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Ogni anno sulle famiglie fardello fiscale da 15.330 euro. Con Tasi e Iva peserà di più

Ogni anno sulle famiglie fardello fiscale da 15.330 euro. Con Tasi e Iva peserà di più

Roberto Petrini – La Repubblica

La montagna di tasse e contributi, pari a 15.330 euro l’anno, che grava sulle spalle degli italiani sposta in avanti il cosiddetto «tax freedom day». Secondo i calcoli della Cgia di Mestre, con una pressione fiscale che per il 2014 è destinata a toccare il record storico del 44 per cento, quest’anno i contribuenti italiani hanno lavorato per il fisco fino alla prima decade di giugno: precisamente l’11 giugno, cioè 161 giorni. Ben 12 giorni in più di quanto avevano fatto nel 1995, quando, però, la pressione fiscale era inferiore di oltre 3 punti percentuali.

Del resto, sempre secondo la Cgia, su ogni famiglia italiana grava un carico fiscale medio annuo di quasi 15.330 euro: considerando l’Irpef e le relative addizionali locali, le ritenute, le accise, il bollo auto, il canone Rai, la tassa sui rifiuti e i contributi a carico del lavoratore. Ogni nucleo famigliare versa all’erario, alle Regioni e agli enti locali mediamente 1.277 euro al mese: un importo che, dice la Cgia, corrisponde allo stipendio medio percepito mensilmente da un impiegato. Nel 2013, spiega il presidente del centro studi Giuseppe Bortolussi, grazie all’abolizione dell’Imu sulla prima casa, il prelievo medio annuo era sceso a 15.329 euro: ben 325 euro in meno rispetto a quanto versato nel 2012. Per l’anno in corso, invece, il gettito è destinato ad aumentare ancora a causa dell’introduzione della Tasi e degli effetti legati all’aumento dell’aliquota Iva avvenuto nell’ottobre scorso.

Intanto si avvicina la data del versamento della Tasi. Secondo la Confedilizia sono più di cinquemila, precisamente 5.050, i Comuni che hanno emanato dopo il 31 maggio le delibere relative al pagamento della tassa sugli immobili. Tra le grandi città compaiono Roma, Palermo, Firenze, Trieste. La questione fiscale è nell’agenda del governo. «Per stabilizzare gli 80 euro bisogna evitare l’errore fatto con l’Imu», ha detto il responsabile economico del Pd, Filippo Taddei, a margine del Meeting Confesercenti. «Un intervento spot – ha aggiunto – che non venne bilanciato da un intervento sulla spesa cosicché la tassa è riemersa sotto altro nome».

Privatizzare: molte parole, nessuna politica

Privatizzare: molte parole, nessuna politica

Federico Fubini – Affari & Finanza

Un’occhiata all’indietro dà l’idea della strada che ci siamo lasciati alle spalle. Se le privatizzazioni di cui si parla oggi fossero state fatte prima della crisi finanziaria, sarebbe andata come segue: dalla vendita del 5% dell’Eni lo Stato avrebbe ricavato circa cinque miliardi di allora, cioè in termini reali tenuto conto dell’inflazione – più di quando si spera di raccogliere oggi vendendo il 5% sia di Eni stessa che di Enel. E una cessione di una quota del genere della società elettrica avrebbe prodotto due miliardi in più. Se non altro, forse la crisi del debito avrebbe agguantato l’Italia più tardi e sarebbe durata meno. Com’è noto la storia non si fa con i «se», neanche quella finanziaria. Ma guardare da dove veniamo, stimare l’enorme perdita di valore delle imprese a controllo pubblico in questi anni (esempio: nel 2006 Finmeccanica valeva il doppio di oggi) può aiutare ad affrontare il bivio al quale siamo di fronte. Vero è che il messaggio contenuto nelle occasioni perdute del passato resta ambivalente. Può dare ragione a Pier Carlo Padoan, quando il ministro dell’Economia sostiene che bisogna andare avanti senza soste con le cessioni di società e beni pubblici per arginare il debito. Ma può rafforzare anche la posizione di Matteo Renzi, che vuole prima far crescere il valore delle imprese ai livelli di quale anno fa e solo dopo venderne le quote. L’impressione è che per ora il premier abbia stoppato il proprio ministro più autorevole, proprio quando questi pensava di avere già il suo via libera.

Questa settimana i due continueranno a parlarne. Padoan dirà a Renzi che i ricavi da privatizzazioni di Eni e Enel, gli unici possibili in tempi brevi, servono quest’anno per non far saltare le metriche di contenimento del debito. Insisterà perché il piano non slitti. Probabilmente prospetterà al premier un compromesso: fra le banche d’affari di Londra c’è già la fila per proporre al governo varie tecniche di ingegneria finanziaria in modo da portare al Tesoro gli incassi da cessioni subito (come vuole Padoan) ma vendere le quote dopo (come dice Renzi). Si può lavorare con dei bond convertibili in azioni dei due grandi gruppi. Si può effettuare una vendita a termine. Di certo, sono tutti sistemi con i quali i banchieri della City incaricati dell’operazione finirebbero per guadagnare due volte a spese del contribuente: ricche commissioni al primo passaggio, quello dell’anticipo di cassa, e poi al secondo con la vendita vera e propria delle quote. Si può dunque essere scusati se si viene assaliti da un sospetto: quando le situazioni diventano così ingarbugliate, è perché nel Paese resta un’ambiguità di fondo. Non si è mai fatta chiarezza sull’uso migliore del patrimonio pubblico o sulla presenza dello Stato nei soli grandi gruppi rimasti. Non si riesce a decidere se la vogliamo o no, e perché. Si va avanti a fari spenti, un po’ a tentoni: il modo migliore per restare incagliati.  

