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Il doppio azzardo del premier

Il doppio azzardo del premier

Luca Ricolfi – La Stampa

Sono stato fin troppo facile profeta, tre giorni fa, quando ho provato a insinuare il dubbio che i mercati finanziari non l’avrebbero bevuta. Che i mercati, cioè, non avrebbero apprezzato affatto una manovra che, anziché tentare di risanare i conti pubblici, li sfascia ulteriormente, pianificando un aumento del deficit di ben 11 miliardi di euro. E così è stato, purtroppo: fra ieri e l’altro ieri lo spread dell’Italia rispetto alla Germania è tornato a salire. Si potrebbe pensare che questo peggioramento non sia dovuto a un deterioramento del giudizio dei mercati sui conti pubblici dell’Italia, ma al cattivo momento dell’economia europea e alle preoccupazioni sullo stato patrimoniale delle banche greche, ma purtroppo questa interpretazione, vagamente autoconsolatoria, si scontra con la pietosa realtà dei dati.

I dati: lo spread dell’Italia non è aumentato solo rispetto alla Germania, ma anche rispetto alla Francia, al Belgio alla Spagna, all’Irlanda, ed è migliorato solo rispetto all’inguaiatissima Grecia e al Portogallo. Si potrebbe pensare (e sperare) che nel giro di qualche giorno questa situazione di pericolo per i nostri conti pubblici rientri, e che i mercati si auto-tranquillizzino, o vengano tranquillizzati dal solito «aiutino» di Mario Draghi, o da una improvvisa conversione keynesiana di Angela Merkel. Il punto, però, è che anche nel più ottimistico degli scenari possibili, con l’Europa che ci lascia fare deficit e i mercati che continuano a prestarci denaro a basso costo, la manovra da 36 miliardi resta ad alto rischio. Ed è un vero peccato, perché la filosofia della manovra è più che giusta.

L’idea di fondo è di modificare la struttura dei conti pubblici facendo diminuire l’interposizione della Pubblica amministrazione (meno tasse e meno spese) e di farlo più dal lato delle entrate che da quello delle uscite, in modo da far respirare l’economia: se i numeri della manovra venissero rispettati, a fine 2015 avremmo sì più deficit pubblico, ma gli italiani si troverebbero ad aver pagato meno tasse. E altrettanto condivisibile è l’idea che, per far ripartire l’occupazione, si debbano ridurre i contributi sociali a carico del lavoro dipendente. Dov’è dunque il problema?

Il problema si annida in due passaggi assai delicati della manovra. Il primo riguarda la spending review: 15 miliardi di tagli delle spese improduttive, di cui circa 3 sulla sanità, sono facili da annunciare ma molto difficili da attuare, e questo per un mix di cattive e di buone ragioni: la resistenza della casta burocratica, ma anche la mancanza di piani di riduzione degli sprechi così analitici e così ben fatti da consentire riduzioni di spesa senza riduzione dei servizi. Lo scenario più probabile è un negoziato di Renzi e Padoan con gli Enti locali (e con i ministri!) per ridimensionare i tagli, seguito da un aumento della tasse locali. La reazione irritata del governatore del Piemonte, il renziano Chiamparino, all’annuncio dei tagli prelude precisamente a uno scenario del genere.

Ancora più delicato è il secondo passaggio, quello in cui si annuncia l’azzeramento dei contributi per le imprese che assumono. Qui molta enfasi è stata posta sul fatto che un’impresa risparmierà circa 9 mila euro per ogni assunzione a tempo indeterminato, ma si sta dimenticando che se i miliardi a disposizione sono solo 1.9, le assunzioni a contributi zero potranno essere appena 200 mila, ossia molte di meno delle assunzioni a tempo indeterminato totali (oltre 1 milione). Ma non si tratta solo di questo, ovvero della ridotta ampiezza della «platea» dei beneficiari. Il problema è che in una situazione in cui c’è molta capacità produttiva inutilizzata, gli sgravi contributivi si limitano ad alleggerire i conti delle imprese (più profitti, o meno perdite), ma difficilmente generano nuova occupazione perché per soddisfare i pochi ordinativi che le imprese ricevono quasi sempre basta e avanza la forza lavoro già occupata. Se anche nel 2015, nonostante lo stimolo del deficit, la domanda aggregata sarà debole, e il Pil resterà quindi stagnante (come il Governo stesso ammette), non vi sono motivi per pensare che l’occupazione totale possa crescere in modo apprezzabile: perché si abbia un aumento degli occupati, il Pil nel 2015 dovrebbe crescere almeno del 2%, eventualità che tutti gli osservatori escludono.

