lavoratori

Il nostro mercato del lavoro è il meno efficiente d’Europa

Il nostro mercato del lavoro è il meno efficiente d’Europa

SINTESI DEL PAPER

Il mercato del lavoro italiano è ultimo per efficienza in Europa e 136mo su 144 censiti nel mondo. In termini di efficienza ed efficacia si situa infatti a un livello leggermente superiore a quelli di Zimbabwe e Yemen ed inferiore a quelli di Sri Lanka e Uruguay. Lo rivela un’elaborazione del Centro Studi ImpresaLavoro sulla base dei dati pubblicati dal World Economic Forum.
Rispetto al 2011 retrocediamo di 13 posizioni a livello mondiale in termine di efficienza generale del nostro mercato del lavoro e soprattutto perdiamo 19 posizioni con riferimento alla collaborazione tra impresa e lavoratore così come altre 15 per la complessità delle regole che ostacolano licenziamenti e assunzioni (hiring and firing process). L’unico settore in cui non si registra un arretramento dell’Italia è quello relativo alla partecipazione delle donne al mercato del lavoro: conserviamo infatti la comunque assai deludente 93ma posizione che avevamo raggiunto nel 2011.
L’indicatore dell’efficienza è in realtà un aggregato di più voci che bene evidenziano le difficoltà che il nostro sistema attraversa e rendono plasticamente l’idea del peggioramento delle condizioni del nostro mercato del lavoro negli ultimi tre anni. Inoltre, i principali indicatori analizzati ci pongono agli ultimi posti per efficacia nel mondo e, quasi sempre, all’ultimo posto in Europa. Tra i Paesi dell’Europa a 27, ad esempio, siamo ultimi per quanto concerne la collaborazione nelle relazioni tra lavoratori e datore di lavoro (ai primi tre posti ci sono Danimarca, Austria e Olanda). Siamo terz’ultimi per flessibilità nella determinazione del salario, intendendo con questo che a prevalere è ancora una contrattazione centralizzata a discapito di un modello che incentiva maggiormente impresa e lavoratore ad accordarsi. E proprio in tema di retribuzioni siamo il peggior Paese europeo per capacità di legare lo stipendio all’effettiva produttività. Dati questi che vanno letti assieme a quelli sugli effetti dell’alta tassazione sul lavoro: nessun Paese in Europa fa peggio di noi quanto a effetto della pressione fiscale sull’incentivo al lavoro. E siamo ancora ultimi per l’efficienza nelle modalità di assunzione e licenziamento: un indicatore particolarmente significativo, questo, perché evidenzia quanto questi processi vengano ostacolati dal complessivo sistema delle regole e da disposizioni quali quelle, ad esempio, dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Anche la qualità del personale impiegato mette in luce l’arretratezza del nostro Paese: siamo penultimi (davanti alla sola Romania) per la capacità di affidare posizioni manageriali in base al merito e non a criteri poco trasparenza (amicizia, parentela, raccomandazione) e finiamo in coda anche con riferimento alla capacità di attrarre talenti (quart’ultimi) e di trattenere talenti (23mi su 28).
«Questa performance negativa è frutto certamente dei difetti strutturali del nostro sistema ma i provvedimenti legislativi degli ultimi anni non hanno certo aiutato a migliorare la situazione» commenta Massimo Blasoni, presidente di “ImpresaLavoro”. «L’elaborazione del nostro Centro Studi chiarisce come i problemi del nostro mercato del lavoro siano da tempo sempre gli stessi e abbiano subìto un peggioramento piuttosto marcato rispetto al 2011, complice con ogni probabilità l’ulteriore irrigidimento delle regole stabilito dalla cosiddetta Riforma Fornero. Gli alti tassi di disoccupazione, soprattutto giovanile e femminile, e i cronici bassi tassi di attività sono una diretta conseguenza di un sistema tributario e di regole che rendono sempre più difficile assumere e creare occupazione».
Scarica gratuitamente il Paper con tutte le tabelle dati elaborate dal Centro studi ImpresaLavoro “Il nostro Mercato del Lavoro è il meno efficiente d’Europa“.
Leggi il commento del Prof. Giuseppe Pennisi.
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Salvatore Zecchini.
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Lavoro manuale o fuga all’estero, gli under 30 davanti al bivio

Lavoro manuale o fuga all’estero, gli under 30 davanti al bivio

La Stampa

Loro cercano di mettercela tutta, rendendosi disponibili anche al lavoro manuale, ma la fiducia nel futuro è davvero scarsa, tanto da portarli a guardare all’estero come ultima spiaggia. Effetto mediatico e percezioni distorte? No, è un campanello d`allarme che forse non vogliamo sentire: solo il 10% delle ragazze e il 15% dei ragazzi italiani ritiene di avere in patria adeguate occasioni di impiego e cerca di reagire con pragmatismo e adattabilità a un avvenire ritenuto cupo.

