legge di stabilità

Flessibilità e coperture

Flessibilità e coperture

Dino Pesole – Il Sole 24 Ore

Se la scommessa della manovra “espansiva” da 36 miliardi varata dal governo è provare a invertire il ciclo negativo, non ha molto senso limitare la partita con Bruxelles a una «promozione» o a una «bocciatura». Certo va salvaguardato il rispetto formale delle regole, preoccupazione che sembra nutrire soprattutto la Commissione uscente, ma l’impressione è che ancora non si sia colto il vero problema: con gli attuali tassi di crescita, con la miscela esplosiva di stagnazione e deflazione, occorre imboccare in fretta una strada fatta di investimenti, regole di bilancio più flessibili, sostegno deciso alla domanda interna.

Per quel che riguarda l’Italia, la strategia che il governo sta imbastendo nei contatti di queste ore con Bruxelles non è evidentemente priva di rischi e incognite. Il ricorso alle «circostanze eccezionali» motiva la scelta di rallentare il percorso di consolidamento fiscale, con l’obiettivo di evitare manovre restrittive che avrebbero effetti ulteriormente depressivi del ciclo economico. Poi la scommessa delle riforme. Infine il confronto certamente tecnico ma con risvolti evidenti di policy, sulle stime utilizzate da Bruxelles in particolare per quel che riguarda il calcolo del pil potenziale. Tutti temi al centro della trattativa che si aprirà tra breve con la nuova Commissione Juncker. Nell’immediato – e dunque da qui al 29 ottobre, data in cui la Commissione uscente dirà la sua – si tratta di trovare la sintesi su una posizione di compromesso, anche per non trasformare (è il timore del presidente permanente anch’egli uscente Herman Van Rompuy) il vertice europeo di domani e venerdì in un pericoloso braccio di ferro tra la Commissione e i paesi cui sono dirette le missive, in primis l’Italia, e poi Francia, Slovenia, Malta.

Per salvare la forma, può bastare allora una lettera di richiesta di chiarimenti di Bruxelles, cui seguirà una probabile lettera di risposta in cui vengano riassunti gli intendimenti programmatici del governo e la ratio della legge di stabilità, se necessario mettendo in campo la “dote” di 3,4 miliardi di euro appostata ad hoc nella legge di stabilità? Questione che diverrebbe secondaria, qualora venisse accordata al nostro paese non una cambiale in bianco, ma un’apertura di credito sul versante delle riforme e su una manovra “espansiva” che prova a scommettere sulla crescita. L’alternativa non è nei fatti perseguibile, se ispirata a logiche esclusivamente rigoriste. Per avere una qualche chance di successo, la manovra che ieri sera è approdata al Quirinale finalmente corredata della “bollinatura” della Ragioneria, deve poter contare su coperture certe, soprattutto per quel che riguarda l’effettiva realizzabilità dei tagli alla spesa. In caso contrario, sarebbe arduo difenderla in sede europea. La vera partita con Bruxelles potrebbe così essere direttamente rinviata alla prossima primavera, quando la legge di stabilità comincerà a dispiegare i suoi effetti e si potrà fare il punto sulle riforme approvate.

Leggere una legge

Leggere una legge

Paolo Cirino Pomicino – Il Foglio

Secondo le migliori tradizioni del giornalismo economico, quando ci si trova dinanzi a una manovra finanziaria di fine d’anno e per giunta di questa portata, prudenza impone di leggere prima le norme e poi dare un giudizio completo. Come si sa, infatti, il diavolo si nasconde nei dettagli. Detto questo, una prima valutazione può essere fatta sulla base delle dichiarazioni del presidente del Consiglio e sulle tabelle consegnate in sala stampa. Diciamo subito che questa legge di stabilità presenta alcune luci, diverse ombre e due bugie.

Partiamo dalle luci. La riduzione dell’Irap escludendo dal suo calcolo il monte salari è una scelta che va nella giusta direzione perché alleggerisce il carico fiscale sulle imprese oppresse da diversi anni da una pressione tributaria e contributiva anomala e da una grave crisi della domanda interna e internazionale. È vero che questa norma premia maggiormente le medie e le grandi aziende, ma d’altro canto sono quelle che hanno il maggior numero di occupati. Altra scelta positiva è la vecchia fiscalizzazione degli oneri sociali (cosi si chiamava all’epoca) per i nuovi assunti con un contratto a tempo indeterminato e per soli tre anni, Questa norma abbassa, insieme alla riduzione dell’Irap, il costo del lavoro in maniera significativa e orienta le imprese ad assumere con questo tipo di contratto rispetto alle altre tipologie vigenti. Ma qui finiscono le luci, salvo scoprire nell’intero provvedimento qualche altra cosa di buono.

Le ombre, invece, sono diverse e nella sostanza riguardano i tagli per 15 miliardi di spesa. Innanzitutto è da verificare nel concreto se questi tagli esistono per davvero, e se esistono come noi crediamo perché parte di essi sono tagli lineari ai trasferimenti alle regioni, province e comuni, bisogna capire a cosa danno origine. La cosa più probabile è che parte di essi si trasformeranno in più alte imposte locali mentre un’altra parte si trasformerà in una riduzione della spesa in conto capitale delle regioni e degli enti locali. Entrambi gli effetti andranno a vanificare in parte quelle misure che abbiamo definito come le luci del provvedimento approvato. D’altro canto, affrontando un equilibrio dei conti pubblici e un rilancio della crescita con gli ordinari strumenti a disposizione, difficilmente si può sfuggire a questi effetti uguali e contrari. Come è noto, noi eravamo e siamo tra quanti ritengono che solo un abbattimento di una parte significativa del debito può dare delle risorse fresche perché riduce quella spesa per interessi che da circa 80 miliardi alla finanza nazionale e internazionale, senza dover ricorrere a tagli che amplificano gli input recessivi. Non è un caso che l’Italia quest’anno sarà l’unico paese dell’Eurozona a rimanere con un pil negativo.

