legge di stabilità

Ecco perché il Tfr in busta paga conviene solo a redditi fino a 15mila euro

Ecco perché il Tfr in busta paga conviene solo a redditi fino a 15mila euro

Davide Colombo – Il Sole 24 Ore

Il passaggio dalle slides del dopo-consiglio dei ministri alla bozza del testo del Ddl di Stabilità ieri in circolazione (47 articoli per 123 pagine) reca diverse novità sull’operazione Tfr in busta paga. La prima, quella che ha suscitato le maggiori reazioni, riguarda il profilo fiscale. Sulla retribuzione integrativa di chi opta per avere la liquidazione nel mensile scatterà la tassazione Irpef. Una scelta che, se confermata nel testo ufficiale che verrà trasmesso al Parlamento, farebbe crollare l’appeal della misura per i lavoratori con un reddito superiore ai 15mila euro. L’aliquota media attualmente applicata al Tfr è infatti compresa tra il 23 e il 26%, mentre l’Irpef sull’imponibile che supera i 15mila euro parte dal 27% e cresce con gli scaglioni di reddito sulla nota curva delle aliquote fino al 43%. Ne segue che più elevato è il reddito da lavoro meno è incentivata (fiscalmente) l’opzione del Tfr in busta. A controbilanciare quest’aggravio ne arriva un altro di segno opposto: l’imposta sostitutiva sui redditi derivanti dalle rivalutazioni dei fondi per il trattamento di fine rapporto (ovvero sul maturato) passerà dall’11 al 17%. A chiudere il quadro fiscale una clausola di salvaguardia che esclude il reddito aggiuntivo dal computo del tetto complessivo che garantisce il bonus Irpef da 80 euro, in vigore dal maggio scorso. Insomma, chi opterà per il Tfr in busta non perderà quel bonus.

Passando agli altri profili, l’operazione si conferma di carattere sperimentale, visto che sarà valida per le paghe comprese tra il marzo del 2015 e il giugno del 2018, e volontaria. Sarà inoltre esclusivamente rivolta ai dipendenti privati (ma non i lavoratori domestici e agricoli) e nel caso di scelta della liquidazione in busta mese dopo mese non si potrà più cambiare idea fino a fine giugno 2018. Esclusi dall’iniziativa anche i dipendenti di aziende in crisi o con una procedura concorsuale aperta, mentre potranno optare per il Tfr in busta nei prossimi tre anni anche coloro che hanno già aderito a un fondo di previdenza integrativa.

Sulle modalità di pagamento del Tfr in busta paga si prevede per le imprese una doppia strada: versare direttamente l’ammontare del Tfr maturando ottenendo in cambio gli stessi benefici oggi previsti per i datori che versano il Tfr alle forme di previdenza complementare oppure optare per lo schema di accesso al credito bancario che verrà definito con un Dpcm (da adottare entro 30 giorni dal varo della legge di Stabilità) e con la convenzione Abi-Mef-Ministero del Lavoro. Per seguire questa seconda via il datore deve chiedere all’Inps la certificazione del Tfr maturato dei singoli lavoratori dopodiché potrà chiedere il previsto finanziamento bancario. Al momento del rimborso alla banca degli anticipi dovrà essere riconosciuto solo il tasso di rivalutazione della quota Tfr (ovvero l’1,5% più lo 0,75% annuo dell’indice di inflazione).

Per le piccole imprese (meno di 50 addetti) l’operazione sarà sostenuta da un Fondo di garanzia Inps che parte con una dote di 100 milioni e che verrà finanziato con un contributo datoriale dello 0,2%. In caso di insolvenza le banche si rivolgeranno a questo fondo a sua volta assistito dalla «garanzia di ultima istanza» dello Stato. Tutta l’attuazione del meccanismo è rinviata, come detto, a un decreto del presidente del Consiglio dei ministri. Mentre l’Inps dovrà svolgere il ruolo di «certificazione dei Tfr» a budget invariato e senza contare su nuove risorse umane o strumentali.