Ecco perché non sono molto ottimista. La decontribuzione resta un’ottima idea, ma se le risorse ad essa destinate sono così esigue, sarebbe di gran lunga preferibile concentrarle sulle imprese dinamiche. Il che, in concreto, può significare due cose: o riservare gli sgravi alle imprese che esportano, con conseguenti benefici sulla competitività (un’idea di recente lanciata da Oscar Farinetti); oppure riservarli non già ai neoassunti in generale (compresi i lavoratori che ne sostituiscono altri, andati in pensione o licenziati), ma ai lavoratori assunti su nuovi posti di lavoro, ossia ai casi in cui l’impresa incrementa l’occupazione rispetto all’anno precedente (un’idea suggerita dalla Fondazione Hume, con il contratto denominato job-Italia). Il vantaggio sarebbe che, in entrambi i casi, si avrebbe un effetto non trascurabile sul Pil, con benefici nei tre ambiti chiave: competitività, occupazione, entrate dello Stato.

Il premier contro il pessimismo dei mercati

Il premier contro il pessimismo dei mercati

Marcello Sorgi – La Stampa

Convocato nel mercoledì nero del crollo delle borse, con Milano che ha toccato il picco della negatività in Europa, il Consiglio dei ministri ha licenziato la legge di stabilità in un clima diverso da quello di svolta che Renzi avrebbe voluto, e che comunque s’è sforzato di costruire, presentando in serata nei dettagli la manovra da trentasei miliardi, «con il più grande taglio di tasse della storia della Repubblica». In sintesi, Renzi tende a dare un valore contingente al terremoto di ieri sui mercati e a prevedere risultati molto più immediati delle misure appena varate, sia in termini di rilancio dell’occupazione, grazie al drastico taglio dell’Irap e del costo del lavoro, sia in fatto di ripresa dei consumi e di crescita complessiva. Si tratta, com’è evidente, di una visione ottimistica del percorso che l’Italia ha di fronte. Renzi però sostiene che non c’è altra strada.

Qualificati osservatori economici, tuttavia, di quel che è accaduto ieri e del trend delle ultime settimane tratteggiano un quadro diverso e arrivano a conclusioni più preoccupate. L’alibi della Grecia in cui il governo Samaras spingerebbe per liberarsi in anticipo dei vincoli della Trojka non può bastare a spiegare la fuga degli investitori negli ultimi giorni dalla Borsa italiana e il brusco rialzo dello spread, che ieri ha toccato di nuovo quota 170 per assestarsi poi solo qualche punto più sotto. Il ritardo con cui l’agenzia Moodys ha consegnato il suo periodico rapporto (per la verità più positivo, o se si preferisce meno allarmato, del previsto) può aver determinato un’ondata di vendite, ma non fino al punto da provocare un crollo come quello che s’è avuto.

La verità, come ha ricordato giorni fa il presidente della Bce Draghi, è che la crescita globale nell’insieme sta rallentando, e in tale ambito la stagnazione europea non dà segni di movimento e la stessa Germania comincia a mostrare qualche segno di affaticamento. È in questa cornice che la Commissione europea – quella uscente presieduta da Barroso, che ha già spiegato come sia difficile fare sconti, e la nuova guidata da Juncker, con cui Renzi ha avuto una telefonata non del tutto rasserenante martedì – deve decidere se promuovere l’Italia e la manovra varata da Palazzo Chigi, accettando l’ottimismo della volontà di Renzi, o se rimandarla o addirittura bocciarla, abbandonandosi al pessimismo della ragione.

Sulla spesa il fronte più difficile

Sulla spesa il fronte più difficile

Stefano Lepri – La Stampa

La questione non è più tanto se la Commissione europea accetterà questi numeri, quanto se li considererà verosimili. Gli obiettivi che il governo si pone con la legge di stabilità approvata ieri sera appaiono validi. Le risorse per raggiungerli non è chiarissimo come saranno trovate; 3,8 miliardi dalla lotta dell’evasione fiscale e 15 da tagli alle spese sono cifre di grande ambizione. Matteo Renzi l’ha definita una manovra di bilancio «anticiclica», ossia, in gergo economico, volta a rilanciare l’economia. Non è esattamente così. Nelle grandi cifre, è grosso modo neutrale; scelta corretta rispetto all’intervento ulteriormente recessivo che sarebbe risultato da una applicazione schematica delle regole europee. Potrà essere espansiva se sarà costruita bene, sostituendo soldi ben spesi a soldi mal spesi. Al calo del prelievo fiscale, 8 miliardi aggiuntivi ai 10 già promessi, dovrebbe accompagnarsi una vera riduzione di spese poco utili. Potrà esserlo se le grandi riforme, come spera Piercarlo Padoan, avranno effetti pronti sulla fiducia di chi lavora e di chi investe.

Tre ipotesi sono possibili. Primo, gli interventi sulla spesa saranno maldestri; l’esperienza passata sui «tagli lineari» ci dice che cambiano poco e per di più non durano. Secondo, i tagli sono fittizi e il deficit 2015 oltrepasserà la soglia del 3%, con rialzo dei tassi sul debito e sanzioni europee. Terzo, i tagli saranno ben concepiti, e proprio per questo solleveranno una tempesta di resistenze. Purtroppo incidere sulle cattive erogazioni di denaro pubblico per una cifra così grande, 12,3 miliardi aggiuntivi rispetto alle misure già in corso, richiede che si colpiscano interessi costituiti ben capaci di difendersi. È già partita al contrattacco la politica locale, dove gli sprechi sono assai diffusi. Vedremo nelle prossime ore chi altri alzerà le barricate.

