L’accordo, naturalmente, aumenta enormemente la pressione sugli altri paradisi bancari del Continente. La Commissione europea ha ricevuto mandato dal Consiglio di chiudere i negoziati per cooptare nel meccanismo di informazioni la Svizzera, San Marino, il Liechtenstein, il principato di Monaco e Andorra. I governi di questi cinque Paesi hanno già, in linea di principio, accettato di adeguarsi alla nuova normativa europea e all’accordo delineato in sede Ocse, anche se c’è da aspettarsi che alcuni cercheranno di guadagnar tempo. Forse un po’ ottimisticamente, la Commissione ha comunicato che conta di chiudere il negoziato con questi Paesi entro la fine dell’anno. Ieri tra l’altro, il Consiglio sotto presidenza italiana ha anche concluso con la Svizzera un accordo che pone fine al contenzioso tra la Ue e la Confederazione sulla tassazione delle imprese, e che riguardava un regime fiscale particolarmente favorevole che la Svizzera applicava alle società che trasferivano la propria sede sul suo territorio. Un regime che molti governi europei consideravano come una forma di «concorrenza fiscale» sleale.

Il tfr di Pantalone

Il tfr di Pantalone

Tito Boeri – La Repubblica

In queste ore il governo sta decidendo se varare l’operazione Trattamento di fine rapporto in busta paga. Nell’ambito di una legge di stabilità che si annuncia di basso profilo (solo 5 miliardi dalla spending review al posto dei 20 annunciati!), questo potrebbe essere l’unico provvedimento di un certo rilievo. Servirebbe per rilanciare i consumi rimpinguando gli 80 euro in busta paga. Il tutto con effetti contenuti sul disavanzo, destinato già ad aumentare fino a sfiorare il vincolo “invalicabile” del 3 per cento. Insomma, sembra la famosa quadratura del cerchio. Purtroppo non è così. Prima di spiegare perché e cosa si può fare in alternativa, bene chiarire quali sono le ipotesi allo studio, scusandoci in anticipo col lettore perché sono molto complicate.

Il Tfr lasciato in azienda è una fonte di finanziamento a basso costo per le imprese. Le aziende maggiormente coinvolte in questa operazione hanno meno di 50 dipendenti e sono quelle che hanno più problemi di accesso al credito. Per evitare di sottrarre loro liquidità, il governo intende chiedere alle banche di versare questi soldi ai lavoratori utilizzando a tal fine i fondi presi a prestito dalla Bce a tassi TL-TRO cioè uLTRavantaggiosi, diventando così creditrici delle imprese, al posto dei lavoratori. Si pensa inoltre di dare ai lavoratori la facoltà di scegliere se incassare questi soldi oppure lasciarli in azienda o presso il fondo istituito presso l’Inps per replicare i rendimenti del Tfr. Non avrebbero invece questa facoltà i lavoratori che hanno dirottato il trattamento di fine rapporto verso la previdenza integrativa.

Il Tfr esiste dal 1942 e non è certo la prima volta che un governo accarezza l’idea di cambiarne la destinazione d’uso per sostenere la domanda. Ma questa volta si fa sul serio e proprio a ridosso di una riforma che ha deciso che il Tfr doveva servire per alimentare la previdenza integrativa. Di più, i lavoratori che hanno messo i soldi in fondi pensione, seguendo i suggerimenti degli stessi partiti che oggi appoggiano Renzi, sono trattati peggio. Infatti non viene loro offerta la possibilità, concessa invece agli altri lavoratori, di attingere a questi accantonamenti, in caso di bisogno. Perché li si esclude? Apparentemente per non contraddire troppo la riforma del 2007. Ma ci si dimentica che questa scelta spingerà altri lavoratori a non alimentare col Tfr la previdenza integrativa. La liquidità è un bene prezioso, soprattutto di questi tempi. La prospettiva di investimenti molto liquidi rischia di dissuadere i giovani, destinati ad avere pensioni pubbliche molto più basse di chi si ritira oggi dalla vita attiva, dall’investire nella previdenza integrativa. In un Paese che ha smesso di crescere, la previdenza integrativa è ciò che può tutelare le pensioni future dei giovani. Negli ultimi 13 anni i fondi negoziali hanno offerto un rendimento cumulato nominale del 49% contro il 30% circa offerto dai contributi alle pensioni pubbliche; negli ultimi 3 anni, poi, il rendimento più basso offerto da un fondo pensione negoziale è stato del 4,5% (comparto garantito), mentre i contributi previdenziali sono stati virtualmente capitalizzati a meno dell’1 per cento.

Non pochi lavoratori che hanno sin qui optato per tenere il Tfr in azienda lo hanno fatto perché il trattamento di fine rapporto è un deterrente ai licenziamenti. Un’impresa che deve scegliere chi licenziare presumibilmente opterà per il lavoratore al quale non deve versare la liquidazione, soprattutto se le imprese faticano a finanziarsi. Coinvolgendo un terzo attore, le banche, che dovrebbero ereditare il debito dell’impresa verso il lavoratore, questo deterrente, che risponde alla logica delle compensazioni monetarie a chi perde il lavoro anziché della reintegra che il governo intende abolire, viene a cessare. Il tutto in virtù di un sostegno pubblico, non di un accordo fra una banca e un’impresa privata. Infatti il governo, per invogliare le banche a partecipare a questa operazione, dovrà offrire loro la garanzia che, in caso di fallimento dell’impresa, sarà Pantalone a farsi carico del debito contratto dall’azienda nei confronti dell’istituto di credito. È una garanzia che rischia di essere molto costosa perché saranno soprattutto i lavoratori di imprese che stanno per portare i libri in tribunale a optare per incassare subito il Tfr.

Per queste ed altre ragioni (ricapitolate su lavoce.info) non si vede perché mettere in piedi un’operazione intricata – che coinvolge banche, Bce e Cdp – per modificare nuovamente le norme sulla previdenza integrativa rendendole (credevamo non fosse possibile) ancora più complesse di prima. Il tutto con il rischio di apparire come un governo che non esita a rendere più facili i licenziamenti e ad approfittare delle documentate scarse capacità degli italiani di pianificare i loro risparmi, pur di incassare tasse più alte dal Tfr (il prelievo su rendimenti finanziari dei fondi pensione è dell’11,5% mentre il Tfr in busta paga verrebbe tassato mediamente al 23%). Se, come crediamo, il vero intento dell’esecutivo è quello di sostenere la domanda, bene che sia consapevole del fatto che i soldi dati in busta paga verranno spesi solo se percepiti non come un dono effimero, destinato a essere ripagato un domani con tasse più alte, ma come un aumento permanente del reddito disponibile. Con tutta la buona volontà, è difficile credere che un’architettura così bizantina come quella allo studio possa reggere nel tempo.

