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Oltre il feticcio del 3 per cento

Oltre il feticcio del 3 per cento

Mariana Mazzucato – La Repubblica

Perché il deficit dovrebbe essere inferiore al 3 per cento? Perché non l’1, il 2, il 4 o anche il 10 per cento? Da dove è stato tirato fuori questo numero? L’Italia aveva un deficit basso prima della crisi, eppure il rapporto debito/Pil ha continuato a crescere. Questo dovrebbe farci capire che il problema non è il deficit in sé e per sé. Eppure oggi tutta l’attenzione è su quel numero magico, quasi un feticcio. Non conta quanto è grande il deficit, ma come è composto: e la verità è che gran parte del deficit è prodotto da fattori che non hanno nulla di strategico.

Qui non si tratta di uno Stato che vuole «espandersi» spendendo di più, ma di una reazione automatica a quello che sta succedendo sul versante della crescita. Quando crescita e occupazione stentano, come è il caso dell’Italia negli ultimi vent’anni, il deficit cresce automaticamente a causa del costo di cose come la cassa integrazione e i minori introiti fiscali. La verità, quindi, è che il deficit è il sintomo del problema. Il problema è la crescita bassa e la disoccupazione, che porta per definizione a un aumento del rapporto debito/Pil. Non il contrario, co- me vuole la logica che continua a orientare le misure della trojka e a tenere in ginocchio Paesi prigionieri di un circolo vizioso di assenza di crescita.

Il deficit, pertanto, è una conseguenza automatica della mancanza di crescita. Solo quando l’Eurozona smetterà di aggrapparsi a cifre feticcio come il 3 per cento e sposterà l’attenzione su quelle tipologie di investimenti e riforme in grado di aumentare occupazione, produttività e crescita, si riuscirà a tenere il deficit sotto controllo, e soprattutto a consentire agli Stati di avere qualche speranza di veder crescere il denominatore del rapporto debito/ Pil e non solo il numeratore.

Ma che cosa sappiamo della crescita? È ovvio che avere le giuste condizioni «generali » (meno burocrazia, più flessibilità del mercato del lavoro, meno corruzione ecc.) è indispensabile. Ma senza i necessari investimenti pubblici e privati che incrementano la produttività nel lungo termine, la crescita è semplicemente impossibile. Sfortunatamente i commentatori, sia di destra che di sinistra, continuano a ignorarlo. Sentiamo dire spesso, per esempio, che il miracolo dell’export tedesco è merito delle riforme di Schröder che alla fine degli anni 90 tennero a freno i salari, con l’ovvio corollario che l’Italia e gli altri Paesi della «periferia» dovrebbero anche loro ridurre i salari e accrescere la flessibilità del mercato del lavoro.

Quello di cui non tiene conto questa analisi, però, è che (1) a tenere temporaneamente a freno i salari in Germania fu un accordo tra capitale e lavoro per preservare i livelli occupazionali durante l’unificazione tedesca, che altrimenti avrebbe provocato disoccupazione di massa, specialmente nel Länder occidentali, e (2) che questo accordo fu stipulato in cambio non solo del mantenimento dei livelli occupazionali, ma anche di una riduzione dell’orario di lavoro (35 ore) e di investimenti in infrastrutture, ricerca e innovazione, che creano più posti di lavoro e posti di lavoro migliori in futuro. E sono proprio questi investimenti che hanno consentito alla Germania di distanziare altri Paesi come l’Italia sul versante della produttività.

Il vero disastro della «periferia» non è il costo del lavoro, ma la produttività. L’indicatore solitamente usato per la competitività è il costo unitario del lavoro, che può essere diviso in due componenti: (a) il costo del lavoro e (b) la produttività. La cosa evidente è che la differenza più marcata tra Paesi non è tanto nel costo del lavoro (in sé e per sé, specialmente se includiamo i contributi sociali, che in Germania sono più alti), ma nel rapporto con la produttività. L’Italia, per esempio, negli ultimi quindici anni ha avuto una crescita della produttività pari a zero (o addirittura negativa).

E come si ottiene produttività? Pagando meno i lavoratori? No. Si ottiene produttività consentendo ai lavoratori di lavorare in modo più efficiente, con una formazione all’avanguardia, macchine tecnologicamente avanzate, una divisione del lavoro innovativa e rapporti armoniosi tra capitale e lavoro. Si ottiene produttività anche avendo una percezione strategica della direzione in cui si vuole che vada l’economia. Quando la Germania decise di imboccare la strada della grüne strategie ( la strategia verde), sindacati, governo e imprese si sedettero a un tavolo e si mossero in modo concertato per trasformare i modelli di produzione, distribuzione e consumo in tutta l’economia e per disegnare nuove forme di istruzione in grado di preparare tecnici e ingegneri alla «rivoluzione verde». Fu il prodotto di una visione, non di un decreto ministeriale!

È tempo di riconoscere, in modo forte e chiaro, che il vero problema dell’Italia non è che i lavoratori guadagnano troppo, ma che i salari non crescono allo stesso ritmo della produttività, perché quest’ultima risente della stagnazione degli investimenti, sia da parte del settore pubblico che di quello privato, e della costante conflittualità, sia tra partiti politici che tra capitale e lavoro. Le aziende private italiane continuano a spendere meno della media in settori come la ricerca e sviluppo (cruciale per la produttività) e la formazione del capitale umano, e il settore pubblico italiano continua a preferire «sovvenzionare» e «incentivare», invece di investire strategicamente in aree a forte crescita. Si può liberalizzare, privatizzare, sottoporre a riforma strutturale qualsiasi cosa, ma non ci sarà crescita fintanto che non ci saranno investimenti dinamici e trasformazioni istituzionali di questo tipo. È questa la parte «strategica» (non automatica) del deficit che viene completamente ignorata. È chiaro che si devono ridurre gli sprechi, riformare i sistemi pensionistici europei in modo da renderli più uniformi ed eliminare la burocrazia non necessaria. Ma a meno che queste riforme non siano accompagnate da massicci investimenti (di dimensioni simili a quelle del Piano Marshall, ossia il 2,5 per cento del Pil dell’Unione europea), con nuove tipologie di collaborazione tra pubblico e privato che consentano un incremento della produttività e garantiscano posti di lavoro e opportunità per le nuove generazioni, rimarremo impantanati nella «stagnazione secolare». E non è un destino ineluttabile: è una nostra scelta, figlia di una totale mancanza di visione.

Risparmi e rendite più forti della crisi, imprese in ginocchio, a picco gli attivi

Risparmi e rendite più forti della crisi, imprese in ginocchio, a picco gli attivi

Federico Fubini – La Repubblica

È un’italia a tre velocità quella che riemerge dai sette anni più turbolenti per l’economia. Dal giorno in cui Lehman Brothers portò i libri in tribunale, alla fine dell’estate del 2008, il Paese ha iniziato la sua traversata del deserto marciando in tre direzioni diverse: si è molto rafforzato il patrimonio lordo delle banche; ha resistito egregiamente quello, già cospicuo, delle famiglie; è crollata invece la ricchezza delle imprese, già in partenza anormalmente ridotta. Giunto al settimo anno di crisi, questo è insomma un Paese che sembra vivere più di rendite finanziarie o familiari che di produzione pura e semplice, quella che in teoria dovrebbe creare fatturato, nuove opportunità, posti di lavoro.