Sono questi i risultati che si possono leggere nel Rapporto Giovani, curato dall’Istituto Toniolo in collaborazione con Ipsos e il sostegno di Fondazione Cariplo e di Intesa Sanpaolo, che da tempo esplora la galassia dei «millennials››. L’indagine è stata condotta su un campione di 1727 giovani di eta tra i 19 e i 30 anni. Oltre l’80% degli intervistati si dichiara pronto a svolgere un lavoro di tipo manuale, tre su quattro ambirebbero a un’attività in cui poter esprimere la propria creatività, senza badare troppo alla coerenza con i titoli di studio. L’85% dei maschi e il 90% delle femmine ritengono che l’Italia non offra possibilità di trovare lavoro ad un giovane con la preparazione posseduta e pensano di andare all’estero.

Di chi è la colpa? La crisi c’entra, ma non è l’unico motivo. Per il 30% il problema sono i limiti strutturali del mercato che dà poche occasioni, bassa qualità e contratti brevi e precari. In secondo luogo viene la situazione economica complessiva, al terzo posto la «preferenza data ai raccomandati», al quarto la «minore esperienza» (15,4%). Solo un intervistato su cento ritiene che i giovani rifiutino alcuni lavori. Per questo i giovani guardano anche al lavoro manuale, ma ad alcune condizioni: stipendio adeguato, lavoro creativo e flessibilità dell’orario. E nella classifica dei lavori preferiti compaiono quelli per le giovani generazioni oggi più facili da trovare, ma che sono di bassa qualità. Pochissimi consiglierebbero ad un amico di fare il telefonista di call center (35%), l’operatore di fast food (42%), o il distributore di volantini (15%).

E che cosa ne sanno i giovani del provvedimento governativo a loro dedicato partito a maggio? Poco o niente e rivelano una bassa fiducia sull’impatto generale che la misura potrà avere. Sulla Garanzia giovani, infatti, il 45% dichiara di non saperne nulla e il 35% di averne sentito vagamente parlare. Meno di un giovane su cinque la conosce abbastanza bene (14%) o molto bene (5%). Anche tra i «Neet», i giovani che non studiano e non lavorano e che rappresentano il target principale del provvedimento, la percentuale di chi la conosce abbastanza o molto bene risulta molto bassa (attorno al 22%). Riguardo agli effetti solo il 37% pensa che migliorerà molto o abbastanza il rapporto dei giovani con il mercato del lavoro. Prevalgono gli scettici con un 54% che afferma che cambierà poco o nulla. I meno convinti sono proprio i «Neet», per i quali la sfiducia sale al 58%.

«I giovani – afferma Alessandro Rosina, uno dei curatori del Rapporto Giovani – sono stanchi di promesse e annunci: vogliono solo fatti. Senza risposte credibili e concrete il rischio è quello di alimentare sfiducia, frustrazione e fuga verso l’estero. Preoccupa che l’80% concordi con chi pensa che per migliorare davvero la propria condizione, più che sperare nella Garanzia giovani, la scelta migliore sia quella di andare all’estero».

Le aziende cercano 30mila posti. Se sei straniero è più facile lavorare

Le aziende cercano 30mila posti. Se sei straniero è più facile lavorare

Francesco De Dominicis – Libero

L’Italia dei paradossi. Con migliaia di posti di lavoro «vacanti», perché non ci sono figure professionali all’altezza, e l’occupazione sempre meno «tricolore». Sono gli effetti della crisi e pure di un Paese che non è capace di formare i giovani secondo le effettive esigenze delle aziende né di mettere gli imprenditori di offrire «posti» con condizioni allettanti (o almeno ragionevoli) agli italiani, spesso superati dagli stranieri, più portati ad accettare condizioni, mansioni e salari snobbate dai «locali». Tuttora in piena crisi e forse non ancora completamente fuori dalla più dura recessione della storia, l’Italia si mette davanti allo specchio e scopre di non essere capace di far lavorare i suoi cittadini. Una fotografia piena di ombre che viene fuori mettendo insieme i risultati di due recenti ricerche.

