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Il settembre nero dei negozi, due chiusure ogni apertura

Il settembre nero dei negozi, due chiusure ogni apertura

Paolo Baroni – La Stampa

Arriva settembre, finiscono le ferie, e molte serrande restano abbassate. A chiudere (per sempre) sono bar e ristoranti, negozi di abbigliamento e librerie, imprese che magari hanno una lunga storia imprenditoriale alle spalle ma anche attività nate anche da poco: spesso chiudono in sordina, a volte per pudore non lo comunicano nemmeno alle loro associazioni. «Per molti – spiegano alla Confesercenti – la chiusura del negozio in cui hanno lavorato tutta la vita, magari insieme alla famiglia, è una sconfitta personale. Per questo qualcuno approfitta delle ferie per chiudere».

I primi dati elaborati da Confesercenti ci dicono che tra luglio e agosto, nel settore del commercio, per ogni nuova impresa che ha aperto i battenti ben due li hanno chiusi. E quel che è peggio è che questi dati (2.603 aperture a fronte di 5.463 chiusure) replicano quelli del 2013, che fino a ieri risultava in assoluto l’anno peggiore di sempre. Oggi – denuncia Confesercenti – un’impresa su 4 dura addirittura meno di tre anni: a giugno 2014 oltre il 40% delle attivita aperte nel 2010 – circa 27mila imprese – è già sparito bruciando investimenti per circa 2,7 miliardi.

È crisi nerissima insomma: confermata anche dallo stallo dei consumi, che in sei mesi ha già fatto perdere al terziario altri 2,2 miliardi di euro di fatturato, e da una pessima stagione dei saldi, che quest’anno si sono rivelati un vero flop, con una riduzione delle vendite (stime Codacons) del 5-8% e una spesa media per famiglia che non supera i 65 euro.

In base ai dati dell’Osservatorio Confesercenti relativi ai primi sei mesi solo il commercio ambulante fa segnare un leggero miglioramento, si arresta la corsa delle vendite on line (82 nuove imprese avviate nei primi sei mesi dell’anno contro le 530 del 2013), mentre tutto il resto va male. A cominciare dai ristoranti (saldo negativo per 2.500 unita) che traina all’ingiù tutto il comparto del turismo, che già prima di questa pessima estate presentava un saldo negativo di 6mila imprese tra

hotel, bar, ecc. doppio rispetto al 2013. Poi vanno molto male il commercio in sede fissa (-14mila), i negozi di sigarette elettroniche (4 chiusure ogni nuova apertura), l’abbigliamento (-3300) e le rivendite di giornali (4 chiusure/2 aperture). Tra le regioni più colpite ci sono la Sicilia (15 chiusure al giorno e solo 5 aperture) ed il Lazio (6 aperture ogni 15 chiusure). Tra le grandi citta malissimo Roma, che ha fatto segnare un saldo complessivo negativo di 1.111 imprese nel solo settore del commercio in sede fissa, seguita da Napoli (-812) e Torino (-543).

«L’avvio del 2014 è stato peggiore di quanto ci aspettassimo – commenta il segretario generale di Confesercenti, Mauro Bussoni -. Siamo entrati nel terzo anno di crisi e molte imprese semplicemente non ce la fanno più, schiacciate dalla diminuzione dei consumi e l’aumento della pressione fiscale». Spaventa, inoltre, «la doppia batosta Tari/Tasi», senza contare poi i «danni» delle liberalizzazioni introdotte da Monti: dovevano rilanciare consumi e occupazione e si sono rivelate «un vero flop: i previsti effetti benefici sono tuttora “non pervenuti”, ed il settore ha perso oltre 100mila posti, registrando allo stesso tempo 28,5 miliardi di minori consumi da parte delle famiglie».

La strada difficile della ripresa

La strada difficile della ripresa

Mario Deaglio – La Stampa

Moltissimi italiani sono vittime di un terribile equivoco: si illudono che un «buon» governo, non importa se l’attuale o un altro, sia in grado di scaricare sulla loro porta di casa una splendida ripresa già bell’e confezionata, possibilmente senza creare loro alcun incomodo. Così si spiegano le critiche «quantitative» ai provvedimenti del governo, già adottati o di prossima messa a punto, secondo le quali «le risorse non bastano». Come ha detto il presidente dell’Ance, Paolo Buzzetti, «se non ci mettiamo i soldi… i problemi restano tutti lì». E siccome qualche soldo c’è, ma non basta (e questo lo sanno tutti), e non è possibile stamparne tranquillamente degli altri, si direbbe che i problemi sono destinati a rimanere tutti lì, magari per molto tempo. La ripresa che piacerebbe a milioni di italiani consiste nel «riprendere››, appunto, ritmi, modalità di vita e produzione degli anni precedenti la crisi.

Più che una ripresa sarebbe un recupero e una conservazione di valori, da quelli monetari a quelli culturali. E questa ripresa si potrebbe realizzare semplicemente ritoccando qualche legge – possibilmente senza conseguenze scomode per i diretti interessati – e affidandosi al «buon senso». Sarebbe molto bello, soprattutto per un paese in cui gli anziani sono una componente sempre più importante, se la ripresa fosse effettivamente così. Purtroppo le cose stanno andando diversamente. 

Quella che stiamo vivendo a livello globale è una «distruzione creatrice», come l’aveva definita l’economista austriaco Joseph Schumpeter all’incirca settant’anni fa: uno «sciame» di innovazioni irrompe sulla scena economica, altera la struttura dei costi, si presenta di prepotenza con nuovi prodotti, cambia di fatto il nostro modo di vivere e ne instaura un altro, si inventa nuovi mercati e nuovi modi di produrre. 