La foto di gruppo la scatta Eurostat, che ha appena aggiornato i conti finanziari degli italiani a tutto il 2013. Poiché i dati sull’Italia figurano accanto a quelli del resto d’Europa, il confronto mette in luce le anomalie del Paese e le aree nelle quali invece le sue dinamiche appaiono perfettamente normali. E se c’è un punto sul quale l’Italia non si discosta dalle medie europee e del suo stesso passato, è proprio nel risparmio delle famiglie. La recessione più lunga della storia l’ha eroso e intaccato, non l’ha distrutto o messo in pericolo. Gli attivi puramente finanziari degli italiani – immobili esclusi – valevano nel complesso 3.771 miliardi di euro nel 2008 e alla fine del 2013 erano scesi di circa 60 miliardi a 3.717 miliardi. E un calo da circa mille euro per abitante in sei anni, ma il risparmio delle vale ancora più di due volte il Prodotto interno lordo e resta elevato: in media sono 61 mila euro per ogni residente in Italia, appena sopra la media dell’area euro, più che in Germania ( 57.021 per abitante), in linea con la Francia ( 61.155) e molto sopra alla Spagna ( 37.450). Gli anni della tripla ricaduta in recessione coincidono dunque con cambiamenti minimi per la grande risorsa nazionale, il risparmio delle famiglie: gli italiani riducono appena la loro esposizione azionaria, da 1.200 a mille miliardi di euro, si spostano un po’ i verso i conti di deposito e verso le polizze o i fondi pensione, ma nel complesso continuano a difendere le loro posizioni anche se intorno a loro l’economia arretra di quasi un decimo della sua taglia di prima. Aiuta anche il fatto che, nel frattempo, i vari governi vara-no i loro unici sgravi fiscali proprio a favore delle famiglie: quello di Enrico Letta abolisce mu per circa 5 miliardi, quello di Matteo Renzi taglia l’imposta sui redditi medio-bassi per altri dieci.

Anche più visibile il tocco delle politiche pubbliche dietro i conti conti finanziari delle assicurazioni e delle banche. Lì le dimensioni dei bilanci esplodono, in linea con le enormi iniezioni di liquidità varate dalla Banca centrale europea a favore gli istituti di credito per rispondere all’emergenza. Gli attivi dell’industria finanziaria italiana valevano 4.760 miliardi di euro nel 2008, ma l’anno scorso erano già saliti a seimila: una crescita in euro pari all’intero fatturato italiano di un anno, per un totale di beni delle banche e assicurazioni oggi pari a quattro volte il Pil. Anche in questo l’Italia non si comporta in modo diverso dagli altri Paesi europei: ovunque gli istituti di credito aspirano sempre liquidità dalla Bce, allargano la taglia del loro bilancio, quindi reinvestono in prestiti o soprattutto in titoli di Stato. Dove l’Italia diverge radicalmente dal resto d’Europa è nella ricchezza delle imprese. A confronto con gli altri Paesi era già ridotta in modo anomalo prima del trauma di Lehman, ma da allora subisce un tracrollo. I numeri sono impietosi: il patrimonio finanziario delle imprese in Italia nel 2008 era di 1.700 miliardi e si è eroso 1.541 al 2013. Si tratta di un calo pari circa al 10% del Pil italiano, non casualmente uguale alla contrazione dell’economia del Paese in questo settennato: sono i fallimenti, gli investimenti finiti in nulla, l’erosione dei patrimoni dopo anni di perdite.

Non colpisce solo il fatto chela ricchezza delle imprese in Italia valga meno della metà del risparmio delle famiglie: segno certo che molti imprenditori medi, piccoli e grandi hanno preferito depauperare l’azienda e trasferire le risorse sui propri conti personali, nelle auto di lusso, le ville proprie e dei figli, le tranquille rendite dei discendenti. Ma colpisce ancora di più la crescente divergenza dal resto d’Europa: l’economia spagnola è poco più della metà di quella italiana per fatturato, ma il patrimonio delle imprese iberiche ( 2.100 miliardi ) supera sia il patrimonio delle imprese italiane che il risparmio delle famiglie spagnole. Nessuna grande economia ha una sproporzione così vasta come l’Italia nella ricchezza di famiglie e imprese. E in Francia e Germania queste ultime controllano patrimoni che sono rispettivamente il triplo e il doppio di quelli del settore produttivo in Italia.

Dal punto di vista finanziario, questo Paese si presenta come un corpo con due polmoni non efficienti ma molto gonfi (banche e famiglie) e gambe rachitiche che dovrebbero farlo camminare. Che la ripresa tardi dunque non è strano. Sorprende di più la speranza del governo che possa propiziarla il bonus Irpef alle famiglie, invece che incentivi fiscali che rafforzino le imprese. I dati Eurostat dicono che agli italiani non manca il denaro per i consumi, ma la capacità di creare nuovo reddito producendo qualcosa. Con l’ultima ricaduta in recessione, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha incoraggiato gli italiani a spendere il bonus da 80 euro «con fiducia», mentre lui cerca ancora le coperture di bilancio per renderlo permanente. Quasi che bastasse una (costosa) cura dei sintomi, non delle cause del crollo dell’economia.

La sindrome del 51 per cento

La sindrome del 51 per cento

Alessandro De Nicola – La Repubblica

È di lunedì la notizia che nel pacchetto di provvedimenti contenuto nel Decreto Sblocca Italia, all’ordine del giorno del consiglio dei ministri del 29 agosto, troverà posto una norma che consentirà la quotazione di RayWay. La società è proprietaria degli impianti di trasmissione del segnale televisivo, ha un fatturato di 220 milioni di euro, ma in ogni caso il socio pubblico non potrà scendere sotto il 51% del capitale sociale mantenendo quindi il controllo della stessa.

Nello stesso giorno è apparsa una lunga intervista al sottosegretario alla Pubblica amministrazione Angelo Rughetti, il quale, cantata la messa della richiesta di flessibilità alla Commissione europea, e intonata la litania dell’articolo 18 che non si tocca, ha ammesso che per abbattere il debito pubblico italiano forse gli avanzi primari non bastano più e bisogna quindi cominciare a vendere massicciamente. Rispolverando un’idea che circola da anni ha quindi proposto la creazione di un fondo dove immettere il patrimonio pubblico, mobiliare ed immobiliare, e poi cedere il 49 per cento delle quote del fondo stesso. Questa operazione forse abbatterebbe un po’ di debito pubblico ma sarebbe la tomba della privatizzazione di qualsiasi azienda statale. Se ad esempio venisse infatti conferito al fondo il 30% delle azioni con il quale il Tesoro – direttamente o indirettamente – controlla Enel, Eni o Finmeccanica, si sarebbe creata una mega scatola cinese che, dopo l’ingresso dei privati, consentirebbe allo Stato di controllare il 51% di un fondo proprietario di un 30% di azioni e quindi l’investimento con il quale si comanderebbe nelle tre società sopra citate sarebbe pari al 15,3 % del loro capitale sociale. Un capolavoro di pubblicizzazione di risparmio privato.

Peraltro questa sindrome del 51%, ma sarebbe meglio definirla del comando a tutti i costi, è ormai incardinata nei piani di tutti gli ultimi governi.

Non son passati due mesi dalla molto deludente quotazione in borsa di Fincantieri, le cui azioni sono state vendute al minimo della cosiddetta forchetta di prezzo, vale a dire 78 centesimi, e che nel frattempo hanno perso un altro 15% di valore. Anche in questo caso (e nonostante i contrari desideri dell’amministratore delegato), il flottante è un misero 27,5% del capitale, quasi tutto in mano al cosiddetto “parco buoi”, i piccoli risparmiatori, in quanto gli investitori istituzionali hanno sottoscritto un misero 10% di quanto è stato venduto. Ora, i motivi dell’insuccesso sono molteplici, ma molto probabilmente se fosse stata messa all’asta la maggioranza di controllo, difficilmente non si sarebbe trovato un compratore a prezzi anche migliori.