Solo riforme efficaci e un uso migliore delle risorse possono azzittire chi in Europa vorrebbe costringerci a una regola – quella dell’«obiettivo di medio termine» – sorpassata dall’evolversi della crisi. L’Italia l’aveva fatta propria, inserendola anche nella Costituzione, dopo gli enormi rischi corsi nel 2011; rispettarla quest’anno significherebbe altri posti di lavoro in meno. Tutta l’economia mondiale non riesce ad uscire appieno dalle difficoltà, come mostrano anche i dati giunti ieri dagli Stati Uniti; il ribasso del greggio segnala timori di recessione. E’ assurdo dare la colpa di tutto all’austerità nell’area euro, visto che anche Svezia e Svizzera sono in deflazione; varie sono le cause se anche la gran parte dei Paesi emergenti rallenta. In passato, il vincolo delle regole esterne ha fatto solo bene all’Italia, ponendo freni alla cattiva politica. Ora una azione di rilancio spetterebbe alla Germania, che ha i bilanci in ordine. Non lo vuole fare, per una debolezza politica interna che ributtata all’esterno sembra forza; e allora il male di gran lunga minore è che l’Italia temporaneamente vi si sottragga.

I rischi ci sono. Lo mostra la Grecia, che nell’attuale fase di calma dei mercati finanziari progettava di sottrarsi in anticipo alla sorveglianza della troika (Commissione europea, Bce, Fmi). Meglio che non lo faccia – si vede in queste ore – soprattutto perché politicamente non è stabile, elezioni anticipate non possono essere escluse, con una vittoria dell’estrema sinistra. L’Italia non è né fragile come la Grecia né altrettanto malmessa; però è anche otto volte più grande. Per questo gli altri Paesi dell’area euro diffidano di noi. Dobbiamo loro chiarezza di propositi; e, magari, anche la lucidità di indicare verso quali regole migliori potremmo muoverci tutti insieme.

Tre assunti al prezzo di due, grazie ai contributi azzerati

Tre assunti al prezzo di due, grazie ai contributi azzerati

Marco Sodano – La Stampa

Risparmiare quasi novemila euro su una busta paga che al lordo ne costa 22mila: ecco cosa vuol dire, tradotto in cifre, l’annunciato azzeramento dei contributi per i neoassunti. Un impresa che abbia programmato – poniamo – due assunzioni ne potrà fare, con gli stessi soldi, tre. Almeno, sempre stando all’annuncio dato dal premier Matteo Renzi, nei primi tre anni di lavoro dei nuovi arrivati. Il taglio complessivo del costo del lavoro arriverebbe al 35%. Cifre che lasciano prevedere un grande successo per il contratto a tutele crescenti che il governo si prepara a far diventare legge con il Jobs Act.

Certo, al momento degli annunci seguirà per forza di cose la fase della calibratura: probabile che l’azzeramento vero e proprio, fatti i conti, sia possibile solo per alcune fasce di reddito. Altre potrebbero avere sconti meno consistenti, ma la base è quella di un intervento davvero incisivo. Resta da capire se i numeri reggeranno alla prova della calibratura. Scettica Susanna Camusso: «La domanda è come verrà compensato l’azzeramento. Dire che non si pagano dei contributi significa dover governare una copertura previdenziale per questi lavoratori». Il ministro del Lavoro Poletti garantisce: «I contributi saranno pagati comunque, dallo Stato». Tuttavia, il segretario della Cigl sostiene che la cifra messa sul piatto, un miliardo e mezzo, sarebbe più efficace «se utilizzata in un piano di assunzioni e lavori da fare».

La Fondazione Hume ha provato a fare due conti (sia pure con gli elementi, non precisissimi, a disposizione), rifacendosi ai dati disponibili (anno 2013). I numeri del Ministero del Lavoro parlano di quasi 1,6 milioni di assunzioni, quelli dell’Istat che lo stipendio netto medio era di mille euro. A queste condizioni, applicare la decontribuzione a una platea così ampia costerebbe nove miliardi l’anno. Più che troppo. È però anche vero che qualcuno potrebbe aver trovato più di un lavoro: i dati parlano di assunzioni, non di persone. Considerando allora solo gli assunti a tempo indeterminato nel 2013 che nel 2014 non avevano cambiato o perso il lavoro il costo complessivo di una decontribuzione totale assomma a 3,7 miliardi l’anno.

Bisognerà infine valutare anche altre variabili: anzitutto, lo sconto sarà applicabile solo ai nuovi contratti a tutele crescenti, e quindi non prima che il Job Acts sia diventato legge, nei primi mesi dell’anno prossimo (e questo potrebbe voler dire che nel 2015 basteranno 700 milioni). In secondo luogo, che le cifre prese in considerazione dalla Fondazione Hume riguardano le assunzioni effettive del 2013. La decontribuzione è studiata per aumentare il numero dei neassunti. Più funziona più costa.

