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Il convitato di pietra è la domanda interna

Il convitato di pietra è la domanda interna

Fabrizio Galimberti – Il Sole 24 Ore

A guardare alle grandezze finanziarie, l’economia italiana non sembra messa male: la Borsa, malgrado gli inciampi delle ultime settimane, segna un +17% rispetto a un anno fa, i tassi dei titoli pubblici (vedi l’asta BoT di ieri) sono ai minimi storici, i tassi pagati da famiglie e imprese sono anch’essi più bassi di un anno fa… Ma quando si passa alle grandezze reali la musica cambia.

L’inflazione ha cambiato pelle ed è diventata deflazione: dieci città vedono il segno “meno” nella dinamica dei prezzi. Anche se parte della discesa dei prezzi viene da una “deflazione buona” (legata alla tecnologia – vedasi il -9% sui 12 mesi dei prezzi delle comunicazioni), non vi è dubbio che la parte maggiore è una “deflazione cattiva”, figlia della debolezza della domanda. E il resto dell’economia reale? Il calo del Pil fotografa un Paese che prende una polmonite quando il resto del mondo prende un raffreddore.

Come risolvere questa discrasia fra economia finanziaria ed economia reale? Prima di rispondere menzioniamo un’altra discrasia, anzi due. Primo, non tutti i dati recenti sono negativi: alla fine dello scorso trimestre la produzione industriale è risalita, e la disoccupazione è scesa. Secondo, e più importante: i dati “fisici” e quelli della fiducia danno due letture completamente diverse. Sia gli indici Pmi che le inchieste sulla fiducia (delle famiglie e delle imprese), sia le attese di produzione che i “superindici” anticipatori dell’Ocse danno l’immagine di un’Italia che avanza. Anche se alcune di queste buone notizie devono essere prese con le pinze (per esempio, il livello degli indici Ocse indica, per ragioni tecniche, che l’Italia farà meglio rispetto a un “prima” desolante e che non che fa meglio degli altri Paesi), non vi è dubbio che le due letture sono diverse. Insomma, i dati non rimano. Cosa c’è, allora, «sotto ‘l velame de li versi strani»?

A questa domanda si può dare una risposta tecnica e una politica. La risposta tecnica riposa sul fatto che troppe statistiche sono ancora basate su un’economia di “grano e acciaio” e non colgono appieno il divenire di un apparato produttivo che – proprio sotto la sferza della recessione – cambia pelle: cambia la composizione dei prodotti, che non è catturata da indici a pesi fissi, cambiano i segmenti di valore aggiunto e le quantità fisiche sono inadeguate a raffigurare colori e contorni di un’economia che cerca nuove strade.
La risposta politica guarda a una società che ha riposto troppe e messianiche speranze nel nuovo Governo. Le riforme istituzionali, come il superamento del bicameralismo perfetto, sono importanti, anche per l’economia. Ma non hanno effetti immediati e consumano capitale politico.

Altre riforme, come quelle della pubblica amministrazione, sono – era inevitabile – annunci che attendono la fase decisiva dell’applicazione. E il Jobs Act potrebbe – e non è detto – migliorare il mercato del lavoro se detto mercato ricevesse il carburante della domanda. È la (mancanza di) domanda il convitato di pietra al tavolo delle riforme. Quando il Governo Renzi decise di destinare risorse a far ripartire l’economia, poteva agire sulla domanda (sgravi alle famiglie) o sull’offerta (sgravi alle imprese). L’investimento risponde al profitto netto atteso, e avrebbe potuto rispondere a sgravi su imposte e/o costo del lavoro; ma risponde anche e forse soprattutto alle prospettive di domanda, e in questo caso gli sgravi alle famiglie potevano aiutare.

Nella fattispecie, i famosi 80 euro non sembrano aver avuto molto effetto, anche se è presto per giudicare (sono arrivati a fine trimestre) e in ogni caso il giudizio dovrebbe prendere a paragone l’inconoscibile, cioè quel che sarebbe accaduto senza sgravio. Sulle prospettive della domanda pesa anche il futuro. Una piena adesione alle regole cieche del Fiscal Compact impartirebbe un altro duro colpo all’economia italiana. La strategia del Governo Renzi sembrava essere quella di affidarsi alla ripresa per validare a posteriori una politica di bilancio arrischiata, fondata su stime ottimistiche dei risparmi di spesa. E la ripresa non poteva che arrivare dal traino esterno, dato che l’economia italiana non può sollevarsi da sola. Questa scommessa era – ed è – l’unica possibile nell’immediato, e non è ancora persa. L’economia americana tira e la Cina non si ferma. Il punto interrogativo sta nel Paese motore dell’economia europea: una Germania che rallenta restringe sbocchi al nostro export. C’è solo da sperare che il rallentamento favorisca atteggiamenti meno sordi rispetto alle giuste richieste di flessibilità nelle regole di bilancio.

Ma l’economia non è fatta di solo export. La parte maggiore è la domanda interna, anche se l’export può fare da volano. E ci sono modi di favorire la domanda interna: le riforme a costo zero, da tempo proposte. In cima alle quali c’è l’allentamento della più pesante palla al piede che da troppi anni azzoppa l’economia: l’oppressione burocratica, l’incertezza e le lungaggini delle autorizzazioni, le frustranti litanie di ritardi e di veti… Nodi intricati che attendono ancora chi sappia porli in cima alla lista delle cose da fare.

Articolo 18, un brutto disco per l’estate

Articolo 18, un brutto disco per l’estate

Gaetano Pedullà – La Notizia

A voler usare un paradosso, adesso sì che abbiamo una possibilità di farcela. Se iniziano a vedere nero anche le agenzie di rating – le stesse che da Parmalat a Lehman Brothers non hanno mai azzeccato una previsione giusta – forse allora c’è davvero luce in fondo al tunnel dell’economia italiana. In realtà però l’orizzonte si fa più cupo. Dopo un lungo silenzio, nonostante l’inattesa discesa del Pil nell’ultimo trimestre a -0,2%, ieri è tornata a farsi sentire Moody’s, una delle grandi società che con i loro rating (cioè una valutazione della solidità patrimoniale) orientano i mercati.

Grazie ai loro giudizi, queste agenzie provocarono la grande crisi che nel 2011 fece impennare lo spread italiano, portando alla caduta del governo dell’epoca (Berlusconi) e presentando un conto miliardario sugli interessi del nostro debito pubblico. Per quella stagione Moody’e insieme a Fitch e Standard & Poor’s sono sotto processo. Ora la nuova sortita, a stretto giro dalla richiesta del presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, di cedere sovranità all’Europa per fare quelle riforme che noi non facciamo.