Il prossimo candidato alla privatizzazione sono Le Poste, anche qui solo per il 40%, e le altre vendite previste, dall’Enav a Cdp Reti, non prevedono cessioni di maggioranze. Anzi, in attesa del super-fondo di Rughetti, attraverso l’approvazione di una perniciosa e maldestra riforma del diritto societario che introduce la possibilità di azioni a voto multiplo e abbassa la soglia per l’obbligo di lanciare un’Opa sulla totalità delle azioni al 25%, il Tesoro potrà vendere pacchettini di azioni delle sue quotate rimanendo saldamente al timone.

Intendiamoci, è naturale che la classe politica, traendo essa alimento dal potere, cerchi di conservare il controllo di più aziende possibili. È la logica sia delle burocrazie che dei politici: rendersi influenti se non indispensabili utilizzando soldi non propri, ma del contribuente.

Quello che sorprende è che l’opinione pubblica, tartassata e spesso priva di servizi pubblici decenti, consenta tutto questo, non riuscendo a collegare i meccanismi del cervello che da una parte si indignano per i miliardi buttati in Alitalia e dall’altra si bevono la favola degli asset “strategici”.

Orbene, è vero che ci sono delle esigenze di sicurezza nazionale che non possono essere ignorate: nessuno vorrebbe che gli impianti di RayWay, da dove passano le comunicazioni della polizia, fossero controllati dalla famiglia Assad, per dire. Ma per questo esiste la regolamentazione che consente, ad esempio, alle industrie della difesa americane (che producono cosucce sensibili), di essere tutte quotate e controllate da privati.

Poi ci sono le solite lamentazioni sulla “svendita” dei gioielli di famiglia. Attenzione, quella della svendita è la più grossa bufala in circolazione. Secondo gli studi effettuati lo Stato ci ha guadagnato praticamente sempre dalle privatizzazioni (lo sconto concesso in sede di quotazione in media è stato minore di quello dato dalle imprese private), come dimostra anche l’ultimo caso di Fincantieri, il cui prezzo di mercato è ora inferiore a quello di vendita. Persino Telecom fu venduta a valori molto più alti di quelli attuali. Fu poi malgestita? È innegabile, ma il Tesoro ci ha guadagnato.

Le privatizzazioni, attirano capitali stranieri, competenze e creano sinergia all’interno di gruppi multinazionali. Certamente, esse sortiscono i loro effetti migliori quando il mercato viene contemporaneamente liberalizzato. Ma qui basti osservare che i mercati meno liberalizzati sono appunto quelli in cui c’è un monopolista o un’impresa dominante pubblica e per il resto si tratta già di aziende che agiscono in contesti concorrenziali (da Eni a Fincantieri).

Il governo, almeno a parole, sembra ancora credere all’analisi fatta dal commissario alla spesa Cottarelli relativa alle migliaia di società municipalizzate da accorpare e vendere al più presto. Ebbene, si vuole fare la voce grossa col comune di Roccasecca e contemporaneamente sognare Fondi-Monstre che consegnino un potere enorme ad un piccolo gruppo di mandarini di Stato?

Liberare le energie e le professionalità presenti all’interno del perimetro pubblico servirà non solo ad alleviare il peso del debito pubblico, ma a svecchiare e modernizzare il paese nel senso che, a parole, i giovani che ci governano reputano necessario. Come primo passo si liberino perciò della sindrome dei loro padri.

Quattro anni sprecati

Quattro anni sprecati

Luciano Gallino – La Repubblica

I governi Berlusconi, Monti, Letta, Renzi saranno ricordati come quelli che hanno dimostrato la maggiore incapacità nel governare l’economia in un periodo di crisi. I dati sono impietosi. Dal 2009 ad oggi il Pil è calato di dieci punti. Qualcosa come 160 miliardi sottratti ogni anno all’economia. L’industria ha perso un quarto della sua capacità produttiva. La produzione di autovetture sul territorio nazionale è diminuita del 65 per cento. L’indicatore più scandaloso dello stato dell’economia, quello della disoccupazione, insieme con quelli relativi alla immensa diffusione del lavoro precario, ha raggiunto livelli mai visti. La scuola e l’università sono in condizioni vergognose. Sei milioni di italiani vivono sotto la soglia della povertà assoluta, il che significa che non sono in grado di acquistare nemmeno i beni e i servizi di base necessari per una vita dignitosa. Il rapporto debito pubblico-Pil sta viaggiando verso il 140 per cento, visto che il primo ha superato i 2100 miliardi. Questo fa apparire i ministri che si rallegrano perché nel corso dell’anno saranno di sicuro trovati tre o quattro miliardi per ridurre il debito dei tristi buontemponi. Ultimo tocco per completare il quadro del disastro, l’Italia sarà l’unico Paese al mondo in cui la compagnia di bandiera ha i colori nazionali dipinti sulle ali, ma chi la comanda è un partner straniero.

Si possono formulare varie ipotesi circa le origini del disastro. La più nota è quella avanzata da centinaia di economisti europei e americani sin dai primi anni del decennio. È un grave errore, essi insistono, prescrivere al cavallo maggiori dosi della stessa medicina quando è evidente che ad ogni dose il cavallo peggiora. La medicina è quella che si compendia nelle politiche di austerità, richieste da Bruxelles e praticate con particolare ottusità dai governi italiani. Essa richiede che si debba tagliare anzitutto la spesa pubblica: in fondo, a che cosa servono le maestre d’asilo, i pompieri, le infermiere, i ricercatori universitari? In secondo luogo bisogna privatizzare il maggior numero possibile di beni pubblici. Il privato, dicono i medici dell’austerità, è sempre in grado di gestire qualsiasi attività con superiore efficienza: vedi, per dire, i casi Ilva, Alitalia, Telecom. Infine è necessario comprimere all’osso il costo del lavoro, rendendo licenziabile su due piedi qualunque tipo di lavoratore. I disoccupati in fila ai cancelli sono molto più disposti ad accettare qualsiasi lavoro, a qualsiasi condizione, se sanno che al minimo sgarro dalla disciplina aziendale saranno buttati fuori come stracci. Altro che articolo 18.

Nell’insieme la diagnosi appare convincente. Le politiche di austerità sono un distillato delle teorie economiche neoliberali, una macchina concettuale tecnicamente agguerrita quanto politicamente misera, elaborata dagli anni 80 in poi per dimostrare che la democrazia non è che una funzione dell’economia. La prima deve essere limitata onde assicurare la massima espansione della libertà di mercato (prima di Draghi, lo hanno detto senza batter ciglio Lagarde, Merkel e perfino una grande banca, J. P. Morgan). La mente e la prassi di tutto il personale che ha concorso a governare l’economia italiana negli ultimi anni è dominata sino al midollo da questa sofisticata quanto grossolana ideologia; non c’è quindi da stupirsi che essa abbia condotto il Paese al disastro. Domanda: come mai, posto che tutti i governanti europei decantano e praticano i vantaggi delle politiche dell’austerità, molti dei loro Paesi se la passano meglio dell’Italia? La risposta è semplice: perché al di sotto delle coperture ideologiche che adottano in pubblico, le iniziative che essi prendono derivano piuttosto da una analisi spregiudicata delle reali origini della crisi nella Ue. In Italia, non si è mai sentito un membro dei quattro “governi del disastro” proporre qualcosa di simile ad una tale analisi, con la conseguenza che oltre a praticare ciecamente le politiche neoliberali, i nostri governanti ci credono pure. Facendo di loro il personale politico più incompetente della Ue.