Il vero peso delle misure in arrivo

Il vero peso delle misure in arrivo

Luca Ricolfi – La Stampa

Nel giro di pochi giorni la cosiddetta «manovra» per il 2015 è passata da 20 a 30 miliardi di euro. Secondo Renzi «si tratta della più grande operazione di taglio di tasse tentata in Italia e di una spending review mai vista». Ma in che cosa consiste la manovra? Se dovessi spiegarla ai miei studenti la metterei così. Cari ragazzi, quando un governo fa una manovra ci sono sempre un lato propagandistico e un lato effettivo. Sono importanti entrambi, ma vanno tenuti ben distinti. Il lato propagandistico è rilevante perché serve a comunicare le priorità del governo. Con la manovra annunciata ieri, Renzi ci dice tre cose tutte e tre sacrosante e condivisibili. Primo: che vuole ridurre drasticamente gli sprechi della Pubblica amministrazione, con una spending review di 13,3 miliardi. Secondo: che vuole ridurre drasticamente le tasse, con sgravi pari a 18 miliardi di euro (di cui 10 per il rinnovo del bonus da 80 euro). Terzo: che vuole azzerare i contributi per i nuovi assunti a tempo indeterminato.

Fin qui tutto bene, il messaggio è chiaro, anche se in conflitto con quanto annunciato in precedenti occasioni e documenti ufficiali (nell’ultima intervista sulla spending review, ad esempio, i miliardi risparmiati non erano 13,3 ma 20, dopo essere stati 17 fino al giorno prima). Adesso però guardiamo il lato effettivo, ossia la sostanza della manovra. Che cosa contiene effettivamente la manovra da 30 miliardi di cui si sta parlando in questi giorni? Per capirlo dobbiamo dimenticare completamente la parte propagandistica e rispondere a tre domande: di quanto diminuiscono le spese totali della Pubblica amministrazione? Di quanto diminuiscono le entrate? È realistica la promessa di azzerare i contributi sociali ai nuovi assunti a tempo determinato?

Ed ecco le risposte, o meglio quel che si riesce a capire in attesa di un documento ufficiale. Le spese della Pubblica amministrazione non si riducono affatto di 13,3 miliardi ma solo di 4,1 miliardi, perché accanto ai 13,3 miliardi di tagli programmati ve ne sono 9,2 di nuove spese, come il finanziamento degli ammortizzatori sociali, gli obblighi contratti dal governo Letta, o le cosiddette spese inderogabili. Le tasse pagate dagli italiani non si riducono affatto di 18,3 miliardi, perché gli sgravi promessi sono bilanciati da 5,2 miliardi di nuove entrate, e quindi la riduzione effettiva della pressione fiscale scende a 13,1 miliardi di euro (che comunque non è poco). Va da sé che la differenza fra minori tasse (13 miliardi di sgravi) e minori spese (4 miliardi di riduzione della spesa pubblica) verrà coperta in deficit, ovvero messa in conto alle generazioni future. Quanto alle assunzioni a zero contributi bastano alcuni semplici calcoli per scoprire che potranno riguardare al massimo 1 caso su 10, ossia 100-150 mila persone su oltre 1 milione e mezzo di assunzioni a tempo indeterminato.

Fin qui i conti nudi e crudi. Ma, al di là delle cifre, che giudizio si può dare della manovra? Difficile fare valutazioni senza un testo ufficiale. Per quel che riesco a capire, l’idea del governo è che aumentando il deficit di circa 10 miliardi e ritoccando la struttura del bilancio pubblico si possa dare una spinta significativa alla domanda interna. E’ una linea di keynesismo debole (facciamo deficit, ma non troppo) che mi auguro possa funzionare, ma che si espone ad almeno un paio di obiezioni.

La prima è che aumentare il deficit di «soli» 10 miliardi, e ridurre la pressione fiscale di soli 13 miliardi, potrebbe non bastare a far ripartire i consumi ma potrebbe essere più che sufficiente a far ripartire lo spread, con conseguente ulteriore aggravio dei conti pubblici. Non so perché così pochi osservatori lo facciano notare, ma è da circa un mese che la tendenza dello spread dei titoli di Stato italiani è all’aumento, ossia al peggioramento. Ed è da sei mesi che i mercati hanno ricominciato a differenziare i rendimenti richiesti ai vari Paesi dell’euro, un comportamento che nel 2011 ha preceduto e annunciato la bufera finanziaria che portò alla caduta di Berlusconi e all’insediamento di Monti. In questo senso la mossa di Renzi di aumentare il deficit anziché ridurlo potrebbe rivelarsi un azzardo.

La seconda obiezione è che il meccanismo previsto per stimolare le assunzioni, ossia la cancellazione dei contributi sociali per gli assunti a tempo determinato, ha tre difetti abbastanza gravi: riguarda pochissimi lavoratori (perché con 1 miliardo non si può fare molto), non si finanzia da sé (perché non aumenta in modo apprezzabile il Pil), ha effetti occupazionali trascurabili (perché non è vincolato al requisito di aumentare gli occupati).