Quella del Centro studi ImpresaLavoro rivela che l’analisi dei tassi di occupazione degli stranieri in Europa ci consegna un dato davvero curioso: l’Italia è uno dei pochi paesi dell’Unione europea in cui gli stranieri sono occupati più e meglio dei cittadini nazionali. I dettagli: la Penisola sconta un basso tasso di attività tra i suoi cittadini residenti (59.5%), di circa 9 punti inferiore alla media europea. E il nostro Paese, come accennato, è uno dei pochi in grado di garantire agli stranieri residente un tasso di occupazione migliore (61,9%) di quello che riescono a far segnare i cittadini italiani. Il dato, peraltro, è in controtendenza con tutti i maggiori paesi Ue: confrontando il tasso di occupazione dei francesi (70,6%) e quello degli stranieri residenti in Francia (55,9%), si scopre che i locali sono in vantaggio del 4,7%; in Germania i tedeschi (78.7%) sono in vantaggio del 13,7% sugli stranieri (65,0%). E ancora: in Spagna i locali sono avanti del 6,7%, in Gran Bretagna del 5%, in Grecia del 3,1%. Insomma, o l’Italia è troppo generosa o qualcosa non va.

Che il motore sia inceppato, in ogni caso, lo dimostra pure la ricerca della Cgia di Mestre: su ben 29mila nuovi posti di lavoro, quasi 8.500 corrono il rischio di non essere coperti perché non reperibili sul mercato del lavoro. C’è da dire che si tratta di un dato, quest’ultimo, molto inferiore a quello riferito al 2009 che, in termini assoluti, era pari a quasi 17.600. In buona sostanza, negli ultimi sei anni i «lavoratori introvabili» sono pressoché dimezzati. Di là dal calo, gioco forza cagionato dalla bufera finanziaria e dalla crisi, esiste una lunga lista di professioni poco «coperte», dove la difficoltà di trovare personale è molto elevata: si tratta di analisti e progettisti di software, tecnici programmatori, ingegneri energetici e meccanici, tecnici della sicurezza sui lavoro ed esperti in applicazioni informatiche. In questi ultimi sei anni, secondo l’analisi Cgia che ha messo a confronto i dari di quest’anno con quelli riferibili all’inizio della crisi, c’è stata una profonda trasformazione del mercato del lavoro, sia per la domanda sia per l’offerta. La geografia delle professioni – e con essa anche la graduatoria dei lavoratori più difficili da reperire – è mutata profondamente. Se all’inizio della crisi non si trovava oltre la metà degli infermieri e ostetriche, dei falegnami e degli acconciatori, nel 2014 le professionalità più difficili da trovare (per numero o per caratteristiche personali o di competenza) risultano gli analisti e i progettisti di software (37,7%), i programmatori (31,2%), ingegneri energetici e meccanici (28,1%), i tecnici della sicurezza sul lavoro (27,7%) ed i tecnici esperti in applicazioni informatiche (27,/1%), figure con alta specializzazione e competenza.

Gli stipendi degli statali valgono il 10,5% del Pil ma la media Ue è più alta

Gli stipendi degli statali valgono il 10,5% del Pil ma la media Ue è più alta

Paolo Baroni – La Stampa

Senza il blocco dei contratti, il giro di vite sul turnover e norme più severe per premi individuali, come ha certificato poco tempo fa la Corte dei Conti, l’Italia non sarebbe certo riuscita a mettere sotto controllo il monte salari dei dipendenti pubblici. E invece da qualche anno a questa parte il peso sul bilancio dello Stato pian piano sta scendendo al punto che l’Italia è entrata a far parte del club dei Paesi più virtuosi, collocandosi ben sotto la media europea: nel 2016 scenderemo infatti sotto la soglia del 10% del Pil. Oggi siamo ancora al 10,5%, contro il 19% della Danimarca, il 14,4 della Svezia, il 13,4% della Francia e l’11,5 della Gran Bretagna. Tra i grandi Paesi solo la Germania, con l’8%, riesce a fare meglio.

Comunque sia, anche se gli stipendi medi non sono altissimi (34.576 euro di media nel 2012), si tratta pur sempre di un mucchio di soldi: parliamo di ben 164 miliardi di euro di spese complessive nel 2013, 8 in meno rispetto al 2010 (-4,6%) quando il blocco dei salari ha toccato tutti i settori e tutti i comparti della Pa. Stando all’ultima versione del Def 2014 non solo la discesa non sarebbe terminata, ma anzi si prevede un’ulteriore riduzione dello 0,7%. Solo dal 2018, per effetto della ripresa del turnover e del pagamento dell’indennità di vacanza contrattuale 2015-2017, è prevista una inversione di tendenza con un aumento dello 0,3 per cento della spesa.