Si prenda il caso Germania; non a caso, perché la Germania è al tempo stesso il maggior peccatore economico d’Europa (copyright Flassbeck), e quello cui è meglio riuscito a far apparire virtuoso se stesso e peccatori tutti gli altri. Il motivo del successo tedesco è noto: un’eccedenza dell’export sull’import che col tempo ha toccato i 200 miliardi l’anno. Poco meno di due terzi di tale somma è dovuta ad acquisti da parte di altri paese Ue. Prodigio della tecnologia tedesca? Nemmeno per sogno. Prodigio, piuttosto, della formula “vai in malora te e il tuo vicino” (copyright Lapavitsas) ferreamente applicata dalla Germania a tutti i Paesi Ue. Grazie alle “riforme” dell’Agenda 2010, dalla fine degli anni 90 i lavoratori tedeschi non hanno visto un euro in più affluire ai loro salari; il considerevole aumento complessivo della produttività verificatosi nello stesso periodo si è tradotto per intero nella riduzione dei prezzi all’esportazione. In un regime di cambi fissi come quello imposto dall’euro, questo meccanismo ha trasformato la Germania in un Paese a forte surplus delle partite correnti e tutti gli altri Paesi dell’Eurozona in Paesi deficitari. Ha voglia la Cancelliera Merkel di decantare le virtù della “casalinga dello Schlewig-Holstein”, che spende soltanto quel che incassa e non fa mai debiti. La virtù vera dei tedeschi è consistita, comprimendo i salari interni per favorire le esportazioni, nel diventare l’altezzoso creditore d’Europa, mettendo in fila tutti gli altri Paesi come debitori spreconi. È vero che negli incontri ufficiali è giocoforza che ognuno parli la neolingua del regime neoliberale che domina la Ue. Invece negli incontri dove si decidono le cose serie bisognerebbe chiedere ai governanti tedeschi che anziché della favola della casalinga si discuta magari delle politiche del lavoro – quelle tedesche – che hanno disastrato la Ue. Potrebbe essere utile quanto meno per condurre trattative per noi meno jugulatorie. Tuttavia per fare ciò bisogna avere una nozione realistica della crisi, e non è chiaro se esiste un solo governante italiano che la possegga.

Nei discorsi con cui verso metà agosto Matteo Renzi ha occupato gran parte delle reti tv, si è profuso in richiami alla necessità di guardare con coraggio alla crisi, di non lasciarsi prendere dalla sfiducia, di contare sulle risorse profonde del paese. Sarà un caso, o uno spin doctor un po’ più colto, ma questi accorati richiami alla fibra morale dei cittadini ricordano il discorso inaugurale con cui Franklin D. Roosevelt inaugurò la sua presidenza nel marzo 1933. In Usa le conseguenze furono straordinarie. Ma non soltanto perché i cittadini furono rianimati di colpo dalle parole del presidente. Bensì perché nel giro di poche settimane Roosevelt creò tre agenzie per l’occupazione che in pochi mesi diedero un lavoro a quattro milioni di disoccupati, e attuò la più grande ed efficace riforma del sistema bancario che si sia mai vista in Occidente, la legge Glass-Steagall. Ci faccia vedere qualcosa di simile, Matteo Renzi, in tempi analoghi, e cominceremo a pensare che il suo governo potrebbe anche risultare meno disastroso di quanto oggi non sembri.

Il superbanchiere e la deflazione

Il superbanchiere e la deflazione

Federico Fubini – La Repubblica

Nelle otto conferenze stampa che ha tenuto dall’inizio dell’anno, Mario Draghi ha sempre parlato della ripresa in arrivo. Cambiavano giusto gli aggettivi scelti dal presidente della Bce per descriverla. Da gennaio a marzo era “lenta”. Ad aprile questa sfumatura di cautela è caduta, quasi che le nubi si stessero sollevando. A giugno però la ripresa è diventata di colpo “un po’ più debole del previsto” e a inizio agosto “moderata e diseguale”. Poi a metà agosto l’Europa ha capito che la ripresa semplicemente non esisteva: crescita zero. Sarebbe facile ora rimarcare che nell’ultimo anno e mezzo lo staff della Banca centrale europea ha regolarmente sbagliato i suoi calcoli. Ha sempre previsto una crescita superiore a ciò che poi è successo e non ha mai messo in conto che l’intera zona euro si sarebbe trovata sull’orlo della deflazione.
Se queste previsioni erano la base delle scelte,non sorprende che la Bce stia fallendo nel suo compito principale: garantire la stabilità dei prezzi, cioè un’inflazione “vicina ma sotto al 2%” nel medio periodo. Quest’estate i prezzi sono in caduta in Spagna, Portogallo, Grecia e di fatto anche in Italia, mentre nella media dell’area l’inflazione (in frenata) è ad appena lo 0,4%. Angel Ubide dal Peterson Institute nota che i mercati non credono affatto che i prezzi ripartiranno: i valori impliciti nei tassi forward – stime di mercato sul futuro – danno un ritorno alla normalità non prima di un decennio. Le conseguenze sono note. Famiglie e imprese rinviano consumi e investimenti in attesa di prezzi ancora più bassi domani. L’economia ristagna più a lungo. E poiché con un’inflazione a zero il peso reale dei debiti aumenta, l’intera contabilità di famiglie, imprese e governi in Europa sta già cambiando in peggio. Oggi circolano obbligazioni emesse in euro da europei per 13.300 miliardi (quasi un terzo del Pil del mondo), di cui 7.300 miliardi a carico degli Stati dell’area. Tutti coloro che si sono sobbarcati dei debiti in questi anni, lo hanno fatto nell’idea che la Bce avrebbe rispettato il proprio impegno a difendere un’inflazione attorno al 2%. Non a quota zero. Ora quell’impegno viene meno e rende la gestione di tutti i debiti molto più pesante: gli interessi restano uguali, i ricavi per pagarli scendono. Lo stesso Fiscal Compact diventa più difficile da rispettare e meno credibile, quasi nato morto.

Sarebbe facile notare adesso questi errori della Bce, non fosse che nessuno si illude che una banca centrale possa sempre evitarli. Non succede mai. Dall’inizio di questa crisi la storia dell’Eurotower è piena di errori commessi e poi corretti. Soprattutto è piena di errori della Bundesbank e delle persone espresse dalla banca centrale tedesca nell’Eurotower, sempre convinte che creare moneta e allargare il bilancio della Bce avrebbe creato troppa inflazione. Non è mai andata così: al suo massimo il bilancio dell’Eurotower è quadruplicato, eppure l’inflazione è scesa. Nel 2007 Jürgen Stark, tedesco nell’esecutivo Bce, si lamentò quando la banca lanciò le prime iniezioni di liquidità con la crisi dei subprime; la storia ha dimostrato che si sbagliava. Nel 2010 e nel 2011 lo stesso Stark e Axel Weber, allora presidente della Bundesbank, votarono contro gli acquisti di titoli di Grecia, Portogallo, Irlanda, Italia e Spagna, furono messi in minoranza e anche questa volta la storia ha dato loro torto. Lo stesso vale per Jens Weidmann, successore di Weber alla Buba, quando nel 2012 si oppose alla svolta con cui Draghi promise sostegno illimitato ai Paesi che avessero accettato un programma di riforme. Quella promessa non costò un euro, salvò l’Italia e la moneta unica e dimostrò che la Buba si sbagliava e andava messa in minoranza.
Se questa storia ha ancora un senso, è perché continua: la banca centrale tedesca si oppone a ciò che serve per scongiurare la deflazione. Come hanno già fatto la Federal Reserve americana, la Banca del Giappone e quella d’Inghilterra, per fare il suo dovere oggi la Bce ha bisogno di creare almeno mille miliardi di euro e comprare a tappeto titoli pubblici e privati dei Paesi dell’area euro. È il cosiddetto “quantitative easing”, inaugurato dalla Fed nel 2009. Avrebbe già dovuto farlo, risparmiando un po’ dei problemi di debito, crollo degli investimenti e stallo dell’export che oggi affliggono l’Italia e altri Paesi. Non è successo perché Draghi non ha voluto muovere un passo del genere contro la Bundesbank.