È proprio per evitare simili inconvenienti che, nei giorni scorsi, su questo giornale abbiamo provato ad aprire una discussione su una proposta alternativa, quella di un contratto a decontribuzione totale ma riservato alle imprese che incrementano l’occupazione (il job-Italia). Un contratto che, secondo le stime della fondazione David Hume, creerebbe almeno 300 mila nuovi posti di lavoro all’anno, e non costerebbe nulla allo Stato. Non so se la nostra proposta sia la più efficace possibile, ma resto convinto che creare nuovi posti di lavoro, tanti nuovi posti di lavoro, sia una priorità assoluta per il nostro Paese, perché è la mancanza di lavoro l’elemento che più differenzia noi (e la Grecia) da tutte le altre economie avanzate. E’ questo, a mio parere, il terreno più importante su cui la manovra andrebbe giudicata: perché è questo il terreno su cui si gioca il futuro dell’Italia.

Sforbiciata sulla Sanità e sui trasporti per il pendolari

Sforbiciata sulla Sanità e sui trasporti per il pendolari

Paolo Russo – La Stampa

La legge di stabilità rischia di falciare i servizi sanitari delle regioni più virtuose e i treni dei pendolari. Il contributo richiesto ai governatori è ancora di 2 miliardi, anche se si tratta per abbassare l’asticella a 1,5-1,2 miliardi. Un taglio «fai da te», perché il governo non indicherebbe alcuna misura per conseguire il risparmio, ma lascerebbe mani libere alle Regioni. Libere per modo di dire, visto che 1’80% dei loro bilanci è assorbito dalla sanità e la restante parte in larga misura dal trasporto regionale. Messa così la sforbiciata altro non sarebbe che un taglio lineare, destinato a mettere con le spalle al muro proprio chi in sanità la spending review l’ha già fatta. Per indorare la pillola potrebbe non essere iscritta a deficit la spesa per investimenti, mentre un aiutino alle Regioni arriverebbe dalla conferma anche per il 2015 del 5% di taglio dei prezzi dei dispositivi medici.

Per risparmiare quei 2 miliardi il menù sanitario esiste già. È quello del Patto per la salute, sottoscritto appena a fine luglio da governo e Regioni che contiene misure per 10 miliardi di risparmio in tre anni. Quel Patto prevede prima di tutto la centralizzazione degli acquisti, sconosciuta a larga parte delle Asl del Sud. Poi la razionalizzazione della rete ospedaliera, con la chiusura e il riaccorpamento dei reparti sottoutilizzati o con performance scadenti. Tutte misure largamente applicate dalle regioni a Nord del Lazio. Dietro l’angolo potrebbe esserci l`aumento di ticket. A fine novembre i tecnici di Stato e Regioni sforneranno la proposta che riduce il numero degli esenti per rendere meno salato il contributo chiesto per visite specialistiche e accertamenti diagnostici.

Oltre due milioni di pensioni sotto i 500 euro

Oltre due milioni di pensioni sotto i 500 euro

La Stampa

Nel 2013 quasi la metà dei pensionati (il 43,5%, pari a 6,8 milioni di persone), aveva un reddito pensionistico inferiore a 1.000 euro al mese. Lo si legge nel Bilancio sociale Inps. Oltre 2,1 milioni di pensionati (il 13,4%) aveva un reddito inferiore ai 500 euro mentre quasi il 70% aveva meno di 1.500 euro al mese. Crollo dei lavoratori pubblici nel 2013: rispetto al 2012 – si legge nel Bilancio sociale dell’Inps – sono diminuiti di 64.491 unità (-2,1%). I dipendenti del sottore privato sono diminuiti di 140.195 unità (-1,1%) mentre i parasubordinati hanno perso oltre 100.000 iscritti (-9,3). Nel complesso gli iscritti sono diminuiti di 357.000 unità (-1,6%).

Nel 2013 è salita la spesa per ammortizzatori sociale. Al netto dei contributi figurativi l’esborso dell’Inps è risultata pari a 14.514 milioni, con un incremento di 1.982 milioni (+15,8%) rispetto ai 12.532 del 2012 a cui si aggiunge la spesa per contributi figurativi di 9.077 milioni, la spesa totale risulta pari a 23.591 milioni di euro, con un incremento di 938 milioni (+4,1%) rispetto ai 22.653 milioni del 2012. I lavoratori hanno percepito un ammortizzatore sociale sono stati oltre 4 milioni e mezzo: le prestazioni (tenendo conto che uno stesso individuo può aver fruito di prestazioni di tipo diverso) sono state 4.897.868, contro 4.330.905 del 2012, quindi oltre 560 in più.

L’incremento maggiore della spesa è stato rilevato per l’indennità di mobilità che ha superato il 17%; la spesa per la Cig nel suo complesso è cresciuta del 9,6% mentre la spesa per indennità di disoccupazione è calata dell’1%. La Cig in particolare ha coinvolto più di 1 milione e mezzo di lavoratori (+1,1% rispetto al 2012), la mobilità ne ha interessati oltre 300 mila e la disoccupazione nel suo complesso quasi 3 milioni e mezzo. «L’analisi dei dati riguardanti il numero dei beneficiari di ammortizzatori sociali nel 2013 – si legge nel Rapporto – testimonia il perdurare delle difficoltà affrontate da imprese e lavoratori italiani». La permanenza media pro capite in Cig è stata pari a 2 mesi e 4 giorni lavorativi.