Se proprio si vogliono mettere più soldi in busta paga, meglio piuttosto ridurre i contributi dei lavoratori dipendenti all’Inps. Si può, ad esempio, abbassarli di cinque punti, portandoli ai livelli del lavoro parasubordinato. Servirà anche a riequilibrare il sistema previdenziale tra pubblico e privato. Non è un’operazione che aumenti il debito pubblico perché ormai tutti versano in un sistema contributivo in cui minori entrate oggi nelle casse dell’Inps saranno un domani compensate da spese più basse. La Commissione Europea, che ha più volte elogiato il nostro sistema contributivo lamentando semmai il fatto che sia entrato in vigore troppo tardi, potrà accettare un disavanzo oggi più alto che viene automaticamente coperto da minori disavanzi futuri. Tra l’altro, tagliando in modo equo le pensioni più alte per fiscalizzare i contributi dei lavoratori con salari più bassi, come già proposto su queste colonne, si otterrà il duplice effetto di contenere gli effetti temporanei sul deficit e salvaguardare le pensioni più basse. Il tutto in modo sostenibile, dunque credibile, e senza mettere di mezzo la Cassa Depositi e Prestiti.

Capitali di nuovo in fuga dall’Italia, oltreconfine 67 miliardi in due mesi

Capitali di nuovo in fuga dall’Italia, oltreconfine 67 miliardi in due mesi

Federico Fubini – La Repubblica

Un deflusso del genere dall’Italia non si era visto da prima che Mario Draghi, nel luglio del 2012, pronunciasse le sue parole più celebri: “Faremo qualunque cosa per preservare l’euro”. Quel giorno il presidente della Bce arrestò e poi invertì la corrente della fuga di capitali da Paesi più in crisi. Ora, per la prima volta da quei giorni, la direzione di marcia si è ribaltata: via dall’Italia, verso l’estero.

Questa non è una replica del film di due o tre anni fa, in cui un’intera porzione d’Europea fu colpita dalla sfiducia. Stavolta, sugli ultimi due mesi, la fuoriuscita di denaro riguarda solo l’Italia. Nelle altre economie della cosiddetta “periferia”, Grecia, Spagna e Portogallo inclusi, la bilancia delle partite finanziarie procede come nell’ultimo anno o due. In agosto dall’Italia invece sono usciti capitali per 30,3 miliardi di euro, mentre la corsa verso l’estero in settembre ha addirittura accelerato con un saldo negativo di 37 miliardi. Era dal periodo drammatico fra la primavera 2011 e la primavera del 2012 che non si assisteva a un’emorragia così sostenuta. La tendenza è fotografata dal sistema europeo delle banche centrali, l’Eurosistema che dà vita alla Bce, attraverso i saldi di Target 2. Quest’ultimo è il meccanismo di pagamenti anche fra privati in Europa, che l’Eurosistema segue perché sono le stesse banche centrali a regolare i pagamenti attraverso i confini con un meccanismo di crediti e debiti.

È questo il termometro che ha segnalato la grande corsa verso l’uscita dall’Italia negli ultimi due mesi. Poiché gli scambi di import e export procedono di solito a ritmo costante, è sicuro che la fuoriuscita di capitali sia data da una decisione degli investitori finanziari: risparmiatori, fondi, banche. Sulla base dei dati pubblici è più difficile spiegare quali categorie di titoli italiani siano smobilizzate per portare denaro fuori. Per ora la fuga non sembra riguardare i titoli di Stato, ma dal 4 settembre scorso il Ftse-Mib, principale listino della borsa di Milano, ha perso il 9,5%: è una fuga di circa 40 miliardi di euro. Parte di questo denaro sembra essere stato parcheggiato in Germania: la posizione creditoria della Bundesbank nell’Eurosistema negli stessi mesi si è infatti impennata per circa la metà dei volumi finanziari persi dall’Italia. Il resto sembra essere finito fuori dall’area euro, contribuendo alla svalutazione della moneta unica.

Anche nel 2011 andò così: la fuga di capitali dall’Italia investì prima il mercato azionario, quindi quello dei titoli di Stato dopo qualche mese di deflussi dall’azionario. Non è detto che stavolta debba ripetersi il copione della crisi finanziaria, partendo dalla debolezza di borsa per poi si allargarsi ai titoli di Stato e facendo impennare lo spread con i bund tedeschi. Ma Frank Westermann dell’università di Osnabrueck ha notato lo smottamento di agosto e settembre e si è chiesto perché riguardi solo l’economia più grande dell’Europa del Sud. La prima spiegazione è la più ovvia: l’Italia è il solo Paese della periferia che resta in recessione, senza risultati visibili dalle riforme. Inoltre, poco meno di tre anni fa le banche italiane hanno preso in prestito oltre duecento miliardi di liquidità dalla Bce per il tramite della Banca d’Italia, fornendo in garanzia dei titoli del Tesoro. Tra poco queste operazioni saranno definitivamente chiuse e i Btp o i Ctz potrebbero essere svincolati. Westermann però offre anche una spiegazione politica: Draghi nel 2012 promise interventi illimitati della Bce solo in difesa di quei Paesi che avessero accettato la troika, cioè un programma di politiche controllate e monitorate dal resto d’Europa. L’Italia è il solo Paese del Sud a non averlo sottoscritto, e ha un sistema politico che rifiuta la troika. È un tema del quale i politici nel Paese e nel resto d’Europa non parlano mai. I dati sulle fughe di capitale, ogni tanto, invece sì.

Gli economisti pentiti (o quasi) adesso fanno autocoscienza

Gli economisti pentiti (o quasi) adesso fanno autocoscienza

Federico Rampini – La Repubblica

«La professione dell’economista non si è coperta di gloria in questi ultimi sei anni, è il minimo che si possa dire». Comincia così “l’autocoscienza dell’economista” a firma di Paul Krugman. Il premio Nobel dell’economia include se stesso nel bilancio negativo: «Quasi nessun economista aveva previsto la crisi del 2008, e quelli che lo fecero avevano anche previsto troppe crisi che non erano mai accadute». L’allusione in parte è a se stesso (Krugman era già pessimista molti anni prima del 2008) in parte ad altre Cassandre celebri come Nouriel Roubini e Robert Shiller. Anche i migliori, dunque, sbagliarono. O perché attribuirono una crisi imminente a cause errate: i macrosquilibri delle bilance dei pagamenti fra Usa, Cina e Germania, per esempio. Oppure perché avevano profetizzato il disastro con troppo anticipo (1999 nel caso di Shiller). La categoria dei pessimisti avverava la battuta secondo cui «gli economisti hanno previsto dieci delle ultime quattro recessioni». Molto peggio gli altri, comunque. E cioè la maggioranza: i cantori del libero mercato come meccanismo perfetto, capace di correggere i propri squilibri, di generare prosperità sempre ed ovunque. Quelli, tra l’altro, avevano il più delle volte le leve del potere in mano: vedi Alan Greenspan, presidente della Federal Reserve “addormentato al volante” mentre Wall Street gonfiava la bolla speculativa dei mutui sub-prime. Ideologia e conflitto d’interesse si sorreggevano a vicenda: la “mano invisibile” consentiva a Wall Street di respingere limiti e restrizioni. Ma la storia continua, ora l’epicentro del disastro intellettuale è l’eurozona…