Il presidente italiano della Bce ha due ottimi argomenti dalla sua. Il primo è che già la sua promessa del 2012 di difendere l’euro a tutti i costi, ricreando fiducia, ha di fatto prodotto un effetto “quantitative easing”: da settembre 2012 a marzo 2014 le banche private estere hanno riportato in Italia 163 miliardi di dollari (dati Bri), eppure il paziente non si riprende. La differenza è che nuovi interventi della Bce svaluterebbero l’euro e darebbero finalmente ossigeno all’export, mentre gli afflussi di denaro privato invece rafforzano il cambio.
Il secondo argomento di Draghi è anche più serio: poiché la Germania è di gran lunga il primo azionista Bce, è difficile imporle il rischio di sobbarcarsi debito italiano per centinaia di miliardi contro la sua volontà. In questo l’Italia può aiutare, cercando di ricostruire una credibilità che in Europa ha perso da un pezzo. Ma per la Bce combattare la deflazione è un dovere. È stata creata apposta: se condizionasse le sue scelte in proposito a quelle dei governi, di fatto rinuncerebbe all’indipendenza.

Ormai Draghi è davanti a un bivio, forse il più difficile della lunga carriera di successi. Può fargli comodo un consiglio contenuto nelle memorie di un suo vecchio amico, l’ex segretario al Tesoro Usa, Tim Geithner: meglio prendersi la colpa dei propri errori, che di quelli degli altri. Inclusa, al solito, la Bundesbank.

L’unica strada per competere

L’unica strada per competere

Mariana Mazzucato – La Repubblica

L’economia dell’Eurozona è tornata in prima pagina: la crescita è scesa a zero rispetto al primo trimestre. L’Italia è tornata in recessione (ma ne era mai uscita?) e il dato di Francia e Germania è più basso del previsto. Le autorità tedesche danno la colpa al maltempo, ma di sicuro il problema più grande è la disparità di competitività tra i vari Paesi europei: il calo della domanda in certi Paesi penalizza le vendite in altri. Ma se il presidente della Bce Mario Draghi ha ragione a preoccuparsi di una ripresa «debole, fragile e disomogenea», il problema è che la diagnosi dei fattori alla base della competitività continua a essere sbagliata.

Quando scoppiò la crisi finanziaria, nel 2007, i Paesi europei non furono colpiti tutti nello stesso modo e nelle stesse proporzioni. Quelli che da decenni non investivano nelle aree fondamentali per potenziare la crescita economica (per esempio l’istruzione, la formazione del capitale umano, la ricerca e lo sviluppo) hanno subito i contraccolpi maggiori. E infatti i Paesi a cui Goldman Sachs ha appiccicato l’infamante etichetta di Pigs (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna) sono in fondo alla classifica per questo genere di investimenti. E quando la crisi finanziaria è diventata crisi economica è in questi Paesi che la crisi del debito sovrano e la crisi di “competitività” sono esplose con maggior durezza.

Politiche di austerità indiscriminate stanno aggravando le recessioni, come hanno dimostrato questo mese i dati relativi all’Italia. Ma anche se le riforme “strutturali” (come Draghi caldamente chiede) fossero attuate, sarebbero sufficienti, da sole, a stimolare la crescita nella periferia dell’Eurozona? La risposta è no: senza una grossa spinta agli investimenti pubblici e privati, non saranno sufficienti. I Paesi deboli devono aumentare, non diminuire, gli investimenti in quelle aree che aumentano la produttività e producono crescita, come l’istruzione, la formazione e la ricerca; e devono anche creare istituzioni pubbliche dinamiche, in grado di garantire i fondamentali collegamenti tra scienza e industria e dar vita a una comunità finanziaria disposta a investire a lungo termine.

Come la banca statale tedesca, KfW, è stata fondamentale per il successo dell’industria tedesca e come la Banca statale cinese per lo sviluppo è stata cruciale per l’affermazione di aziende innovative (come Huawei nelle telecomunicazioni, Lenovo nell’informatica e Yingli nelle energie rinnovabili) così l’Europa deve imparare a usare le sue istituzioni finanziarie pubbliche per indirizzare gli investimenti in questo senso. Perché anche se la Bce diventasse finalmente una Banca centrale a tutti gli effetti, quel prestatore di ultima istanza necessario per placare i timori dei mercati finanziari speculativi, resterebbe il fatto che il Quantitative Easing da solo non basta: il denaro finirebbe semplicemente nei forzieri delle banche, che non lo destinerebbero al credito. La creazione di denaro dev’essere invece “indirizzata” verso le aree produttive dell’economia reale, e in quasi tutti i Paesi di successo del mondo questo è avvenuto attraverso istituzioni pubbliche come quelle descritte sopra. Il programma di misure di stimolo di Obama e il piano quinquennale della Cina (1.700 miliardi di dollari in 5 nuovi settori, dalle tecnologie ecocompatibili ai nuovi motori) sono stati indirizzati in larga misura a rendere “verdi” tutti i settori dell’economia.

Perché l’Europa non assegna un mandato altrettanto ambizioso alle sue istituzioni pubbliche? Perché ha paura: e la mancanza di solidarietà nell’avviare un “piano di crescita” serio alla fine porterà al declino anche i Paesi “forti”. La Germania può crescere senza vicini forti? No. È ora di cambiare rotta, e subito – soprattutto adesso che il costo del denaro è quasi zero. L’euro può funzionare solo con un’Eurozona meno squilibrata nella competitività. Competitività non significa pagare poco i lavoratori ma è la capacità di produrre prodotti di alta qualità, a costo competitivo, che il mondo vuole acquistare. Siemens non vince contratti di appalto per costruire treni in Inghilterra perché paga poco i suoi lavoratori (come ci vorrebbero fare credere quelli che pensano che i problemi dei Pigs dipendono dal fatto che lavoratori guadagnano troppo) ma perché fa i treni più veloci e più verdi – risultato di una forte politica industriale e di innovazione.

Una volta riconosciuto che i diversi livelli di competitività nell’Ue sono colpa delle marcate differenze nei livelli di investimenti pubblici e privati, dobbiamo mettere in moto ogni strumento di investimento disponibile, sia a livello nazionale che a livello transnazionale. Per esempio il budget della Commissione europea per l’innovazione (80 miliardi di euro!), i fondi strutturali della Commissione europea destinati a progetti innovativi con adeguate prospettive di fattibilità e vantaggio “sociale” – e ovviamente la Banca europea per gli investimenti (Bei).

Quando è scoppiata la crisi finanziaria, la Bei ha incrementato i prestiti approvati dagli 890 milioni di euro del 2007 ai 4,2 miliardi del 2009. Nel 2011 questa cifra è scesa drasticamente a 703 milioni, soprattutto a causa dei timori che la Bei potesse perdere il suo rating in tripla A e a causa della mancanza di consenso, tra i Paesi dell’Unione Europea, sul grado di attivismo dell’istituto. Se si vuole che la Bei oggi giochi un ruolo attivo, è necessario ricapitalizzarla usando i fondi strutturali non utilizzati e ricorrendo al cofinanziamento delle obbligazioni della banca con quelle emesse dalla Bce. Ma per fare una cosa del genere è indispensabile che la Bei venga vista come uno strumento importante per favorire investimenti produttivi, in particolar modo nei Paesi della periferia (i Pigs).