E qui passiamo alle bugie. Le prime sono le previsioni in gran parte sbagliate. Quest’anno la nostra crescita negativa, se avviene un miracolo nelll’ultimo trimestre, si può fermare a meno 05-0,6 per cento, cioè circa il doppio di quanto previsto nel documento finanziario con un trascinamento negativo anche sulla prima parte dell’anno prossimo che prevede, peraltro, una striminzita crescita positiva dello 0,6 per il 2015 e che sarà a rischio. Perché in questa manovra manca l’altro tassello fondamentale per fare uscire l’ltalia dal tunnel, e cioè gli investimenti pubblici. Viviamo una crisi della domanda, che non si accresce mettendo un po’ di soldi in più nelle tasche di chi ha già un reddito (80 euro o il tfr nella busta paga), perché in costanza di crisi questi soldi si trasformano in risparmi per un futuro che resta ancora incerto. La domanda si accresce se si allarga la base occupazionale e il “la” lo danno gli investimenti pubblici che languono e ora rischiano di diminuire ulteriormente sul versante degli enti locali. Alla stessa maniera manca qualunque incentivo per gli investimenti privati, come un più rapido ammortamento degli investimenti fatti nei prossimi 18 mesi, una norma premiante a termine, capace di sollecitare le aziende a cogliere questa opportunità e ad anticipare i propri investimenti.

Abbiamo lasciato per ultima la bugia più grande perché ci intenerisce come una vecchia gag di Totò. Il presidente del Consiglio ha detto che con questa manovra si tolgono 18 miliardi di tasse. Non è vero. Renzi calcola come riduzione di tasse il mantenimento dei famosi 80 euro del maggio scorso. Se non li avesse confermati noi avremmo avuto un aumento delle tasse; avendoli confermati, l’aumento non c’è stato, ma nemmeno la riduzione rispetto all’anno che sta per finire. Per dirla meglio, se la detrazione che produce il beneficio degli 80 euro viene fatta con norme che si rinnovano anno dopo anno, secondo Renzi dopo 5 anni avremo ridotto la pressione fiscale di 50 miliardi o saremo rimasti sempre al palo di quelle detrazioni che danno i famosi 80 euro? Si dia una risposta! Se non volessimo bene a Renzi, ai suoi lupetti e ai tanti dc presenti nel governo e nel Pd, diremmo che questa comunicazione è un imbroglio. In verità è il frutto di una velenosa tentazione mediatica e di una giovinezza goliardica. Certo è che la riduzione della pressione fiscale è solo quella dell’Irap e quella contributiva è nei limiti di due miliardi per l’esenzione contributiva dei nuovi assunti con contratto a tempo indeterminato. Non pochi ma molto lontani da ciò che serve all’Italia per uscire dalle secche.

Radiografia di bonus, sconti e sgravi. La trappola delle tasse che verranno

Radiografia di bonus, sconti e sgravi. La trappola delle tasse che verranno

Mario Sensini – Corriere della Sera

Una manovra tutta puntata al rilancio della crescita, con un cospicuo taglio delle tasse, forti incentivi alle assunzioni a tempo indeterminato e molte riforme, che segna una svolta espansiva nella politica economica, finora restrittiva. Ma che non è povera di rischi, legati all’efficacia delle misure e ai giudizi della Ue, ed impliciti nel mantenere il deficit ancora a lungo appena un pelo sotto il tetto massimo del 3% del prodotto interno lordo. Per la prima volta dopo tanti anni, è una legge di bilancio che dà più di quanto non toglie. Ma solo nell’immediato, perché lascia in eredità al futuro molte più tasse di quante non ne elimini oggi: 18 miliardi nel 2016, 24 nel 2017, 28 nel 2018. Almeno secondo quanto prevede il testo non ancora vidimato dalla Ragioneria generale e non ancora arrivato in Parlamento.

La riduzione delle tasse
Il bonus di 80 euro, dal quale si attende un rilancio dei consumi che finora non c’è stato, viene confermato, ma la platea non viene allargata. Restano, dunque, i problemi legati all’equità della misura, che non riguarda ad esempio gli incapienti o i pensionati (il che rende anche problematica la sua trasformazione in detrazione fiscale, a rischio costituzionale), e che ha qualche effetto perverso, come quello di penalizzare le famiglie povere monoreddito. Oltre al bonus per le famiglie arriva quello per i bebè, con un limite di reddito molto alto per poterne beneficiare, 90 mila euro, che fa discutere.

Per le imprese ci sono forti incentivi alle assunzioni. Non si pagherà più l’Irap sulla componente lavoro, ma vengono annullate le riduzioni precedenti dell’aliquota. Con effetto, sembra di capire, già sull’anno di imposta corrente, il 2014. Lo sgravio, così, vale 4 miliardi, e premia soprattutto le imprese ad alta intensità di manodopera. Accanto c’è la decontribuzione per i nuovi assunti a tempo indeterminato, ma non c’è molta chiarezza sui costi. Un miliardo, aveva detto Renzi, forse più si dice oggi. Lo stanziamento, in ogni caso, coprirebbe 850 mila nuovi contratti, più o meno metà di quelli che si fanno di solito in un anno.

Per le partite Iva viene esteso il cosiddetto regime dei minimi ad una platea più vasta, ma entro limiti di reddito più bassi e con l’aliquota passata dal 5 al 15%. La legge di Stabilità, poi, stanzia 1,5 miliardi per i nuovi ammortizzatori sociali, anche se per la Cig in deroga, nel 2013, si è speso quasi il doppio. E prevede l’opzione per il trasferimento del Tfr in busta paga. Soldi subito, anche a caro prezzo perché in molti casi si pagherebbero tasse più alte, e una pensione di scorta più leggera domani.