Lo si vede benissimo osservando con attenzione la nostra vita quotidiana: dopo trent’anni in cui si è limitata a renderci le cose più facili, l’elettronica sta rendendo la nostra esistenza sensibilmente diversa. Iphone e Ipad cambiano i nostri ritmi di vita e di lavoro: con il telefonino (che è sempre meno «cellulare» in quanto passa sempre più da Internet) possiamo acquistare un biglietto ferroviario 0 aereo, effettuare un bonifico bancario, pagare in diretta il posteggio dell’auto. Sempre con questo o altri simili mezzi elettronici potremo «scaricare» e seguire a nostro piacimento interi corsi universitari, tenere la nostra salute sotto controllo, acquistare un numero crescente di oggetti senza passare dal negozio dai supermercati. 

Possiamo legittimamente pensare che tutto ciò sia un bene o sia un male. In ogni caso siamo costretti a muoverci in questa direzione perché gli altri Paesi lo stanno facendo e perché dobbiamo vendere all’estero i nostri prodotti per pagarci l’energia e le materie prime di cui abbiamo bisogno (sempre che non prevalgano i venti di guerra che soffiano sull’Ucraina e sul Medio Oriente, con qualche sinistra somiglianza con quelli di cent’anni fa). La ripresa, insomma, non sarà per niente comoda e rassicurante, sarà scomoda e incerta; offrirà delle opportunità, non garantirà a nessuno di raggiungere i risultati sperati. 

Nessun governo, in nessun Paese, potrà fare meraviglie, tutti i governi e tutti i Parlamenti dovranno mettere i loro cittadini nelle condizioni di “fare”, di rischiare al meglio, di elaborare un progetto di vita che non sia bloccato da ostacoli legislativi antiquati. Le leggi non creeranno ripresa, metteranno i cittadini nelle condizioni di crearla. Per questo sono necessari i «piccoli miracoli individuali» di cui ho parlato in un precedente articolo, un’affermazione alla quale alcuni lettori hanno reagito con fastidio sostenendo che i miracoli li devono fare i governi. 

Per la verità, i giovani italiani stanno cominciando a muoversi in questa direzione. Sono diverse decine di migliaia quelli che, dopo aver conseguito buone lauree in Italia si vedono proporre spezzoni di lavoro, stage non pagati, contratti di pochi euro e senza futuro o al massimo lunghe carriere per arrivare a posizioni di rilievo all’età della pensione; al di là delle Alpi, da Monaco a Londra, ricevono spesso offerte di posti (e salari) adeguati alla loro professionalità da imprese spesso dirette da trentenni o quarantenni. 

I rimedi alla brutta crisi italiana, in sostanza sono solo in piccola parte quantitativi e soprattutto qualitativi; e possono richiamare in un circuito produttivo un po’ di ricchezza finanziaria netta delle famiglie che, secondo la più recente indagine della Banca d’Italia, è pari a circa 8 volte il reddito disponibile lordo delle famiglie italiane, in linea con Regno Unito, Francia e Giappone e sensibilmente superiore a quella di Stati Uniti, Canada e Germania. Se le famiglie italiane non useranno almeno una parte di questa ricchezza (le sole attività finanziarie valgono più del doppio del prodotto interno lordo) è possibile che finiscano con il perderla. E perderemo tutti una parte delle speranze del Paese.

Ottimismo espediente o necessità?

Ottimismo espediente o necessità?

Elisabetta Gualmini – La Stampa

Ha resistito per un po’ Matteo Renzi durante la conferenza stampa di ieri. Prima ha presentato il nuovo slogan della fase 2 del suo governo, passo dopo passo, dando l’idea di voler affrontare con calma, serietà e concretezza i diversi problemi che l’Italia ha davanti, in particolare la riforma della giustizia e le misure per sbloccare le opere pubbliche. Poi pero non ce l’ha più fatta ed è tornato il leader motivazionale di sempre. Il Renzi della rivoluzione, delle cose che nessuno ha mai fatto, di un Paese che tra 1000 giorni sarà completamente trasformato. La riforma della giustizia civile è una ri-vo-lu-zio-ne! E il nuovo codice sugli appalti con norme uguali a quelle degli altri Paesi europei è un’altra ri-vo-lu-zio-ne. E così in una delle giornate più buie dell’economia italiana, in cui recessione e deflazione fanno a gara ad alimentarsi a vicenda, in cui le famiglie non consumano praticamente più e gli imprenditori fuggono a gambe levate da qualsiasi investimento, il Premier riesce a fornire un racconto diverso e a lanciare – ancora una volta – un messaggio rassicurante. D’altro canto, anche l’Europa ha problemi simili, e dalla crisi si esce con uno sforzo comune. C’è da chiedersi se l’ottimismo e il continuo sforzo motivazionale del Premier siano solo un espediente per distogliere l’attenzione dall’enorme complessità dei problemi che devastano il nostro Paese o se – soprattutto finché non ci sarà una vera e propria svolta in Europa verso politiche di crescita – non sia proprio l’unica cosa da fare. Sì, certo, il siparietto con il banchetto dei gelati e il cono offerto ai giornalisti come risposta (stizzita) alla copertina dell’Economist ce lo poteva risparmiare, anche perché nessun giornalista si è sbellicato dalle risate e ha deciso di stare al gioco.