La paralisi delle riforme, mancano all’appello 700 decreti attuativi

La paralisi delle riforme, mancano all’appello 700 decreti attuativi

Valentina Conte e Roberto Mania – La Repubblica

Si fa presto a dire riforme: solo per attuare quella della pubblica amministrazione del ministro Marianna Madia ci vorranno almeno 77 decreti attuativi. Ventisei – ha calcolato la Cgil – per applicare, entro dodici-diciotto mesi, il decreto convertito in legge e pubblicato già sulla Gazzetta ufficiale (quello sulla mobilità degli statali, per capirci) e ben 51 per il disegno di legge delega (il “cuore” della riforma) che deve ancora cominciare il suo iter parlamentare. Tempi lunghi, insomma, al di là della promessa, e degli sforzi, della Madia di rendere totalmente operativo il decreto entro la fine di quest’anno. Anche per il Jobs Act di Giuliano Poletti serviranno per ciascuno dei cinque articoli di cui è composta la legge delega «uno o più decreti legislativi». Dunque almeno cinque. Senza pensare che tra sessanta giorni, altri due decreti legge – giustizia sui processi civili e Sblocca Italia – saranno leggi bisognose di attuazione. E dunque di regolamenti ministeriali. Passo dopo passo, la montagna si è stratificata a tal punto che per dare compimento a tutti i provvedimenti dei governi della Grande Crisi – Monti-Letta-Renzi – servono ancora 699 decreti attuativi, come confermato ieri dallo stesso Renzi e da Maria Elena Boschi, ministro (appunto) per l’Attuazione del programma.

Il passaggio delle riforme dalla carta all’attuazione pratica non è mai lineare e soprattutto non è mai veloce: le Province, per dire, sono ancora vive e vegete. La legge Delrio le avrebbe cancellate, ma senza i relativi decreti attuativi è come se le norme fossero scritte sulla sabbia. I decreti per la loro abolizione dovevano arrivare a luglio, ora tutto è slittato a questo mese. Vedremo. Ma questo è il nostro sistema di produzione legislativa nel quale solo una parte del compito spetta a Parlamento e governo mentre tutta la parte applicativa viene delegata ai “potenti” uffici ministeriali. L’ha scritto Sabino Cassese, uno dei maggiori studiosi italiani del diritto amministrativo: «Ma chi è il legislatore? Formalmente il Parlamento, nei fatti le burocrazie operanti sotto il comando del governo. Per lunghi periodi della storia italiana, attribuzione di pieni poteri al governo, controllo dei governi sul Parlamento, deleghe del Parlamento all’esecutivo hanno consentito alle burocrazie e ai governi di legiferare. Quasi nessuna delle grandi leggi della storia italiana è prodotto del solo Parlamento».

D’altra parte – è il governo Renzi che lo certifica nel suo “Monitoraggio sullo stato di attuazione del programma di governo“ aggiornato al 7 agosto scorso – il 62% dei provvedimenti legislativi varati dall’attuale esecutivo ha bisogno per essere effettivamente attuato di altri decreti, visto che meno della metà (precisamente il 38%) si applica da solo: in termini assoluti, su 40 solo 15 sono autoapplicativi. Risultato: servono 171 regolamenti. In percentuale il governo Renzi si muove nella media dei suoi predecessori. È stato infatti il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, nelle sue ultime Considerazioni, a ricordare come delle 69 riforme approvate dai governi tra il novembre del 2011 (quando si insedia l’esecutivo di emergenza guidato dal professor Mario Monti) all’aprile del 2013 (governo di Enrico Letta) solo la metà era stata realizzata a dicembre 2013. Anche questo incide sulla nostra scarsa competitività. Ancora oggi, alla vigilia della nuova legge di Stabilità, mancano all’appello 59 provvedimenti attuativi della legge di Bilancio del governo Letta. Di più: per 25 di quei provvedimenti è addirittura scaduto il termine entro il quale andavano adottati.

Il decreto soprannominato enfaticamente “Decreto del fare” è rimasto al palo per circa la metà dei previsti decreti attuativi: su 79 ne sono stati adottati 40. Ne mancano ancora 39 per 12 dei quali sono pure scaduti i termini temporali. Pensiamo se fosse stato chiamato con un altro nome… Pessima la performance del “Destinazione Italia”: dei 32 decreti attuativi richiesti ne mancano ancora 26, dunque ne sono stati applicati solo sei. Continua ad essere in affanno anche il “Salva Italia” (governo Monti, fine 2011): mancano tuttora 12 decreti attuativi per cinque dei quali è scaduto il termine. Nel complesso ci sono ancora 258 provvedimenti amministrativi da adottare per rendere completamente operative le leggi varate dal governo Monti; 273, invece, per quelle del governo di Enrico Letta. In tutto ce ne sono da varare ancora 531 (ieri la Boschi ha detto che sono scesi a 528) relativi ai precedenti governi che sommati ai 171 dell’esecutivo Renzi fanno 702 decreti mancanti al 7 agosto, ora diminuiti a 699.

Come sempre, in questa lunga stagione di crisi economica, la parte del leone la fa il ministero dell’Economia: sono 36 su 171 i provvedimenti che devono essere definiti dalla struttura guidata da Pier Carlo Padoan. Segue il ministero dell’Ambiente con 24 e poi la presidenza del Consiglio dei ministri con 22. Vero è che il governo Renzi ha smaltito un arretrato del 40% targato Monti-Letta da quando si è insediato, a febbraio (889 provvedimenti da approntare, portati in agosto a 531, ora a 528). Innalzando così la percentuale di attuazione rispettivamente di 12 punti percentuali (governo Monti al 64%) e ben 23 punti (governo Letta al 37%, poco più di un terzo).