Un brutto segno che lascia intravedere il riattivarsi di quegli stessi centri di potere che solo tre anni fa, orchestrando proprio in agosto la tempesta perfetta dei mercati mondiali, ci misero in braghe di tela. Nel frattempo Alfano suona il solito disco per l’estate contro l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori e mezzo Pd è contrario. Il ministro Poletti deve essere andato in vacanza in un luogo lontano, come lontana è l’armonia nell’esecutivo. Moody’s & co. si leccano i baffi.

L’agenda di fuoco del governo tra fisco, lavoro e italicum

L’agenda di fuoco del governo tra fisco, lavoro e italicum

Renato Brunetta – Il Giornale

Recessione, spread su, borse giù. Autunno nero. Berlusconi non farà come la sinistra, che di fronte all’attacco speculativo contro il nostro debito sovrano del 2011 giocò al tanto peggio tanto meglio, imputando al governo in carica quello che, invece, dipendeva dalla crisi mondiale e dalla risposta inadeguata dell’Europa e della Banca centrale europea.

Le parole di Mario Draghi di giovedì scorso sono sacrosante. Sulle indicazioni del presidente della Bce dovrebbe confrontarsi il Parlamento, per definire finalmente una strategia seria e condivisa che porti l’Italia fuori dalla crisi. Ma questo non sembra. Per capire il paradosso, facciamo quattro passi indietro.

Dopo il Nazareno, il programma di Renzi era costituito da 3 grandi linee guida: 1) la legge elettorale, da realizzarsi nel più breve tempo possibile, in ragione della sentenza della Corte costituzionale; 2) la riforma del Senato, che nei giorni del Nazareno sembrava la meno urgente e la meno concordata e definita; 3) le riforme strutturali, per cambiare l’assetto economico, sociale e produttivo italiano, su cui Renzi aveva costruito la sua vittoria alle primarie. Jobs Act in primis.

Il presidente del Consiglio parte con la legge elettorale. Ma il dibattito alla Camera – ove, nonostante dovesse esserci una maggioranza blindata, si susseguono votazioni da brivido – finisce con la dimostrazione amara che proseguire con l’approvazione definitiva della legge elettorale al Senato è impossibile. Ecco che, allora, Renzi cambia la sua agenda, d’accordo con Berlusconi; insabbia l’Italicum e si inventa la priorità del superamento del bicameralismo paritario. Ottima mossa di realismo e opportunismo, che, però, finisce con la polvere sotto il tappeto.

Nel frattempo vengono messe in cantiere e approvate alcune delle cosiddette e tanto pubblicizzate riforme strutturali. Quelle, per intendersi, del #cambiaverso #lasvoltabuona . Anche in questo caso, le difficoltà che Renzi incontra alla Camera sul decreto Poletti lo portano alla cautela, e a rifugiarsi su argomenti, contenuti, provvedimenti meno divisivi, nella speranza che la congiuntura migliori. Proprio per questo, dopo il decreto Poletti, finito malamente e per approvare il quale il governo ha dovuto fare ricorso a ben 3 voti di fiducia, il premier rallenta sulla riforma del lavoro, il tanto sbandierato Jobs act , possibile fonte di conflitti interni. E proprio per questo non accelera neanche sulla riforma fiscale che, invece, vista l’approvazione in via definitiva della delega da parte del Parlamento già a febbraio, avrebbe potuto realizzare in poche settimane.

Insomma, pragmaticamente e opportunisticamente Renzi si trova a rinviare sulle riforme divisive, mentre si concentra sull’unica scelta su cui nel suo partito tutti sono d’accordo: il «bonus 80 euro», che serviva a vincere le elezioni europee. Poco importa se quel provvedimento ha poi scassato i conti pubblici, in quanto finanziato in deficit.

Fino al 25 maggio, dunque, le cose vanno esattamente come voleva l’intelligenza opportunistica del presidente del Consiglio: tutto il dibattito politico-istituzionale concentrato, da un lato, al Senato, sul superamento del bicameralismo paritario, di fatto innocuo, nonostante le fronde, dal punto di vista della tenuta (anzi, grazie al patto del Nazareno, di rafforzamento) della maggioranza di governo; dall’altro, sulla mancia elettoralistica degli 80 euro, forte collante politico per il suo partito, in vista delle elezioni.

Grazie poi agli errori e agli eccessi del Movimento 5 stelle, le elezioni europee segnano il trionfo del presidente del Consiglio. Gli danno quella legittimazione democratica che non aveva avuto ai tempi di #enricostaisereno e lo convincono, e qui sta l’errore, a proseguire nella politica del rinvio delle scelte difficili e potenzialmente divisive. Anche sul fronte europeo, Renzi sceglie la strada più semplice, vale a dire quella della richiesta di una non ben precisata flessibilità e indulgenza nei confronti dei conti pubblici italiani.

Questo è stato il grande errore di Matteo Renzi: non aver cambiato strada dopo la legittimazione elettorale. Ma si capisce anche perché lo ha fatto: nonostante le elezioni europee, infatti, i numeri in Parlamento non sono cambiati. Quindi il presidente del Consiglio sa benissimo di non avere una maggioranza sull’Italicum. Come non ce l’ha sulla riforma del mercato del lavoro e sulla riforma fiscale. E, dunque, su questi temi, è costretto a rinviare. A questo punto, su questo errore si abbatte poi la doccia fredda della recessione. Dato congiunturale, in gran parte esogeno, vale a dire fuori dalle responsabilità del presidente del Consiglio, che, però, gli scopre il gioco: quello di non aver affrontato le scelte difficili per la tenuta della sua maggioranza e per il suo partito, ma fondamentali per il Paese. E qui la critica non è solo di Draghi, ma di tutti gli osservatori internazionali.

Proprio per questo, in autunno l’agenda parlamentare di Renzi sarà infernale. Ci saranno in contemporanea la riforma costituzionale in discussione alla Camera e la legge elettorale al Senato. E le due cose, visto che viaggiano di pari passo, non potranno non influenzarsi a vicenda, in un gioco perverso: la tensione di un ramo del Parlamento non potrà non riflettersi sull’altro. In più, tra settembre (nota di aggiornamento al Def) e ottobre (legge di Stabilità) si aprirà la sessione di bilancio, che vuol dire la verità sui conti pubblici: manovra, tagli, tasse. Con il ritorno inevitabile delle riforme divisive, ma non più rinviabili: Jobs act e decreti legislativi di attuazione della delega fiscale, che non possono più aspettare.

