lavoro

Lavoro, rinvii e distrazioni

Lavoro, rinvii e distrazioni

Maurizio Ferrera – Corriere della Sera

L’Italia sta chiedendo più flessibilità all’Europa sulle regole di bilancio e in cambio promette incisive riforme economiche. La partita è delicata, ma non potrà iniziare sul serio se il governo Renzi non dà prima qualche segnale immediato sulle riforme. Il fronte su cui, giustamente, vi sono le maggiori aspettative è il mercato del lavoro, che funziona malissimo e ostacola la crescita.
I dati parlano chiaro. Su cento italiani fra 20 e 64 anni, meno di 60 hanno un’occupazione. In Germania sono 77, nel Regno Unito 75, in Francia 70. Anche negli altri Paesi c’è stata la crisi, perciò non si può dar la colpa solo a questo. La distanza rispetto ai valori dell’area euro era già molto alta prima del 2008. Nello scorso maggio si sono creati 50 mila nuovi posti di lavoro. È una buona notizia, ma nello stesso mese la Germania ne ha creati (fatte le debite proporzioni) quattro volte di più. Dobbiamo cambiare passo, e alla svelta.
I problemi «strutturali» del mercato del lavoro italiano sono noti. I servizi per l’impiego sono inefficienti e molte imprese non trovano persone con le qualifiche richieste. La cassa integrazione tiene artificialmente in vita aziende e posti di lavoro decotti, mentre gli ammortizzatori sociali non proteggono adeguatamente i veri disoccupati. Fisco e burocrazia scoraggiano gli investimenti, in particolare dall’estero. E, soprattutto, i rapporti di lavoro sono disciplinati da una giungla di norme e di fattispecie contrattuali, peraltro soggette a continui conflitti interpretativi. Oggi in Italia assumere è un vero e proprio terno al lotto.
Dal 1996 ad oggi sono state fatte tre grandi riforme (Treu, Biagi e Fornero). Il bilancio? Grandi ambizioni, misure non all’altezza degli obiettivi, applicazioni incomplete, niente valutazione. E nessuna modifica (o quasi) alla disciplina del lavoro a tempo indeterminato, risalente ai primi anni 70. Il credito che Matteo Renzi si è guadagnato a Bruxelles è in buona parte dovuto agli impegni presi sul fronte dell’occupazione. Il Jobs Act è stato presentato come un provvedimento capace di aggredire, questa volta davvero, i problemi strutturali, inclusa la rigidità in uscita. Sono finora seguite due iniziative concrete: il decreto Poletti sui contratti a termine e il disegno di legge delega sul mercato del lavoro. È proprio su quest’ultimo che il governo deve giocare bene le sue carte. Il testo contiene novità promettenti sugli ammortizzatori e sulle politiche attive. Ma il vero nodo è l’articolo 4 della delega, dove si prevede una drastica semplificazione del codice del lavoro, rendendolo finalmente certo e comprensibile. Verrebbe inoltre introdotto un contratto di lavoro a tempo indeterminato «a tutele crescenti» in sostituzione dell’attuale disciplina e un «contratto di ricollocazione» per accompagnare i lavoratori nella transizione da un posto ad un altro. Queste innovazioni cambierebbero in modo virtuoso gli incentivi per imprese e lavoratori e segnerebbero una inequivocabile svolta rispetto al passato.
Riuscirà Matteo Renzi a far passare la riforma, superando le resistenze del sindacato e di una parte del Pd? La delega è ferma in Commissione al Senato e si rischia il voto finale a settembre. Un brutto segnale, che certo non depone a favore della serietà e fermezza d’intenti. È chiaro che l’articolo 4 è una forca caudina sul piano politico. Ma se Renzi non sarà capace di attraversarla, la sua credibilità riformatrice ne uscirà indebolita. Forse irrimediabilmente.

Perché Berlino non fa i compiti?

Perché Berlino non fa i compiti?

Giorgio Ponziano – Italia Oggi

Non bisogna nascondere i propri problemi sotto il tappeto degli altri. Ma guardare a fondo l’economia tedesca e il sistema pubblico che la sorregge non significa cercare di autoassolversi, poiché il debito italiano rimane un moloch soffocante, può però servire per non restare silenziosi dietro la lavagna. Insomma al tavolo europeo i più bravi vanno lodati ma non debbono barare al gioco. I tasselli del mosaico che fotografa l’altra faccia della Germania provengono da analisi e studi di economisti, giornalisti, ricercatori, tra i quali Patricia Szarvas, Francesco Cancellato, un’èquipe dell’università di Linz, Lucrezia Reichlin, Mario Baldassarri, eccetera. Eccolo, il mosaico.