Ma ciò che colpisce è l’incredibile vacanza di decreti per leggi importanti, ormai “datate”. È il caso ad esempio della legge Fornero del lavoro, la molto discussa 92 del 2012. Ebbene, anche in questo caso mancano all’appello sei decreti attuativi su 16. Nel frattempo però, si sono succeduti ben due governi, l’attuale ha già modificato la disciplina dei contratti a termine e si appresta a varare il nuovo Codice del lavoro tramite il Jobs Act. La stratificazione normativa e la corsa a legiferare ad ogni costo portano a questi paradossi. Negando benefici concreti a chi poi deve applicare le regole, vecchie e nuove. Anzi aggiungendo confusione e favorendo conflitti interpretativi. Per rimanere nel campo del lavoro, c’è da segnalare l’assurda storia del credito d’imposta previsto dal decreto Sviluppo 83 del 2012 (“Misure urgenti per la crescita del Paese”), entrato in vigore il 26 giugno di due anni fa e predisposto dall’allora ministro Corrado Passera. La norma assicura benefici fiscali (un abbattimento del 35% del costo aziendale per un massimo di dodici mesi) a quelle imprese che assumono a tempo indeterminato ricercatori, laureati o dottorati per svolgere attività di ricerca e sviluppo. Ecco, fino a pochi giorni fa questo bonus non era operativo, pur essendo previsto da una legge dello Stato. L’attuazione era demandata al solito decreto interministeriale da emanare entro 60 giorni. Decreto arrivato il 23 ottobre 2013 (oltre un anno dopo, governo Letta) che a sua volta prevedeva un “decreto direttoriale” del ministero dello Sviluppo, firmato il 28 luglio scorso (governo Renzi) e pubblicato in Gazzetta ufficiale solo il 9 agosto scorso. Oltre due anni dopo la legge che lo istituisce, “urgente” e “per la crescita del Paese”. Con una disoccupazione giovanile alle stelle, la fuga dei cervelli e la spesa in ricerca ai minimi storici, passaggi burocratici biblici come quelli descritti lasciano davvero attoniti.

Eurolandia non si fida dell’Italia

Eurolandia non si fida dell’Italia

Federico Fubini – La Repubblica

Se c’è un’istantanea dell’Italia che resta nella testa di Angela Merkel è quella dell’agosto 2011. Non è la foto da uno dei suoi tanti soggiorni a Ischia. È il ricordo di quello che la cancelliera visse come un tradimento. A quell’epoca, con una lettera di Mario Draghi e Jean-Claude Trichet sul tavolo, il governo italiano promise misure importanti in cambio del soccorso della Bce. L’aiuto di Francoforte arrivò, le promesse di Roma finirono in soffitta poche ore più tardi.

In Italia di quell’episodio oggi si ricorda il fatto che fu Silvio Berlusconi, allora premier, a determinare il voltafaccia. In Germania invece si continua a pensare che responsabile ne fu semplicemente l’Italia, anche perché da allora tutti i governi seguiti a Berlusconi hanno omesso gran parte degli impegni. Quel passaggio del 2011 torna attuale nella mente della Merkel ora che, di nuovo, in Europa si parla di grandi compromessi. Interventi in Italia o in Francia per mettere le due economie in condizioni di competere, in cambio di un po’ di più pazienza a Bruxelles. Un taglio di spesa e di tasse sulle imprese, insieme a nuove regole sul lavoro, in contropartita a una certa tolleranza sul deficit e sul debito pubblico.

Varie versioni di proposte di questo tipo circolano fra i governi da almeno un anno. C’è però un dettaglio che passa quasi inosservato a Roma, mentre a Berlino resta la tessera centrale del mosaico: niente più concessioni all’Italia in cambio di impegni solenni o altri esercizi verbali. Qualunque accordo sulla “flessibilità”, cioè la speranza per l’Italia di non rischiare una multa e una sorveglianza stringente a Bruxelles, prevede prima i fatti. Precise riforme dell’economia approvate come leggi, tradotte in provvedimenti, applicate nella vita reale del Paese. Nient’altro basta ad avviare un negoziato in buona fede su come applicare il Fiscal Compact, cioè le regole di bilancio, in maniera meno burocratica. Forse perché in Italia sono cambiati quattro governi in meno di tre anni, spesso sfugge alla classe politica come l’erosione della credibilità in Europa oggi riguardi l’intero Paese: non il primo ministro di turno o quello appena sostituito da uno nuovo, forte o debole nei sondaggi che sia. È praticamente certo che di questi argomenti Merkel non parli esplicitamente con Draghi. Il canale di comunicazione diretta fra la cancelliera e il presidente della Bce da anni è aperto e funziona benissimo, fondato com’è sul rispetto dei rispettivi ruoli. Due anni fa, Draghi sapeva di avere l’as- senso di Merkel quando salvò l’Italia dal collasso annunciando che avrebbe fatto «qualunque cosa» per preservare l’euro. Anche oggi il banchiere centrale e la cancelliera la vedono in modo simile, almeno su un argomento: l’Italia, la sua stasi e la depressione in cui si dibatte da cinque anni. Entrambi vorrebbero vedere subito progressi nelle norme sul lavoro e nel taglio fiscale al costo di fare impresa, perché nel frattempo il Paese sta restando indietro anche rispetto alle economie più fragili o ai suoi stessi alleati.

La Francia di François Hollande, in teoria in “asse” con Roma, si è messa in marcia. Manuel Valls, il premier, ha espulso dal governo i dissenzienti e ora procede verso un piano di tagli di spesa da 50 miliardi di euro e riduzioni di tasse sulle imprese da 40 miliardi. Se lo porterà a termine tra tre anni, come da programma, l’export transalpino avrà guadagnato competitività su quello dell’Italia per qualcosa come il 2% del Pil francese. Le imprese francesi torneranno ad assumere, quelle italiane, surclassate, continueranno a chiudere. Quanto alla Spagna, è già avanti nel cambiamento e da anni gode della “flessibilità” di cui parla Matteo Renzi. Il deficit di Madrid viaggia intorno al 7% del Pil, ma il Paese non rischia sanzioni da Bruxelles. Nel frattempo, ha cambiato in profondità le regole sul lavoro e sui rischi d’impresa. Le procedure di fallimento delle aziende piccole e medie sono rapide, concluse senza giudici e a basso costo: gli investitori possono mettersele alle spalle e ripartire. I contratti di lavoro sono commisurati alla capacità di un’impresa di stare sul mercato e guadagnare. I licenziamenti per ragioni economiche o organizzative ora sono più facili, eppure la Spagna sta creando nuovi posti di lavoro ogni mese. L’Italia invece ne distrugge e resta in recessione – non il modo migliore di difendere i diritti acquisiti – mentre la Spagna cresce al ritmo del 2% annuo.