Ovviamente parliamo di medie, se si scende nel dettaglio, in un mondo dove i dirigenti sono tra i più pagati in assoluto di tutta l’area Ocse e dove la «truppa» è invece agli ultimi posti delle graduatorie, si vede che a patire di più i tagli sono stati i dipendenti degli enti locali che hanno dovuto sopportare «per intero» la diminuzione della spesa, mentre il settore statale si è mantenuto su livelli stabili (+0,2%) ed i dipendenti degli enti previdenziali hanno messo a segno un lieve aumento (+1%).

Ma se è vero che la spesa dello Stato ha beneficiato di queste norme sempre più rigide sul pubblico impiego, è anche vero – lo ammette la stessa Corte dei conti – che si è trattato di «misure severe ed eccezionali, non replicabili all’infinito e non aventi natura di riforma strutturale». Dopo cinque anni e più sostengono i magistrati contabili, il blocco della contrattazione va superato. Perché ha di fatto «impedito» la piena attuazione della riforma del 2009 quando vennero «privatizzati» i contratti del pubblico impiego con l’obiettivo di aumentare la flessibilità e riforma il meccanismo di calcolo degli stipendi.

Se il governo, come ha più volte detto, vuole procedere con la riforma del salario accessorio, spingere l’acceleratore sul recupero dell’efficienza e la valorizzare del merito individuale è obbligato a riprendere l’attività negoziale. È una questione «fisiologica», sottolinea la Corte dei Conti. E certamente, dopo sette anni di blocco, non è immaginabile una contrattazione che riguardi solo le regole e non i salari. Il problema è che riaprire il «file» contratti ha un costo non indifferente. È lo stesso governo, nei documenti di bilancio, ad indicare in base agli aumenti medi concessi nelle tornate precedenti un costo che a regime arriverà a quota 6,5 miliardi di euro. Ecco spiegato l’impasse di questi giorni. Al quale difficilmente si potrà sopperire con ulteriori tagli del numero dei dipendenti, già scesi di 200 mila unità nel giro di 4 anni. Perché andrebbe utilizzata di nuovo la leva del turnover e questo farebbe ulteriormente aumentare l’età media dei nostri travet, che in larga parte (50%) già oggi hanno più di 50 anni contro una media europea del 30% e dove la quota di laureati (34%) sfigura se rapportata ad esempio a quella inglese (54%). Con tutto ciò che ne conseguenze in termini di competenza, efficienza e produttività.

Stipendi assicurati e maxi tutele, i bonus nascosti del posto statale

Stipendi assicurati e maxi tutele, i bonus nascosti del posto statale

Stefano Filippi – Il Giornale

Il governo non aumenterà gli stipendi degli statali perché non ci sono soldi. Gli statali protestano, e sarebbe stato strano il contrario. È uno scandalo nazionale, uno stato datore di lavoro che non premia i suoi dipendenti in attesa da anni di uno straccio di aumento. Le categorie del pubblico impiego, come si dice nel gergo dei sindacati, si mobilitano.Addirittura le forze dell’ordine minacciano scioperi, e questo è molto meno scontato e anche un tantino esagerato.

Tutto vero, tutto giusto. Ma i dipendenti pubblici italiani dovrebbero anche guardare che cosa succede fuori dai loro uffici. Nel mercato del lavoro non protetto dallo stato-mamma succedono cose a loro sconosciute: cassa integrazione, licenziamenti, mobilità, contratti di solidarietà, accordi integrativi ridiscussi o cancellati. Fabbriche che chiudono, professionisti che non incassano, imprenditori che attendono di essere pagati proprio da quello stesso stato tiranno. Il quale ogni mese versa lo stipendio ai dipendenti ma non ne vuol sapere di saldare i debiti con i fornitori.

Se poi gli statali vorranno guardare fuori dai confini dello Stivale, scopriranno che per i loro colleghi le cose vanno perfino peggio. Negli altri Paesi del Sud Europa il blocco delle buste paga è prassi: succede nella Francia della grandeur dimenticata, in Spagna, in Portogallo. La cancelliera Angela Merkel sta seriamente meditando di fare lo stesso con gli statali tedeschi. In Grecia sono stati costretti a fare ben di peggio. Hanno licenziato, sotto il diktat della Troika. E adesso da quelle parti si sente aria di ripresa, quella che da noi non arriva.