Renzi, il premier carro armato

Renzi, il premier carro armato

Bruno Vespa – Il Mattino

Sempre contro le istituzioni, sempre con l’opinione pubblica. Matteo Renzi è fatto così. Per istituzioni qui si intendono i poteri pubblici e privati costituiti e riconosciuti. Il vecchio Pd, il seminario economico di Cernobbio, l’assemblea di Confindustria, la Cgil. E adesso le regioni e le province. Ieri mattina ho provato a chiedere alla radio se avesse ragione Renzi a chiedere tagli alle regioni o le regioni a protestare. Un diluvio (quasi) a favore del presidente del Consiglio. «Quando il mio capo ha scoperto che cercavo su internet un fornitore di apparati sanitari più conveniente dei soliti mi ha bloccato». «Ho fatto uno stage in un Comune e ho visto tanti sprechi che lei non può immaginare». «Lavoro nell’edilizia e per fissare a terra tre panchine sono venuti tre operai comunali per tre giorni». «Giro per conto di un’azienda farmaceutica e non le dico quel che vedo». E così via.

Matteo Renzi ha sotto il letto due fantasmi pronti a venir fuori. Uno si chiama Franco Fiorito, il Batman di Anagni, già potentissimo capogruppo del PdL al consiglio regionale del Lazio. L’altro è Filippo Penati, potentissimo presidente della provincia di Milano, poi assistente a Roma di Pierluigi Bersani: esempio classico, con il «sistema Sesto», della continuazione nelle relazioni oblique tra costruttori e politici, anche «rossi»›, dai tempi di Tangentopoli alla Seconda Repubblica. Condannato a tre anni e quattro mesi e a restituire un milione 90mila euro, Fiorito disse in una memorabile trasmissione di «Porta a porta» poco prima che l’arrestassero (e continua a dire tuttora): «Non ho rubato nulla, quei soldi mi sono stati assegnati con regolari delibere». Nel senso che i capigruppo in consiglio regionale potevano amministrare, diciamo così, discrezionalmente, i fondi ad essi assegnati. Penati se l’è cavata con la prescrizione: era accusato di concussione perché il «sistema Sesto» che ruotava intorno al risanamento dell’area Falk-Marelli di Sesto San Giovanni era il modo esemplare di gestione affaristica del Pci-Pds-Ds. Renzi ha eliminato i consiglieri provinciali elettivi: da 2600 li ha portati a poco meno di mille, senza retribuzione aggiuntiva perché sono consiglieri regionali o comunali. Ma la corsa avvenuta tra il 26 settembre e domenica scorsa per accaparrarsi posti in cui si lavora gratis è stata così forte che il governo ha chiuso i rubinetti togliendo un miliardo alle province contro i quattro chiesti alle regioni.

È evidente che queste misure vanno amministrare con saggezza: qualcuno dovrà pur provvedere le scuole e le strade in carico alle province, mentre sarebbe grave se i tagli alle regioni si ripercuotessero su sanità e servizi. Quattro miliardi sono meno del 3 per cento della spesa regionale, assorbita in larghissima parte da stipendi e sanità. Quanto si può tagliare sulla sanità senza penalizzare uno dei migliori servizi del mondo? Basterebbe imporre sul serio i costi standard ed eliminare le anomalie ancora visibili nel Sud, ma non solo. Resta incomprensibile perché dal rispetto dei costi standard sono escluse le cinque regioni a statuto speciale per un patto del febbraio 2011. Non credo che l’autonomia etnica verrebbe compromessa da un adeguamento alla linea nazionale di risparmio. La Lega, che pure era al governo, non protestò. Se Matteo Renzi riuscisse a togliere anche questa anomalia, farebbe cosa buona e giusta.

Nuove tasse? Prima le Regioni taglino gli sprechi

Nuove tasse? Prima le Regioni taglino gli sprechi

Daniele Di Mario – Il Tempo

C’è chi le difende e chi le attacca. Chi ne sottolinea gli sforzi di risanamento e abbattimento delle spese e chi invece ne ricorda gli scandali. Lo scontro politico sulle Regione prosegue, così come il dibattito sulla legge di stabilità. I governatori restano in trincea, nonostante l’apertura di Debora Serracchiani, vicesegretario del Pd e governatrice del Friuli che invita a valutare la manovra «nel suo complesso», ma ammonisce: «Siamo tutti chiamati con responsabilità ad azioni di governo, anche in Friuli Venezia Giulia abbiamo messo mano a molte sacche di improduttività, constatando che la razionalizzazione della spesa ha margini di miglioramento».