Tagli e nuove entrate
Finché si tratta di dare, i problemi sono relativi. Molto meno quando si tratta di recuperare le risorse. La manovra prevede 6,1 miliardi di tagli alle amministrazioni centrali dello Stato, di cui 4 dai ministeri e 2 dalla riduzione delle cosiddette spese «a politiche invariate», dalle missioni di pace al 5 per mille, che ora vengono coperte strutturalmente. Ma spuntate. I ministeri dovrebbero approfittare della centralizzazione degli acquisti, ma 4 miliardi sono comunque una cifra enorme. Tagliare usando discrezionalità è stato sempre difficile e lo è ancor di più con il bilancio ridotto all’osso: il rischio, di nuovo, è che per ottenere il risultato si ripiombi sui tagli lineari, molti dei quali creano un rimbalzo della spesa negli anni successivi. I tagli agli enti locali sono egualmente pesanti (4 miliardi per le Regioni, 2,1 per i Comuni, 1 per le Province), ma con il Patto di Stabilità interno il rischio di non portarli a casa è basso. Come, d’altra parte, è elevato quello di un parallelo aumento delle tasse locali. Con sindaci e governatori non sarà facile arrivare a un’intesa. C’è la possibilità che la sforbiciata finisca per colpire anche la spesa sanitaria.

La manovra prevede poi quasi 4 miliardi di recupero dall’evasione. È un punto critico, perché in passato queste cifre non venivano messe in bilancio come incasso sicuro, o a copertura di spese certe. Alcune misure danno un maggior gettito automatico, come il «reverse charge» sull’Iva (900 milioni), o il prelievo delle banche, a titolo di acconto, sui bonifici relativi alle fatture per le ristrutturazioni edilizie ( altri 900). Meno sicuro è il gettito atteso da altre misure, dal nuovo ravvedimento operoso alla stretta sugli «split payments», cioè i pagamenti frazionati per ridurre l’imposta. Tanto che si affaccia la possibilità di sostituire queste coperture col classico aumento delle accise.

Le incognite sul futuro
Per coprire le spese e per correggere il deficit, dopo un 2015 di pausa nel percorso di risanamento, la manovra prevede fin da ora un forte aumento dell’Iva e, ancora una volta, delle accise. E sconta tuttora una riduzione molto forte delle detrazioni Irpef. Nel 2016 l’aliquota Iva del 10% passerebbe al 12, poi al 13% nel 2017, mentre quella del 22 salirebbe prima al 24, poi al 25 e al 25,5% nel 2018. Nello stesso tempo si prevede un taglio delle detrazioni Irpef per 4 miliardi nel 2016, e 7 negli anni successivi. La manovra, per ora, ha solo scongiurato una parte del taglio degli sconti fiscali, quello che doveva scattare già quest’anno, poi rinviato al 2015, da 3 miliardi. Sul futuro, dunque, pende un fortissimo aumento delle imposte, quasi 20 miliardi nel 2015, e 30 nel 2018. Misure che potranno essere sempre sostituite da altri provvedimenti, come i tagli di spesa. Anche se a blindare la manovra, ora, ci sono più tasse di quelle che si riducono.

Una manovra di respiro strategico

Una manovra di respiro strategico

Marco Leonardi – Europa

I commenti alla manovra finanziaria si sono concentrati principalmente sui saldi di una manovra che ad alcuni appare coraggiosa e ad altri pare un azzardo. Vorrei invece concentrarmi sul disegno complessivo della manovra e sul progetto politico sottostante. Prima ancora che essere un insieme di poste di entrate e di uscite, la legge di stabilità è la principale proposta politica che un governo fa al paese e merita quindi di essere analizzata dal punto di vista della coerenza.

Matteo Renzi per la prima volta ha adottato un atteggiamento diverso nei confronti dell’Europa rispetto i suoi predecessori. Oggi è possibile fare una manovra che prevede 11 miliardi di debiti in più di quello che era stato previsto per via delle condizioni di crisi persistente e per via della posizione similmente critica della Francia che, nella sua legge finanziaria, va bene oltre il limite del 3 per cento del deficit. Tuttavia è da notare che l’atteggiamento di Renzi verso l’Europa è rovesciato rispetto ai tempi che lo precedono. Mentre finora i presidenti del consiglio sostenevano di dover fare a malincuore delle riforme impopolari per far fronte alle richieste dell’Europa, ora Renzi sostiene di agire non perché ce lo chiede l’Europa ma perché le riforme, anche se impopolari, servono all’Italia. In questa cornice di una nuova assunzione di responsabilità nazionale si legge meglio l’architettura e il merito dei provvedimenti della Finanziaria 2015.

L’architettura principale della legge di stabilità mantiene la promessa che tutti i tagli di spesa verranno utilizzati per ridurre in maniera equivalente le tasse e non andranno a finanziare nuova spesa. Questo punto non è affatto scontato visto che nelle passate manovre finanziarie erano previsti aumenti di tasse accanto a tagli di spesa. E visto che ancora oggi la critica principale da sinistra della manovra finanziaria è proprio che non si prevedono nuovi investimenti pubblici. La filosofia della manovra è incentrata sulla visione che i tagli di tasse (necessariamente a livello nazionale) siano il miglior volano della crescita, mentre gli investimenti pubblici sono meglio concepiti su scala europea piuttosto che nazionale (i famosi 300 miliardi di Juncker). All’interno delle riduzioni di tasse c’è lo spostamento del carico fiscale dal lavoro alle rendite, già iniziato con l’aumento della tassazione sulle rendite nei mesi passati.