Renzi ci sta provando a mettere in fila una serie di provvedimenti utili ad allentare i vincoli che flagellano i settori più importanti per lo sviluppo del nostro Paese. Con qualche stop-and-go, tra avanzate e retromarce (come quella, che gli deve essere costata molto, sulla scuola), le novità ci sono e, se fossero realizzate, avrebbero un impatto significativo. E’ per questo forse che il premier mantiene livelli di popolarità tuttora molto elevati tra i cittadini italiani, i quali continuano a interpretare la «missione di Matteo» come la lotta di Davide l’innovatore contro la falange armata dei Golia (i poteri forti, gli interessi corporativi, i privilegi diffusi) che vogliono mantenere le cose identiche a sempre. Con lo Sblocca-Italia si cerca di mobilitare fondi già disponibili e sveltire i percorsi di realizzazione (promettendo ad esempio di completare la Napoli-Bari e la Palermo-Messina-Catania nel 2015 invece che il 2017). Si liberano risorse per altre opere cantierabili, di taglia media e mini, che daranno soddisfazione ai sindaci, con l’acqua alla gola tra tagli e patto di stabilità. E poi gli incentivi per la banda larga nelle zone bianche, l’utilizzo dei fondi europei, ancora non spesi, le modifiche alla Cassa depositi e prestiti, il sostegno all’edilizia e gli incentivi all’export delle piccole e medie imprese. Con anche un occhio alla situazione di Bagnoli e agli investimenti per l’estrazione di idrocarburi. Il nuovo codice sugli appalti viene invece affidato a un disegno di legge delega. Sulla giustizia le norme contenute nel Dl sono più che apprezzabili. Il dimezzamento dell’arretrato e dei tempi del contenzioso sarebbe in effetti una rivoluzione. Per i nostri investitori e per quelli internazionali. Questo è il vero cuore della riforma al di la di misure minori come il taglio delle ferie dei giudici e l’iter semplificato per le separazioni senza figli. Anche le norme sul falso in bilancio e sul reato di autoriciclaggio vanno nella giusta direzione. ll decreto legge dunque non partorisce un topolino. E Matteo se lo dice naturalmente da solo: tanta roba eh?

Lo stile del Premier non cambia. Ottimismo e sorrisi contro il buio pesto. Energia e gelati contro rassegnazione. Entusiasmo a palla contro i cantori del declino. O meglio, tentarle tutte invece che stare fermi a guardare. Bisogna dirla tutta. Pure con i rischi del caso (eccesso di promesse e risultati inferiori alle aspettative), siamo sicuri che ci siano alternative?

Non basta sperare che passi

Non basta sperare che passi

Luca Ricolfi – La Stampa

Italia di nuovo in recessione, Italia in deflazione, fiducia dei consumatori di nuovo giù, disoccupazione ai massimi. La raffica di dati negativi che arrivano dall’Istat non è di quelle che tirano su il morale. E tuttavia, a mio parere, la notizia non c’è, o meglio c’è solo per il governo e per gli osservatori più ottimisti, che hanno passato mesi a intravedere una svolta di cui non si aveva alcun indizio concreto. Dapprima non si è voluto credere alle ripetute revisioni delle previsioni sul Pil pubblicate dagli organismi internazionali, senza accorgersi che non erano troppo pessimistiche ma semmai ancora troppo ottimistiche. Poi si è alimentata l’ingenua credenza che i 10 miliardi stanziati per il bonus avrebbero potuto rilanciare i consumi, salvo poi amaramente confessare che «ci aspettavamo di più». Infine non si è voluto dare alcuna importanza ai drammatici dati sul debito pubblico, cresciuto di 100 miliardi in appena 6 mesi, una cosa che non era mai successa dall’inizio della crisi.

Nonostante tutto ciò, e nonostante i dati Istat dei giorni scorsi non mancheranno di suscitare qualche reazione, penso che torneremo presto a infischiarcene e ad ascoltare la canzoncina del paese che «cambia verso», dello sblocca-Italia, della svolta epocale, dell’Europa che deve fare la sua parte, di papà Draghi che deve proteggerci da lassù (per chi non lo sapesse, il governatore della Banca Centrale Europea abita in una torre altissima, detta appunto Eurotower).

La ragione per cui penso che poche cose cambieranno è molto semplice, ed è che una cosa è la crisi, una cosa diversa è il declino; una cosa è una società povera, una cosa diversa è una società ricca. Una società povera che incappa in una crisi ha molte possibilità di rialzarsi perché non può non accorgersi della gravità di quel che le succede, e non può non sentire la spinta ad automigliorarsi. Una società ricca che è in declino da due decenni (ma secondo molti studiosi da più tempo ancora) può benissimo sottovalutare quel che le succede, e avere ormai esaurito la spinta all’automiglioramento. L’Italia, se si eccettua il segmento degli immigrati (che alla crisi hanno reagito e continuano a reagire molto bene: 91 mila posti di lavoro in più negli ultimi 12 mesi), è precisamente nella seconda condizione. Dal momento che il nostro declino è lento (perdiamo l’1-2% del nostro reddito ogni anno), e la maggior parte della popolazione ha ancora riserve di denaro e di patrimonio, è molto facile cullarsi nell’illusione che basti aspettare, che prima o poi il sole tornerà e la ripresa dell’economia rimetterà le cose a posto.