In Gran Bretagna ci sono andati giù pesante. Il governo di Londra negli ultimi quattro anni ha lasciato a casa 500mila dipendenti pubblici e ridotto le tasse che servivano a pagare i loro stipendi: ora viaggia a ritmi di crescita che l’Italia si sogna mentre la disoccupazione è al 6,4 per cento, cioè ai minimi dagli ultimi sei anni, e la Banca d’Inghilterra prevede che il tasso di disoccupazione scenda sotto il 6 per cento entro dicembre. Significa che la gran parte degli statali licenziati ha già trovato un altro impiego.

Da noi non funziona così. Impiegati, insegnanti, ministeriali, militari, medici e personale sanitario e via elencando hanno un posto di lavoro che, per fortuna, è ancora garantito. Hanno uno stipendio sicuro che, per esempio, permette loro di ottenere un mutuo senza essere torturati dalle banche. Hanno la tranquillità psicologica di poter pianificare qualche investimento. E la maggioranza degli statali ha beneficiato del bonus mensile di 80 euro che alla fine dell’anno fanno quasi 1.000 euro negati ad artigiani, piccoli imprenditori, professionisti, partite Iva: tutta gente alle prese con la stessa crisi che colpisce gli statali, ma evidentemente sono meno tutelati. E per quanti lo incassano, il bonus è enormemente meglio di un rinnovo contrattuale che, (fonte Sole24Ore ), varrebbe poco più di 200 euro netti all’anno.

La battaglia del pubblico impiego per una busta paga che regga il costo della vita non è priva di ragioni. Alcuni dei privilegi storici di cui gli statali godono sono avviati al tramonto e se il governo decide qualche spremuta fiscale i lavoratori dipendenti non hanno modo di sottrarsi. Poliziotti e carabinieri (ma anche le forze di sicurezza che non possono permettersi di alzare la cresta) sono costretti a operare in condizioni spesso proibitive. Ma è lecito anche interrogarsi se una categoria di lavoratori finora soltanto sfiorata dalla crisi che ha travolto milioni di altri salariati non debba ora farsi carico di qualche sacrificio.

Statali all’acqua di rose

Statali all’acqua di rose

Il Foglio

I sindacati suonano tamburi di guerra contro il blocco degli aumenti contrattuali nel pubblico impiego dal 2015, annunciato dal ministro della Pubblica amministrazione, Marianna Madia. La Cisl ad esempio si allinea all’estremismo corporativo della Cgil di Susanna Camusso, minacciando mobilitazioni e scioperi contro quello che il suo segretario Raffaele Bonanni definisce “uno scandalo”. E si capisce, visto che la confederazione è assai presente tra i dipendenti ministeriali. Né Camusso né Bonanni, peraltro, hanno promosso riti di ringraziamento nei confronti di un governo che (per ora) non ha operato un solo taglio di personale nella Pubblica amministrazione – un taglio alla greca, per dire – né a livello di stipendi né di norme e benefici che sono particolarmente generosi. La stessa legge delega di riforma, istituendo la mobilità, ha voluto limitarla a cinquanta chilometri, escludendo quindi una serie di categorie protette: una mobilità dunque all’acqua di rose, visto che in tutte le metropoli del mondo gli impiegati e i dirigenti pubblici, come quelli privati d’altronde, affrontano spesso spostamenti quotidiani da una città all’altra per andare al lavoro. Per non parlare poi dello psicodramma generato dal dimezzamento dei permessi sindacali: per duemila ministeriali – soprattutto della Cgil – tocca tornare alla scrivania, il che rappresenterebbe nientedimeno che un gravissimo vulnus democratico, come ama ripetere spesso Camusso. Ma soprattutto è stata messa nel cassetto la trasformazione in senso privatistico dei contratti pubblici, l’unica soluzione per indurre le amministrazioni dello Stato a lavorare più e meglio, e anche per eliminare un ingiusto privilegio nei confronti dei dipendenti privati.

Si dirà che anche nello Stato ci sono i precari; ma poi si fanno le tradizionali periodiche infornate, come quella appena garantita agli insegnanti dal presidente del Consiglio, Matteo Renzi. Il posto pubblico, insomma, resta a vita e può tranquillamente ignorare la crisi, la globalizzazione, il mercato, oppure la flessibilità. Non solo. Rimane pure economicamente più vantaggioso che nel privato, visto che gli statali che nel 2010 guadagnavano in media 2 mila euro più degli altri lavoratori, oggi, nonostante tutti i blocchi contrattuali (ma percepiscono anche loro il bonus da 80 euro), continuano a superarli considerevolmente, anche di migliaia di euro, in settori come magistratura e forze dell’ordine. Altro che minacciare quotidianamente la calata nelle piazze. Per adesso i nostri sindacalisti hanno poco o quasi nulla di che lamentarsi, dovrebbero piuttosto ringraziare perché gli statali il famoso bisturi renziano non l’hanno visto neppure a distanza, e per questo accendere dei ceri ai loro (molti) santi in paradiso.