Troveranno, il governo e il Partito democratico, la quadra sul mercato del lavoro, per esempio sulla moratoria per 3 anni dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori? Troveranno la quadra sull’Italicum, con modifiche in grado di accontentare simultaneamente Alfano e Berlusconi? Sulla manovra inevitabile da 25-30 miliardi nel 2014 e sulla legge di Stabilità per il 2015-2017? Tutto quello che nei primi 6 mesi di governo Renzi era stato opportunisticamente rinviato, in autunno non solo torna al centro del dibattito, ma diventa esplosivo.

Un’agenda infernale. Ha, il premier, dentro il Pd, una maggioranza che lo segua su tutti questi terreni minati? Mentre l’autunno rischia di essere un Vietnam per Renzi, per il centrodestra potrebbe diventare l’occasione per la rinascita, ritrovando l’unità, con la guida di Berlusconi e di Forza Italia. Lasciando per un momento da parte il patto del Nazareno, al contrario del centrosinistra, su lavoro, attacco al debito, taglio delle spese, taglio delle tasse, fisco, pubblica amministrazione, crescita, il centrodestra italiano è unito. Il programma, con gli opportuni aggiornamenti, è quello con cui nel 2013 la coalizione quasi vinse le elezioni. E in questo ha ragione il ministro Boschi: centrosinistra e centrodestra sono due mondi diversi, con programmi diversi. Ma la ricetta del centrodestra, guarda caso, coincide con quella di Mario Draghi e della Commissione europea. È la sinistra che è fuori rotta. Al presidente del Consiglio, Matteo Renzi, i nostri migliori auguri.

Dai debiti arretrati della Pa buco di 30 miliardi per le aziende

Dai debiti arretrati della Pa buco di 30 miliardi per le aziende

Paolo Baroni – La Stampa

Andranno anche in pagamento entro il 21 settembre, giorno di San Matteo, gli arretrati della pubblica amministrazione. E alla fine saranno almeno 60 miliardi di euro che torneranno in circolo. La «ferita» nei conti delle impresa però resta molto profonda. Solo l’anno passato – denuncia Impresa lavoro, centro studi di ispirazione liberale guidato dall’economista Giuseppe Pennisi – i ritardi nei pagamenti da parte delle amministrazioni pubbliche hanno comportato oneri per 6,8 miliardi, in deciso aumento dispetto agli anni passati. Perché nonostante lo stock di arretrati si sia lievemente ridotto, passando dagli 87,3 miliardi del 2012 ai 74,2 dell’anno passato, nel frattempo sono diventati più onerosi i finanziamenti bancari. se si allarga lo sguardo al periodo 2009-2013 si vede poi che il costo complessivo a carico del sistema produttivo è stato pari a 29,9 miliardi di euro. Un buco enorme, che ha avuto riflessi a cascata arrivando a “coinvolgere imprese subfornitrici e i dipendenti”.

Il Centro Studi ImpresaLavoro elenca così i principali effetti negativi, che sono minori investimenti operati dalle imprese in conseguenza della minore disponibilità di capitale, la riduzione di dipendenti e quindi la distruzione di posti di lavoro, i costi del dissesto delle imprese che, per le conseguenze dei ritardi di pagamento della Pa, si sono trovati in una situazione di insolvenza, fino ad arrivare (nei casi più gravi) al fallimento, e infine i costi diretti ed indiretti a carico dei contribuenti.

Questo perché, a partire dal 1 gennaio 2013, il recepimento di una direttiva europea ha obbligato tutta la pubblica amministrazione a versare gli interessi di mora sui ritardi, calcolati sulla base del tasso di riferimento Bce maggiorato di 8 punti percentuali su base annua. “Tale misura non compensa del tutto il costo del capitale a carico delle imprese italiane ma grava comunque sui cittadini italiani per oltre 3 miliardi di euro all’anno”. Anche questo un peso considerevole.

Del resto, come si evince dai dari Eurostat – segnala ancora ImpresaLavoro – “l’Italia è il paese che presenta il maggiore stock di debito commerciale, ed anche di quello insoluto. Già dal 2010, a il peggior rapporto tra debiti commerciali e Pil, superando sia la Spagna che la Grecia, gli unici in Europa a parte l’Italia a superare il 3% in questo rapporto”. E anche i tempi di pagamento medi della Pa italiana, in base alle stime di Intrum Justitia, sono ancora i più lunghi d’Europa.

I ritardi dei pagamenti ed i costi che le imprese sono costrette a sostenere producono una distorsione anche sul piano della concorrenza con i fornitori esteri che appartengono ai paesi più virtuosi: in termini di assorbimento di capitale, il costo di una fornitura standard per un’impresa italiana che lavora con la Pubblica amministrazione è infatti pari al 4,2% del fatturato ed è di gran lunga più elevato rispetto a quello di Germania (0,6%) e Francia (1,2%).

ImpresaLavoro, il nuovo centro studi liberale e liberista

ImpresaLavoro, il nuovo centro studi liberale e liberista

Francesco De Palo – Formiche

Un centro studi con piglio liberale e liberista per stimolare gli esecutivi a dare spazio ai temi cari alle imprese e al mondo dell’imprenditoria, nella consapevolezza che senza un taglio netto alla spesa pubblica e senza un abbattimento della pressione fiscale per le pmi, il Paese non potrà rialzarsi. E’ la traccia su cui si muoverà il centro studi ImpresaLavoro, una nuova realtà di analisi e paper fondata da Massimo Blasoni.

Biasioni è un imprenditore di prima generazione, con un’azienda di 1300 dipendenti che costruisce e gestisce residenze sanitarie, convinto che dove la politica ha fallito serve che intervengano direttamente le imprese e le idee di matrice liberale.

FARE COSA
Discutere di economia, approfondire tematiche e trend del Paese al fine di effettuate una sorta di “checking” sull’attività del governo e divulgare “numeri e tesi dei nostri ricercatori”, dice Blasoni a Formiche.net. Produrrà ricerche sulle tematiche che interessano il mondo del lavoro e dell’impresa, effettuerà sondaggi rivolti agli imprenditori e al mondo del lavoro , avanzando proposte misure e possibili soluzioni a sostegno dell’impresa italiana.