Perché il nodo alla fine è sempre quello: tagliare. Non i servizi, non la sanità, ma gli sprechi. E le Regioni italiane ne abbondano, nonostante nell’ultimo biennio dopo i vari scandali che hanno interessato un po’ tutti i Consigli d’Italia, abbiano intrapreso un percorso di revisione di una spesa che complessivamente ammontava a 131 miliardi e che conteneva dentro di tutto, dagli studi per le trote ai consulenti per la neve, il salvataggio delle biblioteche in Mauritania e le auto blu. I Consigli regionali hanno fatto la loro parte, riducendo i compensi dei consiglieri, tagliando gruppi e commissioni, abolendo i vitalizi. Ma sarebbe disonesto negare che le Regioni potrebbero fare di più, mettendo mano ad esempio a società partecipate ed enti (comunità montane, enti parco, unioni di comuni, università agrarie), riducendo gli assessori esterni, razionalizzando le spese per una sanità spesso fuori controllo, tagliando dirigenti e ruoli apicali. Le Regioni spendono complessivamente molto più dei Comuni e del Parlamento e rappresentano circa un terzo della spesa pubblica italiana. Ma la questione afferisce al più generale e cronico problema del regionalismo italiano.

Il ministro per gli Affari Regionali Maria Carmela Lanzetta è netta: «Il periodo è molto complesso, dobbiamo tutti quanti rinunciare a qualcosa, riorganizzarci per favorire l’assunzione di giovani nelle aziende, che mi sembra una buona risposta alla crisi». Ma Stefano Fassina – che parla di «tagli drastici, orizzontali, insostenibili a servizi fondamentali» – contrattacca: «Capisco le posizioni dei presidenti delle Regioni, che non sono estremisti antirenziani: sono solo attenti ai servizi che devono tagliare o alle tasse che debbono aumentare». Il governatore del Piemonte e presidente della Conferenza delle Regioni Sergio Chiamparino apre ufficialmente la trattativa col governo: «Da Renzi andiamo con delle proposte concrete, che non toccano i quattro miliardi ma che li articolano in modo tale da consentire di reggerli. La polemica è inevitabile, ma è indispensabile un incontro per raggiungere l’obiettivo. Il premier ha ragione quando dice che ci sono tanti sprechi da eliminare, ci sono delle cose da migliorare come le società partecipate, ad esempio. E poi parliamoci chiaro, è anche vero che sugli sprechi, come diceva il Vangelo, chi è senza peccato…». E Paola De Micheli, vicepresidente vicario del gruppo Pd alla Camera difende i governatori: i tagli di 4 miliardi alla Regioni «sono un fattore di preoccupazione per le possibili ripercussioni su alcuni servizi ai cittadini».

Ma la materia è delicata. Fabrizio Cicchitto (Ncd) chiede alle Regioni di darsi un taglio, mentre in FI non c’è univocità di giudizio. Giovanni Toti e Raffaele Fitto si trovano finalmente d’accordo su una cosa: la difesa degli enti locali. Mentre Maria Stella Gelmini dice nettamente che «il taglio di 4 miliardi ai trasferimenti non può diventare l’alibi per i presidenti delle Regioni di aumentare le tasse locali o i ticket nella sanità. È il tempo della responsabilità. Le Regioni devono trovare il grasso che cola dai loro apparati burocratici, e ne hanno ancora tanto, prima di pensare a mettere le mani nelle tasche dei cittadini». Già, ma loro, i governatori, restano sull’Aventino. Stefano Caldoro (Campania) usa Twitter per ricordare a Renzi i tagli effettuati e propone di sciogliere le Regioni per varare le macroaree. Roberto Maroni (Lombardia) attacca: «Non sarà l’esecutore testamentario, il killer, della Regione più virtuosa d’Italia. Renzi vuol riportare le Regioni a com’erano negli anni Settanta». «Da quale cattedra viene la lezione sugli sprechi delle Regioni? È irricevibile», sbotta Nichi Vendola (Puglia). Luca Zaia (Veneto) minaccia: «Il ricorso contro la legge di stabilità lo faremo».