Al di là di qualche spesa aggiuntiva come quella per l’assunzione dei precari della scuola e lo stanziamento per le forze dell’ordine, tutte le altre maggiori uscite sono riduzioni di tasse. Oltre alla conferma del bonus di 80 euro per i lavoratori dipendenti, che dall’anno prossimo prenderanno forma di riduzione fiscale, l’abolizione dell’Irap sul costo del lavoro (limitata al lavoro a tempo indeterminato) e la previsione di 1,9 miliardi per la decontribuzione dei contratti a tempo indeterminato firmati nel 2015 per tre anni costituiscono il cuore della legge finanziaria 2015.

Il disegno della manovra non si comprende se non in un contesto collegato alla riforma del mercato del lavoro. La proposta del governo è infatti quella di passare gradualmente da un mercato del lavoro fatto principalmente di contratti a termine per i giovani ad un mercato del lavoro costituito da contratti a tempo indeterminato. Per fare questo sì è affrontato il tema spinoso dell’articolo 18 e nella legge finanziaria coerentemente con questo disegno sono presenti due misure necessarie a far funzionare il contratto a tempo indeterminato: il taglio dei contributi sociali per tre anni e il taglio dell’Irap sul costo del lavoro, non a caso entrambe le misure sono limitate ai soli contratti a tempo indeterminato.

Questo è il tratto di coerenza della manovra finanziaria: il governo scommette tutto sulla trasformazione del mercato del lavoro. Il decreto Poletti ha rilanciato le assunzioni con la liberalizzazione del contratto a termine e la semplificazione dell’apprendistato, ma certamente il contratto a termine non può essere considerato il centro della proposta politica del governo. La sfida sta nella trasformazione dei contratti a termine in contratti a tempo indeterminato e possibilmente nell’aumento complessivo dell’occupazione.

Anche il provvedimento sul Tfr in busta paga assume un senso diverso se inteso nel progetto complessivo di trasformazione del mercato del lavoro. Se si passa a un mondo in cui la tutela del posto di lavoro non è più reale (l’articolo 18) ma è un’indennità monetaria, allora si può pensare che il Tfr sia meno necessario di prima. L’istituto del Tfr (che è un unicum italiano) nacque infatti nel contesto di un mercato del lavoro in cui il posto di lavoro era presumibilmente per sempre ma nello sfortunato caso del licenziamento non c’era altra forma di compensazione (se l’impresa non avesse avuto la cassa integrazione). Il Tfr quindi non è solo una forma di risparmio “forzoso” a integrazione della pensione ma anche il sostituto di un’indennità monetaria in caso di licenziamento. Oggi, dopo la riforma, questa indennità monetaria ci sarebbe per legge e quindi una delle due ragioni per accumulare Tfr viene meno. Se si utilizza il criterio della coerenza interna della legge finanziaria si capiscono anche il perché di alcune scelte che a prima vista possono sembrare penalizzanti. In primo luogo il governo ha deciso di sottoporre a tassazione ordinaria invece che all’aliquota agevolata il flusso di accantonamento del Tfr che il lavoratore, dal 2015 potrà chiedere gli venga messo nello stipendio anziché andare al fondo pensione o restare in azienda ai fini della liquidazione. Allo stesso modo ha deciso di innalzare il prelievo sui rendimenti del Tfr dall’11,5 al 17% (e dei fondi pensione dall’11,5 al 20%). Può essere una misura penalizzante della previdenza integrativa ma è sicuramente coerente con il progetto di trasferire parte del carico fiscale dal lavoro alle rendite finanziarie: saranno pure Tfr o fondi pensione ma pur sempre rendite finanziarie sono. In secondo luogo la deducibilità totale del costo del lavoro dalla base imponibile riguarda esclusivamente la forza lavoro a tempo indeterminato. Ed è controbilanciata dalla cancellazione del taglio del 10% dell’aliquota Irap decisa ad aprile. L’Irap torna quindi al 3,9% (dal 3,5%) sulla componente lavoro a tempo determinato (e sui profitti e interessi passivi). Significa che il governo fa sul serio nel tentativo di promuovere il contratto a tempo indeterminato. Si è sempre detto che il miglior modo per incentivarlo è farlo costare di meno rispetto ai contratti a termine. Ecco un modo concreto per farlo.

Merita un commento anche la scelta della decontribuzione per tre anni dei nuovi contratti a tempo indeterminato. La preoccupazione è che lo stanziamento di 1,9 miliardi non basterà. Con questa somma, le aziende potrebbero assumere poco più di 300mila persone a tempo indeterminato mentre ogni anno vengono attivati circa un milione e mezzo di contratti a tempo indeterminato. Per questo è possibile che si metteranno dei vincoli all’utilizzo degli incentivi (tipicamente si limita la platea alle aziende che creano occupazione addizionale rispetto all’anno precedente). Senza esagerare però, perché anche i due governi precedenti avevano stabilito degli incentivi ai nuovi contratti a tempo indeterminato ma le difficoltà burocratiche per accedere agli incentivi stessi e il loro limitarsi agli occupati con livelli di istruzione bassi e ai disoccupati di lungo periodo, li hanno resi inefficaci.

Certo è che l’esperienza internazionale ci insegna che i sussidi all’occupazione sono efficaci se oltre ad essere universali sono strutturali, ma il governo anche in questo caso ha scelto degli incentivi generosi e brevi (tre anni) invece che incentivi più modesti ma strutturali. A mio parere è il segno ancora una volta che si punta tutto sul contratto a tempo indeterminato sapendo che dovrà superare la concorrenza del contratto a termine e che su questo il governo verrà giudicato a breve. Solo in un futuro più certo si potrà agire per via legislativa e limitare la facilità dei contratti a termine. Solo quando si è sicuri che è cambiata la percezione del contratto a tempo indeterminato nella testa degli imprenditori e quindi non si rischia, limitando il contratto a termine, di ostacolare la creazione di posti di lavoro.