PERCHE’ IMPRESA LAVORO
“Diciamo che ImpresaLavoro assomiglia ad un altro soggetto come la Cgia di Mestre, ma sarà vicino agli spunti di centrodestra, con un profilo liberale e liberista”, spiega Blasoni. Uno degli obiettivi resta quello della rivoluzione liberale che in Italia ancora non si è fatta. In che modo? La spending review non è stata realizzata, “i 7 che poi sarebbero dovuti diventare 14 e dopo 32 miliardi di tagli non si vedono e forse non si faranno”. Senza quei tagli e senza una “vera sforbiciata – non omeopatica come gli 80 euro – alle tasse per le imprese l’Italia non uscirà dall’impasse”. E mette l’accento sul fatto che Palazzo Chigi non ha mostrato alcun coraggio in questa direzione, anzi, “siamo perfettamente consapevoli che sarà necessaria una manovra perché non vi è spazio nel rapporto deficit-pil”.

PAGAMENTI DELLA PA
Il primo paper prodotto dal centro studi – che vede come coordinatore l’economista Giuseppe Pennisi – è quello relativo ai pagamenti alle aziende da parte della Pubblica amministrazione.Immaginare che tutto possa essere risolto entro il prossimo 21 settembre, osserva Blasoni, “soprattutto alla luce della contrazione del pil mi sembra impensabile”. Secondo il presidente di ImpresaLavoro a questo punto il rischio concreto è che, anche per il 2014, le imprese saranno costrette a “subire” costi indotti dall’inefficienza pubblica del cattivo pagatore statale per 7 miliardi di euro: “Una tassa occulta che rischia di diventare insostenibile per un sistema produttivo già fortemente provato dalla difficile congiuntura economica, dalla stagnazione dei consumi e dalla stretta creditizia”.

NUMERI
Mettendo insieme, rileva Blasoni, quanto costa il denaro ad un imprenditore italiano e quanto il tempo di attesa, “mi rendo conto che il costo di lavorare per la PA in Italia è quattro volte più alto della Francia e sette rispetto alla Germania, per cui su 100mila euro di fornitura il 4,2% finisce per essere un costo”. Per cui, è il ragionamento su cui si basa l’azione del centro studi, quella cifra che la PA non paga in tempo alle imprese finisce per essere una zavorra sulla minor competitività delle stesse.

BOARD
Scorrendo il board di ImpresaLavoro si trova Giuseppe Pennisi, economista, già Banca Mondiale e dirigente generale dei Ministeri del Bilancio e del Lavoro; Cesare Gottardo, docente di materie economiche all’Università di Udine, dove insegna nelle facoltà di Agraria, Giurisprudenza e Ingegneria; Salvatore Zecchini, docente di Politica Economica Internazionale all’Università Tor Vergata di Roma, anche presidente del Gruppo di Lavoro dell’OCSE su PMI e Imprenditoria; Luciano Pellicani, già direttore di “Mondoperaio”, docente di Sociologia alla Luiss “G: Carli” di Roma; Carlo Lottieri, Direttore del Dipartimento di Teoria Politica dell’Istituto Bruno Leoni, è nel comitato di redazione del Journal of Libertarian Studies ed è Fellow dell’International Centre of Economic Research.

Un’agenda ragionevole

Un’agenda ragionevole

Francesco Giavazzi – Corriere della Sera

È evidente che Matteo Renzi considera il Pil (prodotto interno lordo) un oggetto un po’ noioso, e comunque la conseguenza, non il faro dell’azione politica. Egli ritiene – in questo seguendo uno dei migliori filoni della recente teoria economica, vedi ad esempio Daron Acemoglu e James Robinson, Perché le nazioni falliscono, Saggiatore 2013 – che il successo di un Paese dipenda dalle sue regole istituzionali e giuridiche. Senza buone regole crescere è impossibile. Di qui il suo impegno per superare il bicameralismo perfetto e soprattutto per riformare il Titolo V della Costituzione limitando l’autonomia irresponsabile delle Regioni. E tuttavia, se pur la sequenza è quella giusta, la differenza fra i tempi che Renzi si è prefisso per le riforme costituzionali e per quelle economiche, poche settimane le prime, mille giorni le seconde, fa sorgere il dubbio che egli sottovaluti la situazione del Paese.

Abbiamo (dati Istat per il mese di giugno) tre milioni e 153 mila disoccupati, 26 mila in più di un anno fa. Fra costoro 700 mila giovani di età compresa fra i 15 e i 24 anni. I giovani che non lavorano in realtà sono molti di più: 700 mila sono quelli che hanno deciso di mettersi presto a lavorare ma, pur cercando attivamente, non trovano nulla. Mentre nel resto dell’eurozona il tasso complessivo di disoccupazione ha cominciato a scendere, in Italia continua a rimanere sopra il 12 per cento (era poco sopra il 6% prima della crisi). Per abbattere la disoccupazione bisogna agire al tempo stesso sull’offerta e sulla domanda. Dal lato dell’offerta il provvedimento principe è la sostituzione dei contratti a tempo determinato e indeterminato con un contratto di lavoro unico a tutele crescenti: il Jobs Act di Renzi. Quel disegno di legge delega è stato presentato al Parlamento quattro mesi fa. Se si è completata la prima lettura di una riforma costituzionale in poche settimane, non si capisce perché il Jobs Act non possa essere approvato da Camera e Senato entro metà settembre, in modo da consentire al governo di emanare i decreti delegati insieme alla legge di Stabilità il 20 ottobre.

Sempre dal lato dell’offerta, la grande risorsa sprecata sono le donne. La loro partecipazione al mercato del lavoro è di dieci punti sotto la media europea. E non è solo colpa del Mezzogiorno: vi è la medesima differenza fra Lombardia e Baviera. Inoltre, quando una donna italiana lavora, la probabilità che dopo un parto ella riprenda a lavorare è solo del 50%. Marco Leonardi e Carlo Fiorio (www.lavoce.info) propongono di incentivare il lavoro femminile sostituendo le detrazioni per il coniuge a carico (che costano circa 3,5 miliardi di euro l’anno e non hanno alcun effetto sul lavoro femminile) con un assegno pagato direttamente alle donne con figli che lavorano, magari proporzionale al numero dei figli. Il Parlamento ha approvato, l’11 marzo scorso, una legge delega che consente al governo di ridisegnare da zero il nostro sistema fiscale (anche riprendendo l’idea, sperimentata per la prima volta durante il governo Monti, di una tassazione differenziata a favore delle donne). L’attuazione della delega è un’operazione delicata perché muterà gli incentivi a lavorare e a investire. Ma il fatto che sia delicata non significa che richieda tempi eterni.

Il governo potrebbe nominare già la prossima settimana una Commissione tecnica (sul modello della Commissione Visentini che ridisegnò il nostro sistema fiscale all’inizio degli anni Settanta) e chiedere proposte entro metà settembre. Anche in questo caso i decreti delegati potrebbero essere varati entro il 20 ottobre. Per un presidente del Consiglio che quattro mesi fa ci ha promesso una riforma al mese, non sono tempi impossibili.