Ovviamente sarà necessaria anche una gestione adeguata “sul terreno” di questi investimenti: i ministeri e le aziende delle nazioni che ricevono i prestiti devono essere gestiti in modalità conformi ai parametri europei correnti. I salvataggi e i prestiti dovrebbero essere vincolati a questo tipo di parametri e “condizioni”, non alle condizioni del fiscal compact basate sull’austerity, che servono solo a determinare un circolo vizioso di assenza di crescita – salvataggio – misure di austerità – assenza di crescita – salvataggio e così via. E quello che forse è il pericolo maggiore: una perdita di solidarietà tra i Paesi europei che alimenterebbe le forze conservatrici e produrrebbe solo paura – non il coraggio necessario per cambiare strada.

I veri fantasmi di Bruxelles

I veri fantasmi di Bruxelles

Andrea Bonanni – La Repubblica

«Tutto bene», assicura Matteo Renzi dopo l’incontro segreto con Mario Draghi in villeggiatura in Umbria. Tuttavia se il premier sente il bisogno di prendere un elicottero per andare a disturbare le privatissime vacanze del presidente della Bce, è legittimo immaginare che abbia avuto urgenti questioni da risolvere. Specie dopo che Draghi ha spiegato come la recessione italiana sia dovuta alla insufficienza delle riforme promesse dal governo. E dopo che Renzi, in una intervista al Financial Times, ha replicato con un secco «non ci faremo commissariare». Ma quanto è reale il rischio di un cornmissariamento europeo dell’Italia? E quanto peserà, nei mesi a venire, la richiesta di Draghi che i governi nazionali cedano sovranità anche sulle riforme strutturali, dopo aver ceduto a Bruxelles la sovranità sui loro conti pubblici? Perché di questo è lecito immaginare che abbiano discusso il capo del governo italiano e il presidente della Bce nelle due ore e mezza del loro incontro riservato.

Alla prima domanda esistono due risposte: una formale e una sostanziale. La risposta formale è che, oggi, l’unico strumento di “commissariamento” previsto dalle norme europee è quello della troika, composta da rappresentanti della Commissione, della Bce e del Fondo monetario inernazionale. E la troika entra in azione solo qualora un Paese faccia ricorso ai prestiti europei dell’Esm, il Fondo salva-Stati che ha finora dato soldi a Irlanda, Grecia, Portogallo e Cipro. La Spagna ha ricevuto un prestito dall’Esm, ma solo per salvare alcune banche private, e dunque non è stata sottoposta al controllo della troika.

L’intervento della troika non è stato uguale in tutti i Paesi. In Irlanda e a Cipro, per esempio, che avevano un enorme buco finanziario aperto dalla crisi delle banche ma un’economia sostanzialmente sana, il direttorio europeo ha agito con mano relativamente leggera. In Grecia, invece, dove il dissesto era provocato oltre che dalla falsificazione dei conti pubblici anche da una cronica mancanza di competitività, la troika ha agito con durezza esigendo tagli sanguinosi alla spesa pubblica e riforme sociali molto dolorose. In entrambi i casi la cura ha funzionato. Ma il paziente greco ha rischiato seriamente di morire perla medicina somministratagli pagando un prezzo altissimo in termini sociali. E proprio questo potrebbe essere il caso dell’Italia, il cui problema principale, oltre all’enorme debito pubblico, è la scarsa competitività di un sistema-Paese oppresso da una burocrazia tanto invadente quanto inetta.

Ma l’Italia, al momento, non sembra correre il rischio di vedersi messa sotto il controllo della troika. Per due motivi. Il primo è che la congiuntura favorevole dei mercati sta mantenendo i tassi di interesse molto bassi e dunque il Paese per ora è in grado di sostenere l’enorme debito pubblico senza dover ricorrere ai prestiti europei. II secondo è che un’ipotetica bancarotta italiana sarebbe talmente disastrosa che neppure l’intervento dell’Esm potrebbe scongiurarla E senza intervento del Fondo salva Stati non ci sarebbe intervento della troika, che è sostanzialmente un comitato di creditori.

Tuttavia proprio per questi motivi l’Italia, Paese “too big to fail”, si trova ancora una volta nella difficile condizione di osservato speciale delle autorità monetarie europee e internazionali. Se non riprende la strada della crescita, Roma non potrà continuare per molto a rimborsare un debito che diventa sempre più pesante con il diminuire del reddito prodotto. E la crescita, è convinzione comune, può arrivare solo con una serie di radicali riforme strutturali che taglino la spesa inutile, avviino le privatizzazioni tante volte annunciate, riformino il mercato del lavoro e restituiscano al Paese una amministrazione pubblica efficiente, dalle Regioni al fisco, dalla giustizia alla scuola, alla sanità. È essenziale, per evitare un collasso dell’Italia e un tracollo dell’euro, che queste riforme, tante volte promesse e mai attuate, vengano finalmente rese operative.

La richiesta di Draghi di una «cessione di sovranità» su questa materia costituisce dunque anche la risposta sostanziale alla domanda sul rischio di commissariamento dell’Italia. L’Italia deve dare garanzie ai partner europei che le riforme tante volte promesse verranno finalmente attuate. E queste garanzie devono essere concrete e verificabili perché, anche in Europa, la politica degli annunci non basta più.

Come ottenere questo risultato senza ricorrere alla troika? La risposta potrebbe essere nei cosiddetti “accordi contrattuali”, che la Commissione e il Consiglio stanno studiando da tempo. In pratica, un governo firma un accordo specifico con Bruxelles in cui si impegna a realizzare riforme precise, dettagliate e scadenziate nel tempo (dall’approvazione delle norme alla loro attuazioneconcreta). E in cambio riceve dall’Europa l’autorizzazione a rinviare, per un periodo determinato, gli aggiustamenti di bilancio a cui sarebbe tenuto in base alle norme comuni. Nel caso dell’Italia, per esempio, fermo restando il rispetto del deficit al 3%, il governo potrebbe evitare la drastica riduzione del debito a cui sarebbe tenuto, senza per questo incorrere in una procedura di infrazione cherisulterebbealtrimenti inevitabile.

Sarebbe nell’ interesse dell’ Italia che questi “accordi contrattuali” prendessero forma al più presto proprio per evitare forme di commissariamento più invasive. E comunque, anche se gli accordi non dovessero essere concretizzati in forma giuridica, sarà questa l’unica strada che il governo potrà percorrere presentando a Bruxelles uno scadenziario di riforme concrete in cambio della tanto auspicata “flessibilità” nel giudizio sui nostri malandati conti pubblici.

Il vero incubo adesso è il debito

Il vero incubo adesso è il debito

Massimo Riva – La Repubblica

A preoccupare non è tanto che Moody’s tagli le sue stime sul Pil di quest’anno: ormai lo sanno anche a Palazzo Chigi che il previsto più 0,8 per cento è diventato un obiettivo irraggiungibile. Quel che più dovrebbe allarmare è l’effetto che i giudizi negativi sulla lentezza delle riforme possono avere sui mercati finanziari. Le agenzie di rating – ormai questi anni di crisi ce l’hanno insegnato – non sono né arbitri distaccati da interessi concreti né istituti di beneficenza. Il loro ruolo è quello di orientare gli operatori mercantili ed è un compito che ne alimenta il reddito e il successo soltanto nella misura in cui le annunciate profezie si avverino.

Occorre, dunque, maneggiare con cura questa sortita di Moody’s perché essa potrebbe facilmente trasformarsi in un nuovo segnale di attacco sul fronte più fragile delle tante nostre oggettive difficoltà. In particolare, quello del finanziamento del debito pubblico che in questi mesi è riuscito a reggere con il vento in poppa di una costante e significativa discesa dei tassi d’interesse. È chiaro a tutti, infatti, che un brusco rincaro del servizio del debito non solo priverebbe il governo di risorse utili a misure di stimolo all’economia ma metterebbe a rischio anche quel rispetto del fatidico 3 per cento di deficit che è condizione importante per poter fare la voce grossa in Europa.