In America l’autoflagellazione degli economisti è diventato un nuovo genere letterario. Quella frase autocritica di Krugman, è l’incipit di una sua recensione uscita sul supplemento libri del New York Times. Il libro è Seven Bad Ideas (sette cattive idee) di Jeff Madrick. L’ultimo di una lunga serie. Tra i migliori in questo filone ci sono Zombie Economics dell’australiano John Quiggin (sottotitolo: “Le idee fantasma da cui liberarsi” edito dall’Università Bocconi); il monumentale saggio di Philip Mirowski Never Let a Serious Crisis Go toWaste( non lasciare che vada sprecata una grave crisi); un altro australiano, Steve Keen, con Debunking Economics. L’elenco è molto più lungo, a conferma di due aspet- ti importanti. Primo: almeno una parte della categoria degli economisti sente di avere tradito la propria missione, la propria funzione sociale, il proprio dovere verso il pubblico. Secondo: c’è un’altra parte più numerosa, però, che non sente alcun bisogno di associarsi all’autocoscienza e di fare autocritica. Purtroppo nella seconda categoria ci sono molti esperti vicini al potere, tecnocrati che hanno un’influenza enorme sulle decisioni dei governi. Questo è un dato che Krugman sottolinea nella sua recensione al libro di Madrick, e che accomuna tutte le altre opere che ho appena citato: la formidabile capacità di sopravvivenza delle idee sbagliate. Nelle sette idee che Madrick prende di mira, almeno tre sono strettamente legate fra loro: il dogma della “mano invisibile” (il mercato capace di auto-regolarsi); l’avversione all’intervento statale nell’economia; e la certezza che la globalizzazione sia sempre benefica.

C’è però un aspetto che Krugman non tratta nella sua recensione, e riguarda il clima intellettuale in Europa. I tre dogmi mercatisti di cui sopra hanno avuto meno influenza nel Vecchio Continente. Gli Stati Uniti vivono sotto l’egemonia neoliberista dai tempi di Ronald Reagan in poi; ma in Europa la versione pura e dura del mercatismo ha sfondato solo in Gran Bretagna. La Germania, sia che fosse governata dai socialdemocratici o dai democristiani, ha sempre preferito una versione ben temperata del liberismo, la cosiddetta economia sociale di mercato o “modello renano”. Lo Stato, anche nella vocazione di Welfare, ha sempre avuto in Europa continentale un ruolo maggiore che in America, almeno da Reagan in poi. E tuttavia il pensiero economico americano ha dovuto accettare di recente qualche salutare shock pragmatico. Krugman ricorda per esempio che la Chicago Business School (cresciuta all’ombra dell’autorità di Milton Friedman, il padre dei neoliberisti, Nobel anche lui) in un sondaggio fra economisti ha trovato che il 92% riconoscono l’efficacia dell’Amministrazione Obama nel contrastare la recessione con investimenti pubblici. La prova dei fatti, almeno in questo caso, ha potuto scalfire i dogmi. Non tutti, per carità. Le pagine dei commenti del Wall Street Journal rimangono in appalto alla fazione più radicale dei neoliberisti; i quali da cinque anni gridano “al lupo al lupo”, denunciando i disastri imminenti provocati dal deficit pubblico Usa (che invece si sta riducendo) e il ritorno dell’iperinflazione dietro l’angolo (di cui non c’è traccia). Milioni di risparmiatori americani hanno pagato di tasca propria per gli errori di questi esperti: il caso del fondo Pimco è esemplare, il più grosso gestore di bond ha creduto al mito dell’inflazione fabbricata dalla politica monetaria della Federal Reserve, e ha fatto scommesse disastrose sull’andamento dei mercati.

Da nessun’altra parte però il disastro della scienza economica sta producendo danni sociali così gravi come in Europa. Un altro grande economista americano, Benjamin Friedman (autore de Il valore etico della crescita, Università Bocconi), sulla New York Review of Books si occupa della “patologia del debito europeo”. Evidenzia la lettura “religiosa” del debito come vizio o peccato da espiare, che ispira Angela Merkel. Ricorda ai tedeschi afflitti da amnesia che loro furono i beneficiari del più colossale perdono di debiti della storia, dopo la seconda guerra mondiale. Traccia dei parallelismi inquietanti fra l’attuale depressione europea e quella degli anni Trenta, ivi comprese le conseguenze politiche come l’ascesa della xenofobia. La Merkel ormai appare dogmatica perfino agli esperti del Fondo monetario internazionale, che da tempo la esortano a rilanciare la domanda interna nel suo paese usando la leva degli investimenti in infrastrutture. Ma l’autocoscienza dell’economista, che in America è iniziata almeno nelle frange più illuminate, non ha ancora scalfito le certezze granitiche che governano l’Europa: dove gli accademici “krugmaniani” (i Piketty e i Fitoussi) sono amati dall’opinione pubblica ma contano poco, e di certo non influenzano i tecnocrati di Berlino, Francoforte e Bruxelles.

Il sindacato non c’è più?

Il sindacato non c’è più?

Enrico Deaglio – Il Venerdì di Repubblica

No, non è stato solo l’articolo 18. Quello era il pretesto, il tabù da abbattere. Quello che è successo il 29 settembre 2014 alla direzione del Pd, è stato un evento epocale. Per la prima volta nella sua storia, il partito italiano della sinistra ha rotto con il sindacato, con la sua visione del mondo, il suo linguaggio, la sua burocrazia, il suo peso politico, la sua storia. Senza rispetto, senza dire grazie. Anzi, con uno sfogo liberatorio. Non ne possiamo più di voi; siete vecchi, malvestiti, non siete sexy. Nooo! Noi non siamo i vostri figli!