Liberare l’offerta è condizione necessaria, ma non sufficiente. Occorre che riprenda la domanda. Le esportazioni vanno bene, ma da sole non riescono a sostenere l’intera economia. Deve crescere la domanda interna, cioè i consumi delle famiglie. Affinché ciò avvenga bisogna abbattere la pressione fiscale come ha suggerito giovedì anche il presidente della Banca centrale europea. Gli 80 euro di maggio vanno nella direzione giusta. Fino ad ora non si sono riflessi in un aumento dei consumi perché le famiglie, io penso, temono si tratti di una riduzione solo temporanea delle tasse. Vanno resi permanenti ed estesi ad un numero maggiore di cittadini. Gli 80 euro costano 10 miliardi l’anno, lo 0,6% del Pil. Affinché una riduzione permanente delle tasse abbia effetti significativi sui consumi (considerando il livello da cui parte la pressione fiscale oggi sopportata dalle famiglie) servirebbero almeno 2 punti di Pil, cioé circa 30 miliardi. Dopo la «vicenda Cottarelli», Matteo Renzi ha detto (giustamente) che i tagli di spesa sono una scelta politica e se ne è assunto la responsabilità. Cottarelli stima possibili tagli per 30 miliardi sull’arco di un triennio. Il presidente del Consiglio dovrebbe far suo quell’impegno e al tempo stesso varare, con la legge di Stabilità, una immediata riduzione delle tasse della medesima entità. Una riduzione-choc della pressione fiscale di 30 miliardi (come Alberto Alesina ed io ripetiamo su queste colonne da un paio d’anni) ci porterebbe temporaneamente oltre il limite del 3% nel rapporto fra deficit e Pil. Ma se preceduta dalle riforme istituzionali e dall’approvazione definitiva degli interventi su lavoro e spese, è una proposta che a Bruxelles si può, e a mio parere si deve, portare. La strada più pericolosa è darsi mille giorni e nel frattempo aspettare, magari ricorrendo in ottobre ad un aumento mascherato della pressione fiscale per far quadrare i conti. Matteo Renzi deve aver chiaro che quella strada porterebbe lui al fallimento e l’Italia dritto ad un default sul debito pubblico.

Lavoro, giustizia e competitività. Senza le riforme non ci sarà crescita

Lavoro, giustizia e competitività. Senza le riforme non ci sarà crescita

Alan Friedman – Corriere della Sera

Ora che l’Italia è ufficialmente di nuovo in recessione, per la terza volta in soli sei anni, sarebbe utile capire perché il nostro Paese sia il fanalino di coda in Europa per quanto riguarda la crescita.

A mio avviso la causa di questa situazione non è la moneta unica, e nemmeno il ciclo della congiuntura dell’economia europea. Non è neppure soltanto il fatto che la Germania cresca meno e acquisti in maniera meno massiccia le nostre merci, anche se questo è certamente vero.

Il motivo principale per cui l’economia italiana continua a essere così anemica è la mancanza di modernizzazione attraverso le riforme – del mercato del lavoro, del fisco, della burocrazia e del welfare. In altre parole, l’Italia non crescerà finché non avrà fatto le stesse riforme che altri Paesi hanno fatto dieci o venti anni fa.

Finché non saremo competitivi nei confronti dei nostri partner principali in Europa – in termini di una giustizia con delle regole chiare, di un costo del lavoro ragionevole, di una vera flessibilità del mercato dell’occupazione e di una migliorata produttività, equiparabile ad altri Paesi – l’Italia non potrà progredire. Le riforme non sono un optional. Sono necessarie. Servono a farci uscire dalla crisi. Sono una base per la crescita, non la soluzione magica.

Per un politico è difficile ammettere che l’impatto forte, salutare e visibile delle riforme non si otterrà in sei o dodici mesi, ma piuttosto in un periodo di almeno due o tre anni. Ma è così. Fare le riforme economiche in modo che il mercato italiano sia paragonabile a quelli tedesco, inglese o olandese significa intraprendere un percorso molto – ma molto! – ambizioso, e tutto questo in un Parlamento non proprio di leoni. Eppure il gioco varrebbe la candela, perché renderebbe l’Italia più forte.

La realtà è che viviamo da tempo in un Paese a crescita più o meno zero. Siamo da tempo in una fase di stagnazione nazionale, in cui l’economia non genera posti di lavoro, mancano investimenti pubblici e privati, manca una politica industriale, il tasso di disoccupazione aumenta, la burocrazia ci strangola, il denaro non gira, e la classe dirigente (compresa la politica) non sembra in grado di esercitare una leadership o una visione adeguata a portarci fuori dalla crisi. Ora c’è Renzi, che prova a spingere l’acceleratore sulle riforme ma inciampa ogni tanto a causa dei gattopardi della sinistra del suo partito, o delle resistenze da parte di Sel o dei cinquestelle. Renzi ha un consenso elettorale che non deve sprecare: deve spenderlo per fare una riforma coraggiosa dell’economia italiana. Deve, se necessario, «battere la testa contro il muro» per insistere su questo punto, e proporre anche qualche cambiamento strutturale che non farà piacere a Susanna Camusso.

La mia preoccupazione, in sintesi, è questa: se si facessero davvero tutte le riforme necessarie per rimettere l’Italia sul binario della crescita e dell’occupazione, i franchi tiratori sarebbero sempre lì, pronti ad affossare ogni singola proposta? La guerra potrebbe essere lunga. Ora Renzi ha bisogno di Berlusconi per portare a termine alcune modifiche istituzionali e la nuova legge elettorale. Bene. Ma si può fare in Italia una riforma radicale del mercato del lavoro, come hanno fatto i governi di centrosinistra in America durante l’Amministrazione Clinton, in Germania negli anni di Schröder o in Gran Bretagna con Blair? Laddove quelle modifiche sono state fatte, laddove c’è più flessibilità nel mercato, il tasso di disoccupazione è la metà di quello italiano.

È inutile girare intorno al problema. L’Italia non avrà nessun futuro di crescita ragionevole nel medio e lungo periodo se non fa subito le riforme strutturali che altri Paesi hanno già portato a termine. È ovvio. Questi cambiamenti devono rappresentare un vero e autentico ammodernamento di una macchina che non funziona più, di un sistema sclerotico e vecchio. Se l’Italia riesce a fare ora, nei prossimi mesi, quelle riforme che altri Paesi hanno già fatto dieci anni fa, ci potrebbe essere la speranza di una ripresa ragionevole verso la fine del 2015. Se invece vengono bloccate nel sottobosco romano, in Parlamento e dintorni, saremo qui a scrivere di un’economia senza crescita.