1. Franco Bassanini, presidente della Cdp, cassa depositi e prestiti, controllata per l’80 % dal ministero dell’Economia, ogni anno emette 320 milioni di euro di obbligazioni e il ministro Pier Carlo Padoan quei soldi li deve contabilizzare nel debito pubblico italiano. In Germania vi è un istituto fotocopia, che si chiama Kfw, Kreditanstalt für Wiederaufbau, anch’esso per l’80% appartenente al governo federale. Emette obbligazioni per finanziare i suoi interventi, l’ultimo anno ne ha emesse per 500 miliardi di euro. Ebbene, di quei 500 miliardi non c’è traccia nel deficit pubblico tedesco perché in Germania vi è una legge che esclude dal conteggio (e quindi dalle tante statistiche sul rapporto debito/pil) le società pubbliche che coprono la metà dei propri costi con ricavi di mercato. Avviene quindi che nonostante le due strutture finanziarie siano pubbliche e si tratti di risorse reperite sul mercato con obbligazioni, in un caso è considerato debito pubblico e nell’altro no. Trattandosi di centinaia di miliardi non è cosa da poco.

2. In Italia, non essendoci federalismo amministrativo, tutto finisce nel calderone della finanza pubblica. I deficit di regioni, comuni e province (finché ci saranno) vengono contabilizzati dallo Stato e formano la massa del debito, tanto che si è dovuti ricorrere alla camicia di forza della spending review per bloccare le spese dei comuni e il presidente del consiglio, giustamente, ha annunciato un maggiore controllo anche sulle spese delle regioni, che in genere continuano a sgarrare rispetto al patto di stabilità. In Germania invece c’è federalismo e quindi i 600 miliardi di debito dei länder rimangono nei loro bilanci locali. Anche in questo caso si tratta di una disparità, rispetto ai conti pubblici italiani, difficile da comprendere. È vero che Angela Merkel, comunque preoccupata per il progressivo aumento del deficit dei länder, ha imposto il dietrofront, con l’obiettivo del pareggio dei loro bilanci, ma dovranno tagliare il traguardo nel 2020 e non nel 2015 come invece viene chiesto (e imposto) all’Italia.

3. Nelle classifiche sull’occupazione, la Germania svetta col suo (solo) 5% di disoccupati ma dietro questo dato vi è quello delle persone a rischio povertà, addirittura il 24%. Perché? Perché il 25% dell’offerta di lavoro è costituita dai mini job, lavori part time a basso costo: le statistiche tedesche considerano occupati coloro che hanno un contratto di mini job, in realtà essi hanno contratti di tre mesi, senza alcuna garanzia e la media del salario è 400 euro netti al mese. In molti casi si tratta quindi di una disoccupazione nascosta. Ovvero lo scarto tra il 12,7% della disoccupazione in Italia e il 5% di quella in Germania non è veritiero, la forbice è molto più stretta.

4. L’economia sommersa è una vergogna non solo italiana. In Germania il nero è calcolato dagli economisti tedeschi nel 13% della produzione tedesca, con 8 milioni di lavoratori e 350 miliardi di euro sottratti alle casse dello Stato. Soprattutto nella capitale Berlino, trainata dal poderoso settore dell’edilizia, la diffusione del lavoro nero sembra la regola più che l’eccezione. Né il rigore né i controlli degli appositi uffici tedeschi sono riusciti a rendere meno abnorme il fenomeno. L’aggiramento della legge è uno sport non solo italico.