L’ora degli esami per il premier

L’ora degli esami per il premier

Michele Brambilla – La Stampa

Domani il governo approverà la manovra. Vedremo come sarà. Da essa dipenderà, certamente, il futuro della nostra economia (almeno per i prossimi mesi): ma, probabilmente, anche quello del premier. Matteo Renzi sta infatti governando grazie a una formidabile apertura di credito ricevuta da una parte del Paese ben più numerosa di quella riferibile all’elettorato del suo partito. C’è tutto un mondo che per la prima volta, alle scorse europee, ha messo la ics sul simbolo del Pd nella convinzione che Renzi sia l’uomo giusto per dare il via a una serie di riforme di stampo liberale. Questo mondo finora ha dimostrato di saper aspettare, di non pretendere da Renzi, in pochi mesi, risultati che altri non hanno conseguito in decenni. Ma quanto durerà la pazienza? Insomma quanto durerà questa «apertura di credito»?

Prendiamo il Veneto, esempio perfetto. Da sempre è stato un feudo del centrodestra: nel 2010, Pdl e Lega insieme raggiunsero il 59 per cento. Quest’anno, in maggio, alle europee il centrosinistra ha vinto per la prima volta. Il Pd ha toccato il 37,52 per cento, contro il 21,6 di appena un anno prima (alle politiche): da solo, ha avuto più consensi di Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia e Ncd messi insieme. Non occorre un mago dei flussi elettorali per comprendere che una simile rivoluzione ha un nome e un cognome: Matteo Renzi. Il leader di centrosinistra che, alle orecchie degli imprenditori del Nord-Est, finalmente parla il loro linguaggio, e non quello di una vecchia sinistra, che è poi quella che ieri a Bergamo l’ha contestato.

Nei giorni di quell’exploit renziano, Luca Zaia disse: «La luna di miele tra Renzi e il Veneto finirà prima che arrivino le regionali». Ebbene, in questi giorni la Swg ha fatto un sondaggio appunto sulle prossime regionali, che si terranno in primavera, e i numeri direbbero che Zaia è in vantaggio di quindici punti sulla probabile candidata del centrosinistra, Alessandra Moretti, che pure nel maggio scorso, alle europee, aveva preso 230.000 preferenze, un’enormità. Non solo: il sondaggio darebbe il Pd attorno al 30 per cento, sette punti in meno rispetto a cinque mesi fa. Vero che il sondaggio è stato commissionato dalla Lega: ma il direttore scientifico della Swg, Enzo Risso, ha detto ieri al quotidiano L’Arena di Verona che un lavoro analogo gli è stato commissionato anche dal Pd, facendo capire che i risultati sono gli stessi.

Ora, è fin troppo banale sottolineare che le elezioni europee sono una cosa, e le regionali un’altra; che Zaia ha un seguito personale fortissimo, eccetera. Ovvio. Tuttavia, è innegabile – come filtra da ambienti di Confindustria Veneto – che tra gli imprenditori un po’ di impazienza cominci a circolare: «Renzi è venuto più volte qui in Veneto facendo grandi promesse, ora deve stare attento a non deluderle. La sua idea sul Tfr in busta paga, ad esempio, ha fatto venire molti mal di pancia». «Tra gli elettori passati dal centrodestra a Renzi comincia a montare qualche insofferenza», conferma Francesco Jori, scrittore veneto, autore di saggi sulla Lega. L’ex sindaco di Oderzo Bepi Covre, uno degli imprenditori leghisti che hanno votato per Renzi, dice che continua ad avere fiducia nel premier, ma pure che un cambio di passo non è rinviabile: «Il Pil Veneto nel 2014 sarà del più 2,5: come la Germania. Ma la media del Paese porterà a un meno 0,3 o 0,4: è chiaro che non si possono dare le stesse medicine per malattie diverse. Il governo deve restituire competitività alle piccole e medie imprese abbassando il cuneo fiscale. Più soldi in busta paga e meno tasse». Ieri a Bergamo Renzi ha promesso agli imprenditori proprio questo: meno tasse, almeno per chi assume. Non solo in Veneto, ma in tutta Italia, c’è tutto un mondo che lo giudicherà sulle sue parole.

Lavorare costa

Lavorare costa

Ernesto Felli e Giovanni Tria – Il Foglio

Luca Ricolfi ha esposto con un articolo sulla Stampa (8 ottobre) una proposta per determinare un immediato aumento dell’occupazione senza costi per il bilancio dello stato. La proposta si basa sull’idea, fino a questo punto non nuova, che una riduzione sensibile del costo del lavoro, via detassazione fiscale o contributiva, avrebbe un impatto rilevante sulla propensione ad assumere. La parte nuova della proposta sta nel fatto che essa si basa su una ricerca quantitativa sulla reazione positiva delle imprese a un eventuale ribasso del costo del lavoro di nuovi assunti e sulle implicazioni di questa reazione sulla possibilità di finanziare, senza costi per il bilancio dello stato, la detassazione necessaria a provocare le nuove assunzioni.