Il Paese soffocato

Il Paese soffocato

Nicola Porro – Il Giornale

Ieri l’Istat ha certificato che l’Italia è tornata in recessione: la sua ricchezza diminuisce. Negli ultimi tre anni non ci eravamo ancora accorti di esserne usciti. Oggi gli economisti ci spiegheranno perché. Non ascoltateli. La gran parte sono diventati come i becchini, ci spiegano semmai perché il paziente è deceduto a tragedia avvenuta. Bella forza.

Ci permettiamo di fare un elenco micro (economico) per far capire come mai le questioni macro (economiche) non girano per il verso giusto. Tutti si affannano a parlare di numeri (macro), ma il problema è di comportamenti. È del tutto evidente che il buon senso, pensando all’attuale premier, ci sia, ma che per paura del senso comune venga sconfitto. Andiamo per ordine.

Il Pil non cresce perché a quattro sindacalisti si permette di bloccare i bagagli dell’Alitalia, a un violinista e qualche suo socio si consente di fermare le rappresentazioni dell’opera di Roma e alla minoranza dei metalmeccanici è stato consentito di mettere in discussione in tribunale le decisioni di Marchionne sulla Fiat. Chiaro? Siamo un po’ duri e antisindacali? E chissenefrega di questo senso comune. Il buonsenso dice che l’occupazione la creano le imprese e che la parte debole e da tutelare oggi siano loro.

Il Pil non cresce perché un guru della cultura italiana, Setis, scrive su Repubblica che è disgustato dalle file al Louvre; perché un vicepresidente emerito della Corte costituzionale, Maddalena, scrive che i giovani che occupano il Teatro Valle sono dei volenterosi; perché invece di ringraziare uno come Della Valle che ha messo qualche milioncino per pulire il Colosseo lo abbiamo ostacolato in tutit i modi; perché il sindaco Marino ha trovato un paio di milioncini per la festa dell’orgoglio Rom e non un euro bucato per celebrare i 2000 anni del mausoleo di Augusto. Siamo un po’ tranchant? Se aveste un albergo a Roma, pagando una supertassa di soggiorno, e dovendo difendere i vostri clienti dagli assalti alla stazione Termini, la pensereste come noi. Se vi fate un mazzo così e vi dicono che i vostri tavolini a piazza Navona sono illegali, e nel frattempo si dà spazio a bivacchi di evasori totali con borsette di marca ma false, be’ allora il vostro spirito sarebbe simile al nostro.

Il Pil non cresce perché siamo riusciti a indagare Finmeccanica, una delle nostre poche industrie manifatturiere, e poi dopo qualche anno ci siamo accorti aver esagerato. Abbiamo praticamente ucciso, senza ancora una sentenza che sia una, una delle più importanti industrie siderurgiche europee, come l’Ilva. Non trivelliamo l’Adriatico dove c’è un mare di petrolio e 15 miliardi di investimenti privati da fare perché si rovinerebbe il panorama. La Regione Toscana ha di fatto messo per strada 20mila lavoratori delle cave di marmo, le stesse del monte Altissimo di Michelangelo, per fare un parco naturale. Un grande scultore come Giovanni Manganelli ha definito il nostro sfruttamento di quelle aree come un misero graffio su montagne impetuose. Un altro regalo ai nostri concorrenti.

Il Pil non cresce perché dobbiamo aderire all’embargo dell’unico Paese che ha una buna dose di miliardari che ci amano, come la Russia; perché abbiamo spernacchiato l’intesa con la Libia di Gheddafi subendo le prevaricazioni dei francesi e oggi facciamo fatica con i nostri interessi là, mentre siamo inondati di clandestini qui; perché al nostro ministero della Sanità si occupano del colore della pelle della fecondazione eterologa e non della peste suina in Sardegna che ci impedisce di esportare i nostri insaccati in ricchi mercati esteri. Il buonsenso direbbe che la nostra politica estera sia rivolta a fare business, noi pensiamo a utilizzarla per liberare un posticino all’interno del governo per procedere ad un possibile rimpasto.

La lista, incompleta, potrebbe durare molto. E chi attribuisce al solo premier Renzi la colpa della recessione fa un gioco miope. Certo era meglio piazzare i dieci miliardi di sgravi fiscali alle imprese. Ma non sarebbe bastato comunque a raddrizzare il legno storto della nostra economia. Ha ragione il premier a perseguire con forza riforme istituzionali che spuntino i poteri delle regioni e rendano l’esecutivo più forte e il bicameralismo più debole. Ma la vera battaglia per riprendere a crescere è quella del buonsenso. È riprendere a credere che i quattrini e l’occupazione vengono fatti solo dalle imprese e che lo Stato deve fare di tutto per metterle nelle condizioni di competere al meglio. Meno tasse certo, ma è tutto il resto che oggi ci soffoca. Prima l’impresa e poi lo Stato, prima l’individuo e poi il burocrate e la sua norma.

Pil in calo, tutti chiedono una scossa al governo

Pil in calo, tutti chiedono una scossa al governo

Avvenire

I dati resi noti dall’Istat sul Pil in calo. O meglio sullo stato di recessione, hanno aperto un dibattito intenso e molto vasto. Impossibile riassumerlo in tutti i sui aspetti. In sintesi politici, economisti e imprenditori chiedono una scossa al governo per uscire dalla recessione. E dal governo si fa sapere che si andrà avanti con decisione per fare le cose che vanno fatte:

” Un dato negativo, ma ci sono anche aspetti positivi, la produzione industriale sta andando molto meglio e i consumi continuano seppur lentamente a crescere”. Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan commenta il dato sul Pil del secondo trimestre e punta sul positivo e sulle cose da fare. “Se ne esce – dice Padoan – continuando con la strategia del governo, riforme strutturali, semplificazioni, aumento della competitività”. Il ministro poi assicura ancora una volta che non ci saranno manovre autunnali.

“Certo questi dati sul Pil non ci fanno stare contenti, ma tutto quello che stiamo mettendo in campo lo stiamo facendo proprio perché ci rendiamo conto della straordinaria urgenza della situazione – spiega  il ministro allo Sviluppo economico Federica Guidi – Ma i primi segnali di inversione di tendenza ci sono: ad esempio  sono tornati a salire i mutui per le famiglie. E  questo di solito è un dato che precede una ripresa su più larga scala. Anche il credito al consumo sta migliorando e gli stock di crediti per le piccole e medie imprese si sono stabilizzati” Sulla necessità di attrarre investimenti, Guidi ha poi ha sottolineato che la frammentazione che abbiamo oggi non funziona: senza spendere un euro di più dobbiamo accorpare le strutture esistenti, dall’Ice a Invitalia, e renderle più efficienti. Quindi, puntare ad avere una cura maniacale nell’attrarre investimenti con una attenzione alle esigenze di ogni azienda.