Era già da un po’ che quest’aria circolava. Oggi infatti, insieme al politico della casta, il sindacalista è la persona più disprezzata d’Italia. Quando il presidente del Consiglio – a capo del partito della sinistra; Berlusconi non avrebbe osato tanto – deforma in un messaggio video la voce della segretaria Cgil Susanna Camusso in un piagnucolante falsetto e attacca il sindacato definendolo il principale responsabile di un apartheid sul luogo di lavoro, ha voglia Camusso di prospettare, a mezza bocca, uno sciopero generale. Lei per prima sa che non avrebbe successo. Quando anche il comico liberal Maurizio Crozza scherza su Maurizio Landini (il segretario della irriducibile Fiom) e Camusso e li mostra mentre mobilitano gli iscritti telefonando con i gettoni dalle cabine telefoniche, sembra di sentire una campana a morto: il sindacato, dice lo sketch, è un fantasma del passato; vive ingenuamente in una «bolla spazio temporale sopravvissuta agli anni Settanta»; il futuro delle relazioni di lavoro è piuttosto Flavio Briatore, il boss, quello che in un programma tv su come avere successo negli affari, ti guarda in faccia e ti fa: «Sei fuori». E poi, c’è il popolo che non tollera i fannulloni. Il popolo del blog di Beppe Grillo, il popolo dei melomani che plaude al licenziamento collettivo dei 182 orchestrali e coristi dell’Opera di Roma dopo la rinuncia del Maestro Riccardo Muti a dirigere Aida e Le nozze di Figaro. E poi c’è Sergio Marchionne, nella parte dell’imprenditore coraggioso, che si è trovato contro dei sindacati che volevano mettere becco con lui persino sulle pause per andare a fare la pipì alla catena di montaggio e che è dovuto emigrare in America.

A questo si era giunti, in Italia, nel 2014. Tutti dicevano che erano i sindacati, coi loro stupidi privilegi, a bloccare la speranza. Altro che i minatori gallesi! Altro che i controllori di volo americani! Altro che i ferrovieri inglesi che non volevano rinunciare alla pausa per il tè! No, qui in Italia si è andati oltre. I sindacati hanno distrutto l’Alitalia, difendono i ladri del bagaglio a Malpensa, fanno fuggire gli imprenditori con i loro diktat. Improvvisamente, sono diventati i responsabili di tutto; del precariato, della mancata innovazione, della rigidità del mercato del lavoro, della burocratizzazione della cosa pubblica, dell’assenza del merito, della fuga dei cervelli (94.121 giovani emigrati in un anno), dell’abulia della gioventù, del suicidio degli imprenditori, della crisi. Questa l’aria che tira. Vento forte, non c’è che dire, visto che è arrivato così tumultuosamente anche dentro il partito che era sempre stato l’unico alleato del sindacato.

Vien voglia, allora, di guardarla un po’ più dappresso, questa causa di tutti i mali. Prima di tutto: si dice sindacato o sindacati? Se si sceglie la dizione «sindacati», essi sono in Italia – a seconda delle stime – tra gli 800 e i 1.100; pare sia impossibile avere un censimento sicuro, visto che moltissimi sono sindacati registrati, ma composti di una sola o al massimo due o tre persone, per ottenere qualche beneicio legale. Nella scuola, per esempio, i sindacati sono ben 43, mentre 13 sono quelli dell’Enav, ovvero i controllori di volo. Alitalia e Meridiana schierano 13 sigle (a Ryanair, invece, il sindacato è di fatto vietato. Ehi! Vedi che si può volare senza sindacato!). I magistrati sono organizzati in 5 correnti sindacali, i dirigenti d’azienda hanno sindacati categoriali, provinciali, regionali, così come i prefetti. La Rai, con tredicimila dipendenti, sfoggia Slc Cgil, Uilcom Uil, Ugl Telecomunicazioni, Snater, Libersind Conf Sal, Usigrai, ma dirotta tutte le sue produzioni all’esterno, dove lavorano cooperative o altre entità ovviamente senza sindacato. I disoccupati di Napoli assommano 15 sigle, tutte piuttosto vivaci. In realtà praticamente tutti gli italiani (notai, taxisti, allevatori, guide alpine, vittime del racket) fanno parte di un sindacato alla ricerca di un tavolo di trattativa dove poter far valere le proprie ragioni. La Lega Nord ha fatto il suo sindacato, il Sinpa, sindacato della Lega Nord e la destra ha fatto l’Ugl, diventata nota perché la sua segretaria, Renata Polverini, stava sempre in televisione.

Poi, però, dato che siamo un Paese stravagante, esiste tutta un’altra Italia senza sindacati, ma altrettanto vivace. È l’Italia di mafia, camorra e ‘ndrangheta, di tutto il lavoro nero, degli usurai, degli immigrati che mandano avanti l’agricoltura e l’edilizia, degli schiavi che raccolgono il pomodoro. Insomma, quello che si dice normalmente il sommerso, che vale circa il 20 per cento del Pil. Ma, in generale, quando si parla del «sindacato » si intendono le tre grandi confederazioni Cgil, Cisl e Uil, che hanno numeri da lasciare a bocca aperta. Tutte e tre insieme raggiungono quasi dodici milioni di iscritti. Di questi, però, quasi la metà sono pensionati organizzati in una propria federazione. (L’Italia qui è un’anomalia. In Francia e in Germania, per esempio, i pensionati continuano a essere membri del loro sindacato di origine). Dei ventidue milioni di lavoratori in attività, quindi, uno su quattro è iscritto ad una delle tre grandi confederazioni. Non solo, ma all’interno di quel venticinque per cento, in netta maggioranza sono i lavoratori assunti dallo Stato. Per quanto riguarda l’industria, Cgil, Cisl e Uil rappresentano solo le realtà con più di 15 addetti, circa il sessanta per cento del totale. (Ovvero, il 40 per cento dei lavoratori italiani non è mai stato tutelato Redall’articolo 18. Un referendum per estendere la tutela si svolse nel 2003, ma fallì clamorosamente il quorum).

Un altro calcolo interessante è poi quello del numero dei sindacalisti. Secondo Bruno Manghi, il grande sociologo del sindacato, ex dirigente della Cisl, i sindacalisti di Cgil, Cisl e Uil – ovvero le persone che dedicano almeno qualche ora al giorno, tutti i giorni, alle attività della loro federazione, sono circa 700 mila. Il loro lavoro è in parte volontariato, oppure è ricompensato da «permessi retribuiti» o «distacchi». Il fenomeno è particolarmente presente nella pubblica amministrazione, dove i sindacalisti in distacco retribuito erano arrivati ad essere quattromila, prima che fossero falcidiati dai ministri Brunetta e ora Madia. Quindi, quando vedete una manifestazione sindacale di mezzo milione di persone, duecentomila sono pensionati e il resto sono sindacalisti, in genere del pubblico impiego. Numeri impressionanti. Gli iscritti al sindacato in Italia superano di gran lunga i cattolici che vanno a messa la domenica; i sindacalisti a tempo pieno sparsi sul territorio sono sette volte gli effettivi dell’Arma dei carabinieri.