La proposta, denominata job-Italia, si basa sul fatto che, in base alla ricerca menzionata., un’azienda disposta ad assumere per ipotesi 10 lavoratori addizionali a legislazione vigente ne assumerebbe il doppio qualora la busta paga, cioè la retribuzione netta percepita dal lavoratore, fosse non il 50 per cento del costo aziendale ma l’80 per cento. Secondo la proposta, questo 20 per cento aggiuntivo, rispetto al salario netto in busta paga, sarebbe destinato a pagare l’Irpef del lavoratore e parte dei contributi sociali. Lo stato dovrebbe coprire la parte restante dei contributi sociali affinché il lavoratore non abbia una minore copertura contributiva. I calcoli di Ricolfi sono che l’occupazione aggiuntiva produrrebbe un gettito addizionale di entrate che coprirebbe ampiamente il costo derivante dal minore gettito contributivo. Questo tipo di contratto si dovrebbe applicare, secondo la proposta, solo ai nuovi assunti che risultino addizionali rispetto al numero già occupato nell’impresa, per un periodo massimo di quattro anni e per salari netti tra i 10 e i 20 mila euro. Richiamiamo questo studio,sia perché interessante in sé, sia perché indica un metodo di lavoro. Ovviamente, se uno vuole, si possono avanzare tante possibili obiezioni, come quasi su ogni proposta. Se la reazione positiva delle imprese non fosse cosi ampia un costo vi sarebbe perché la detassazione contributiva opererebbe su assunzioni che si sarebbero in ogni caso verificate.

Forse è da approfondire cosa accadrebbe dopo i quattro anni. Ma è anche vero che qualcosa si deve fare. anche tenendo conto dei vincoli in cui si opera. La vera questione e uscire dai calcoli statici ragionieristici. Nel caso in questione si potrebbe determinare un deficit temporaneo o forse no, ma l’analisi si deve basare su una dinamica attesa. D’altra parte le previsioni ordinarie di bilancio e di crescita cui siamo abituati si rivelano ex post talmente divergenti dagli eventi che non ci sembra che non si possa affrontare il rischio insito in ogni previsione. Se fondata, quando si tratta di varare qualche provvedimento sensato. Ma vi è un aspetto della sua proposta che lo stesso Ricolfi non sottolinea abbastanza e che è importante per rispondere alla domanda sul cosa succede dopo i quattro anni, problema insito in ogni provvedimento temporaneo.

Aprire un’impresa o ampliarla è rischioso, ancora di più lo è con aspettative negative sull’economia. La proposta di Ricolfi è interessante, secondo noi, proprio perché entra nella categoria di provvedimenti tesi a ridurre il rischio e non a sostenere con aiuti l’impresa, Ciò giustifica il provvedimento limitato ai nuovi assunti per distinguerlo da quelli tesi a ridurre in generale il costo del lavoro. In fondo, più aumenta il numero di assunzioni più aumenta progressivamente il rischio per l’impresa che la decisione non si riveli fruttuosa in termini di risultati attesi. Quindi la tendenza è di attestarsi sul livello più basso possibile di occupazione. In questa categoria di provvedimenti, d’altra parte, entra anche l’abolizione dell’articolo 18, la cui ratio è, appunto, ridurre il rischio d’impresa, non ridurre il costo del lavoro o minacciare i diritti sul lavoro.

Il limite della proposta di Ricolfi
È intorno al concetto dinamico di rischio che si deve operare. Negli anni Ottanta, quando ci fu il grande dibattito negli Stati Uniti sul “productivity slowdown”, fu avanzata la proposta di ridurre le tasse sui profitti delle imprese che avessero aumentato la produttività. L’idea era che non si dovesse aiutare l’impresa decotta o in difficoltà a sopravvivere ma spingere le imprese a innovare e ad avere successo. Ma poiché solo ex post si può vedere chi è riuscito ad aumentare la produttività, la soluzione proposta era quella di non abbassare ex ante il rischio d’impresa ma di aumentare ex post il premio al rischio. La proposta di Ricolfi sul lavoro addizionale anche se agisce ex ante rappresenta già il premio a un’azione compiuta, quella di assumere nuovi lavoratori, ma perché non studiare un premio al rischio con una detassazione successiva, sui profitti, collegata al successo dell’impresa, cioè con il passaggio dal contratto job-Italia al contratto ordinario reso possibile, evidentemente, dall’aumento di produttività ottenuto nel frattempo?