5. Dopo varie peripezie, in Italia il sistema bancario è oggi privato e con la svolta del Montepaschi è caduta l’ultima roccaforte dell’incesto tra pubblico e privato. Al contrario, in Germania la svolta non c’è stata, il 45 % del sistema bancario tedesco è saldamente in mani pubbliche, comprese le banche regionali, poiché ogni länd ha il proprio istituto di credito. È scontato il fatto che il sistema pubblico tedesco funziona meglio di quello italiano e che la politica è meno invasiva ma rimane da rilevare che i 637 miliardi di crediti quasi inesigibili delle Landesbanken, appunto gli istituti dei länder, sono in ultima analisi sul groppone dello Stato, così come più o meno una cifra analoga pesa sui bilanci delle banche nazionali controllate dallo Stato. Quindi il passivo del sistema bancario pubblico tedesco non compare nel bilancio generale e non concorre al deficit e al rapporto tra debito e pil, eppure si tratta a tutti gli effetti di una passività pubblica. Non solo. Questo controllo del governo sulle banche può in teoria (o in pratica) essere usato per indirizzare politiche finanziarie a favore o contro altri Paesi. Un esempio. Silvio Berlusconi, da presidente del consiglio, rivolge parole volgari alla Merkel? Le banche pubbliche tedesche vendono titoli di Stato italiani, mettono Piazza Affari sotto pressione, lanciano allarmi finanziari: lo spread sale e il paese sotto tiro va in crisi. Si tratta di un uso politico della finanza che non ci sarebbe se l’Ue imponesse la privatizzazione delle banche, com’è avvenuto per altri settori. Ma la Germania non vuole e nulla si muove, mentre l’Italia deve fare i compiti a casa.

6. Si sono svolte anche recentemente aste dei titoli di Stato tedeschi e, come a volte succede, una parte non è stata assorbiti dal mercato primario. Invece di ricorrere al mercato secondario (con tassi più alti e perdita di valore dei titoli) è intervenuta direttamente, per acquistarli, la Bunbdesbank, anche se ciò è espressamente vietato dal trattato di Maastrich. Ma chi ha il coraggio di sgridare la banca centrale tedesca? In questo modo però essa evita la crescita del debito pubblico, una sorte a cui invece vanno incontro gli altri Paesi, che rispettano il trattato.

7. L’Italia si sta svenando per rispettare il six pack, cioè le sei direttive concordate nel 2011 che prevedono che un Paese non debba registrare un passivo superiore al 3% del pil e un surplus (export meno import) di oltre il 6%. La Germania è negli ultimi 5 anni largamente al di fuori di quest’ultima percentuale e se ne infischia. Il suo avanzo è attorno al 7% del pil e secondo il six pack avrebbe dovuto essere sanzionata, invece niente, mentre per noi il 3% è sacro e i tedeschi ce lo ripetono ogni giorno. Due pesi e due misure, che fanno crescere le ingiustizie e le differenze tra i sistemi economici degli Stati.

8. Infine l’Ocse. Avverte la Germania: oggi il vento soffia a favore (anche se da marzo si registra un rallentamento) ma attenzione al futuro. Dormire sugli allori può essere pericoloso. L’invecchiamento demografico, l’enfasi eccessiva sull’export, la bassa crescita della produttività, la scarsa concorrenza interna nel settore dei servizi, la burocrazia efficiente ma tentacolare sono nodi che la Repubblica Federale deve affrontare e risolvere per il suo bene ma anche per quello dell’Europa.

Non basta il lavoro per garantisti un futuro

Non basta il lavoro per garantisti un futuro

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Non solo disoccupazione. Anche nel nostro Paese si stanno aggravando i fenomeni dei working poor e della in-work poverty. Il primo riguarda coloro le cui retribuzioni sono così basse che essi e le loro famiglie restano al di sotto della soglia di povertà. Il secondo coloro che, pur lavorando, rimangono ai margini e hanno alta probabilità di scivolare nella povertà o perché hanno compensi erosi da un’inflazione relativa, composta principalmente dai generi di prima necessità come abitazione e cibo, o perché sono a rischio di perdere l’impiego.
Secondo i dati della Commissione Europea, già nel 2012 il 29,9% della popolazione italiana era a rischio povertà ed esclusione sociale; tra i 28 dell’Ue ci superavano solo Romania e Grecia. Oggi, la proporzione supera il 30%. Sempre nel 2012, nell’Unione oltre il 12% degli occupati era da considerarsi working poor (con un aumento significativo rispetto al 9,3% segnato nel 2000): la crisi ha colpito particolarmente queste fasce sociali. In Italia la quota dei working poor (sul 10% degli occupati, prevalentemente i giovani) è inferiore alla media europea grazie in particolare alla bassa dispersione salariale prevista nei contratti nazionali di lavoro e a livelli salariali “mediani” contenuti e in linea con la media continentale. Sta crescendo pericolosamente, e velocemente, invece, la in-work poverty a ragione della riduzione delle ore lavorate (soprattutto per la cassa integrazione), della modesta intensità di lavoro all’interno delle famiglie (molto elevata la proporzione dei nuclei monoreddito), della scarsa efficacia dei meccanismi di protezione sociale nel ridurre il rischio di povertà. Questi temi, che dovrebbero essere centrali nell’azione di Governo, sono analizzati in dettaglio in uno studio commissionato dal Cnel al Centro di ricerche per i problemi del lavoro e dell’impresa dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. A differenza di altri lavori in materia, l’analisi contiene un ventaglio di proposte puntuali per contrastare il fenomeno tanto degli individui (riduzione del cuneo fiscale, introduzione di un salario minimo legale) quanto delle famiglie (come disegnare gli incentivi per fare entrare nella forza lavoro coloro che, delusi, la hanno abbandonata). Se ne mostrano vantaggi e limiti proprio per facilitare scelte da chi ha responsabilità politica.