Il nodo cruciale attorno al quale ruotano i giudizi negativi dell’agenzia americana riguarda soprattutto la lentezza con cui l’Italia procede sul terreno delle riforme strutturali. Dunque, la stessa questione sollevata appena qualche giorno fa dal presidente della Bce, Mario Draghi. A quest’ultimo il presidente del Consiglio ha risposto in termini al tempo stesso consenzienti e infastiditi. Da un lato, ha detto di essere anche lui consapevole della necessità di attuare le attese riforme. Dall’altro lato, ha tenuto a ricordare che la scelta sulle riforme da fare spetta al governo italiano e non alla Bce o alla Commissione di Bruxelles, tanto meno alla troika fra i due e il Fondo monetario.

Una rivendicazione di sovranità formalmente legittima e per certi versi oggi anche ovvia sul piano istituzionale. Ma che per non avere un senso di battuta occasionale ed estemporanea avrà bisogno di essere seguita da comportamenti e azioni all’altezza dei problemi del momento su due tavoli principali, interno ed esterno.

In primo luogo, evidentemente, si tratterà di realizzare le attese riforme in tempi che evitino al Paese il rischio di quel discredito sui mercati che potrebbe essere alimentato da iniziative come quelle di Moody’s. In secondo luogo, si tratterà di muoversi con più cautela sul piano europeo proprio per quanto riguarda i rapporti di potere all’interno dell’Unione, laddove sempre Moody’s (non a caso) preconizza forti tensioni fra Italia e Germania.

Nel reclamare cessioni di sovranità dai governi nazionali alle istituzioni comunitarie, Mario Draghi ha posto il dito sulla piaga più dolente di un impianto europeo dove ogni spinta in senso federale è regolarmente bloccata dall’esercizio della legge del più forte. Come dimostra l’impotenza dei paesi favorevoli a una politica economica espansiva a far cadere il muro dell’austerità contabile a qualunque costo costruito dalla Germania. Perciò Matteo Renzi, tanto più nel corso del semestre italiano di presidenza, dovrà fare non poca attenzione alle controindicazioni implicite nella sua rivendicazione di sovranità. Quello che può oggi sembrare un punto di forza a Roma facilmente può diventare un fattore di debolezza a Bruxelles perché fornirebbe alibi potenti ai governi che intendono l’Europa come poco più di un’unione doganale.

Le inattese avvisaglie di stagnazione che si profilano all’orizzonte della grande Germania stanno facendo capire anche ai tedeschi che la crescita in un Paese solo è oggi una pura illusione. Berlino ha bisogno dell’Europa non meno di quanto l’Europa di Berlino. Figuriamoci, quindi, quanto più questa equazione possa essere valida per l’Italia. A maggior ragione in una fase nella quale lo scenario internazionale – dall’Ucraina alla Libia passando per il Medio Oriente – solleva nubi minacciose anche sui rifornimenti energetici.

L’inverno non è così lontano e tutto l’Italia può permettersi fuorché trovarsi nella tenaglia di rincari congiunti dei tassi d’interesse e di gas e petrolio. Coraggio, perciò, presidente Renzi mandi in porto le riforme “sovrane” che vuole ma lo faccia presto. Anche perché solo su questa strada troverà i titoli politici per promuovere una svolta nella politica economica europea. Ci sono treni, in politica e nella vita, che passano una sola volta.

Caro premier, ecco cosa può fare lo Stato

Caro premier, ecco cosa può fare lo Stato

Mariana Mazzucato – La Repubblica

Caro presidente, ho visto dai giornali che lei ha comprato il mio libro “Lo Stato Innovatore”, questo mi ha suggerito l’idea di scriverle una lettera. L’Italia a crescita bassa è tornata in prima pagina. Una delle tesi del libro è che per tirarsi fuori da questo marasma è indispensabile rendersi conto di dove sta il problema. Il problema non sta in un settore pubblico “burocratico” che in qualche modo ostacola la crescita di un settore privato altrimenti dinamico e innovativo. Il problema è che, in assenza di un settore pubblico dinamico e innovativo, la crescita nel settore privato è impossibile da ottenere.

Partiamo dal contesto: i problemi dell’Italia non derivano da un eccesso di dimensioni e di spesa riferito al settore pubblico, ma dal fatto che questo non è sufficientemente attivo e in realtà non spende quanto i suoi principali concorrenti in tutti gli ambiti fondamentali che determinano la crescita della produttività (e quindi la crescita a lungo termine del Pil), ossia capitale umano, istruzione, ricerca e tecnologia. Il deficit italiano prima della crisi si attestava sotto la media Ue. Ma se la produttività (e quindi il tasso di crescita del Pil) è quasi ferma da 20 anni per l’assenza di investimenti di questo genere, anche con un deficit relativamente basso il quoziente debito/ Pil può continuare ad avere una crescita esponenziale (perché il denominatore è statico).

Che fare? È proprio questo l’oggetto del libro. Cosa intendo per Stato Innovatore? Intendo uno Stato che sia disposto a pensare in grande e capace di farlo, che sappia attirare i migliori cervelli nelle sue varie branche, gettare per primo le basi in nuovi fondamentali comparti ad alto rischio, che solo successivamente attireranno il settore privato. Che sia capace anche di costruire un sano rapporto simbiotico, non parassitario, tra i settori pubblico e privato, così che la crescita conseguente non sia solo “intelligente”, ma anche più inclusiva.

Nel libro ricorro all’esempio dell’iPhone per sfatare i luoghi comuni sulla Silicon Valley. Tutte le tecnologie che rendono così “intelligente” quel telefono sono state finanziate negli Usa dal settore pubblico: Internet, Gps, touch screen e persino la nuova Siri a comando vocale. Lo stesso vale per le biotecnologie, le nanotecnologie e la frattura idraulica (per l’estrazione dello shale gas), tutti settori industriali frutto di decenni di investimenti pubblici che hanno preceduto gli investimenti privati. Steve Jobs era ovviamente un genio, ma al pari di altri imprenditori statunitensi, ha “surfato” le gigantesche onde create dallo Stato. In molti paesi europei oggi non sono i surfisti a mancare, ma l’onda. E l’onda serve non solo nei comparti ad alta tecnologia, ma anche in settori affamati di rinnovamento e trasformazione, come il tessile, l’industria automobilistica e l’agricoltura. Vale anche per l’arte, che diventerà un vero patrimonio nazionale solo quando sarà posta al centro di una strategia di crescita che utilizza i poteri della rivoluzione informatica per diffonderla e divulgarla a livello internazionale.

Il settore pubblico, ovviamente, non può fare da solo. Serve un settore privato altrettanto impegnato. Oltre ad avere uno dei tassi più bassi di spesa pubblica in R&S; (riferito al Pil) l’Italia registra anche uno dei livelli più bassi di spesa privata nel settore. La responsabilità non è imputabile alla “normativa”, ma all’assenza di una sana tensione tra Stato e imprese. Un valido esempio? La Fiat attualmente non investe in motori ibridi in Italia, ma lo fa negli Stati Uniti perché Obama lo ha posto come condizione per il salvataggio dell’industria automobilistica. Ecco un altro mito che va a farsi benedire: gli Stati Uniti, la patria del libero mercato, che impongono le politiche industriali al settore privato. E non è certo un caso unico. Il mitico Bell Labs, uno dei laboratori di ricerca privata più innovativi, al centro della rivoluzione informatica, nacque da un teso negoziato tra lo stato e At&t;, all’epoca un monopolio, in cui lo stato esigeva che gli utili privati fossero reinvestiti nell’economia “reale”, in aree che creassero beni pubblici.