In comunicazione Madia vale zero

In comunicazione Madia vale zero

Domenico Cacopardo – Italia Oggi

La gentile ministra della funzione pubblica Marianna Madia ha dichiarato che anche per il 2015 le retribuzioni dei dipendenti pubblici rimarranno bloccate e ha precisato che «mancano le risorse». Per la prima volta, il governo fondato sulla comunicazione sbaglia totalmente proprio nel campo preferito: l’annuncio.

In effetti, dovrebbe essere messo in rilievo che, dato che il Paese è in deflazione, il potere di acquisto degli stipendi aumenta della percentuale di calo dei prezzi al consumo. Quindi, un’informazione corretta si sarebbe dovuta svolgere in positivo, come: «Benché i prezzi al consumo siano in caduta, il governo mantiene i livelli retributivi dei dipendenti pubblici».

A essere pignoli, qualcuno a Palazzo Chigi avrebbe potuto valorizzare un’altra verità: mentre in Spagna, in Grecia, in Portogallo, in Irlanda, insomma nelle nazioni in crisi, il pubblico impiego ha subito importanti tagli retributivi, in Italia né il prode Monti, né il meditativo Letta, né il pimpante Renzi hanno avuto il coraggio di affrontare il problema. Anzi hanno avuto il coraggio di non affrontarlo, non modificando le cose. I capi delle centrali sindacali si stanno giustamente comportando come gli ammiragli di Franceschiello che, in mancanza di munizioni e per il timore di sparare un colpo alle navi inglesi, ordinavano ai marinai: «Faciti ammuina!». In realtà sanno benissimo che se lo stipendio in busta paga è allineato a quello degli altri statali d’Europa (quella a 18), è il prodotto, cioè la produttività che è nettamente inferiore. Cosa che rende i «nostri», oggettivamente ben pagati.

L’altra novità riguarda la scuola: a settembre 2015 saranno assunti 150 mila docenti, ma dal 2016 in poi si diventerà insegnanti solo a seguito di concorso. Quindi, questo significa che, oltre ai residui delle graduatorie, ci sarà un’immissione di gente senza concorso con buona pace dell’art. 97 della Costituzione. Inoltre, in ogni scuola, ci sarà una «Task force» stabile per le esigenze di supplenza che si manifesteranno in corso d’anno. Il merito farà aggio sull’anzianità. La formazione continua sarà obbligatoria. Sarà introdotto lo studio della musica e lo sport nelle primarie, e storia dell’arte nelle secondarie. Sin dalla prima elementare sarà insegnata una lingua straniera. Dalla prima media l’uso del computer.

In questo cocktail di proposte (al momento, proposte), ritroviamo la «visione» molto elettoralistica che Renzi ha manifestato sin dal bonus di 80 euro assegnato a una certa fascia di percettori di reddito: la distribuzione di risorse di uno Stato sgangherato e in difficoltà. Prendiamo, per esempio, l’idea di creare un team di docenti in ogni scuola pronto a intervenire in caso di malattia dei colleghi con cattedra. Allora, se in una scuola si insegna l’italiano, la storia, la filosofia, la matematica, la fisica, la storia dell’arte, l’inglese, il team dovrà avere al suo interno tutte le competenze occorrenti per «supplire» alle assenze.

Lo capisce anche un bambino che una squadra di soccorso fissa, costa molto di più di chiamate di soccorso (supplenti) operate volta per volta quando, occorre. E, se per caso, si ammalano due docenti di storia e filosofia? Che prevederà la legge? Un soccorso a livello di provveditorato agli studi? E il merito? Una vuota parola gettate alla pubblica opinione per oscurare la realtà di assunzioni dirette di gente senza curriculum (e preparazione). Nemmeno Andreotti era così bravo. Insomma, il governo ha preso e prende gli italiani per scemi. In ogni annuncio di grandi, storiche novità, c’è la rimasticatura di vecchie decisioni già prese. L’ultima rimasticatura riguarda le case: la possibilità di procedere a modifiche interne senza alcuna autorizzazione comunale è legge dello Stato italiano da almeno dieci anni.