Le riforme diventino europee

Le riforme diventino europee

Franco Bruni – La Stampa

La proposta «job-Italia» esposta ieri da Luca Ricolfi su questo giornale parte dal fatto che la forte tassazione sul lavoro (il «cuneo») causa disoccupazione. Per aver più impatto propone di concentrare la detassazione sui primi anni di lavoro dei nuovi assunti con salari medio-bassi. Aumentando gli occupati e i redditi permette al fisco, gradualmente, di compensare il costo della detassazione. Se potessimo permetterci l’aumento temporaneo del deficit che la proposta implica, varrebbe la pena di tentare. Stimolare la convenienza a produrre e occupare, cioè l’offerta, è indispensabile perché ogni nuovo alito di domanda produca vera crescita. Il sussidio temporaneo di job-Italia sarebbe coerente col bisogno più generale di una riforma fiscale che riduca la tassazione sull’impiego di lavoro. Il modello internazionale di sviluppo economico sta privilegiando l’impiego di capitale al posto del lavoro: i regimi di tassazione dovrebbero attutire questa tendenza. Ridurre il cuneo non basta, ovviamente.

In Italia serve una riforma del lavoro del tipo di quella sulla quale il governo ha chiesto ieri la fiducia in Senato. Fra gli aspetti della riforma che sembrano emergere, in modo ancora disordinato e incerto, due vanno sottolineati per il legame con le esigenze poste dai cambiamenti nel mercato mondiale del lavoro. Il primo è il mutamento dell’assistenza ai disoccupati, il passaggio della difesa a oltranza del posto di lavoro all’aiuto al disoccupato, alla sua riqualificazione e reindirizzo a nuovi lavori. La tecnologia e la globalizzazione hanno già sconvolto le gerarchie di competitività, l’obsolescenza dei modelli di produzione, la distribuzione della forza e della capacità di sopravvivenza delle imprese. È una rivoluzione destinata forse ad accelerare nei prossimi anni: guai se non favoriamo il ricambio delle imprese, la mobilità del lavoro, la sua capacità di acquisire nuove competenze e adattarsi a nuove opportunità. Per questo aiuto al buon funzionamento del mercato del lavoro occorrono molte risorse. È grave che non si riesca a trovarle più rapidamente tagliando le spese pubbliche improduttive.

Se occorre spendere per assistere la disoccupazione, la qualifica e la crescita professionale del lavoratore avvengono soprattutto quando rimane occupato. Perciò 1’altro aspetto da sottolineare della riforma del governo sono le «tutele crescenti» del nuovo contratto a tempo indeterminato. Un aspetto collegabile anche alla proposta del job-Italia che qualcuno potrebbe trovare poco orientata a favorire la continuità dell’impiego: se diventasse più facile licenziare, dopo i quattro anni del sussidio che Ricolfi propone i nuovi posti di lavoro sarebbero a rischio. Ma se le tutele crescenti consistessero in un periodo molto più lungo, durante il quale va gradualmente aumentando l’esborso che l’impresa deve sopportare per risolvere il contratto a tempo indeterminato, gli incentivi dell’impresa cambierebbero. Le converrebbe offrire al lavoratore un rapporto che cresce in qualità e coinvolgimento e che gli permette di qualificarsi e riqualificarsi con continuità, in modo che la probabilità di doverne fare a meno si riduca parallelamente al crescere del costo del suo licenziamento. Anche gli incentivi del lavoratore cambierebbero. Ma il meccanismo delle tutele crescenti sarebbe mortificato se non si minimizzasse la possibilità di reintegri disposti dal giudice: l’importanza di «superare l’art. 18» è maggiore di quanto abbiano detto lo stesso Renzi e la Confindustria e non ha molto a che vedere col limitato numero di casi di reintegro oggi constatabili che, fra l’altro, non tiene conto di coloro che non sono stati occupati o licenziati (o sono finiti nel ghiaccio della cassa integrazione) a causa dell’eventualità del reintegro. La combinazione di detassazione alla job-Italia e di «tutele crescenti» potrebbe dunque aiutare a conciliare stabilità e flessibilità dell’occupazione. Ancor più se si accompagnasse a nuovi investimenti nella formazione scolastica e universitaria e nei suoi rapporti col mondo del lavoro e i suoi continui cambiamenti.

Ma lo sforzo di riforma nazionale non basta. L’articolazione e la dimensione del mercato del lavoro italiano saranno sempre meno adeguati per soddisfare chi offre e chi cerca lavoro nel nostro Paese. Dobbiamo pensarci parte di un mercato più ampio, in primo luogo europeo. Qualcuno ha detto che servirebbe un job-compact. L’Europa deve muoversi più velocemente nell’integrare i sistemi nazionali che regolano il lavoro e il Welfare e nell’affrontare, unita, i problemi occupazionali posti dalla tecnologia e dalla globalizzazione. L’incontro svoltosi ieri a Milano ha incoraggiato l’Italia a riformare ma non è andato lontano nell’impegnarsi in un vero progetto europeo. Speriamo sia l’avvio di un lavoro comunitario più coraggioso e lungimirante. I cambiamenti del mondo non si fermano e la disoccupazione, più o meno mascherata, potrebbe travolgere un’Europa che non sa esprimere una strategia che indirizzi le politiche nazionali del lavoro.