Di fronte a questo deprecabile ma comprensibile stato d’animo dell’opinione pubblica, molto mi colpisce che anche la classe dirigente del paese, che pure dovrebbe avere occhi per cogliere il dramma del nostro declino, si mantenga tutto sommato piuttosto calma e compassata, limitandosi alle solite invocazioni che sentiamo da trent’anni (ci vuole un colpo di reni, dobbiamo fare le riforme), senza alcuna azione incisiva o idea davvero nuova. E qui non penso solo alla insostenibile leggerezza del premier, che un mese fa snobbava i primi dati negativi sul Pil («che la crescita sia 0,4 o 0,8 o 1,5% non cambia niente per la vita quotidiana delle persone»), e provava a tranquillizzare gli italiani con ardite metafore metereologiche (la ripresa «è un po’ come l’estate, arriva un po’ in ritardo ma arriva»). Penso anche alla mancanza di idee coraggiose da parte del sindacato, ancora impigliato nei meandri mentali del secolo scorso. O alla leggerezza con cui la Confindustria ha avallato il bonus da 80 euro, una misura che non ha rilanciato i consumi e in compenso ha bruciato qualsiasi possibilità futura di ridurre Irap e Ires, ossia una delle pochissime cose che un governo può fare per sostenere subito, e non fra 1000 giorni, la competitività e l’occupazione (per inciso: ieri Squinzi ha picchiato duro contro il bonus, scordandosi completamente delle sue dichiarazioni di giugno, quando aveva spiegato di non averlo contrastato per ragioni politiche, perché «le elezioni europee erano più importanti»).

Ecco perché mi è difficile essere ottimista. Se l’opinione pubblica è incline al vittimismo ma si limita a sperare in tempi migliori, se la classe dirigente vive di annunci e piccole manovre, è del tutto illusorio pensare di «fermare il declino», per riprendere il nome di una sfortunata lista elettorale. Ma, attenzione, il declino potrebbe anche non essere lo scenario peggiore. La notizia che l’Italia è entrata in deflazione sarà probabilmente seguita da sempre più insistenti richieste di misure di «sostegno della domanda», anche a costo di aumentare ulteriormente il nostro debito pubblico. E’ possibile che tali misure vengano attuate. E che lo siano con il consenso dell’Europa, sempre più spaventata dallo spettro della stagnazione. Quello che nessuno sa, tuttavia, è come i mercati finanziari reagirebbero a un eventuale ulteriore peggioramento del nostro rapporto debito-Pil. Può darsi che stiano zitti e buoni, intimiditi dalla volontà di super-Mario di fare «qualsiasi cosa occorra» per proteggere l’eurozona. Ma può anche darsi che i mercati rialzino la testa, e qualcuno ci rimetta le piume.

Anzi, in realtà qualcosa è già successo, anche se in modo invisibile, perché oscurato dalla discesa degli spread con la Germania. Dal 9 aprile di quest’anno i rendimenti dei titoli di stato decennali dei principali paesi dell’euro hanno cominciato a muoversi in modo difforme, ossia a divergere sempre più fra di loro: è lo stesso segnale che, nel 2011, precedette e annunciò la imminente crisi dell’euro. Ma quel che è più grave è che a questo segnale, che indica che i mercati stanno ricominciando a distinguere fra paesi affidabili e paesi inaffidabili, se ne accompagna un altro che riguarda specificamente l’Italia: a dispetto del miglioramento dello spread con la Germania, la nostra vulnerabilità relativa rispetto agli altri 4 Pigs (Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna) è in costante aumento dal 2011, e nell’ultima settimana ha toccato il massimo storico. Tradotto in parole povere: tutti i paesi stanno beneficiando di tassi di interesse via via più bassi, ma nel cammino di generale avvicinamento alla virtuosa Germania noi siamo più lenti degli altri, perché i mercati si accorgono che non stiamo facendo le riforme necessarie per aumentare la nostra competitività.

La conseguenza è molto semplice, ma terrificante: se ci fosse un’altra crisi finanziaria, noi saremmo più vulnerabili di Spagna e Irlanda. Ecco perché rallegrarsi degli spread bassi può essere molto fuorviante. E continuare a rimandare le scelte difficili, come finora hanno fatto un po’ tutti i governi, potrebbe rivelarsi catastrofico. Lo so: Cassandra dixit, direte voi. Ma a differenza di Cassandra non vedo nel futuro, e continuo a pensare che il futuro che verrà sarà esattamente quello che ci saremo meritati.

Dalla Tasi meno incassi rispetto alla vecchia Imu

Dalla Tasi meno incassi rispetto alla vecchia Imu

Antonio Pitoni – La Stampa

Per carità, il dato e ancora parziale e riguarda solo 2.178 comuni italiani. Circa un quarto del totale. Ma dopo le polemiche che avevano investito la transizione dalla vecchia Imu alla nuova Tasi è certamente sorprendente. Perché nelle amministrazioni che hanno già deliberato (entro la prima scadenza del 23 maggio) l’aliquota del nuovo tributo, il gettito stimato a fine 2014 sulle prime case è di 1,2 miliardi di euro, il 29,3% in meno rispetto agli 1,6 miliardi del 2012, ultimo anno in cui si pagava ancora l’Imu. Mentre i versamenti sulle seconde case e sugli «altri immobili» fanno registrare una sostanziale stabilità, con una crescita dello 0,15% (11 milioni). Insomma, almeno per ora, chi aveva ventilato il rischio di rincari e nuove stangate con il passaggio alla Tasi, sembra essere stato smentito. Ma è bene precisare che si tratta, per adesso, solo di una tendenza. Dal momento che mancano ancora all’appello i dati dei restanti Comuni (circa i tre quarti del totale). Quelli che, verosimilmente, aumenteranno le aliquote per far quadrare i bilanci. Ed è molto probabile che il gettito complessivo torni a salire compensando parte di quel gap di quasi il 30% che oggi separa, per difetto, gli introiti della Tasi rispetto all’Imu. Insomma, una buona notizia per i cittadini, certamente meno per le amministrazioni.