Da istituzione che difende i salari e le condizioni di vita dei lavoratori, il sindacato si è progressivamente trasformato in un colossale patronato che funge da centro di assistenza fiscale e pensionistico. I salari, invece, la cui difesa e il cui aumento sono il core business del sindacato, non sono stati molto tutelati. Marco Revelli, storico e da sempre appassionato militante delle battaglie sindacali, nel suo libro Poveri noi (Einaudi) ha riportato un dato quanto meno inaspettato. Una ricerca di Luci Ellis (Banca internazionale dei regolamenti di Basilea) e Kathryn Smith (Fondo Monetario Internazionale) scoprì già nel 2008 che la somma dei salari italiani era diminuita verticalmente. Per l’Italia si stimava un trasferimento tra salari e profitti di 8 punti percentuali (circa 120 miliardi di euro all’anno). Mi dice ora Revelli: «Luciano Gallino aggiorna i dati per l’Italia ipotizzando ora addirittura una quindicina di punti, il che farebbe 250 miliardi». Diversi i fattori: diminuzione della produzione generale; aumento della produttività dovuto al maggior uso di tecnologia, ma soprattutto aumento enorme della forbice tra le retribuzioni del lavoro manuale o impiegatizio, di livello sempre più basso, e quelle che l’alta dirigenza e la proprietà si assegnano. «Una delle più significative sconfitte sindacali è avvenuta alla Fiat. Nel 2012 Marchionne chiese un referendum in cui poneva seccamente la possibilità della chiusura se non fossero stati accettati pesanti cambiamenti (in peggio) dell’orario di lavoro. I dipendenti chiamati al voto si espressero, per poco, per il sì; ma questo non servì a garantire i livelli di produzione promessi e si entrò piuttosto in uno stato di cassa integrazione prolungata e apparentemente senza fine. La vertenza in pratica finì con una perdita di diritti sindacali che si erano acquisiti con anni di lotte e un salario decurtato sensibilmente, dato che la cassa integrazione copre solo l’ottanta per cento della busta paga. Detto in un altro modo, forse più crudo: quello che trent’anni fa era il volano che aveva spinto in alto le richieste sindacali – l’industria dell’automobile – ha perso nove decimi della sua forza numerica ed è composta da migliaia di operai di mezz’età o sulla via della pensione che vivono con meno di mille euro al mese». E di pari passo vennero i call center, i co.co.co, il precariato, le false partite Iva, le false cooperative.

Una massa di lavoro precario che è esplosa oggi in Italia fino a coinvolgere tre milioni di persone. Sono poveri, infelici, indignados, ma soprattutto non sindacalizzati. Nacquero più o meno insieme all’ultima grande manifestazione di forza della Cgil, nel 2002. Tre milioni di persone sfilarono a Roma per «mantenere l’articolo 18» che Silvio Berlusconi voleva eliminare. Non bastando i pullman italiani, la Cgil andò ad affittarli in Slovenia e il sindacato si vantò di aver prodotto tre milioni di spillette e cappellini in una settimana senza ricorrere al lavoro nero. A Sergio Cofferati, il segretario generale, venne pronosticato il ruolo di leader politico. Si parlò di un «ticket Prodi Cofferati», che avrebbe guidato un’Italia socialista. Ma era lo stesso Cofferati a sapere che quei tre milioni erano una specie di illusione ottica, l’ultima raffigurazione di un mondo che non esisteva più. «Quando facevo il sindacalista e c’era un contratto da rinnovare facevamo un’assemblea per turno alla Pirelli Bicocca. Ad ogni assemblea partecipavano settemila operai. Questo vuol dire che il sindacato riusciva a raggiungere in un giorno quattordicimila operai. Ieri, mi hanno portato i dati di adesione al nostro nuovo sindacato che vuol organizzare i precari. Abbiamo raddoppiato gli iscritti! Peccato che da 15 siano passati a trenta!». Giorgio Airaudo è stato il segretario nazionale della Fiom ed è ora parlamentare con Sel. Ha vissuto gli aspetti più drammatici della trasformazione del lavoro e della perdita di forza del sindacato. «Per dire tutta la verità, anche noi non ci rendemmo conto. C’era tutto questo parlare di flessibilità, necessaria per superare la crisi, che ci eravamo illusi che fosse qualcosa di momentaneo. Mi ricordo di quando andai a vedere il call center delle Pagine Gialle, sistemato dentro un’officina vuota di Mirafiori. Era la nuova catena di montaggio, però senza diritti! Noi eravamo abituati ad inserire nelle vertenze concessioni sullo straordinario, in cambio di assunzioni, ma notavamo che agli imprenditori non interessava più. Loro erano alla ricerca di un nuovo modo di produrre – e quando potevano andavano in Serbia o in Romania – e cercavano solo un modello che svalutasse il lavoro, così come ai tempi della lira si svalutava la moneta. Questa è la tendenza di oggi, purtroppo. Lavoro sempre più dequalificato e precario; volatile e licenziabile al primo accenno di crisi. Diventeremo un ex Paese industrializzato, ma forse il primo tra i Paesi sottosviluppati. Credo che dovremo abituarci a considerare il tempo del sindacato forte come un’età dell’oro. Il 13 ottobre, quando John Elkann suonerà la campanella di Wall Street, avrà quotato in borsa una società che in Italia ha lasciato solo piccoli pezzi di produzione».

Dodici anni dopo quella grandiosa manifestazione in nome della dignità del lavoro, il rosario di sconfitte sindacali è lungo. Un quarto delle manifatture è andato perso, il potere d’acquisto è diminuito, le pensioni sono state pesantemente allontanate dal costo della vita e ribassate, il lavoro precario è diventato legge e lo stesso potere politico del sindacato – i grandi accordi di concertazione – sulla politica economica, è un rito del passato. Franco Marini (una vita nella Cisl) non è diventato presidente della Repubblica. Fausto Bertinotti (sindacalista Cgil) si è fatto conoscere per aver fatto cadere il governo Prodi, reo di non aver fatto un legge sulle 35 ore di lavoro. Sergio Cofferati non è diventato il leader del Pd; oggi lo è invece un giovane che ha portato il partito sopra il 40 per cento dei voti, che ha scavalcato i sindacati mettendo lui ottanta euro in busta paga, senza nemmeno un’ora di sciopero. Li ha dati a dieci milioni di garantiti e sindacalizzati, ma è probabile che sia l’ultima volta. Matteo Renzi ha preso l’impegno di difendere «Marta, 28 anni, precaria, che aspetta un bambino» e a cui il sindacato non garantisce le tutele che invece garantisce alle dipendenti pubbliche. Nella stessa riunione, il Pd – dove la Cgil ha scoperto di non avere che pochissimi amici – una direzione euforica ha applaudito il diritto dei «padroni» (e basta chiamarli così!) a licenziare. Non Marta, s’intende. Ma Cofferati e la sua genìa.