L’autogol delle Regioni sui tagli

L’autogol delle Regioni sui tagli

Gaetano Pedullà – La Notizia

Le Regioni presenteranno le loro controproposte, ma il solco tracciato col Governo è ormai troppo largo per chiudere la polemica degli ultimi giorni a tarallucci e vino. Renzi – è l’accusa dei suoi sempre più numerosi detrattori nel Palazzo – si sta cercando ogni giorno un nuovo nemico (sindacati, magistrati, lobby, enti inutili come il Cnel, ecc.) per accreditarsi elettoralmente come l’uomo che vuol cambiare il sistema. E in questo calderone adesso sono finiti i governatori. Quello che nessuno può negare è che però tutti questi bersagli del premier sono ciascuno per la propria parte strenui difensori dei loro privilegi, e soprattutto sono ormai colossi dai piedi d’argilla.

Il consenso sociale attorno a questi totem di un’Italia piegata è ormai bassissimo. Senza i pensionati i sindacati avrebbero meno iscritti di un club della bocciofila. E il prestigio delle Regioni, come quello purtroppo di molte altre istituzioni, è ai minimi. Di chi è la colpa: di Renzi o dei governatori che di fronte ai tagli del Governo minacciano di sacrificare sanità e trasporti invece di tagliare consulenze e clientele? Il premier dunque farà pure i suoi calcoli, ma se gli elettori lo seguono non è solo merito suo.

Insanità regionale

Insanità regionale

Davide Giacalone – Libero

Posto che la pressione fiscale generata dagli enti locali è aumentata dell’80 per cento in quattordici anni, senza che sia diminuita quella nazionale, posto, quindi, che da tre lustri gli italiani s’impoveriscono e perdono competitività anche per finanziare enti la cui utilità è nota più che altro a chi li abita, è facile capire il perché non si trovi divertente la polemica fra il governo e le regioni. Oltre tutto giocata usando il linguaggio della più sciatta demagogia: “spreconi”, da una parte, “affamatori”, dall’altra. I governatori regionali, abituati a batter cassa presso il governo, non s’aspettavano di trovarsi di fronte chi usa la cassa per battergliela in testa. Molti di loro sognarono il partito di “lotta e di governo”, eccoli serviti: salvo che usa la lotta demagogica contro di loro.

Piuttosto che l’opera dei pupi, però, si possono fare operazioni interessanti: chiudere la tragica storia della sanità regionalizzata, che con la riforma Bindi, del 1999, elevò a sistema la militarizzazione partitocratica dell’amministrazione, e con la riforma costituzionale del 2001 stese una pietra tombale sull’idea che la salute e la sanità fossero questioni di competenza nazionale. Due operazioni “Made in left”, così anche i newcomers capiscono. Contabilizzati i disastri è ora di farla finita.

Inutile continuare a polemizzare sul costo delle siringhe. Anche stucchevole e oltraggioso, perché sentendolo ripetere da anni, da governi e governanti di ogni colore, il cittadino si chiede: ma a chi lo stanno dicendo? Se il sistema fa così schifo, e lo fa, lo cambino. La soluzione non è che le tasse per coprire quei costi siano a cura degli enti locali anziché dello Stato, dato che a pagare sono i medesimi italiani. Semmai si deve avere il coraggio di spiegare perché il politico regionale nomina i capi dell’amministrazione sanitaria e perché l’organizzazione che presiede alla difesa della mia salute debba essere regionale. Non saprei spiegarlo, perché lo considero sbagliato.

Fin qui ci si è trastullati con le siringhe e i costi standard, che già di loro sono un non senso: se l’acquirente compra molto materiale sanitario e molti farmaci, bandendo una gara fra fornitori, è ovvio che riesce a spuntare un prezzo migliore rispetto a venti acquirenti che comprano un ventesimo e bandiscono centinaia di gare. Oggi le regioni ricevono un rimborso, dallo Stato, pari alla media dei tre migliori prezzi. A parte che il prezzo adottabile dovrebbe essere il più basso, non una media, quando comprano pagando più degli altri generano nuovo debito, che si somma a quello immenso, già esistente. Quando, sventuratamente, negli anni 70, si chiusero le mutue queste lasciarono un immenso patrimonio immobiliare, avendo fornito assistenza a tutti i mutuati. Oggi ci sono solo deficit e debiti. Cosa serve di più per capire che la regionalizzazione è una follia?