Regioni senza cassa, Stato in bolletta

Regioni senza cassa, Stato in bolletta

Roberto Sommella – Europa

Se si vuole cercare una data precisa per capire da quando le finanze pubbliche hanno cominciato a prendere una brutta piega, non ci si può sbagliare. è il primo gennaio 2002, l’anno della nascita dell’euro e della concreta attuazione della riforma del titolo V della Costituzione. Se l’avvento della moneta unica ha comportato un passaggio storico in termini di minore costo del denaro, dall’altra ha segnato una costante devoluzione dei poteri economico-monetari alle istituzioni comunitarie.

La stessa cessione di sovranità che è avvenuta in contemporanea a favore delle regioni, sulla base della nuova suddivisione delle funzioni legislative tra stato centrale e periferico. è allora che si è aperta la forbice che sta ora dilaniando i rapporti tra il governo (Renzi arriva buon ultimo dopo Berlusconi, Monti e Letta) e i governatori. Il primo, a causa della crisi finanziaria del 2008 e della recessione che dura dal 2011, ha dovuto varare manovre per oltre 200 miliardi di euro, soprattutto fatte di tasse, per ottemperare ai Trattati. I secondi, si sono trovati a fare i conti con una situazione sempre più precaria dal punto di vista dei trasferimenti dello Stato alle regioni, governando di fatto in mezza Italia uno situazione di pre-default finanziario.

In sostanza, con la riforma fatta a maggioranza dal centrosinistra nel 2001, mentre lo Stato centrale si consegnava mani e piedi alle rigide regole di bilancio di Bruxelles e di Francoforte, inevitabilmente indebolendosi, dall’altra gran parte del peso della gestione amministrativa locale si spostava sulle spalle di regioni ognuna diversa dalle altre, in un federalismo del tutto incompiuto. Con il risultato all’amatriciana: abbiamo i lander, ma chi li presiede non ha poteri compiuti dal punto di vista della devolution fiscale né dei costi standard da applicare alla spesa per beni e servizi. Sono proprio questi gli anni (dal 2001 ad oggi) in cui, non sarà un caso, il debito pubblico italiano è passato da 1.620 miliardi di euro (solo il 108% del Pil) a 2.148 miliardi (oltre il 133% del Pil, ora 127% per via dei nuovi criteri di calcolo Eurostat): in termini assoluti, 528 miliardi in più, uno score catastrofico.

Eppure basta rileggersi con attenzione l’articolo 117 della Costituzione, novellato proprio da quella revisione di inizio millennio, per capire che si sarebbe andati a sbattere. È lunghissima e piena di ricadute finanziarie la lista delle cosiddette materie “di legislazione concorrente” e cioè di competenza esclusiva delle regioni, un mare magnum che soffoca ogni logica senza un adeguato sistema di controlli ex ante della spesa e un analogo potere impositivo territoriale, che permetterebbe agli elettori di giudicare i propri amministratori anche e soprattutto dal punto di vista dei servizi offerti. Vale la pena ricordarli, solo per farsi un’idea della mostruosità e economica e forse anche giuridica. Rapporti internazionali e con l’Unione europea; commercio con l’estero, tutela e sicurezza del lavoro; istruzione (salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale); professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; previdenza complementare e integrativa; armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale. Gran parte di queste mansioni va gestita con i soldi dello Stato centrale. Un’assurdità.

L’interminabile elenco spiega più di tante altre parole come sia potuto accadere che oggi, nel 2014, lo Stato abbia un debito pubblico che lo impegna per 80 miliardi di euro di interessi all’anno e ben sei regioni (Abruzzo, Calabria, Campania, Lazio, Molise, Sicilia) siano costrette ad attuare forzosi piani di rientro dal deficit sanitario che per alcune di esse supera e di molto il miliardo di euro. Spetta alla Corte dei conti, ma solo a babbo morto e quindi ex post, cercare di fare luce su una situazione al limite del collasso; ai governi, come quello attuale, tocca invece il gravoso compito di chiedere sacrifici anche agli amministratori locali tagliando, come nel caso della legge di stabilità, 4 miliardi su 36 di computo totale.

È una strada ancora percorribile quella di impugnare le forbici a palazzo Chigi quando molti poteri (persino molti beni, come nel caso della devolution immobiliare) sono volati via? Se si ragiona nell’ottica dei sacrifici necessari data l’urgenza del momento, la risposta è affermativa. Ma in un’ottica di lungo periodo diventa impossibile andare avanti così. Esecutivo e amministratori regionali devono mettersi intorno ad un tavolo non tanto per avviare il consueto balletto di modifiche ai tagli inseriti nella manovra, quanto per porre mano alla doverosa e non più procastinabile revisione della riforma del Titolo V. Se è vero che senza rappresentanza non può esserci tassazione, a maggior ragione senza poteri fiscali non si possono delegare funzioni cruciali del vivere sociale a mega-organismi dai piedi (e dai bilanci) d’argilla. Questo al netto degli scandali che hanno colpito quasi tutti i consigli regionali e delle inchieste che ne seguono in alcuni casi l’evolversi. Lo Stato è diventato una Ferrari che deve consumare come una Panda, il sistema delle Regioni è l’esatto contrario. La benzina è la stessa e sta finendo per tutti.