È di fronte a queste realtà che Draghi e Merkel fanno i conti e si trovano d’accordo. La cancelliera deve gestire le pressioni verso il rigore da parte della sua Corte costituzionale tedesca, del suo ministro finanziario Wolfgang Schaeuble e dell’opinione pubblica. Ma, come Draghi, sa che l’Italia è troppo grande per non essere aiutata: l’Italia che fa, ovviamente. Non quella che promette.

Una manovra di “soli” 16 miliardi il Tesoro fa i conti con la flessibilità

Una manovra di “soli” 16 miliardi il Tesoro fa i conti con la flessibilità

Valentina Conte – La Repubblica

Troppo presto per brindare, visti anche i primi malumori della Merkel. Ma l’ipotesi di una moratoria biennale sul Six pack, la possibilità cioè per l’Italia di non dover incidere brutalmente col bisturi sui conti 2014-2015, risparmierebbe al Paese di certo una legge di Stabilità lacrime e sangue. Nessuna procedura di infrazione, dunque, se il deficit strutturale non è “close to balance”, vicino allo zero, il prossimo anno. Nessuna bacchettata se il percorso di riduzione del debito pubblico parte nel 2016, dodici mesi dopo. Più margini per fare politiche espansive e provare a rianimare il paziente, dopo la cura da cavallo. E cioè a far ripartire la crescita. Insomma, anziché una maxi manovra da 25 miliardi, ad ottobre l’Italia potrebbe evitare altri tagli draconiani o maggiori tasse per 8-10 miliardi. Una cifra pari quasi al costo del bonus degli 80 euro per il 20 1 5. Non male. 

«Un accordo di questo tipo sarebbe un aiuto importante, è evidente», riflette Enrico Zanetti, sottosegretario all’Economia. «Eviteremmo i rischi di inflazione. Resteremmo sotto il 3% nel rapporto deficit-Pil. Le manovra sarebbe meno complicata, da 15-16 miliardi anziché 23-25, coperta dalla spending review. E saremmo in grado di mantenere tutte le promesse, come il bonus, oltre a scongiurare tagli alle detrazioni fiscali. Non dover fare la correzione da almeno mezzo punto di Pil aiuterebbe, certo». Fermo restando, ricorda Zanetti, che oltre alla moratoria «è anche tempo di rivedere, nelle sedi tecniche europee, il Pil potenziale dell’Italia». Così com’è – pari a zero – «ci penalizza e rende gravosi gli aggiustamenti dei disavanzi strutturali».

Per ora vediamo se l’intesa sin qui solamente abbozzata e informale tra Juncker e la commissione Ue uscente reggerà alla prova (tedesca) dei fatti. «Sarebbe però sbagliato vedere la moratoria come una concessione da scambiare ad esempio con minori tutele per i lavoratori», avverte Stefano Fassina, ex viceministro pd dell’Economia. Quell’obiettivo di riduzione dello 0,5% annuo del deficit strutturale, cioè al netto del ciclo economico avverso, «è assolutamente irrealistico, in uno scenario di recessione come l’odierno». Tra l’altro fissato con un’inflazione al 2%, mentre ora l’Eurozona si avvia alla deflazione. «Il Six pack non si applica punto. E non per concessione, ma perché il quadro è diverso». Sorpresa per la svolta europea che si prefigura, Sergio De Nardis, capo economista di Nomisma, ne soppesa però i vantaggi per l’Italia. «Una corda che si allenta, indubbiamente. Gli sforzi per l’aggiustamento del bilancio strutturale si sposterebbero al 2016. Non saremmo insomma costretti a modificare il tendenziale già ora, con la legge di Stabilità di ottobre. Un passo avanti imponente che tuttavia scavalca anche i possibili margini di flessibilità annunciati da Mario Draghi a Jackson Hole e inquadrati “nei limiti del fiscal compact”, le regole di riduzione del debito pubblico”. Qui siamo ben oltre». 

Sarà per questo che la Merkel è in ansia. «Se ci concederanno davvero questo margine, l’impatto sarà minimale sulla recessione», avverte però Luigi Guiso, economista e docente al Luigi Einaudi Institute for Economics and Finance. «Attenzione poi a non farne un uso cattivo. Il bonus da 80 euro doveva essere finanziato con tagli alla spesa. Allentare questo processo e magari usare la nuova flessibilità per coprire quello sconto fiscale potrebbe essere controproducente. Lo sconto ci toglie qualche castagna dal fuoco nell’immediato, certo non ci aiuta a uscire dalla crisi».