Il sindacato è una cosa del passato? Difficile rispondere, perché il quadro non è uniforme. Negli Stati Uniti sembra essere diventato definitivamente un fenomeno residuale, con solo il sette per cento di lavoratori iscritti (dopo la guerra erano il 35 per cento). In Cina è ferocemente represso nei suoi tentativi. Il simbolo del suo sviluppo è piuttosto la gigantesca fabbrica Foxconn, con più di un milione di operai che assemblano telefonini chiusi da reti alle finestre per impedire i suicidi. Il suo contrappeso americano è la catena di grandi magazzini Walmart, anche questa con più di un milione di dipendenti (80 per cento dei prodotti venduti sono made in China) e nessuna rappresentanza sindacale; da cui paghe bassissime, turn over altissimo, licenziamenti facilissimi. Ma non tutto il mondo è così. In Brasile, Lula e Dilma Roussef sono stati portati alla presidenza dal sindacato e il Paese ha vissuto il suo migliore sviluppo economico con grande redistribuzione della ricchezza. La Polonia moderna è nata con la vittoria di un sindacato, Solidarnosc. La Germania è mitica per il potere della sua IG Metal, nel cui grattacielo svettante su Francoforte si decide di che colore saranno le prossime Bmw, di quante settimane di terme a Ischia possono godere gli operai, quanti saranno gli apprendisti da assumere e naturalmente si detta la linea alla politica, anche alla Merkel.

L’Italia oggi è in bilico, ma la tendenza è ad avere un grande futuro dietro le spalle. E dire che la storia è lunga e il sindacato ha radici talmente forti nel popolo italiano da rendere difficile una sua sparizione. In un immaginario tour di turismo sindacale, ecco Torino, la capitale operaia del Novecento, dove una fermata della nuova metropolitana si chiama XVIII dicembre, per ricordare la strage che le bande fasciste di Piero Brandimarte fecero contro la Camera del Lavoro nel 1922. Venti morti ammazzati, un telegramma di plauso da Benito Mussolini. Il sindacalismo italiano era nato da poco più di vent’anni – le leghe dei braccianti e quelle di mutuo soccorso, la gioventù operaia cattolica e i consigli di fabbrica gramsciani, un’idea di lavoro organizzato da contrapporre al padronato che era, davvero, avido e cattivo. Cesura di vent’anni, causa fascismo. Ripresa nel 1945, in cui agli operai e ai contadini nessuno regalava niente. Le fabbriche allora erano caserme, la polizia sparava volentieri. Tour sindacale in Sicilia, alla ricerca delle 44 Case del Popolo distrutte e dei 44 sindacalisti uccisi nel dopoguerra dalla maia, che difendeva feudi e latifondi. Un passaggio nella oggi placida Puglia, a ricercare le orme di Giuseppe Di Vittorio, il più grande sindacalista italiano.

Fatevi accompagnare dal libro di Luciana Castellina e Milena Agus, Guardati dalla mia fame, e scoprirete gli agrari che mettevano la museruola ai bambini perché non mangiassero l’uva durante la vendemmia e le donne proletarie affamate che entrarono nel palazzo dei signori e uccisero per vendetta, a mani nude altre donne, perché simbolo della ricchezza arrogante. Il sindacato in Italia è nato con sangue, passione e sacriicio. È ancora quello? Secondo lo storico Giovanni De Luna «l’apogeo venne raggiunto negli anni 70. I tre sindacati erano uniti (la destra, che li temeva, li chiamava la Triplice, la Trimurti), i grandi contratti collettivi erano momenti in cui si prendevano decisioni sulla scuola, sulla sanità, sulla casa, sullo sviluppo economico. Un’era che allora prese il nome di pansindacalismo, ma che fu sconfitta, principalmente perché non divenne progetto politico. Oggi viviamo i risultati di quella sconfitta; e il sindacato appare una somma di interessi di corporazioni. Un cambio antropologico piuttosto triste».

Pietro Marcenaro, già senatore del Pd, una vita passata nella Cgil, prima come operaio poi come dirigente, non pensa che il sindacato scomparirà. «Fa parte dell’Italia, è stato costruito da uomini e donne di nobili sentimenti e di grande moralità e la sua massima nobiltà l’ha avuta quando è stato unitario. Ma è ovvio che qualcosa è cambiato. Mi dispiacerebbe che la reazione alla politica di Renzi fosse uno scatto pavloviano di autodifesa. Credo piuttosto che il sindacato debba ripartire dal basso, che i sindacalisti debbano considerarsi soggetti che vogliono tutelare altri, non dirigenti di gruppi che cercano tutele. Ripartire dai più deboli. Il primo pensiero che mi viene in mente è questo. Sono un operaio marocchino, cerco qualcuno che mi difenda. Lo trovo, un sindacato?». La stessa domanda potrebbe fare Marta, che aspetta il bambino. O forse queste domande resteranno senza risposta, perché non ci sono più i sindacalisti di una volta. Il rischio è che anche il nome perda di significato. In California circola un adesivo, di quelli da appiccicare sul paraurti posteriore dell’auto. «Non sai chi è un sindacalista? È quello che ti ha fatto avere il weekend».

Serve la riforma, non uno scalpo

Serve la riforma, non uno scalpo

Federico Fubini – La Repubblica

Dopo la fiducia sul Jobs Act in Senato, archiviato il vertice di Milano, Matteo Renzi pub fermarsi un attimo a misurare lo spread che forse oggi conta di più. Non è finanziario, è politico e psicologico. E aiuta a capire chi alla fine riuscirà, e chi no, a districarsi in questa interminabile crisi dell’euro. Ciò che rivela quello spread è che non ce la stanno facendo tanto i Paesi che, per dirla nel gergo di Bruxelles, “hanno fatto le riforme”. Ne stanno uscendo meglio quelli che, piuttosto, si sono detti dall’inizio: questa crisi è frutto in primo luogo dei nostri limiti, ce la siamo creata con le nostre mani, dobbiamo innovare su noi stessi per liberarcene. A restare indietro sono gli altri, quelli che per anni si sono esercitati a dare sempre e solo la colpa agli altri – a chiunque altro – e ora affrontano trasformazioni importanti senza sapere perché, o verso dove.

Dev’essere questa la sfumatura che mette oggi l’Irlanda e la Spagna in traiettoria di ripresa, ma la Francia e l’Italia ancora in mezzo alla palude. Ovunque in questi quattro Paesi si sentono argomenti anche molto validi su ciò che la Germania e la Banca centrale europea dovrebbero fare e non fanno. Ma c’è una qualità della reazione mentale allo shock che fa la differenza, ancor più se declinata sulla scena che abbiamo sotto gli occhi: i voti di fiducia in Senato su una riforma ancora imprecisata dei contratti di lavoro permanenti; le pressioni e le attese a Berlino, i giudizi di Bruxelles, le tensioni nella Bce sul futuro di un potenziale ordigno finanziario chiamato Italia; e nel Paese, la fine dell’illusione che il tempo sia comunque dalla nostra parte.