L’ottimismo del premier e la dura realtà

L’ottimismo del premier e la dura realtà

Gaetano Pedullà – La Notizia

Il premier si lamenta dei giornali che vedono nero, che evidenziano i dati negativi e ignorano quelli buoni, che raccontano di un’Italia in ginocchio. Ora, poiché di Giacomo Leopardi non se ne vedono in giro, il pessimismo è ovunque perché una cosa è la realtà e un’altra è il sogno di ciò che vorremmo. Se poi abbiamo a che fare tutti i giorni con dati come la produzione industriale in calo, i consumi ai minimi storici, il credito alle imprese da anni col segno meno, la disoccupazione in crescita e i mercati di nuovo lanciati verso la tempesta perfetta, allora è obbligatorio smettere di sognare e svegliarsi per non cadere inesorabilmente in questi incubi.

Perciò Renzi – che ha molti meriti per il lavoro dei primi quattro mesi di governo – convince poco quando ci racconta che il Paese ha ricominciato ad assumere (una goccia nel mare), che non ci sarà a breve nessuna manovra e si farebbe meglio a raccontare un’Italia diversa. La favoletta dei ristoranti sempre pieni l’abbiamo già sentita. Sarebbe meglio invece evitare di professare ottimismi piacevoli ma in questo momento fuori luogo e affrontare a viso aperto i problemi. L’Europa ci permetterà di tagliare le tasse che stanno ammazzando le imprese? Dopo gli 80 euro, il Governo farà altro per sostenere i consumi? Un’azienda che assume avrà gli incentivi che servono (mica il bonus assunzioni di Enrico Letta, servito infatti a poco)? Adesso sono in agenda le riforme costituzionali. Un passaggio necessario. Ma se Renzi vuol vedere un po’ di ottimismo e i numeri – che sono argomenti testardi! – non lo accontentano, allora tiri fuori le idee. Se son buone, i risultati e l’ottimismo verranno.

Così la Thatcher ha cambiato verso alla lagna sui “giovani penalizzati”

Così la Thatcher ha cambiato verso alla lagna sui “giovani penalizzati”

Luciano Picone – Il Foglio

Uno Stato leggero e un sistema di mercato non eccessivamente gravato da vincoli di ogni tipo, che premia il merito e non ostacola la concorrenza, favorisce soprattutto i giovani. Un recente studio dell’Office for National Statitics, l’Istat britannico, sui “Salari nel Regno Unito negli ultimi quattro decenni”, mostra con estrema chiarezza gli effetti di lungo periodo sugli stipendi della “rivoluzione liberale”, nel paese che negli anni 80 è stato il laboratorio mondiale della riscossa “neoliberista”. Nell’immaginario collettivo i baby boomers, i nati nel Dopoguerra rappresentano la generazione più fortunata, quella che ha beneficiato della crescita economica e dell’aumento dei consumi, incappando nella Grande depressione soltanto subito prima o subito dopo la pensione. Secondo i dati elaborati dall’ufficio di statistica inglese, le cose non stanno proprio così. Quelli che in Gran Bretagna hanno iniziato a lavorare nel 1975, sotto il governo laburista di Harold Wilson e nell’apogeo dello Stato assistenziale beveridgiano, hanno guadagnato in termini reali molto meno dei loro coetanei che hanno iniziato a lavorare nel 1985 e nel 1995, durante e dopo il ciclone Thatcher. Chi ha trovato la prima occupazione nel 1995 guadagna il 40 per cento in più rispetto ai suoi genitori in 18 anni di lavoro: «Questa differenza di retribuzione – scrive l’Ons – significa che coloro che hanno iniziato a lavorare nel 1975 devono lavorare tre-quattro anni in più di quelli che hanno iniziato a lavorare nel 1985 e 5-6 anni in più di coloro che hanno iniziato a lavorare nel 1995 per accumulare la stessa ricchezza». Sempre al netto dell’inflazione, lo stipendio mediano di un lavoratore del 1975 era di 6,17 sterline l’ora, mentre nel 2013 è di 11,56 sterline, circa il 90 per cento in più. E se nel 1975 lo stipendio più alto nella carriera professionale di una persona era di circa 7 sterline l’ora, la somma è raddoppiata nel 2013. Una tendenza opposta a quella italiana. Nel nostro paese ricchezza e redditi più alti sono appannaggio dei più anziani, mentre scendono le retribuzioni dei più giovani. Secondo la Banca d’Italia, dal 1991 al 2012 il reddito è salito sia per gli over 55 (dal 104 al 122 per cento rispetto alla media generale) che per gli over 65 (dal 95 al 114 per cento), «per le classi di età più giovani, invece, il reddito equivalente diminuisce significativamente rispetto alla media generale: il calo è di circa 15 punti percentuali per le persone fra 19 e 34 anni e di circa 12 punti percentuali per quelli tra 35 e 44 anni». La crisi dell’Eurozona non ha mutato il trend.