Questo non è un paese per giovani

Questo non è un paese per giovani

Ilvo Diamanti – La Repubblica

Temo che l’immagine di Renzi cominci a risultare inadeguata per raffigurare il Paese. Troppo “giovane” e “giovanile”. Troppo spavalda e, perfino, esagerata. Rispetto a un Paese che sembra viaggiare – e guardare – in direzione contraria. Cioè, verso il passato. Perché l’Italia mi sembra un Paese sempre più rassegnato. Che ostenta un ottimismo triste, attraversato da rabbia diffusa. È un Paese di pensionati, con tutto rispetto per chi la pensione se l’è guadagnata, dopo anni e anni di lavoro. Però, è difficile non rilevare le tensioni continue intorno al sistema pensionistico. Dal punto di vista sociale e politico. Perché l’età di accesso alla pensione si è “allungata”, per contenere il costo della previdenza pubblica, in una società sempre più vecchia. Dove i pensionati sono oltre 7 ogni 10 occupati. Ma, in questo modo, l’ingresso nel mercato del lavoro per i più giovani si è ulteriormente ristretto. Così la generazione dei padri – e, talora, dei nonni – sessantenni vorrebbe andare in pensione. Ma non ci riesce. Neppure quando il governo, come ha fatto nelle scorse settimane, lo prevede. Ad esempio: per gli insegnanti (cosiddetti) “quota 96”. Che a 61 anni abbiano maturato 35 anni di contributi. Perché, dopo l’annuncio, si scopre che non ci sono le coperture, le risorse. Un po’ com’è avvenuto per gli “esodati”. Un’invenzione linguistica. Participio passato di un verbo che non c’è. Coniato per significare quelle persone sperdute, in “esodo” verso la pensione. Ma rimasti per strada. Pre-pensionati senza pensione. A causa di im-previsti legislativi. Esistono ma non si vedono. Sono “pensionandi”. In attesa che lo Stato trovi le risorse per “pensionarli” davvero, dopo la chiusura anticipata del rapporto di lavoro, negoziata con l’impresa.

D’altronde, l’Italia è un Paese schiacciato dalla spesa pubblica. Dal debito pubblico. Nonostante che il pubblico impiego sia in costante calo. Il 7% in meno negli ultimi 5 anni. Ma circa il 20%, per quel riguarda gli statali. Con l’esito, paradossale, che la spesa pubblica non è calata. Al contrario. Perché, come ha annotato Tito Boeri, alcuni giorni fa su queste pagine, “gli stipendi pubblici in meno si sono trasformati in pensioni in più da pagare, sempre a carico del contribuente”.

Questo Paese di esodati, pensionandi e aspiranti pensionati, come può avere e, prima ancora, “immaginare” il futuro? Al massimo: il presente. Ma, più facilmente, il passato prossimo. Nell’Italia di oggi, nonostante Renzi, il futuro: è ieri. Al massimo, stamattina. D’altronde, non per nulla, questo Paese per vecchi, come io stesso ho rilevato altre volte, sta perdendo e ha già perduto i suoi giovani. Che sono pochi e sempre di meno, visto che i tassi di natalità, in Italia, sono fra i più bassi dell’Occidente. Mentre i tassi di occupazione giovanile scendono e quelli di disoccupazione crescono continuamente.

I giovani: sono “esodati” anche loro. Visto che si contano circa due milioni di Neet, un altro neologismo per significare una popolazione fuori dalla scuola e dal lavoro. Dunque, anch’essa sperduta. Tra le pieghe dell’impiego temporaneo e informale. Protetta dalle famiglie, che offrono loro un ancoraggio, in attesa di una stabilità imprevista e imprevedibile. I giovani. Se ne vanno dall’Italia, se e quando possono. Sempre più numerosi. In particolare, durante i corsi di laurea. Utilizzano l’Erasmus, programma che prevede alcuni mesi di studio presso università straniere in convenzione con quelle italiane. Ma poi, dopo la laurea, ripartono di nuovo. Proseguono la loro “formazione” in altre università straniere. E spesso trovano impiego. Altrove. Perché l’Italia è un Paese di pensionati dove i giovani “esodano”. Soprattutto i “laureati”. Che sono sempre meno. Il 20% della popolazione fra 25 e 34 anni. Cioè, la metà della media Ocse. D’altronde, il saldo fra giovani laureati che escono e vengono, in Italia, è negativo (-1,2%, secondo un Rapporto di Manageritalia). Il peggiore della Ue.

Così, siamo diventati un paese di vecchi, attraversato da inquietudini e paure. Perché, quando si invecchia, crescono e si diffondono anche le paure. E ci si difende dagli altri, chiudendosi in casa. Guardando tutti con crescente sospetto. In Italia, più di due persone su tre diffidano di chi hanno di fronte (Oss sulla Sicurezza, Demos-Oss. Pavia-Fond. Unipolis). Perché ci potrebbero “fregare”. In particolare, preoccupano – e spaventano – gli stranieri che affollano l’Italia, in numero crescente. Perché sono tanti, sempre di più, quelli che arrivano. Con ogni mezzo. In particolare, dal Nord dell’Africa. Non per “piacere”, ma spinti da paure ben più immediate e drammatiche delle nostre. Le guerre, la fame, i conflitti. Fuggono dal loro mondo che è lì, a un passo dal nostro. E intraprendono viaggi brevi ma, spesso, infiniti. Perché finiscono in modo tragico. In fondo al mare. Ai nostri mari che assomigliano a cimiteri liquidi, dove si depositano, a migliaia, i corpi di migranti che tentano di scavalcare il muro che li separa da noi. Il Mare Nostrum che ormai è divenuto un Mare Mostrum. Quel tratto di mare: è un muro, una barriera. Costruita con le nostre paure, per difendere la nostra solitudine, la nostra vecchiaia infelice. Per coltivare la nostra indifferenza.

Noi, l’estremo confine d’Europa. Ultima frontiera di una civiltà senza più civiltà. Senza più pietà. Senza più futuro. Perché se fai partire i tuoi giovani (più qualificati) e tieni lontani quelli che vorrebbero entrare, dal Sud ma anche dall’Occidente, i poveri e i disperati, ma anche i più istruiti e specializzati: che futuro vuoi avere? Al massimo un passato. Sempre più incerto, anch’esso. E annebbiato. Come la memoria. Per questo la rappresentanza, o meglio, la “rappresentazione” offerta da Renzi, oggi, mi appare inadeguata. Troppo giovane e giovanile. Troppo giocosa. Rispetto al Paese: rischia di proporre uno specchio deformante. Difficile predicare la “crescita” se siamo in “declino” – demografico. Se i giovani sono pochi e quando possono se ne vanno. Non basterà, di certo, un gelato a farli rientrare. Né a farci ringiovanire tutti. Più facile, piuttosto, che lui, il premier, rispecchiandosi nel Paese, invecchi presto.