Tante idee ma confuse

Tante idee ma confuse

Stefano Lepri – La Stampa

Di nuovo importanti scelte annunciate sembravano decadere a «linee guida» per poi scomparire del tutto nel Consiglio dei ministri di oggi. E allora è bene cercare un significato di insieme di ciò che ribolle dentro il governo di Matteo Renzi, tra promesse e retromarce, azzardi e smentite. Dei contrasti non c’è da stupirsi, dato che per fare riforme vere occorre scontentare molti interessi; ma la confusione di idee è grande. La salutare intenzione di rompere tabù annosi si intreccia con ipotesi di stravecchie misure conformi a vecchi modelli politici. Nessun «cambio di verso» ci sarebbe ad esempio nell’assumere senza concorso decine di migliaia di precari della scuola.

Nelle bozze del provvedimento «Sblocca Italia» oggi all’esame compaiono insieme interessanti novità ed erogazioni di tipo clientelare. Un modo diverso di governare non può certo emergere già bell’e formato. Il guaio è che il fronte tra vecchio e nuovo molto spesso non si capisce dove passi, e nemmeno tra chi. In parte si tratta ancora di inesperienza, da parte dei giovani oggi arrivati al potere con Renzi. Ma più passa il tempo, più si parlerà di carente abilità nel progettare.

Ad esempio l’importantissima questione delle partecipate degli enti locali è arrivata alla ribalta solo grazie all’impegno del commissario alla revisione della spesa Carlo Cottarelli. Si trova lì un nodo cruciale dei veri «costi della politica». Ma occorre saper distinguere. Un gran numero di società in annosa perdita, o con scopi poco attinenti al settore pubblico, può essere chiusa senza complimenti. Invece i trasporti locali, da dove viene gran parte delle perdite, devono essere riformati costringendo gli amministratori a tagliare gli sprechi. C’è una Autorità per i trasporti che ha cominciato a funzionare, esistono esempi in altri Paesi; una razionalizzazione su base regionale sarebbe utile seppur non sufficiente. Occorre però che i ministri si facciano carico di elaborare proposte.

Un altro esempio sono le privatizzazioni. È salutare che si sia rivelata un bluff la privatizzazione delle Poste, azienda dove il confine tra le aree di servizio pubblico e quelle di mercato rimane alquanto oscuro. È interessante che si discuta di ridurre la quota dello Stato in Eni ed Enel oltre limiti che finora venivano considerati invalicabili: ma si chiarisca anche a quale scopo.

L’Eni, di gran lunga la componente più valida dell’industria di Stato, negli anni ha funzionato come importante strumento per approvvigionarci di petrolio. Oggi la sensazione – diffusa tra i Paesi amici ed alleati – che condizioni un po’ troppo la politica estera italiana è solo il riflesso politico della crescente difficoltà economica di fare scelte energetiche indipendenti su scala solo nazionale. Prima di decidere che fare dell’Eni, occorre avere un’idea di quali scelte in materia di energia farà l’Europa nel suo insieme; Vladimir Putin ce ne impone l’urgenza. Una ipotesi possibile è che invece di muoversi in ordine sparso le imprese di Stato esistenti in vari Paesi dell’Unione possano trovare strategie comuni, forse persino unirsi.

Perché i progetti ancora latitano? Il rischio sta nella via breve di un ritorno al primato della politica: ovvero che i nuovi arrivati al potere con Renzi si limitino a proporre la novità di se stessi, magari inventando nemici di comodo per sfruttare a proprio vantaggio l’insofferenza contro tutte le élites. Non può funzionare. Trovare consenso al dettaglio, con favori all’una o all’altra categoria (pensionandi o supplenti o altri ancora), è oggi disastrosamente dispendioso. Solo mostrando una visione di insieme si può consolidare il consenso dei cittadini in quanto cittadini.

San Matteo non ha fatto il miracolo

San Matteo non ha fatto il miracolo

Mario Deaglio – La Stampa

Il coraggio – sospira Don Abbondio nel XXV capitolo dei «Promessi Sposi» – uno non se lo può dare. E nemmeno la fiducia, siamo tentati di aggiungere, guardando ai dati, appena resi pubblici dal’Istat, sul clima di fiducia degli italiani che segnalano una netta caduta per il terzo mese consecutivo. Il giudizio degli intervistati è peggiorato su quasi tutto: molto sulla situazione economica dell’Italia, poco o nulla sulla situazione economica attuale della loro famiglia, per la quale, però, è aumentato il numero di quanti si aspettano un peggioramento imminente. Rispondendo alle varie domande del questionario, gli intervistati, quando non vedono nero, vedono tutto con lenti con varie gradazioni di grigio. Questo clima nazionale di sconforto è tanto più deludente in quanto la caduta dell’indice di fiducia segue una sua impennata decisa di inizio anno (spesso attribuita a un «effetto Renzi») che l’aveva quasi riportato ai valori del 2008, ossia all’inizio della crisi.