Parla l’economista Francesco Daveri

«La realtà è che la crescita dei salari è legata alla produttività, che da noi è rimasta inchiodata», dice al Foglio Francesco Daveri, docente di Economia politica all’Università di Parma, tra gli animatori del sito Lavoce.info dove ha tentato un bilancio della leader conservatrice in campo economico. «I britannici, nonostante una crisi finanziaria che in teoria avrebbero dovuto pagare più di noi, hanno visto crescere costantemente i loro salari. Uno può dire che si tratta di una bolla, ma è una bolla che dura da oltre 30 anni». Per far ripartire la produttività è necessario riformare un sistema incrostato che ostacola la crescita e l’innovazione. «Le Istituzioni contano – prosegue Daveri – e in Italia è più conveniente far parte delle categorie protette, quelle fortemente sindacalizzate, dove si possono far crescere i salari più della produttività ma alla lunga si perdono posti di lavoro». Più o meno la situazione inglese negli anni 70: un’economia fortemente ingessata, condizionata dalle grandi aziende di Stato e dominata dai sindacati. «La Thatcher ha gettato le basi di un sistema di mercato su cui negli anni 90 si è innescata la rivoluzione tecnologica, le sue riforme economiche fatte in anticipo hanno permesso di cogliere le nuove opportunità» dice Daveri. L’Italia si trova in una posizione difficile, con una mobilità del capitale simile a quella americana e inglese ma con istituzioni che corrispondono ad un modello manifatturiero superato, in cui sono contrapposti capitali e lavoro: «Nell’epoca di Internet e dell’Ict abbiamo conservato istituzioni di un’epoca precedente, non adatte a un’economia di servizi. Un modello che pensa di conservare con la baionetta posti di lavoro destinati a scomparire». E la globalizzazione che poteva un’opportunità si sta trasformando in un boomerang. «Ora le obiezioni non sono solo al mercato – conclude Daveri – ma anche alle nuove tecnologie che necessitano del libero mercato. Ma se prevalgono le forze che resistono al cambiamento il rischio è quello di subire solo i lati negativi della globalizzazione».

Lo scandalo dei fondi europei: 500mila progetti di formazione non sono serviti a creare lavoro

Lo scandalo dei fondi europei: 500mila progetti di formazione non sono serviti a creare lavoro