Una condotta inaccettabile

Una condotta inaccettabile

Davide Giacalone

Mettiamo, per pura ipotesi teorica, che la Ragioneria generale dello Stato abbia avuto ragioni per non “bollinare” la legge di stabilità, non convalidandone le coperture, o che il Quirinale, dopo l’attento esame promesso, ne abbia rilevato le incongruenze e ne chieda la riscrittura. A quel punto il governo italiano dovrebbe ritirare il testo inviato alla Commissione europea, totalizzando una continentale figura barbina. Uscendo dall’ipotetico e dal teorico, quindi, se qualche aggiustamento dovrà essere fatto si dovrà procedere quasi di soppiatto, per evitare di danneggiare l’Italia.
Ciò significa che l’invio temerario, l’esposizione scoppiettante, l’integrazione nelle trasmissioni televisive innescano un pericoloso conflitto istituzionale, mettendo la Ragioneria e il Colle nelle condizioni di dovere rinunciare al proprio ruolo (più la Ragioneria, per la verità, perché questa storia che al Quirinale si debbano sempre rifare i conti e rivedere tutto è fuori dai binari costituzionali, è un allargamento smisurato della prudenza che volle la firma del Colle).
In altre parole, sono con le spalle al muro: o validano o ci espongono a pericoli eccessivi. Proprio per ragioni di convenienza, nel braccio di ferro che si è determinato nell’intera Unione europea, era stato suggerito al governo italiano di anticipare la legge di stabilità. Di presentarla ben prima della scadenza ultima (15 ottobre). Hanno preferito attendere l’ultimo minuto. Per essere precisi, però, lo hanno sforato, perché è vero che il testo è stato spedito entro i termini, ma, come si dimostra, privo dei necessari visti. Senza contare che il dibattito pubblico, da una settimana, si sviluppa senza che esista un testo da leggere e studiare, ma solo slides e interviste da commentare. Non è semplice malcostume. È una condotta inaccettabile.
Danno e beffa ai pensionati, la stangata è pure retroattiva

Danno e beffa ai pensionati, la stangata è pure retroattiva

Antonio Castro – Libero

Non solo Matteo Renzi vuole aumentare le tasse sui rendimenti degli investimenti dei fondi pensione dei professionisti privati (dal 20 al 26%), e innalzare quelle sui guadagni realizzati con l’accumulo dei versamenti delle polizze integrative (dall’11,5 al 20%), ma intende anche farlo retroattivamente partendo dal 1˚ gennaio 2014, ovvero quando a Palazzo Chigi c’era ancora il suo predecessore Enrico Letta.

Spulciando tra le bozze (non bollinate) della legge di Stabilità 2015 è saltato fuori, infatti, che il balzello non si applicherà solo dal 2015, ma è addirittura retroattivo al gennaio scorso, in barba allo Statuto dei contribuenti e al buon senso. Casse private e fondi integrativi saranno sottoposti a un prelievo straordinario che, tirando le somme, supererà complessivamente i 500 milioni di euro. Prelievo che metterà in difficoltà le casse e che azzererà qualsiasi welfare di categoria (sussidi ai disoccupati, prestiti, case di riposo, ecc). Con un patrimonio di oltre 61 miliardi (di cui 8 investiti in titoli di Stato), le 19 casse previdenziali dei professionisti rappresentano del resto un tesoretto che fa gola a qualsiasi governo, ma che mai era stato così violentemente intaccato.

Da qualche anno, ai fini statistici Istat e Eurostat, il patrimonio privato delle Casse viene computato nelle voci in attivo dello Stato, come se si trattasse di asset pubblici. Ma si tratta solo di un giochino contabile (ideato dall’ex ministro Giulio Tremonti), per dimostrare a Bruxelles che i conti dell’Italia non sono/erano poi così disastrosi. In verità gli enti pensionistici rientrano nel «perimetro dello Stato», solo perché gestiscono un servizio pubblico (la previdenza), sono sottoposti al controllo dei ministeri vigilanti (Lavoro e Tesoro), ma neanche un euro di questi soldi viene dalle casse pubbliche. La privatizzazioni degli enti, e l’autonomia di gestione e investimento, è stata barattata decenni addietro (1995) dimostrando la sostenibilità attuariale dei conti previdenziali e garantendo così che la fiscalità pubblica non sarà costretta a coprire eventuali disavanzi. Di più: con la famosa ministra Elsa Fornero alle casse venne chiesto uno sforzo ulteriore: dimostrare la sostenibilità previdenziale e finanziaria a 50 anni.

Insomma, sono stati fatti i calcoli e applicati interventi e riforme per non far esaurire il patrimonio e garantire così, per il prossimo mezzo secolo, l’erogazione delle pensioni. Le casse hanno tutte (tranne una), superato questo stress test previdenziale, ottenendo dal ministero del Welfare il sigillo della sostenibilità. Se ora però si cambiano le regole e si raddoppia quasi la tassa sui rendimenti degli investimenti (unico caso in Europa di doppia imposta), c’è il rischio che alcuni enti non riescano a far quadrare i conti. E senza la sostenibilità futura potrebbe scattare il commissariamento da parte del Welfare e quindi l’assorbimento (patrimonio incluso) nel SuperInps, che nell’immediato avrebbe solo da guadagnarci dall’ingoiare i patrimoni dei professionisti. Solo che dopo questa annessione le pensioni accumulate (e i relativi contributi e rendimenti) verrebbero regolate dall’Inps, quindi dal governo. Domani, 23 ottobre, i presidenti delle Casse riuniti nell’Adepp, decideranno le contromisure. E hanno già minacciato di vendere in blocco gli investimenti in titoli della Repubblica italiana (8 miliardi circa).