Per fortuna il clima di fiducia non si traduce necessariamente in comportamenti, così come la salita primaverile non ha portato a una corsa agli acquisti, c’è da sperare – mentre invece le associazioni dei consumatori ne traggono previsioni infauste – che non andiamo incontro a uno «sciopero dei consumatori», peraltro già molto «svogliati» negli ultimi mesi. Dopo l’aggiornamento di questo indice è però più difficile pensare a un aumento, anche piccolo, dei consumi privati. Il «bonus» mensile di ottanta euro che dieci milioni di lavoratori stanno incassando non solo non ha inciso, come già si sapeva, sulle abitudini di spesa, ma non ha neppure aumentato il «buon umore economico» degli italiani. I motivi per i quali il «bonus» – una misura generica di rilancio, meno efficace di misure «mirate» a determinati settori economici o segmenti sociali – non si sta traducendo in un aumento di consumi, ma, al massimo, in una loro stabilizzazione sono nascosti nelle pieghe dei bilanci famigliari. E’ verosimile che, per non ridurre troppo il loro tenore di vita, negli ultimi 2-3 anni, molte famiglie abbiano contratto dei debiti e che usino quest’entrata mensile addizionale per ripagarli; è altrettanto verosimile che, prima dei normali beni di consumo, si pensi a spese sanitarie rinviate scarsamente coperte dal servizio sanitario nazionale (per esempio le cure dentarie).

Invece di attingere ai loro risparmi e convertirli in acquisti necessari, gli italiani continuano a investirli in titoli del debito pubblico che rendono pochissimo: ai tassi dell’asta dei Bot semestrali di ieri (nella quale la domanda si è rivelata molto abbondante, superando di oltre una volta e mezza la quantità offerta) il rendimento di 1000 euro basta appena a prendere un caffè ed e quasi dimezzato rispetto all’asta precedente. Certo, i titoli sono stati tutti acquistati da operatori finanziari, in parte esteri, ma una quota rilevante finirà, prima poi, grazie alla loro intermediazione, nei portafogli delle famiglie italiane che, per paura della crisi, esitano a utilizzare quelle risorse per spese necessarie.

Insomma, San Matteo Renzi ha dato una notevole scossa a molti aspetti del-la vita economica italiana e altre promette di darne con il prossimo Consiglio dei Ministri. Non è riuscito, però (ancora?) a compiere il miracolo di far sorridere gli italiani. D’altra parte, le notizie che giungono dal resto d’Europa mostrano che questo «male italiano» si sta lentamente diffondendo e che praticamente tutte le economie dell’Unione Europea sono in frenata. Per la prima volta ieri su organi di stampa tedeschi si è evocato lo spettro di una recessione,  attribuendone indirettamente la causa al conflitto ucraino che ha seriamente danneggiato le esportazioni della Germania (e dell’Italia) verso la Russia. Gli occhi degli europei, e non solo degli italiani, sono tutti puntati su San Mario Draghi, il quale, dall’alto dei 148 metri dell’Eurotower di Francoforte, dove ha sede la Banca Centrale Europea, sta preparando le sospirate misure «non convenzionali» che dovrebbero immettere denaro nell’economia, raggiungendo direttamente (ossia usando le banche principalmente come tramite) imprese desiderose di investire e famiglie desiderose di sottoscrivere prestiti per acquistare un’abitazione.

E’ ragionevole attendersi un miglioramento che permetta all’economia europea di non scivolare in deflazione, ma non aspettiamoci che le economie ripartano a razzo: in economia è difficile trovare dei grandi santi che risolvano i problemi. Milioni di italiani e di altri europei sembrano invece continuare a credere che la ripresa deve scendere dall’alto, derivare da fatti esterni senza accorgersi che in buona parte la si crea giorno dopo giorno, avendo il coraggio di compiere piccole scelte, comprese quelle di acquistare i beni che servono con spese che rientrino nelle normali disponibilità delle famiglie e di varare piani di crescita che restino nell’ambito della normale attività delle imprese. Decine di milioni di famiglie europee, con la somma delle loro decisioni, determinano in buona parte il «clima economico». Questi milioni di piccoli miracoli individuali sono la condizione necessaria, anche se non sufficiente, perché ci scuotiamo di dosso quest’infernale recessione.

In economia meno potere agli Stati

In economia meno potere agli Stati

Stefano Lepri – La Stampa

Mario Draghi è oggi il primo degli europeisti. E si tratta di un europeismo democratico, non tecnocratico. Il suo discorso dell’altro giorno rappresenta in primo luogo una svolta radicale nella dottrina della Bce: l’economia nell’area euro non ripartirà senza un impulso – uno stimolo, per dirla all’americana – dai bilanci pubblici. Per realizzarlo occorreranno decisioni che esprimano l’interesse dei cittadini dell’area euro nel loro insieme; non basta la sommatoria delle politiche dei governi, che ci ha condotto nel vicolo cieco dove ci troviamo. Questo risulta dalla stringente analisi economica condotta da Draghi; ovviamente trarne le conclusioni spetterà ai politici. Ne saranno all’altezza?

Nei mesi scorsi, il presidente della Bce era stato accusato di muoversi con troppa lentezza, timoroso di nuove rotture con i tedeschi. Per molto tempo, aveva proceduto a passi piccoli, talvolta quasi impercettibili, seppur con costanza. Infine, davanti a un pubblico americano a lui più vicino per studi e mentalità, ha compiuto un balzo. Alcune cose che ha detto stanno facendo, faranno scandalo in Germania. Ha detto che l’austerità degli anni 2011-12 era «necessaria» a causa dei difetti di costruzione dell’area euro, ma è stata anche eccessiva. Continua a sostenere che le riforme strutturali sono urgenti ma vi aggiunge – novità assoluta – che per la ripresa occorrono «politiche di domanda» ossia meno rigore di bilancio.