Valentina Conte – La Repubblica

Una montagna di miliardi, sfuggita di mano. Ogni anno l’Italia spende cifre impressionanti in progetti finanziati con fondi strutturali europei, eppure nessuno è in grado di valutarne gli effetti. Se ad esempio favoriscono davvero l’inclusione sociale, se creano nuova occupazione e se questa è strutturale e come viene retribuita. Anzi, va persino peggio. Non solo non conosciamo l’efficacia della spesa, ma ogni euro di fondi ricevuti ce ne costa due in tasse: uno da versare all’Europa come membri dell’Unione e un altro come cofinanziamento, obbligatorio per utilizzare quei fondi. Eppure, nonostante il clamoroso black-out informativo, in cinque anni sono stati messi in campo ben 504mila progetti di formazione, per una spesa di quasi 7 miliardi e mezzo. Con quali benefici? La risposta dello studio curato dagli economisti Roberto Perotti e Filippo Teoldi e pubblicato sul sito lavoce. info è una sola: i benefici sono ignoti.
«Nessuno riesce a districarsi tra piani europei, nazionali e regionali», osserva Perotti, docente alla Bocconi e in passato consigliere economico di Renzi. «Centinaia di documenti stilati per fissare obiettivi che nessuno rispetta. E i soldi diventano una mangiatoia pazzesca per sindacati, assessorati regionali e provinciali». La soluzione per Perotti è una sola: «Non diamo più soldi a Bruxelles, così non rischiamo di vederli finire nelle mani dei maestri dello spreco, in un sottobosco politico parassitario». La tesi è ardita, ma suffragata dai numeri dello studio dal titolo “Il disastro dei fondi strutturali europei”.
Nel 2012 l’Italia ha versato 16,5 miliardi come contributi alla Ue e ne ha ricevuti in cambio solo 11, di cui 2,9 di fondi strutturali, tra Fse (per formazione, sussidi al lavoro, inclusione sociale) e Fesr (sussidi alle imprese e infrastrutture). Questi fondi per essere spesi devono essere “doppiati” tramite il cofinanziamento, dunque denari italiani. «Ottima idea, per coinvolgere il beneficiario. Ma se prendiamo il solo Fse, appena il 4% del finanziamento totale viene dalle Regioni (quasi niente dalle Province), il resto è finanziato in parti uguali da Stato italiano e Ue»». I soldi di questo fondo dunque «sono completamente gratuiti per i soggetti che poi attuano il progetto, cioè Regioni e Province». Di qui la prima stortura. «Lo scopo del cofinanziamento è completamente negato».
Lo studio passa poi ad esaminare la spesa per i progetti di formazione, che rappresentano la quasi totalità dei progetti dell’Fse (504 mila su 668 mila). Nel periodo 2007-2012 (dati OpenCoesione) ben 7,4 miliardi su 13,5 sono stati impiegati qui. La valutazione di questi corsi è «un’industria che non conosce crisi» e tiene in vita «decine di centri di ricerca» che hanno prodotto tra 2007 e 2011 ben 280 documenti di valutazione, per la stragrande maggioranza «inutili, un sottobosco nel sottobosco». Poiché nessuno è davvero in grado di raccontare l’efficacia dei corsi. Le variabili di solito citate sono la percentuale di soldi spesi e il tasso di occupazione. Ma la prima non è per forza indice di successo: si possono spendere molti soldi in progetti inutili o dannosi. E la seconda spesso è effetto della congiuntura, se non si riesce a misurare i posti di lavoro che davvero i corsi di formazione e gli stage favoriscono.
Il confronto europeo è poi agghiacciante. Se l’Italia tra 2007 e 2013 ha offerto corsi a 21mila persone, la Francia aveva 254mila iscritti e la Germania 208mila (dati del network di esperti sulla spesa dell’Fse per l’inclusione sociale). Ebbene, tra quelli che hanno completato le attività (appena 233 italiani, contro 50mila francesi e 32mila tedeschi), solo il 14% risultava poi occupato in Italia, contro l’85% della Francia e il 35% della Germania. Ma, aggiunge lo studio, «è possibile che i partecipanti italiani abbiano ricevuto servizi non finalizzati a trovare un posto di lavoro». Ma allora a che cosa servono questi corsi?

La Commissione europea, lo scorso marzo, sosteneva che grazie ai fondi Ue in Italia sono stati creati tra 2007 e 2013 più di 47mila posti, 3.700 nuove imprese, banda larga estesa a più di 940mila persone, sostegno per 26mila pmi, 1.500 chilometri di ferrovie e progetti di depurazione delle acque. La Corte dei Conti però, in febbraio, diceva che dal 2003 ad oggi gli “euro-furti” (frodi, imprenditori fasulli, finti progetti, costi gonfiati, incarichi irregolari) hanno raggiunto la cifra record di un miliardo e 200 milioni. Solo nel 2012 ne sono stati scovati 344 milioni (al top la Sicilia con 148 milioni finiti nelle tasche sbagliate, vedi il caso del deputato pd Genovese che secondo le accuse in cinque anni avrebbe lucrato ben 6 milioni di euro di fondi europei destinati proprio alla formazione professionale). Nel 2013 poi la Guardia di Finanza ne ha recuperati altri 228 di milioni. Arrivati come fondi strutturali, poi finiti nelle tasche del malaffare. E certo non usati per creare posti o crescita.