E che dire del salasso sulla previdenza integrativa? Per decenni (dal 1993 all’altro ieri), governi ed esperti previdenziali ci hanno fato venire il mal di testa ripetendoci che dovevamo mettere da parte qualcosa in più per la vecchiaia, perché con il sistema contributivo meno generoso del retributivo sarebbero statiti guai. Ora la legge di stabilità consente di dilapidare il trattamento di fine rapporto (Tfr) per campare oggi da cicale, fregandosene del futuro di povertà. L’aumento della tassazione dei proventi percepiti dai fondi pensione integrativi (patrimonio 2013 110 miliardi), passa infatti dall’11,5% (era l’11% fino ad aprile, primo scippo targato Renzi), al 20%, e avrà efficacia retroattiva dal 1˚ gennaio 2014. C’è di buono che per chi avesse già incassato al momento della pubblicazione della legge (fine dicembre 2014?) il tesoretto personale messo da parte (per i vecchi iscritti è possibile infatti chiedere la liquidazione di tutto quanto accumulato invece di incassare una rendita mensile), dovrebbe scattare una parziale compensazione, ovvero il fisco non reclamerà le maggiori tasse sui riscatti avvenuti nell’anno. Anche per gli enti non commerciali e le fondazioni bancarie aumenterà retroattivamente l’imposta. In tutto Renzi è a caccia di 3,6 miliardi. Nero su bianco, sulle slide della scorsa settimana.

Le certezze che mancano

Le certezze che mancano

Federico Fubini – La Repubblica

Il passo del governo di recente è così rapido che è mancato il tempo di ripensare a un dettaglio. È un peccato, perché su di esso si giocano la legge di Stabilità o il rapporto dell’Italia con il resto d’Europa. E quel dettaglio è ingombrante: quest’anno le previsioni di crescita si sono dimostrate fuori bersaglio di 15 miliardi. L’Italia credeva di essere in ripresa, ma era in recessione.

Si tratta di capire come sia stato possibile sbagliare la mira di tanto. È una domanda decisiva per la legge di Stabilità in gestazione, perché nella soluzione di quel rebus il governo di Matteo Renzi può trovare una guida che gli eviti nuove trappole. L’Italia nel 2014 è andata peggio del previsto in parte perché l’export ha deluso, anche a causa della frenata in Cina, Russia o Germania. Ma l’altra origine della recessione del 2014 è più vicina a casa ed è questo che conta per la legge di Stabilità 2015: il Pil è sceso perché gli italiani hanno investito in costruzioni e macchinari industriali molto meno del previsto. Gli investimenti dei privati sono scesi del 2%. È mancata la fiducia: chi ha denaro da mettere al lavoro per creare impianti lo ha tenuto fermo, incapace di farsi un’idea su cosa lo aspetta sulle tasse, le regole del lavoro o i tempi della giustizia.

L’incertezza produce paralisi, ma proprio per questo ha un ruolo di primo piano nella legge di Stabilità di cui ieri al Quirinale hanno parlato Giorgio Napolitano e Matteo Renzi. Il nuovo bilancio potrà contenere o togliere un premio ai ceti medio-bassi o ai fondi pensione, togliere tasse dalle imprese o dai nuovi contratti e imporre tagli agli enti decentrati. Ma non otterrà quello che vuole – il primo anno di crescita dal 2010 – se non produce certezze su ciò che gli italiani si devono attendere da ora in poi. In assenza di questo ingrediente immateriale, nessuno investirà per ampliare un cementificio, aprire un ristorante, situare una fabbrica in Italia anziché in Romania.

Quanto a questo, i fotogrammi che passano sotto gli occhi in queste ore non aiutano. Non c’è dubbio che la Ragioneria generale dello Stato alla fine metterà il suo timbro sulla legge di Stabilità, né che il capo dello Stato assecondi – nel suo ruolo – la spinta di Renzi per disincagliare l’economia. Qualche dubbio invece può esserci sulla capacità di questa legge di bilancio di produrre certezze. L’aggiornamento al documento di economia e finanza del Tesoro, un paio di settimane fa, annuncia che anche nei prossimi anni gli italiani cammineranno su un terreno mobile. L’Iva può salire in automatico di 12 miliardi nel 2016 e fino a 21 nel 2018 se non fossero raggiunti gli obiettivi di deficit. Il Tesoro stesso avverte che ciò può portare a una caduta di consumi e investimenti e meno Pil per circa 10 miliardi. Sulla base di una nota a pie’ di pagina nei documenti del governo, non è facile rischiare i propri soldi per produrre beni o servizi al consumatore in Italia. Più difficile ancora se, per varare la legge di Stabilità su un terreno solido in termini contabili, una clausola simile fosse inserita già dal 2015.

L’incertezza ha un suo modo virale di trasmettersi e questa viene da quella di certi provvedimenti inseriti a copertura dei tagli di tasse nella legge di Stabilità. Già da ora il governo per esempio prevede entrate in più per 3,8 miliardi dalla lotta all’evasione. Le novità su questo fronte sono importanti e una di queste è il pagamento dell’Iva da parte dei committenti, non più da parte di imprese di pulizia o costruzioni che spesso “dimenticano” di farlo. Yoram Gutgeld, consigliere di Renzi, è in buona fede quando prevede che le risorse dalla lotta all’evasione saranno anche maggiori del previsto. Ma tredici anni di impegno su questo fronte hanno prodotto dieci miliardi e, se avverrà, il 2015 segnerebbe dunque un balzo straordinario. Certo quest’anno le risorse dall’evasione sono state di 300 milioni, dieci volte meno. Prudenza imporrebbe di non dar quasi niente per scontato e tenere conto dei risultati solo a fine anno: così farà la Commissione europea nel giudicare il bilancio italiano, non a caso il governo deve ricorrere alle maxi-clausole sull’Iva che bloccano la visibilità sul futuro.