Non bastano i treni a far ripartire il paese

Non bastano i treni a far ripartire il paese

Tito Boeri – La Repubblica

Il tempismo, sul piano della comunicazione, è perfetto. Nel giorno in cui l’Istat certifica il ritorno dopo 50 anni alla deflazione e con un mercato del lavoro sempre più in sofferenza il governo vara un decreto dal titolo molto promettente: sblocca-Italia. Interviene in ritardo rispetto allo scadenziario che lo prevedeva per metà luglio, ma proprio per questo permette al governo di reagire ai dati sui consumi degli italiani dopo l’introduzione del bonus di 80 euro, dati che confermano l’impressione che lo sgravio non abbia avuto gli effetti sperati di stimolo della domanda. Se si va al di là dei titoli e dei relativi cinguettii telematici, affiorano però non pochi dubbi sull’efficacia delle misure varate ieri e, a dispetto delle rivoluzioni annunciate, in molte di loro si respira l’odore stantio del déjà vu.

Di sblocco sulla carta ci sono quasi solo i cantieri delle opere su rotaia. Il bonus edilizia viene semmai bloccato, non rinnovato nel 2015 almeno fino all’approvazione della legge di Stabilità. Le 1617 mail ricevute dai Comuni con segnalazioni di ritardi in piccole opere dovranno aspettare. Non ci sono fondi per le misure contro il dissesto idrogeologico. Non è la prima volta che un governo italiano si affida ai trasporti e soprattutto alle Ferrovie dello Stato (che continuano a non assicurare la pulizia dei treni su gran parte delle tratte) per rilanciare un’economia che non riesce a ripartire. I fallimenti del passato, quando peraltro c’erano ben più risorse da destinare a queste opere, non sembrano essere stati metabolizzati.

Sono lastricate le strade di Palazzo Chigi di comunicati in cui si annunciano miliardate di opere pubbliche di immediata attuazione, a partire dalla faraonica legge obiettivo del 2001 per arrivare al “decreto del fare” (e disfare) lasciato in testamento da Letta. Il fatto stesso che si peschi una volta di più dall’elenco annunciato da Berlusconi a Porta a Porta, attuato solo in minima parte (attorno al 10 per cento) in 15 anni, certifica che non basta decretare per avviare i lavori. E anche questa volta, quando si studiano i singoli dossier, ci si accorge che gran parte delle opere non sono immediatamente cantierabili. Tre quarti di queste potranno, nella migliore delle ipotesi, partire nel 2018. Del resto è lo stesso profilo temporale dei finanziamenti a certificare che non si tratta di misure di impatto immediato: 40 milioni nel 2014, 415 nel 2015, 888 nel 2016. Non è questo tipicamente l’orizzonte delle misure congiunturali che vogliono evitare una nuova prolungata recessione agli italiani.

Una volta di più si annunciano queste misure a costo zero, come se destinassero nuove risorse alle infrastrutture senza sottrarle ad altri interventi. Ma come può un governo che chiede un consenso attorno ad un’operazione politicamente costosa come la spending review, come può un esecutivo che dovrà racimolare nella legge di Stabilità qualcosa come 16 miliardi di tagli alla spesa nel 2015, dire agli italiani che ci sono tutti questi miliardi piovuti dal cielo? È fin troppo evidente a tutti che le risorse che verranno destinate a queste opere, anche quelle che vengono da fondi europei, verranno sottratte a destinazioni alternative. È dovere di un governo spiegare perché queste opere sono più importanti di altre cose che si potevano fare con questi soldi. A partire dalle stesse opere infrastrutturali alternative che potevano essere avviate (perché, ad esempio, il terzo valico Milano-Genova e non il raccordo Fiumicino-alta velocità verso Firenze?). Le analisi costibenefici delle singole opere servono proprio a questo, ma non ce n’è traccia. Offrono le stesse valutazioni che ogni imprenditore compie quando deve decidere se fare o meno un investimento. Perché i contribuenti italiani, al pari degli azionisti privati, non devono avere il diritto di sapere come vengono utilizzati i loro soldi rispetto a diversi scenari e opzioni alternative?

La dimensione del dispositivo entrato in Consiglio dei ministri (125 pagine e, come ormai è prassi, non c’è un testo in uscita) e i commi e sottocommi dei diversi articoli danno l’impressione di burocrazie ministeriali tutt’altro che rottamate. Se il decreto avesse mantenuto l’obiettivo della semplificazione normativa, avremmo un precedente cui appellarci sul piano del metodo. Speriamo che dietro al formalismo non si celino troppi giochi di potere: homo homini lupus . E l’impressione è che almeno al ministero dei Trasporti siano ancora le alte burocrazie a governare.

Forse sarebbe stato più saggio ieri limitarsi alle misure sulla giustizia civile, che hanno potenzialmente un rilievo economico molto importante se sapranno davvero intervenire sugli arretrati, e rinviare le altre misure alla prima legge di Stabilità del Governo Renzi, nella quale confluiranno anche le norme sulle società partecipate. Ci dirà qual è la strategia di politica economica di questo governo.

Italia nella doppia morsa di deflazione e recessione. E i disoccupati salgono ancora

Italia nella doppia morsa di deflazione e recessione. E i disoccupati salgono ancora

Lucio Cillis – La Repubblica

Lo spettro che si aggirava sul Paese, ieri si è materializzato. L’Italia è caduta in deflazione. Come non accadeva da esattamente 55 anni. Era infatti il settembre del 1959 quando fu registrato un segno negativo dell’1,1% sull’andamento tendenziale dei prezzi. Ma quella era la vigilia del boom economico. Mentre oggi la tenaglia della crisi stringe anche sulla recessione accompagnata da una disoccupazione che arriva al 12,6% con quasi mille posti di lavoro bruciati ogni giorno a luglio.