I distruttori del lavoro

I distruttori del lavoro

Maurizio Ferrara – Corriere della Sera

La disoccupazione giovanile continua a crescere, soprattutto fra le donne. Due mesi ha preso avvio il programma “Garanzia giovani” cofinanziato dall’Unione Europea, il cui obiettivo è proprio quello di aiutare chi ha meno di 29 anni a inserirsi nel mondo del lavoro. Otto settimane non bastano certo a produrre risultati concreti. È però lecito chiedersi a che punto siamo e che cosa possiamo aspettarci da questa ambiziosa aspettativa. Quasi 100mila giovani si sono già inseriti al portale Internet e molti sono stati anche intervistati dai servizi per l’impiego. La vera sfida comincia adesso. La “Garanzia” prevede infatti che entro quattro mesi il disoccupato riceva una proposta concreta di inserimento. Sul portale si legge che le aziende per ora hanno segnalato circa 2mila occasioni di lavoro: un numero davvero esiguo, anche tenendo conto della crisi. Bisogna migliorare con urgenza i flussi informativi sulle posizioni vacanti in tutti i settori dell’economia.

Il compito di attuare la “Garanzia” spetta alle Regioni. Quelle del Centro-Nord (in parte anche la Puglia) sembrano sulla buona strada. Lombardia, Toscana e Lazio hanno già incontrato più di un terzo dei loro iscritti. Le Regioni del Mezzogiorno sono invece quasi ferme. E ciò che sta accadendo solleva, purtroppo, più di una preoccupazione. Nel piano di spesa della Sicilia, ad esempio, quasi due terzi dei 178 milioni di euro disponibili verranno destinati all’«accoglienza»e alla formazione, solo il 6 per cento ad attività concrete come l’apprendistato. Per quest’ultima voce («già incentivata da altre leggi») la Sardegna non prevede neppure un euro mentre abbonda in sussidi a formatori e mediatori. La Calabria dal canto suo ha appena chiuso un bando per 500 tirocini con modalità di selezione che rischiano di riprodurre sotto nuove spoglie le tradizionali logiche clientelari.

Dati questi segnali, vi è un’alta probabilità che la “Garanzia” fallisca proprio nelle aree del Paese dove è più necessaria. Invece di innescare dinamiche virtuose nei mercati del lavoro del Mezzogiorno, le risorse europee rischiano di alimentare, come in passato, il sottosviluppo assistito. Bruxelles è preoccupata e non ha ancora formalmente approvato il piano italiano: non una bella figura per il paese che più aveva insistito per mobilitare i fondi Ue e che ora detiene la presidenza di turno. Per evitare il fallimento, il governo deve attivarsi subito su almeno due fronti. Innanzitutto imponendo alle Regioni il rispetto dei criteri minimi di trasparenza ed efficacia nella fornitura dei servizi (costi standard, pagamento sulla base dei risultati, apertura alle agenzie del lavoro private e così via). In secondo luogo, collegando la “Garanzia giovani” in modo più diretto al mondo delle imprese. Occorrono incentivi, accordi, politiche di livello nazionale. Nel Mezzogiorno ciò significa trarre investimenti, avviare una seria politica per il turismo e per i servizi, in modo da facilitare anche iniziative dal basso di autoimpiego e di start-up. Un’opportunità concreta di mettersi in gioco nel mercato, in base alle proprie capacità e ai propri talenti: questa è la vera “garanzia” che dobbiamo offrire ai giovani italiani. Iniziando da quelli (troppi) che oggi non riescono a uscire con le proprie gambe dalle trappole dell’inattività, della disoccupazione e dell’assistenzialismo.