A Roma c’è un premier sempre più costretto a muoversi fra questi campi di forza, ciascuno intento a catturarlo nella propria gravitazione. Nel governo tedesco si è ormai convinti («sulla base dell’esperienza», nota il ministro Wolfgang Schaeuble) che i Paesi fragili affrontano il cambiamento solo se vincolati a farlo. Può essere un modo più o meno elegante per dire che solo la troika funziona su gente come noi, o per alzare l’intensità della sorveglianza e delle relative condizioni, o magari solo il segnale che la Germania non ha fretta: può lasciare l’Italia nella sua agonia economica, finché non capirà che deve cambiare strada.

Poi c’è il cantiere aperto della riforma del lavoro, con il passaggio drammatico di ieri. È senz’altro legato alle pressioni europee, perché Renzi di colpo ha affrontato l’articolo 18 e la disciplina dei licenziamenti dopo aver spiegato a lungo che queste cose contavano poco. Ha cambiato rotta solo dopo i suoi contatti estivi con i leader europei. Il risultato è che ieri, con François Hollande e Angela Merkel a Milano, a Roma è andato in scena il più strano dei voti di fiducia: il Senato ha delegato il governo a riformare i contratti sulla base di un testo che non ha una sola parola sul punto più delicato, il regime dei licenziamenti economici e disciplinari. In realtà Giuliano Poletti, il ministro del Lavoro, ha delineato in aula un percorso: nei nuovi contratti (non negli esistenti) i licenziamenti economici non prevedono il reintegro per decisione giudiziaria, mentre nei casi disciplinari la possibilità di reintegro sarà delimitata. E sarebbe ingeneroso sostenere che la delega votata ieri è in bianco, perché il testo contiene un disegno equilibrato: dal welfare alle politiche attive di formazione e collocamento, fino alla pulizia nella giungla delle forme di precariato, i passi avanti si vedono e dovevano arrivare già anni fa, decisi magari da chi oggi protesta.

Resta però l’impressione di un colossale corto circuito fra ciò che si fa e le ragioni per le quali si cerca di farlo. Forzando i tempi e il dibattito, facendo leva sul timore di molti senatori di andare a casa se cade il governo e si va al voto, il premier ha preferito mettere parti del suo stesso partito spalle al muro in nome di un simbolo: l’articolo 18. Anche la transizione ai negoziati sui salari in azienda è sul tavolo, è anche più importante dell’articolo 18, ma semplicemente non se ne parla perché come totem funziona piuttosto male. Non riescono a brandirlo né i riformatori, né i loro nemici. Pier Carlo Padoan ripete spesso che le riforme approvate fanno bene all’economia solo se su di esse «c’è consenso: non sono uno scalpo da offrire, ma un’innovazione da spiegare e da condividere. Quella del lavoro, così com’è, ha molti aspetti positivi. È ora di parlarne, e mettere scalpi, simboli e totem nel posto che li attende da tempo: il solaio.

Fondazioni e banche, il sonno della politica

Fondazioni e banche, il sonno della politica

Federico Fubini – Affari & Finanza

Qualche anno fa il sistema bancario italiano, come l’intero Paese, è entrato in una zona d’ombra in cui l’imperativo non era migliorarsi. Era vivere. Non c’era tempo per ripensare le strutture di governo del sistema finanziario, anche se molto è già stato fatto per renderle più credibili. Poí è iniziata la stagione degli esami europei sugli istituti di credito in vista del passaggio della vigilanza a Francoforte, e anche quella ha congelato qualunque altra priorità. Tra poco però giustificazioni del genere non varranno più, perché il passato recente ha lasciato tracce profonde.

Se c’è qualcosa che colpisce per esempio nel disastro di Mps, nove miliardi di perdite dal 2011 per gli errori della vecchia gestione, è l’ambivalenza nel Paese. Il sistema Italia ha risposto con sorprendente efficienza ai problemi della banca ma ha evitato di intervenire sui modelli di gestione che l’hanno generato. Il governo ha tenuto in piedi Mps, permettendo ai contribuenti di guadagnare con gli alti interessi sui prestiti a Siena; le élite del mondo finanziario hanno messo a disposizione manager capaci per la nuova gestione; la Banca d’Italia ha spinto sul rafforzamento del bilancio e del capitale della banca, e continuerà a farlo dopo gli stress test europei; l’establishment del Paese è riuscito a dare leader più trasparenti e sensati alla fondazione. Eppure nessuno ha mai fatto chiarezza sulla domanda di fondo: Montepaschi è stata un’anomalia o un caso estremo?

Gli investimenti scriteriati, l’ansia da scalate a prezzi illogici, i prestiti clientelari sono il frutto della specifica inettitudine di pochi: non si trovano in Italia altri casi del genere fra le grandi banche (fra le medie e piccole sì). Ma un recente rapporto del Fmi sottolinea alcuni problemi sistemici senza i quali per Mps non sarebbe mai finita così. L’Fmi mostra che le fondazioni sono ancora molto influenti sulle banche, e certo le hanno aiutate ad attraversare la crisi. In Intesa Sanpaolo e Unicredit, due istituti gestiti molto meglio del vecchio Monte, esprimono oltre l’80% dei posti in consiglio rispettivamente con il 25% e il 9% delle azioni. In 35 banche hanno più del 20% del capitale e di fatto le controllano. E solo un quarto delle fondazioni è davvero uscito dal mondo del credito.

Questi enti, accusa l’Fmi, sono dominati dai politici, con il 47% dei loro consigli eletto dalle amministrazioni locali. Sono soggetti a conflitti d’interesse. Le fondazioni non sono costrette a pubblicare conti certificati, non hanno limiti sul loro indebitamento e sono sottoposte a una vigilanza debole: una sentenza della Corte costituzionale del 2003 limita i poteri di controllo del Tesoro e questo vuoto da allora non è mai stato colmato. Gli ex sindaci dell’Italia centrale che oggi sono a Palazzo Chigi di questi problemi hanno una conoscenza di prima mano. Dovrebbero occuparsene. Oppure non potranno sostenere che il prossimo caso “à la Mps” è stato solo sfortuna.