Anche se il libro non si incentra sulle società a capitale pubblico, bensì sul rapporto tra i settori pubblico e privato, esamina con occhio critico il genere di strategie che portarono alla nascita dell’Eni e dell’Iri, che ebbero effettivamente un ruolo chiave negli anni d’oro dell’Italia, quando agivano in accordo con la loro missione e attiravano manager di massimo livello. Da pubbliche, ma indipendenti e guidate da esperti, furono un successo. Una volta divenute semplice appendice dei partiti politici smisero di funzionare – diventando il problema, non la soluzione. In realtà, ironicamente, fustigando lo Stato e spacciando la privatizzazione come panacea sarà estremamente difficile attrarre le competenze che queste istituzioni pubbliche richiedono, oggi come allora. A capo del Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti poco tempo fa c’era un fisico premio Nobel, Steven Chu. Ha fondato Arpa-e a cui ha dato l’incarico di promuovere e finanziare la ricerca e lo sviluppo delle energie rinnovabili, come fece a suo tempo la Darpa per Internet. Anche la Germania oggi cresce non perché “tira la cinghia” ma perché ha una banca pubblica strategica, la KfW, che offre capitale paziente alle imprese e ai settori più innovativi- e di istituzioni finanziate dallo Stato come la Fraunhofer, che creano le connessioni tra scienza e industria mancanti in Italia.

Spero che queste riflessioni la incoraggino a cambiare il modo di parlare di politica economica in Italia, abbandonando i soliti discorsi che si trascinano pigri, come se il problema stesse solo nel togliere la burocrazia, nelle riforme del mercato del lavoro, e del fisco. Per arrivare invece a un dibattito nuovo che sproni i settori pubblico e privato ad un maggiore impegno mirato agli investimenti e alla crescita guidata dall’innovazione. Il bonus di 80 euro al mese è indubbiamente utile a molte famiglie in condizioni difficili, ma per una crescita a lungo termine dei redditi, che abbia effetti decisivi sulla domanda dei beni di consumo e sul tenore di vita, è necessaria una strategia di innovazione industriale che porti più posti di lavoro, e soprattutto ne migliori la qualità.

La strada sbagliata

La strada sbagliata

Alberto Bisin – La Repubblica

E così il Paese è in recessione, dice l’Istat: -0,2% nel secondo trimestre. Non è vero, come ha dichiarato il primo ministro Renzi, che «la crescita sia 0,4 o 0,8 o 1,5% non cambia niente dal punto di vista della vita quotidiana delle persone». Cambia moltissimo. Ma è vero che gli ultimi dati Istat poco aggiungono a chiarire la drammaticità conclamata della situazione economica del Paese. L’economia italiana è bloccata e non accenna a ripartire. Ma questo è vero da molti anni, ben prima della crisi, di Renzi, di Letta e di Monti. La verità è che il governo Renzi ha preso in mano una patata bollente e complessa. Lo ha fatto con grande energia mandando segnali contrastanti sulle linee di politica economica che avrebbe intrapreso. Questo ha dato qualche speranza che il governo riuscisse a trasmettere con successo il proprio ottimismo, attraverso politiche nuove ed incisive, anche se necessariamente, in un primo tempo, di portata limitata come gli 80 euro. Segnali positivi in un contesto in cui le economie del resto del mondo stanno iniziando a muoversi possono fare miracoli, dando fiducia e imprese e consumatori. L’effetto segnale si è spento presto però, purtroppo.

Già a fine marzo la prima reazione di Renzi al piano Cottarelli, quella del «come mamma e papà in famiglia diciamo noi cosa tagliare», aveva suggerito che le sue parole sugli interventi dal lato della spesa fossero solo parole, appunto. Il comportamento di Renzi sulla scena europea, l’insistenza sulla flessibilità, aveva poi chiarito (tranne a chi davvero non volesse vedere) che le linee della politica economica di Renzi non si sarebbero discostate dalle vecchie attitudini care al nostro Paese: di nuovo ci sarebbe stata solo spesa pubblica. L’urlo di dolore del commissario Cottarelli, che ha rivelato come il governo stesse spendendo risparmi di spesa previsti futuri ma non realizzati, è stata solo la cliegina sulla torta.

La questione concettuale importante da porsi è perché una prevista politica di domanda aggregata, di nuovi investimenti pubblici (suggerita dalla richiesta all’Europa di non includere gli investimenti nel computo del deficit) non abbia avuto gli effetti desiderati. Vi sono due ragioni, o anche tre. La prima è che la spesa pubblica nel nostro Paese è tradizionalmente inefficiente, di natura clientelare. Intervenire sulla riforma Fornero per regalare a categorie amiche qualche anno in più di pensione, come sta cercando di fare il governo in questi giorni, è esattamente questo, né più né meno. Inoltre, corruzione e scandali connessi ai grandi appalti, dal Mose all’Expo, non aiutano certo a considerare positivi gli effetti economici di nuova spesa.

La seconda ragione è che la spesa pubblica va ripagata prima o poi, attraverso nuove tasse (il canale del debito è strettissimo per ovvie ragioni), e il livello di tassazione nel nostro Paese è così elevato (e concentrato a causa dell’evasione) che nuove tasse sono un suicidio economico. La terza ragione è che politiche di domanda aggregata è quello che l’Italia fa da sempre, da quando erano di moda fino a quando non lo sono state più. I risultati sono davanti agli occhi di tutti e la ragione è che questo tipo di politiche sono fatte apposta per essere distorte dal sistema politico che le usa a dismisura per allargare la dimensione del proprio controllo.

In conclusione, la tanto vituperata e ridicolizzata idea dell’austerità espansiva non è affatto una stupidaggine se qualificata e calibrata all’Italia. Se per austerità si intendono nuove tasse o anche minori spese generalizzate, allora ovviamente non ci si può aspettare espansione economica come conseguenza. Ma se l’austerità prendesse la forma di tagli alle spese improduttive allora la questione sarebbe diversa. Ha voglia il viceministro all’Economia Enrico Morando a dichiarare che «non c’è evidenza empirica» che un’alta spesa pubblica e un’alta pressione fiscale si associno a una bassa crescita economica. Ci sarebbe da ridere se non fosse che su queste interpretazioni dei dati si fa politica economica nel nostro Paese. Provi il viceministro a condizionare alla qualità della spesa e delle tasse e poi riguardi all’evidenza empirica.

Naturalmente è facile a dirsi, tagli alle spese improduttive, ma molto più complesso farli. Per questo la capacità propulsiva del governo Renzi muore con Cottarelli. Perché la reazione violentemente negativa del governo ad un piano serio e ben fatto di spending review non può che essere interpretata come mancanza di volontà di procedere realmente (non solo retoricamente) nella direzione dei tagli di spesa. E allora imprese e consumatori sanno cosa li aspetta: nuova spesa improduttiva e nuove tasse (nascoste in qualche trucco contabile). In queste condizioni ci vuole altro che l’entusiasmo e l’ottimismo di Renzi per farle tornare a investire e consumare. E gli 80 euro appaiono per quello che ovviamente sono al di là della loro capacità di segnalare una nuova direzione di politica economica, una manovra ridicolmente inadeguata e mal congegnata.

Renzi è a un bivio, ha due strade davanti a sé, abbia il coraggio di prendere quella mai utilizzata in passato (tutto il credito a Robert Frost per l’immagine). Non cerchi di far credere al Paese che l’ha presa mentre scorrazza amabilmente e comodamente in quell’altra. I dati di oggi dimostrano che imprese e consumatori non se la bevono così facilmente.