Leggetevi la Gazzetta Ufficiale, signori ministri, eccellenti capi di gabinetto e di ufficio legislativo. Utilizzate un programma qualsiasi di ricerca nel web e, prima di scrivere, leggete. Questo è un utile, affettuoso suggerimento: quando, infatti, gli italiani si renderanno conto di essere stati presi in giro da una compagnia amatoriale, potrebbero venirvi a cercare per chiedere conto di errori, sciocchezze e rimasticature.

Lavoro in Italia: gli stranieri trovano un’occupazione più facilmente rispetto agli italiani

Lavoro in Italia: gli stranieri trovano un’occupazione più facilmente rispetto agli italiani

SINTESI DEL PAPER

L’analisi dei tassi di occupazione degli stranieri in Europa ci consegna un dato davvero curioso: l’Italia è uno dei pochi paesi dell’Unione Europea in cui gli stranieri sono occupati più e meglio dei cittadini nazionali. Lo rivela un’elaborazione del Centro Studi “ImpresaLavoro” sulla base dei dati Eurostat del 2013.
L’Italia sconta un basso tasso di attività tra i suoi cittadini residenti (59,5%), di circa 9 punti inferiore alla media europea. Quel che colpisce maggiormente è però il fatto che, all’interno di un mercato del lavoro così complesso, il nostro Paese sia uno dei pochi in grado di garantire agli stranieri residente un tasso di occupazione migliore (61,9%) di quello che riescono a far segnare i cittadini italiani. Si tratta di un dato in controtendenza con tutti i maggiori Paesi dell’Europa a 28. Ad esempio il confronto tra il tasso di occupazione dei francesi (70,6%) e quello degli stranieri residenti in Francia (55,9%) segna un -14,7%; quello tra il tasso di occupazione dei tedeschi (78,7%) e degli stranieri residenti in Germania (65,0%) segna un -13,7%; quello tra il tasso di occupazione degli spagnoli (59,5%) e degli stranieri residenti in Spagna (52,8%) segna un -6,7%; quello tra il tasso di occupazione dei britannici (75,4%) e degli stranieri residenti nel Regno Unito (70,4%) segna un -5,0%; quello tra il tasso di occupazione dei greci (53,4%) e degli stranieri residenti in Grecia (50,3%) segna un -3,1%.
Il dato è particolarmente significativo se si osserva il confronto relativo ai cittadini extracomunitari. Solo altri tre paesi – oltre all’Italia – hanno tassi di occupazione più alti tra la popolazione extracomunitaria rispetto a quanto avviene per i propri connazionali. In Svezia il tasso di occupazione dei soggetti extracomunitari è più basso del 31% rispetto a quello degli svedesi. E il dato è molto simile anche nelle economie che sono per noi un benchmark naturale: nel Regno Unito la differenza è del 13,5%, in Germania del 20,2%, in Francia del 22%, in Spagna del 9,5%, in Grecia del 3,7%. In media, i paesi dell’Unione a 28 registrano tassi di occupazione tra i loro cittadini di circa 13 punti percentuali superiori a quelli degli extracomunitari residenti. L’Italia, come detto, fa eccezione e seppur di poco il tasso di occupazione dei cittadini extracomunitari (60,1%) supera quello dei cittadini italiani (59,5%) ponendo il nostro Paese al quarto posto in Europa, dietro soltanto a Cipro, alla Repubblica Ceca e – di pochissimo – alla Lituania.
Anche i soggetti che vengono in Italia da altri paesi UE sembrano avere una maggior capacità di collocamento rispetto ai nostri connazionali. Il tasso di occupazione degli stranieri comunitari nel nostro Paese (65,8%) è infatti di ben 6,3 punti superiore a quello dei cittadini italiani (59,5%). Davanti a noi, in Europa, ci sono solo la Polonia e la Slovacchia. Anche in questo caso, larga parte delle economie continentali avanzate riesce ad occupare meglio i propri connazionali che gli stranieri comunitari con differenziali che vanno dal 15% della Slovenia al 3,5% della Germania, passando per lo 0,5% della Francia e l’1,3% della Spagna. Fa eccezione, in questo caso, la Gran Bretagna che riscontra un tasso di occupazione tra i cittadini comunitari di quasi 4 punti superiore a quello dei sudditi di Sua Maestà.
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Libero
Il mercato del lavoro per decollare ha bisogno di maggiore flessibilità