Quanto stato c’è nella Silicon Valley

Quanto stato c’è nella Silicon Valley

Mariana Mazzucato – La Repubblica

Renzi il mese scorso ha visitato la Silicon Valley con lo scopo dichiarato di portare in Italia innovazione, concorrenza e dinamismo. Il presidente del Consiglio fa bene a fissare questi obiettivi come priorità, se si pensa allo scarsissimo dinamismo che ha caratterizzato l’economia italiana negli ultimi vent’anni, a causa della stagnazione della produttività e conseguentemente della crescita. Purtroppo, però, invece di imparare da quello che è successo veramente nella Silicon Valley, sembra aver sposato gli slogan e i miti che circondano quell’esperienza, in particolare il mito che attribuisce il fenomeno della Silicon Valley all’impulso di imprenditori geniali, finanzieri disposti a prendersi grossi rischi e uno Stato che si dedica a ridurre i vari tipi di «impedimenti» che ostacolano questi risktakers. E infatti la riforma del lavoro che Renzi sta patrocinando in questo momento punta proprio a rimuovere tali impedimenti.

Ma se è sbagliata la lettura della storia, sono sbagliate anche le politiche. La Silicon Valley è il risultato di imponenti investimenti pubblici diretti (non sussidi) lungo l’intera catena dell’innovazione, dalla ricerca di base e applicata fino alla fase finale della commercializzazione. Mentre i venture capitalists, mitizzati da Renzi, perseguono profitti nel breve termine e puntano a un’«uscita» rapida dall’investimento attraverso un collocamento in Borsa o l’acquisizione da parte di un’altra società, il Governo degli Stati Uniti ha dimostrato di essere un finanziatore paziente, fornendo (attraverso una rete decentralizzata di organismi pubblici) finanziamenti ad alto rischio ad aziende come la Compaq, l’Intel e la Apple. E oggi fornisce lo stesso genere di finanziamenti a compagnie della green economy di successo come la Tesla, che recentemente ha ricevuto un prestito garantito per 465 milioni di dollari, e meno di successo come la Solyndra, che ha ricevuto un prestito di 500 milioni: nel gioco dell’innovazione qualche volta si vince e qualche volta si perde.

Se Renzi fosse andato alla Apple Inc., avrebbe trovato designer straordinari come sir John Ives che lavorano accanitamente insieme a team di grande talento, ma di ricerca e sviluppo ne avrebbe trovata poca. La ragione è che la Apple storicamente ha messo insieme, con un brillante senso del design e della semplicità, tecnologie già esistenti. Tecnologie finanziate dallo Stato. Nel caso dell’iPhone, Internet, il Gps, il sistema di comando vocale Siri e lo schermo tattile, tutti finanziati dai contribuenti. Naturalmente la Apple non è l’unico esempio di questo tipo: l’algoritmo di Google è stato finanziato dalla National Science Foundation; il settore delle biotecnologie, quello delle nanotecnologie e dei gas di scisto sono tutti nati grazie ai fondi pubblici.

Pretendere che l’innovazione in Italia arriverà semplicemente abbassando le tasse e riducendo la regolamentazione (specie, come è ovvio, intorno al solito bersaglio facile, il mercato del lavoro), significa ignorare questa storia. Il paradosso è che Renzi ha scelto di copiare dagli Stati Uniti una cosa soltanto, il tanto criticato Jobs Act del 2012 (dove Jobs sta per Jumpstart Our Businesses , cioè «mettiamo in moto le nostre imprese»). E non sorprende l’accoglienza che ha ricevuto questa settimana nella City visto che sono proprio questo tipo di politiche a produrre uno degli aspetti più anomali del capitalismo dei giorni nostri: socializzazione dei rischi, privatizzazione dei benefici.

L’obbiettivo del Jobs Act era di ridurre ancora di più il rischio di investimento per venture capitalists già avversi al rischio allentando gli obblighi di rendicontazione finanziaria per le aziende «più piccole» (quelle con meno di 1 miliardo di dollari di ricavi annui). Oltre a questo, il Jobs Act legalizzava il crowdfunding, consentendo ai fondi di venture capital di reclutare una gamma più ampia di investitori (e singoli individui) al momento di quotare le aziende in Borsa. In che modo tutto questo possa generare crescita occupazionale non è dato sapere: sembra anzi fatto su misura per consentire ai venture capitalists di realizzare profitti smisurati con piccole aziende che rivendono tecnologie realizzate con fondi pubblici. In realtà si ingrossa sempre di più l’esercito delle piccole imprese che si lamentano per i danni provocati dall’atteggiamento speculativo e orientato esclusivamente al breve termine dei fondi di venture capital.

E allora sì, se Renzi vuole regalare all’Italia innovazione e dinamismo deve rendere il Paese più efficiente, ma deve anche evitare di focalizzarsi unicamente sulle «rigidità». Il dibattito dovrebbe vertere sul tipo di investimenti necessari, sia da parte del settore pubblico che da parte del settore privato, e soprattutto si dovrebbe chiedere alle imprese italiane di mostrarsi all’altezza della situazione: non piegarsi ossequiosamente alla City (e alla finanza italiana) ma chiedere invece al mondo della finanza di smetterla di fare pressioni per abbassare la tassazione dei capital gains, una politica da breve periodo e pretendere invece che co-investa nel lungo periodo in quelle aree che in una crescita trainata dall’innovazione richiederebbe. E smetterla di chiedere sussidi ed elargizioni, smetterla di lamentarsi della burocrazia (che non è tanto maggiore di altre parti d’Europa che stanno crescendo) e decidendosi a investire, in collaborazione con lo Stato, in quelle opportunità in grado di costruire un futuro innovativo per l’Italia. E quando gli economisti di destra gli dicono che tutto quello che deve fare è tagliare le tasse, dovrebbe farlo in modo oculato, riducendo le tasse sulle assunzioni e non sulle plusvalenze. E poi ricordarsi che ai tempi del presidente Eisenhower, repubblicano ed ex generale dell’esercito – non certo un comunista – l’aliquota più alta negli Stati Uniti sfiorava il 90 per cento: e fu sotto di lui che vennero realizzati alcuni dei più importanti investimenti in innovazione. E magari citare anche un altro che non è comunista, uno degli investitori più abili e di successo della storia, Warren Buffett, che al contrario di Renzi sembra aver capito che le pressioni della City hanno distrutto e non creato posti di lavoro: «Sono sessant’anni che lavoro con gli investitori e devo ancora vederne uno, nemmeno nel 1976-1977 quando l’aliquota sulle plusvalenze era al 39,9 per cento, rinunciare a un investimento sensato per via dell’imposizione fiscale sui potenziali guadagni. Le persone investono per fare soldi e le tasse potenziali non le hanno mai scoraggiate. E a quelli che sostengono che aliquote più alte penalizzano la creazione di posti di lavoro faccio notare che tra il 1980 e il 2000 sono stati creati quasi 40 milioni di posti di lavoro in più. Cos’è successo dopo lo sappiamo: aliquote più basse e molta meno creazione di posti di lavoro».