 

“Dal 2007 al 2010 – fa notare Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia – il Dpef veniva presentato tra giugno e settembre. Pertanto, i tecnici avevano maggiori livelli di certezza statistica che consentivano di avvicinarsi più puntualmente al dato reale di crescita di quell’anno. Dal 2011, invece, l’Ue ha obbligato il Governo in carica a presentare il Documento di Economia e Finanza ad aprile. Questa anticipazione ha reso il lavoro dei tecnici molto più arduo – sostiene Bortolussi – con il risultato che la forbice si è allargata e gli obbiettivi di bilancio sono stati raggiunti solo attraverso manovre correttive redatte in autunno”.

“Sapevamo, come ho sempre detto, che il problema nostro è del secondo semestre, gli effetti li vedremo nel secondo semestre quindi non c’è bisogno di allarmarsi”. Così il sottosegretario Graziano Delrio, uscendo da Palazzo Chigi, valuta i dati sul Pil, sostenendo che “questo secondo trimestre era abbastanza scontato che avesse un’inerzia simile al primo, ma sono più preoccupato del dato complessivo europeo”.

“Il nostro senso di responsabilità ci porta a dare un contributo decisivo in materia di riforme. Ma non possiamo non rilevare l’inadeguatezza di Renzi e del suo governo di fronte alle vere esigenze del Paese”. Lo afferma il senatore Maurizio Gasparri (FI).

 “È evidente che non possiamo affrontare le difficoltà che si I dati disastrosi del Pil sono una nuova mazzata su un’economia che già soffriva di stagnazione, disoccupazione e chiusura di migliaia di imprese.” Lo sostiene in una nota Marco Venturi, presidente della Confesercenti: È un’Italia in quarantena da 11 trimestri, mentre aumenta il rischio di gettare al vento anche il 2014″. “Se il 2014 terminasse con un -0,3% di Pil, secondo nostri calcoli l’aggravio di spesa pubblica sarebbe nell’ordine di 10-15 miliardi di euro, ovvero preziose risorse sottratte alla crescita. Anche sul fronte dei consumi ci troveremmo nuovamente a mal partito con una prevedibile flessione nel 2014 di circa 814 milioni di euro”, aggiunge Venturi: “è inutile girarci attorno, siamo all’allarme rosso. Bisogna reagire in fretta”.

“Il dato del Pil relativo al secondo trimestre comunicato oggi dall’Istat va oltre ogni previsione negativa e unito a quello del I trimestre mostra un Paese in recessione. A questo punto bisogna assolutamente accelerare ogni investimento pubblico e provare rapidamente a raddrizzare la barca per chiudere l’anno con un segno di crescita positiva”. Lo affermaGuglielmo Epifani, presidente della commissione Attività Produttive della Camera, secondo il quale “Tutto il Paese si deve concentrare attorno al tema dell’economia e dell’occupazione”.

 “Il Paese è da ricostruire, ma non servono altre manovre, piuttosto ci vogliono investimenti in nuove fabbriche e infrastrutture”. Così l’economista Giacomo Vaciago commenta il calo del Pil nel secondo trimestre e il ritorno dell’Italia in recessione. “Il 12 febbraio scorso – spiega l’economista – una settimana prima di lasciare Palazzo Chigi, Enrico Letta ha scritto: l’Italia è ancora fragile, ma è pronta per essere ricostruita. Quella dichiarazione la sottoscrivo in pieno. Fragile vuol dire che quando ci sono guai in giro per il mondo, vedi l’Ucraina a un tiro di schioppo, l’Italia ne subisce le conseguenza. Da ricostruire vuol dire che dobbiamo rimboccarci le maniche, fare gioco di squadra e smetterla di litigare stupidamente in Senato per far ripartire l’economia a ricostruire il Paese”. “Ma attenzione – precisa Vaciago – ricostruire non vuol dire fare manovre e dunque continuare a flagellarci, ma significa fare investimenti. Il Paese non cresce da venti anni e va indietro da cinque. È stato come un terremoto, abbiamo perso il 20% delle nostre fabbriche. Dobbiamo ricostruirle e fare nuove infrastrutture, andare avanti”.
“La recessione in atto dell’economia italiana – che purtroppo si colloca in un quadro europeo complessivamente stagnante – richiede lo stimolo di straordinarie riforme strutturali rivolte a  cambiare il mercato del lavoro, il sistema tributario, la pubblica amministrazione con particolare riguardo alla giustizia”. Ha invece detto in una nota Maurizio Sacconi, capogruppo al Senato del Nuovo Centrodestra aggiungendo che “il ceto politico non può fuggire dalle proprie responsabilità. Esso deve, al contrario, incoraggiare a fare cose che in condizioni migliori possono risultare più difficili. Questa è l’ora delle grandi scelte”.
“In questa fase più che interventi di riforma strutturale, sono necessari maggiori stimoli alla domanda che coinvolgano l’Europa: politiche per il sostegno della congiuntura nei paesi core e rimodulazione del percorso di consolidamento del fiscal compact nei periferici”. È quanto sostiene il capo economista di Nomisma, Sergio de Nardis.
 “Diventa sempre più complesso, garantire il pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione entro il 21 settembre così come annunciato nei giorni scorsi dal Governo”. È quanto osserva il presidente di ImpresaLavoro Massimo Blasoni.  “Con questi numeri il governo rischia di trovarsi le mani legate – sostiene Blasoni – da un lato ha molte meno risorse libere da impiegare per lo sblocco dei crediti della Pubblica amministrazione, dall’altro non potrà ricorrere agevolmente a nuovo debito per procurarsi le dotazioni necessarie al pagamento completo di queste somme, così come immaginato in un primo momento. Il rischio concreto è che, anche per il 2014, le imprese saranno costrette a ‘subire’ costi indotti dall’inefficienza pubblica del cattivo pagatore statale per sette miliardi di euro: una tassa occulta che rischia di diventare insostenibile”.
“Dalla caduta non si salva neppure l’agricoltura”, nota il presidente della Cia-Confederazione italiana agricoltori, Dino Scanavino, secondo il quale il settore “paga anche gli effetti del clima, sempre più segnato da eventi estremi. Serve uno scatto in avanti dal governo, con misure strutturali a sostegno dei redditi delle famiglie e provvedimenti attenti ai bisogni reali delle imprese settore produttivo, neanche l’agricoltura che nei primi tre mesi dell’anno era stato l’unico comparto a crescere con un aumento del 2,2% del valore aggiunto. Purtroppo la situazione di stagnazione del Paese, con i consumi fermi e la deflazione a sottolineando come il quadro dei consumi delle famiglie sia completamente negativo anche per quanto riguarda gli alimentari”.
Bisogna essere tutti i giorni sulla stampa internazionale per spiegare ciò che l’Italiaha detto e fatto, dimostrare quanto abbiamo resistito alla crisi senza chiedere aiuto a nessuno e con numeri impressionanti: basta vedere gli interessi sul debito. Nessun altro Paese Ue può reggere il paragone”. Fa notare l’economista Alberto Quadrio Curzio in un’intervista: “L’Italia ha dimostrato nella crisi una capacità di resistenza straordinaria che è quella tipica dei maratoneti. È l’unico Paese dell’Eurozona che ha sopportato manovre di finanza pubblica senza nessun cappello protettivo dal punto di vista dei poteri spettanti alla Commissione e al Consiglio d’Europa”.
“Ma con queste manovre correttive – continua l’economista – il nostro Pil è andato dov’è andato: perché con una pressione fiscale al 54% del Pil c’è poco da fare crescita”. Adesso, oltre alla strada europea, c’è un’altra “strategia per attuare la tempistica del maratoneta: procedere sollecitamente con la spending review per riallocare la spesa Tutti gli spazi di risparmio che riuscissi ad ottenere, li metterei in un rilancio infrastrutturale del Paese. E accanto alla spending penso alle privatizzazioni i cui proventi almeno in parte dovrebbero spingere gli investimenti infrastrutturali”.
Macché pensione, trasferiamo gli statali