Ma non basta: il tasso di disoccupazione della fascia compresa tra i 15 e i 24 anni, resta il più duro da digerire e risolvere in breve tempo, visto che la quota dei disoccupati sul totale di quelli occupati o in cerca di lavoro in questa forbice di età sfiora ormai il 43%.

Sono dati pesantissimi e molto preoccupanti sui quali, secondo il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi. «Occorre – dice riflettere per trovare la capacità di ricreare lavoro. E questo può venire solo dalle imprese…». L’inflazione vira verso una contrazione dei prezzi che rispetto all’agosto del 2013, sono diminuiti dello 0,1%. I dati dell’Istat certificano che l’indice al lordo dei tabacchi, è cresciuto rispetto al mese di luglio dello 0,2% e mette per la prima volta il segno meno dal 1959. Il crollo dei listini, secondo la stima provvisoria, è dovuta alla flessione anno su anno dei prezzi dei beni energetici, in particolare di quelli non regolamentati che dal più 0,4% di luglio passano al segno meno (dell’1,2%), e al parallelo rallentamento della crescita tendenziale dei prezzi dei servizi. Andamenti, questi, solo in parte controbilanciati da una frenata nella discesa dei prezzi degli alimentari non lavorati passati a meno 1,7% dal meno 2,9% messo a segno a luglio.

Da notare che anche la cosiddetta inflazione core, o “di fondo”, ritenuta un termometro efficace dello stato dell’economia e delle prospettive, calcolata al netto degli alimentari non lavorati e dei beni energetici, scende anch’essa: dallo 0,6% di luglio allo 0,5%. Ma nel corso dei prossimi mesi, secondo quanto lo stesso istituto di statistica anticipa nelle sue analisi, i dati macroeconomici non potranno che peggiorare: con ogni probabilità, la ripresa non arriverà nemmeno nel corso del terzo trimestre. Anzi, le previsioni dell’Istat sottolineano addirittura il rischio di un ulteriore arretramento dello 0,2% del Prodotto interno lordo o, comunque, di una sostanziale stagnazione del quadro macroeconomico.

Sono dati questi, che fanno riflettere per le conseguenze in Italia ma che dovrebbero aprire un nuovo scontro in Europa dove, però, si è levata per prima la voce del ministro delle Finanze tedesco, il falco Wolfgang Schauble secondo cui «la Bce non ha più munizioni per combattere la deflazione». E questo nonostante il dato sull’inflazione, reso noto a livello europeo ieri, si sia collocato a quota +0,3%. Un livello pericolosamente vicino al baratro della deflazione e molto lontano dal target europeo fissato al 2%. La parola, ora passerà alla riunione di metà settimana della Bce e alle mosse di Mario Draghi.

I tanti annunci gelano la fiducia

I tanti annunci gelano la fiducia

Federico Fubini – La Repubblica

Viviamo in tempi di deflazione del denaro e inflazione di parole. Impossibile tenere il conto di quante volte al giorno ormai la classe politica parli di “riforme” o di “fiducia”. L’unica certezza è che l’inflazione è quel fenomeno per il quale l’abbondanza crescente di una certa materia prima ne deprime il valore. L’impero spagnolo distrusse il prezzo dell’argento nel sedicesimo secolo per gli eccessi con cui lo importava dal Perù. Il governo di Matteo Renzi rischia di trovare la sua sindrome dell’argento peruviano nella serie di annunci ai quali non sempre, non in modo univoco, seguono poi i fatti. Il bilancio di questo mese d’agosto permette di far sorgere qualche sospetto che il pericolo esista realmente.

Proviamo a riassumere. Al Consiglio dei ministri dei primi del mese sarebbe dovuta passare la riforma dei Beni culturali di Franceschini. Poi è slittata. Ora tutto sarebbe pronto, ma a quanto pare non sarà varata neppure dal vertice di domani a causa dell’ ingorgo di altri procedimenti. Eppure neanche misure più in alto nell’agenda del Consiglio dei ministri odierno stanno avendo vita facile. Per dirne una, solo sei giorni fa il premier aveva annunciato che oggi sarebbe toccato alla scuola: «Il 29 agosto presenteremo una riforma complessiva », scadenza poi confermata in un tweet di giovedì. Del resto il governo non smentiva, anzi avvalorava, il progetto di stabilizzare circa 100 mila precari dell’istruzione con le misure in arrivo.

Poi però anche qui contrordine: slitta tutto, sempre per colpa dell’ ingorgo . A crearlo sono altri due provvedimenti. C’è il decreto Sblocca-Italia, del quale ancora ieri sera a nessuno era chiaro il profilo date le vaste divergenze fra Padoan (Economia) e Lupi (Trasporti) sui fondi da spendere. E c’è la riforma della giustizia, dove però molto verrà affidato a una delega al governo, cioè anche qui a scelte da compiere poi più in là nel tempo.

La lista di questo agosto di inflazione verbale potrebbe continuare. Alternativamente gli italiani hanno scoperto che sarebbero state tagliate le pensioni più alte, poi che non sarebbero state toccate. Che sarebbero stati congelati gli stipendi del pubblico impiego, poi che ciò era fuori questione. Che andava abolito l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (quello offre le tutele maggiori d’Europa contro il licenziamento di chi ha un contratto permanente), poi che l’articolo 18 non andava toccato, infine che non serve parlarne, perché presto cambieranno tutte le norme sul lavoro.