Altri dubbi si potrebbero poi avere sui 6,2 miliardi di tagli su regioni e enti locali. La realtà dell’Italia di oggi è che moltissime amministrazioni hanno conti in parte falsi, da ripulire dolorosamente: trovare sei miliardi in più di economie presuppone una profonda riorganizzazione dei poteri locali, del loro numero e dei loro statuti autonomi o speciali. Eppure nessuno ne parla, meno di tutti il governo. Renzi ha impostato una legge di Stabilità per dare una scossa positiva alle famiglie e alle imprese, a costo di sfidare la Commissione Ue. Ormai non gli serve a nulla trovare nuovi capri espiatori se qualcosa non va. Il suo compito, più faticoso, adesso è solo produrre certezze.

Troppa confusione sui servizi alla natalità

Troppa confusione sui servizi alla natalità

Il Sole 24 Ore

In attesa del testo definitivo della legge di Stabilità valgono alcune prime considerazioni sul nuovo fondo per la maternità da 500 milioni di euro del Governo Renzi. La prima: lo soglia di 26mila euro Isee (e senza limiti dal quinto figlio) individuata è molto elevata per un paese nel quale ci sono 1,4 milioni di minori in povertà assoluta e per i quali ancora non esiste una misura universale di assistenza. Basti ricordare che l’attuale social card da 40 euro al mese va a beneficiari con un Isee non oltre i 6mila euro. Così si rischia, come avvenuto in passato, di dare soldi a mamme che non ne hanno alcun bisogno. Seconda considerazione: nel resto d’Europa le politiche per il sostegno della natalità si fanno con i servizi sul territorio, non con trasferimenti monetari. Terzo: attualmente esistono già cinque istituti che destinano risorse per 15 miliardi con criteri del tutto scoordinati e che potrebbero essere razionalizzati. Insomma la confusione è ancora tanta, speriamo che nelle prossime ore e durante l’iter parlamentare ci siano i margini per rimediare.

Tasse retroattive, il vizio dei governi

Tasse retroattive, il vizio dei governi

Massimo Fracaro e Nicola Saldutti – Corriere della Sera

Il tempo, per il Fisco, assomiglia a una sorta di variabile indipendente. E il calendario, a pensarci bene, può persino girare al contrario. Dicembre, novembre, ottobre, settembre. Accade spesso, anzi troppo spesso che, per esigenze di bilancio, si decida di spostare all’indietro le lancette dell’orologio. E introdurre così aumenti delle tasse con effetto retroattivo. Un vizio comune a tutti i governi degli ultimi anni e che ha contagiato lo stesso Parlamento. Un giochetto (di prestigio) che consente, in pratica, di concedere sgravi a qualche contribuente, penalizzandone, però, altri. O di tappare, per questa via, improvvise falle nei conti pubblici.

L’ultimo esempio è quello dell’Irap, l’imposta regionale sulle attività produttive. Nella legge di Stabilità è appena stato deciso di alleggerirla per chi farà nuove assunzioni, soprattutto con contratti a tempo indeterminato, con una riduzione dell’aliquota dal 3,9 al 3,5%. Peccato che ci sia l’altro lato della medaglia: per tutti gli altri imprenditori, che non assumeranno, non perché sono cattivi ma perché non possono, l’imposta torna al livello precedente, al 3,9%. Da quando? Non dall’entrata in vigore della legge di Stabilità fissata per gennaio 2015 – dopo, probabilmente un estenuante dibattito parlamentare e la stesura di un maxi emendamento -, ma da gennaio scorso. Sì, da gennaio 2014, con dodici mesi d’anticipo.

Si dirà che anche i vantaggi sono retroattivi, ma in questo caso, come accade con il Codice penale, la norma dovrebbe essere favorevole al reo (in questo caso il cittadino-imprenditore). Retroattivi, ad esempio, sono stati i tagli ad alcune detrazioni fiscali (polizze vita). Come gli aumenti delle addizionali locali del 2011. Retroattivo rischia di essere anche l’incremento dall’11,5% al 20% del prelievo annuo sui rendimenti dei fondi pensione. E, quando non si aumentano le tasse, si cambiano le regole del gioco. A vantaggio dell’Erario, ovviamente. Si calcola che, solo nel biennio 2011 e 2013 siano state approvate imposte retroattive per un valore di circa 5,5 miliardi.

Viene quindi da chiedersi quale validità abbia ancora lo Statuto del contribuente, varato nel 2000 e presentato come il provvedimento che avrebbe reso più equilibrato e corretto il rapporto tra il Fisco (lo Stato) e i cittadini. Lo Statuto, articolo 3, stabilisce che «le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo. Relativamente ai tributi periodici le modifiche introdotte si applicano solo a partire dal periodo d’imposta successivo». Ma questa norma viene spesso bypassata spiegando che si tratta di un’eccezione.

Secondo lo Statuto, le leggi che trattano un argomento diverso da quello tributario non possono intervenire in materia fiscale, se non per la parte di stretta pertinenza. E invece le tasse si moltiplicano proprio là dove non dovrebbero esserci e dove nessuno se le aspetta. Un esempio? Il taglio alla deducibilità dei costi delle auto aziendali introdotto per finanziare la legge Fornero sulla riforma del mercato del lavoro. All’articolo 4 si stabilisce che non si può disporre con decreto-legge l’istituzione di nuovi tributi né prevedere l’applicazione di tributi esistenti ad altre categorie di soggetti. Mentre molte imposte sono state introdotte proprio con decreto legge. Perché? Siamo in emergenza.

E così, di eccezione in eccezione, lo Statuto del contribuente è stato violato innumerevoli volte dal legislatore. Almeno qualche centinaio di volte. E non solo sulla retroattività. Uno statuto con i buchi, insomma. Un provvedimento che fa ancora la sua bella figura nella vetrina del Fisco made in Italy. Ma dagli effetti pratici quasi nulli. La trasformazione da sudditi a cittadini, che doveva avvenire proprio grazie allo Statuto, non è stata ancora completata. E sono già passati 14 anni.