Si attenua l’ansia per l’eccessivo debito pubblico, di fronte a troppe persone senza lavoro. In parte, la crescita la può ottenere ciascuno Stato tagliando spese poco utili e abbassando le tasse (operazione politicamente ardua, perché le resistenze delle relativamente poco numerose vittime dei tagli sono più forti, all’inizio, della gratitudine dei contribuenti). Ma non basta.

Tuttavia non si possono infrangere le regole di bilancio europee, frutto della diffidenza reciproca tra gli Stati, giustificata dai passati comportamenti irresponsabili di alcuni tra essi. Ne risulterebbero contrasti capaci solo di condurre alla paralisi. Ma la somma di politiche nazionali che rispettano le regole produce, oggi, un bilancio troppo restrittivo, recessivo, per l’insieme dell’area euro. Questa è la vera «cessione di sovranità» che Draghi propone. Non dunque di esautorare governi liberamente eletti a favore di qualche gelido progetto tecnocratico. Tutt’altro: in nome degli interessi dei cittadini dell’area euro – soprattutto di quelli che sono disoccupati – occorre vedere che cosa aggiungere alle politiche dei governi nazionali. Ovvero, se lo Stato italiano ha troppi debiti per spendere, gli investimenti necessari al futuro benessere nostro e del resto dell’area euro dovranno venire dal bilancio della Germania e degli altri Stati dai bilanci sani, o da quel programma comune promesso dal neopresidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker e a cui Berlino fa resistenza.

Nel gioco europeo sono dunque cambiate molte carte in tavola. Ricordiamoci che fino a ieri la Bce sosteneva che le regole del Fiscal Compact, casomai, non erano severe abbastanza. D’ora in poi, pignolerie eccessive contro l’Italia sono escluse. Tanto più quando Draghi ricorda che la stessa Commissione europea esprime dubbi su uno dei parametri usati per definire l’«obiettivo di medio termine» dei bilanci pubblici. Dove sono gli ostacoli da superare? C’è in realtà una simmetria perversa tra il nazionalismo economico conservatore dominante in Germania e un nazionalismo di sinistra che, presente da tempo in Francia, trova ora le sue forme anche in Italia. Una Europa più vicina ai cittadini si costruisce, appunto, in Europa; non ridando potere alle classi politiche nazionali.

Sbagliato l’assalto alla previdenza

Sbagliato l’assalto alla previdenza

Walter Passerini – La Stampa

Puntuale come una sagra paesana, ogni fine agosto si celebra il tormentone delle pensioni, fatto apposta per demotivare il ritorno al lavoro e il rientro dalle vacanze. Le sembianze quest’anno vanno sotto il nome di prelievo di solidarietà, su cui si cimentano ministri, politici, contabili, liberisti, sovietologi e alchimisti vari. Alla insostenibile leggerezza degli assegni (l’importo medio annuo è di 11 mila euro lordi) si accompagna l’insopportabile leggerezza di Catoni e Censori che si divertono a gettare alcol sul fuoco, aumentando l’incertezza degli italiani e il loro umor cupo. Sulle pensioni non si scherza, simboleggiano e sostanziano non solo la capacità di avere un reddito, ma anche il patto di coesione sociale su cui si fondano le comunità e il patto di fiducia sui diritti acquisiti e sul futuro. Non può essere unicamente economico e contabile, quindi, il parametro su cui impostare la riapertura del cantiere pensioni, ad alcune condizioni.

La prima è che non si può fare cassa con la previdenza: le pensioni non sono né un bancomat né una slot machine. Gli eventuali risparmi della spesa previdenziale devono restare nel sistema previdenziale stesso. La seconda è che le pensioni non sono un campo di battaglia in cui consumare vendette: le storture ci sono, le ingiustizie pure (vedi i vitalizi di politici e parlamentari), e Robin Hood non è più in attività. Il rischio è illudere le masse che togliendo ai super-ricchi possano goderne i poveri. I Paperoni che guadagnano più di 20 mila euro lordi al mese sono 540, mentre sopra 3 mila al mese lordi ci sono 505 mila pensionati, che valgono 38 miliardi l’anno: poca cosa se li si vuole tassare al 10% con un prelievo di solidarietà. Il paniere si restringerebbe ulteriormente alzando l’asticella a più di 5 mila euro lordi al mese, che riguarda 140 mila individui, il cui sacrificio sarebbe ancora più inconsistente. I rimedi sinora proposti avrebbero un significato più simbolico che concreto. Nessuno ha oggi una ricetta del tutto convincente, anche perché per accontentare i contabili si abbassa l’asticella e l’alta tensione diventa micidiale. Cinque possibili le strade su cui far convergere opinione pubblica ed esperti, se si vuole dettare l’agenda ai politici. La prima è la costituzionalità, più ancora dell’efficacia, dell’eventuale prelievo di solidarietà. Già due recenti sentenze della Corte Costituzionale lo hanno bocciato. Sarebbe necessario un Fondo previdenziale, i cui proventi dovrebbero restare nel sistema pensionistico stesso.

La seconda è il valore delle pensioni. Il sistema contributivo riduce di un terzo il reddito medio percepito e rischia di creare una generazione di poveri. Oggi ci sono 13 milioni di pensioni retributive e solo 360 mila pensioni contributive, a cui vanno aggiunti 1,1 milioni di pensioni miste. Ma nel prossimo futuro il rapporto si rovescerà, creando potenziali bombe sociali nei sistemi di welfare.