La pietra al collo

La pietra al collo

Davide Giacalone – Libero

22 milioni di italiani ne mantengono 60. Fra i 22 ve ne sono che lavorano, ma non producono. Fra i 38 ve ne sono che producono, ma ufficialmente non lavorano. Leggere in questo modo il dato sulla disoccupazione aiuta a capire il problema, che consiste nel far lavorare regolarmente più persone, non nel creare più mantenuti. C’è un altro punto, nella lettura corrente, che appare capovolto: si reclamano soldi per creare lavoro, laddove sarebbe più logico lavorare per creare soldi. La mentalità dei mantenuti s’è così diffusa che il lavoro è interiorizzato non come funzione della produzione di ricchezza, ma come strumento per la sua più equa distribuzione. Da qui parte la catena di errori che si continua ad allungare, supponendo che dalla recessione si esca pompando i consumi, anziché rilanciando la produzione. Accettando che si dia una mano all’Italia che fa da zavorra, i cui costi sono la negazione della produttività, anziché una spinta all’Italia che ancora corre e porta a casa 400 miliardi di esportazioni (siamo uno dei cinque grandi con la bilancia commerciale, relativa a manufatti, attiva).
Quando leggo che nella pubblica amministrazione si suppone di potere ancora usare strumenti come i prepensionamenti e gli scivoli, che hanno precipitato l’Italia nel baratro del debito crescente, mi domando se chi ne parla è solo mancante di fantasia o proprio ignora la realtà. Quando sentiamo dire che si dovrebbe sfondare il parametro del deficit mi chiedo se nella mente di chi lo dice il debito ulteriore possa essere ripagato con balzi produttivi del 4-5% (stupefacente, nel senso della sostanza assunta), o suppongono che si possa tassare qualche altra cosa, così sprecando anche il debito ulteriore. Per portare quei 22 milioni a diventare non 23 ma 30 (chiamando al lavoro moltissime donne e moltissimi giovani che ne sono fuori), occorre togliere dal groppone di chi lavora il peso della spesa improduttiva e delle garanzie di cui i più giovani non godranno mai. Sì, anche rivedendo i “diritti acquisiti”, perché divenuti ingiustizia consolidata. L’elasticità e la permeabilità del mercato del lavoro non sono le porte della negazione delle garanzie, ma l’uscita di sicurezza per non avere garantita la disoccupazione odierna e l’impoverimento perpetuo.
Il decreto sul lavoro a tempo determinato, pur con qualche bozzo, va nella direzione giusta. Ma perché accontentarsi di segnali e direzioni? Perché non varare subito la normalità dei contratti con minori oneri fiscali e previdenziali, in cambio di minore stabilizzazione e immobilità? Il ministro del lavoro, Giuliano Poletti, avrebbe ragione nel rispondere: intanto questo lo abbiamo fatto. È così. Ma perché poi sente il bisogno di aggiungere che l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori non si tocca? Cancellarlo può anche darsi che sia una bandiera ideologica, ma lo è anche immolarvisi. Ed è una presa in giro, perché è come dire: lo conserviamo, ma dimenticatevelo. Non è onesto. Ed è uno strizzare l’occhio all’Italia zavorra, sputando nell’occhio all’Italia che corre.
Il nostro mercato interno è stato gettato in mare con una pietra al collo, ma reagisce stringendosela al petto e non volendola mollare, quasi fosse l’ultimo scoglio sicuro. La reazione è comprensibile, perché dettata dalla paura. Ma l’unica cosa di cui avere paura è di restare con un terzo degli italiani che ne mantiene due terzi. O con l’elasticità relegata nel mercato che degrada dal grigio chiaro al nero notte, così affidandosi all’illegalità quale valvola di sfogo contro l’immobilità. Il riflesso politico di questa paura è il voto indirizzato a chi promette aumenti di reddito cui non corrispondono aumenti di produttività. Come se non fosse chiaro che quella è la via della perdizione. Non si può ragionare in due tempi: intanto dono, poi riformo. Questa formula porta a un doppio tempo diverso: ora regalo, poi me lo riprendo (con le tasse).
C’è in giro gente che cita Keynes, supponendo sia stato il teorico dello stampare denaro per finanziare i consumi. Figuriamoci: la Teoria Generale è del 1936, mentre la Repubblica di Weimar, e il suo stampificio di moneta, era crollata nel 1933! In un suo mirabile scritto ancora precedente (The End of Laissez-Faire, 1926) avverte di un pericolo: lo stato di povertà e bisogno convince tutti della necessità di cambiare, ma quando non se ne hanno più gli strumenti; mentre lo stato di ricchezza e soddisfazione toglie l’incentivo a cambiare, proprio quando sarebbe più facile e opportuno. Noi siamo in un punto di mezzo, convivendo con la ricchezza diffusa e il diffondersi della paura. Il tempo che stiamo perdendo non ce lo ridarà nessuno.