Macché pensione, trasferiamo gli statali

Vittorio Feltri – Il Giornale

Quando si parla di pensioni, in tivù e sui giornali, immancabilmente si prende di mira la ex ministra Elsa Fornero, colpevole, secondo la vulgata, di essersene infischiata degli esodati.

I quali invece sono vittime di un sistema perverso denominato prepensionamento: certi lavoratori si dimettono, incentivati dal datore di lavoro, poi si trovano in brache di tela perché nel frattempo lo Stato ha modificato le regole. Esso ha deciso che non si va più in quiescenza a 63 anni, ma a 68. Di modo che uno sfigato che avesse scelto di collocarsi a riposo in base alle vecchie norme, piomba nella spiacevole situazione di non ricevere più lo stipendio dalla ditta (che lo ha liquidato con fior di quattrini) e neppure l’assegno dell’Inps, in quanto non ha ancora maturato l’età per incassarlo, per effetto delle modifiche nel frattempo intervenute.

Che colpa ne ha la Fornero? Nessuna. Ella infatti si è limitata a varare una legge – da tutti approvata in Parlamento – tenendo conto dei dati forniti dalla Previdenza. Sono sbagliati? L’ente previdenziale si batta il petto.

Negli ultimi tempi, esodati a parte, le cose si sono ulteriormente complicate. L’amministrazione pubblica recentemente si è alleggerita di 260mila dipendenti. E uno è portato a dire: ottimo, tanti stipendi in meno da versare, un bel risparmio. Un corno. Perché un impiegato statale che va in pensione continua a costare allo Stato la stessa cifra: prima riscuoteva lo stipendio, ora incassa l’assegno di quiescenza, e il risultato finale non muta. Sempre soldi pubblici incamera. E così via.

Il problema va affrontato diversamente. Le persone oggi sono più in forma rispetto a 20 o 30 anni fa e possono continuare a prestare servizio sino in tarda età. È da stupidi spedirli a casa quando sono ancora efficienti. Conviene trattenerli e trasferirli, semmai, in uffici carenti di personale e bisognosi di assunzioni. Chi cessa si recarsi al lavoro perché bacucco peserà sui bilanci per qualche anno, poi andrà al Creatore e non costerà più nulla. E chi invece continuerà l’attività fino al limite della vecchiaia si guadagnerà la paga in un settore o in un altro, indifferentemente. È un fatto che il numero complessivo dei dipendenti pubblici vada ridotto al massimo, ma non scaricando gli esuberi sulla cassa pensioni, bensì evitando nuove assunzioni.

Obiezione: e i giovani, a quale occupazione possono aspirare? I mestieri da imparare sono tanti, non esistono solo le scrivanie della burocrazia. In Francia, l’agricoltura è la colonna vertebrale dell’economia, da noi è la cenerentola. Perché? Evidentemente, il contadino, il pastore, l’allevatore, il produttore di formaggi e confetture varie non godono qui di buona fama. È assurdo. Segno che i nostri giovani hanno una mentalità retrograda e non capiscono che lavorare in campagna richiede una cultura specialistica profonda, sicuramente non inferiore dal punto di vista qualitativo a quella di uno che timbra carte e sbriga pratiche allo sportello di un ente (spesso inutile).

Serve una svolta. Occorre passare dal culto della camicia bianca alla gioia del fare. Creare ricchezza e non scartoffie è un’esigenza primaria. Quanto ai pensionati, bisogna selezionare: i minatori (categoria estinta) hanno diritto ad appendere il piccone a 60 anni, ma chi ha maneggiato la penna tutta la vita vada avanti a farlo sino a 68–70 anni. Dov’è il dramma? I calli alle dita? Una volta si diceva: lavorare di meno, lavorare tutti. Aggiornarsi: lavorare di più e fino in tarda età, senza aggravare la spesa sociale che non ci possiamo più permettere. I ragazzi si ingegnino. Emigrino come fecero i nostri padri e i nostri nonni, si inventino nuovi mestieri come noi ci inventammo.

Mi scuso se mi cito. All’inizio degli anni Settanta non esistevano le tivù private. Furono quelli della mia generazione – io compreso – a inaugurare il filone: dal nulla mettemmo in piedi delle antenne. Che all’inizio facevano schifo. Poi ci specializzammo e le emittenti locali spopolarono, fecero fortuna.

Qualcuno di noi guadagnò parecchio, altri – meno bravi o meno fortunati – rimasero al palo, c’est la vie. Il famoso terziario si sviluppò negli anni Ottanta. Prima non si sapeva neanche cosa fosse. Ogni epoca offre occasioni e impone il superamento di vari ostacoli. Darsi da fare è l’unica soluzione. Lo Stato non può e non deve essere una balia. Arrangiatevi, fratelli, nipoti e cugini.