La terza strada è il diritto all’informazione. Mentre il sistema retributivo legava con un coefficiente la pensione a stipendi e anni lavorati, oggi e domani la pensione dipenderà dai contributi effettivamente versati. Il cambiamento produrrà effetti depressivi sui redditi più bassi e insostenibili paradossi: chi vorrà lavorare oltre i 69-70 anni avrà una pensione superiore al 100% degli stipendi percepiti; i giovani e le donne, con una vita contributiva discontinua, si vedranno decurtare il reddito del 30%.

Per questo, ed è la quarta strada, si rende necessaria la busta arancione, un sistema di comunicazione che permetta ai cittadini di conoscere l’ammontare dei propri contributi e la simulazione del futuro assegno pensionistico. Cittadino informato, cittadino salvato? Forse nemmeno questo basterebbe, se non venisse affiancato, ed è la quinta strada, da un robusto rafforzamento della previdenza integrativa, più collettiva che individuale, per integrare un assegno pubblico che si preannuncia modesto. La questione previdenziale va legata alla questione del lavoro. Non si risolve trattenendo al lavoro più a lungo le persone, ma aumentando le entrate di nuovi lavoratori e di nuova linfa contributiva. E’ solo la creazione di nuovo lavoro che garantirà la sostenibilità del sistema pensionistico nel futuro.

Il paradosso delle ricette possibili

Il paradosso delle ricette possibili

Stefano Lepri – La Stampa

Mal comune mezzo gaudio? Purtroppo no, perché l’economia tedesca è molto diversa dalla nostra, e il Prodotto lordo del secondo trimestre in negativo lì fa indicare rimedi assai diversi da quelli più popolari in Italia. Tuttavia, l’occasione può essere colta per una azione comune: i dati di ieri mostrano logore, consunte, le ricette sia degli uni sia degli altri. Guai a intestardirsi, guai a cercare certezze nel passato: siamo in una situazione nuova, dove il declino dell’Europa (tutta, non solo l’area euro) è una assai verosimile prospettiva. L’area dell’euro soffre maggiormente perché, avendo con la moneta unica fatto una più ardita scommessa, ha trovato maggiori difficoltà a proseguirla nella crisi mondiale ancora in corso.

Le tensioni con la Russia sono reali e pesano sulla Germania più che su altri Paesi. Tolto questo fattore, i tedeschi dovrebbero evitare di dare la colpa soltanto ad altri – al resto dell’area euro che non funziona – o a fattori transitori. Così come noi dovremmo evitare di inveire contro l’austerità imposta da fuori nel 2011, dato che da quindici anni l’Italia non va. Non c’è però una simmetria. Il modello tedesco ha funzionato bene fino a ieri; si mostra ora insufficiente tanto a garantire una ripresa energica quanto a fornire certezze per il futuro (gli imprenditori investono poco pur avendone i mezzi). L’Italia, invece, proprio non va più; altro che correggerla, bisogna rifarla.

Per converso, sono le idee prevalenti in Germania e in altri Paesi nordici quelle che più fanno ostacolo a una efficace azione anticrisi. La banca centrale europea non ha potuto ancora risolversi ad attuare i rimedi eccezionali adottati dalla Federal Reserve americana, dalla Banca d’Inghilterra e dalla Banca del Giappone. Non è detto che siano risolutivi, ma sarebbe meglio provare.

Di nuovo Mario Draghi, alla sua prossima conferenza stampa il 4 settembre, dirà che la Bce resta pronta ad agire (con una massiccia espansione monetaria) in caso di pericolo, ma che il momento non è ancora venuto. Possono sbloccare questo stallo solo azioni incisive da parte dei governi di Roma e di Parigi.

Le obsolete certezze dell’establishment tedesco possono essere incrinate solo se Italia e Francia si dimostreranno capaci di far respirare nuova aria ai loro cittadini e alle loro imprese. E’ troppo sperare che alla successiva riunione del consiglio Bce, il 2 ottobre (per combinazione a Napoli anziché a Francoforte) Draghi possa riconoscere che il processo di riforma ha preso vigore?

In questo senso, in questo soltanto, la debole Italia può avere un ruolo di traino. I dati di ieri spazzano via ogni rischio che la Commissione europea ci chieda una manovra aggiuntiva nel 2014. Per il 2015 la Francia si è risolta ad annunciare che violerà gli obiettivi, come già tutti prevedevano. L’Italia può aprire il discorso nella maniera contorta propria dell’Unione: solo una legge di stabilità rigorosa ci potrà guadagnare un allentamento del rigore (restare appena sotto il 3% di deficit invece di scendere). Solo se sapremo eliminare sprechi e inefficienze noi, potremo rinfacciare al governo tedesco di aver rimesso a posto i suoi bilanci grazie ai guai altrui (120 miliardi di euro dall’inizio della crisi ad oggi in minori interessi sul debito, grazie allo spread con i Paesi deboli dell’euro).

Più difficile sarà risolvere il paradosso delle dottrine. In Italia molti sollecitano investimenti pubblici nonostante il debito; abbiamo soprattutto bisogno di creare condizioni più favorevoli per l’iniziativa privata. Al contrario in Germania, dove la spesa pubblica suscita diffidenza, occorrerebbero più investimenti di Stato e Regioni; gli industriali se ne sono accorti, può essere un inizio.