Questo resta un governo di coalizione, espresso da uno dei parlamenti più frammentati della storia repubblicana. Nemmeno per un leader determinato come Matteo Renzi è facile controllare le spinte centrifughe dei suoi ministri e dei partiti di maggioranza. Ancora meno lo è adesso, con l’economia mai davvero uscita da un’unica grande depressione iniziata alla fine del 2008. Più è impellente l’urgenza di fare qualcosa di risolutivo, più diventa chiaro che non esistono né scorciatoie né bacchette magiche. Si può solo lavorare in Italia e con il resto d’Europa per individuare le priorità e affrontarle passo dopo passo.

Anche per questo però la corsa all’argento peruviano che si è scatenata – la ridda di annunci, le continue invocazioni della “fiducia” – non fanno che produrre conseguenze opposte. Nessuno assume, investe nella propria azienda o compra un elettrodomestico a rate se non sa cosa lo aspetta e se i messaggi che riceve sono caotici e contraddittori. Non può essere solo sfortuna se in agosto la fiducia delle imprese in Italia è scesa più che in qualunque altro Paese dell’area euro.

Forse è il caso di ispirarsi alla Spagna di oggi, quella che ha affrontato molte riforme senza parole a vuoto e ora cresce al ritmo del 2% annuo. Non a quella di cinque secoli fa.

Se lo stato perde i colossi Eni e Enel

Se lo stato perde i colossi Eni e Enel

Federico Fubini – La Repubblica

Non c’è più tempo e il ministero dell’Economia si sta preparando a muovere in autunno. Fra la seconda metà di settembre e fine novembre, nel momento più adatto in base alle condizioni di mercato, le privatizzazioni entreranno nel vivo. Questa almeno è la tabella di marcia sulla quale stanno lavorando i tecnici del Tesoro. Si punta a partire con ciò che resta dei gioielli della corona, Eni e Enel, senza reti di sicurezza intrecciate grazie all’arte dell’ingegneria finanziaria pur di mantenere il controllo legale delle due società.

Nel Paese dell’Iri, dell’Efim e delle oltre diecimila partecipate di questi anni, per la prima volta un governo italiano è pronto a scendere sotto le soglie dello “Stato padrone” delle società più strategiche. Di entrambe oggi il governo detiene in modo diretto o indiretto appena più del 30%, la quota che permette in linea di diritto di controllare l’assemblea degli azionisti. Entro i prossimi tre mesi, però, dovrebbe andare in vendita il 5% sia di Eni che di Enel, per ricavi da circa 5 miliardi da reclutare a contenimento del debito pubblico.

Non sarà un passo a cuor leggero per le strutture di Via XX Settembre, eredi di una tradizione quasi secolare di controllo pubblico delle imprese. Se ci si sta arrivando, è perché la mano di carte in mano al ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan non dà molta scelta. È passato più di un anno da quando il suo predecessore, Fabrizio Saccomanni, iniziò a mettere in cantiere un nuovo programma di privatizzazioni per contrastare il continuo aumento del debito. E sono passati sei mesi da quando Padoan stesso ha stilato una tabella di marcia anche più ambiziosa, che prevede vendite di attività per dieci miliardi l’anno da adesso fino al 2017. Di questi progetti sono stati riempiti molti documenti del governo, inclusi quelli mandati a Bruxelles. Ma dai primi annunci di oltre un anno fa, il Tesoro è riuscito a incassare appena 350 milioni da Cassa depositi e prestiti per la cessione parziale di Fincantieri: il piano originario sulla società di costruzioni navali aveva previsto entrate per 600 milioni.

Per adesso è mancata soprattutto la qualità degli attivi da mettere sul mercato. Il piatto forte quest’anno avrebbe dovuto essere Poste Italiane, di cui il Tesoro intendeva iniziare a cedere il 40%. Ma Francesco Caio, il nuovo amministratore delegato, questa primavera ha scoperto di aver rilevato dal predecessore Massimo Sarmi un’azienda tutt’altro che in condizioni di essere quotata in Borsa. Le attività postali tradizionali viaggiano in una perdita fin qui in qualche modo resa meno visibile dai buoni risultati del Banco Posta. Nei settori più promettenti, soprattutto la spedizione di pacchi, le Poste in Italia hanno una quota di mercato molto inferiore alle omologhe ex monopoliste degli altri Paesi europei. E con i tassi d’interesse ai minimi, anche il Banco Posta fatica a garantire la redditività degli anni passati. Quotare in Borsa l’azienda adesso avrebbe comportato il rischio di un flop.

Caio ha chiesto tempo al governo per ristrutturare l’azienda e ora al Tesoro si conta sul fatto che nel 2015 si possa procedere alla cessione del primo 40% delle azioni. Gli introiti sperati dovrebbero arrivare a quattro o cinque miliardi. In seguito, se tutto andrà per il meglio, lo Stato dovrebbe gradualmente continuare a scendere nel capitale del gruppo di Caio e portare nuovi fondi a contenimento del debito pubblico.

Simile il processo previsto per Enav. L’Ente di navigazione aerea non è in condizioni di attrarre investitori privati oggi, ma si conta che lo sia tra un anno per ricavi da circa un miliardo. Per Sace invece i calendari del ministero dell’Economia sembrano prevedere tempi ancora più lunghi.

Di qui la decisione di accelerare su Eni e Enel, per schierare ricavi a contrasto dell’aumento del debito già da quest’anno. Della società elettrica, che capitalizza circa 31 miliardi di euro, il ministero dell’Economia ha il 31,2% e scenderebbe al 26%. Del gruppo dell’energia, che vale circa 66 miliardi, ha il 3,9% e la Cassa depositi e prestiti (del Tesoro all’80%) controlla un altro 26,3%. La sfida da ora in poi per lo Stato sarà continuare a esercitare il controllo di fatto anche senza il vincolo legale nell’assemblea degli azionisti: un passo in Italia impensabile per gran parte degli ultimi 80 anni, da circa metà dell’era fascista.