Il mercato del lavoro per decollare ha bisogno di maggiore flessibilità

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

Travolti dalla messe di notizie economiche negative, deflazione per la prima volta dal 1959, recessione, rialzo della disoccupazione, calo delle entrate fiscali, diminuzione della produzione industriale, gli italiani e il dibattito che ne accompagna la giornata hanno perso di vista la principale criticità della loro non soddisfacente situazione. La stagnazione della produttività dei fattori produttivi, cioè la cartina di tornasole della scarsa competitività globale del Belpaese. Ed è curioso che, pur discettando quasi quotidianamente di Jobs Act e di riforma del mercato del lavoro, mai o quasi viene sottolineato il fatto che si tratta di una riforma che dovrebbe favorire, prima di tutto, la crescita della produttività. Perché l’Italia abbia il tasso di produttività tra i peggiori dei paesi Ocse è cosa nota: la rigidità in uscita dal mercato del lavoro disincentiva gli investimenti in nuove tecnologie perché troppo costosa è la riconversione a queste da parte del capitale umano più anziano; la rigidità in uscita dal mercato del lavoro produce un effetto «ClubMed», soprattutto nelle organizzazioni più sindacalizzate e pubbliche, col quale la rilassatezza derivata dalla sicurezza occupazionale prevale sulla necessità di dover fare ogni giorno meglio per garantirsi il lavoro; la rigidità del mercato del lavoro rende, poi, nei fatti impossibili le ristrutturazioni e le riorganizzazioni radicali finalizzate, quasi sempre, a recuperare competitività e produttività.

L’Italia ha scelto una disciplina dei contratti di lavoro che poco si sposa con l’anima più profonda del capitalismo, quella che spinge verso la crescita e il continuo miglioramento della produttività. Un mercato deve essere rischioso e anche un po’ ingiusto, nel senso che non deve offrire polizze assicurative implicite totali a chi vi lavora e non deve mirare a conseguire utopistiche situazioni di giustizia sociale. Utopistiche perché è ingiusto comunque condannare le coorti più giovani alla disoccupazione di massa per garantire diritti antiproduttività a quelle più anziane. Nella globalizzazione il mercato del lavoro è stato standardizzato nella propensione al rischio e nel livello di giustizia ritenuto ottimale soprattutto dalle decisioni del partito comunista cinese. Pechino è il principale motore della trasformazione in corso e i comunisti asiatici non amano eccessi di protezione dei lavoratori. In Cina il mantra è la crescita e nessun dirigente si sogna, pur dichiarandosi ancora marxista-leninista, di proporre un mercato del lavoro all’italiana. Perché per crescere nella contemporaneità servono moderate protezioni e un qualche livello di potenziale ingiustizia a danno dei lavoratori. Lo dicono i comunisti, cioè quelli che governano nell’esclusivo interesse dei lavoratori, non sono i Chicago boys a fare questa predica.

Zero strategia economica, ora c’è la prova

Zero strategia economica, ora c’è la prova

Gaetano Pedullà – La Notizia

Un giorno a destra, l’altro a sinistra, la nave Italia resta in mezzo a un mare. Di guai. Chiedete agli statali, che non sono solo i burocrati di uffici pubblici e ministeri. Ci sono le Forze dell’ordine e i vigili del fuoco che rischiano la vita, gli insegnanti che preparano i giovani alla vita, i medici che ci salvano la vita. Tutti lavoratori che però la loro di vita se la passano stringendo ogni anno di più la cinghia, visto che dal 2010 hanno le buste paga inchiodate. E siamo sinceri, sono buste paga misere.

Con la crisi che c’è fortunato chi ce l’ha la busta paga, si può obiettare. Ma è dagli statali che ci si aspettava la conferma di una rotta. Con gli 80 euro messi in tasca a milioni di italiani il governo aveva scelto una strada: darci più soldi per sostenere i consumi e dunque, a cascata, la produzione e la ripresa. Ad oggi l’aumento dei consumi non c’è stato, ma questo è evidente che non dipende dalla strategia quanto dalla esiguità delle somme fin qui restituite agli italiani.

Se Palazzo Chigi non intende perciò fare marcia indietro, coerenza vorrebbe la prosecuzione di una stessa politica espansiva delle risorse messe in circolo. Sboccare dopo tanto tempo le retribuzioni significava quindi semplicemente proseguire su un percorso già tracciato, tra l’altro togliendo ogni motivazione a chi accusa il premier di aver usato gli 80 euro come prebenda elettorale. Ieri però la Madia ha gelato tutti. Gli stipendi restano bloccati. Se prima si aveva una sensazione, ora c’è la prova: questo governo non ha una strategia economica e naviga a vista. Anzi, galleggia.