Senza mai dimenticare che la qualità media dell’assistenza sanitaria, in Italia, è ottima. Purtroppo con vergognose sperequazioni interne (ulteriore conferma della pessima regionalizzazione), ma mediamente fra le migliori al mondo. Il che dimostra, se ve ne fosse bisogno, che il nostro problema non sono i medici, ma gli amministratori. Ed è questo il lato positivo: per formare buoni medici ci vogliono anni, per mandare a casa cattivi amministratori, protettori di amministrativi nullafacenti, soci di sindacati corporativi, ci vogliono, a saperlo e volerlo fare, un paio di mesi. A patto di non perderli in battibecchi degradanti e di utilizzarli per fare vere e sane riforme.

Le virtù e i difetti nascosti

Le virtù e i difetti nascosti

Maurizio Ferrera – Corriere della Sera

Nella bozza inviata a Bruxelles, la legge di Stabilità è presentata come strumento «per la crescita»: meno pressione fiscale su imprese e famiglie e dunque – si spera – più investimenti, consumi e posti di lavoro. Le cifre confermano che stavolta l’impegno del governo è significativo: 36 miliardi fra entrate ed uscite. L’Irap e i contributi sociali per i neo-assunti (a tempo indeterminato) scenderanno. Il bonus di 80 euro sarà confermato, mantenendo le promesse fatte a maggio. I lavoratori che lo vorranno potranno attingere da subito a una quota del Tfr. Per la prima volta, poi, si concede un po’ di respiro fiscale a quel milione circa di «partite Iva» senza le quali interi settori produttivi sarebbero già scomparsi.

Non sono previsti tagli diretti alla spesa sociale. Anzi, ci saranno risorse aggiuntive per gli ammortizzatori, la famiglia e la scuola. Qui l’intento è virtuoso, ma tutto dipenderà da come i soldi verranno spesi. Colpisce l’inadeguatezza dei fondi destinati al contrasto alla povertà, nonostante le esortazioni a fare di più su questo fronte ricevute a giugno proprio dalla Ue.

Le coperture sono il punto più debole della manovra. Non solo (e forse non tanto) per gli 11 miliardi di maggior deficit, ma per l’aleatorietà di molti dei tagli previsti. Quella spending review che doveva dare inizio ad una incisiva razionalizzazione dell’intero settore pubblico ha partorito una covata di sfuggenti topolini. Ci sono alcuni tagli lineari, una gran quantità di microriduzioni, blocco generalizzato dei contratti nel pubblico impiego, tetti a Regioni ed Enti locali (sui quali si sta originando una spirale di polemiche: come spesso succede, la verità sta nel mezzo). Sicuramente la scure eliminerà varie spese inutili. Non c’è però stata una svolta nell’individuazione di inefficienze e sprechi, andando alla radice dei problemi. Inoltre molti dei provvedimenti di riduzione della spesa non saranno immediatamente esecutivi. Come al solito, richiederanno quella catena di misure attuative e «concerti fra ministeri» che hanno già affossato molte passate riforme.

Come reagirà l’Unione europea? Non è da escludere che la Commissione s’impunti (a questo punto assurdamente) su una questione di decimali. È possibile però che le perplessità Ue siano legate più alla bassa credibilità delle politiche italiane che ai livelli di deficit e debito. Senza nulla togliere alle capacità del ministro Padoan, fra lo smilzo documento in inglese presentato a Bruxelles e la disordinata bozza in italiano uscita dal Consiglio dei ministri c’è un divario preoccupante.

I documenti degli altri Paesi sono molto più ricchi di dettagli e valutazioni, i loro impegni risultano così più affidabili. Sul versante della «serietà», Matteo Renzi ha ancora molto lavoro da fare. Non solo per convincere l’Europa a concedere maggiore flessibilità, ma anche per garantire ai cittadini effettività ed efficacia dell’azione di governo. Condizione necessaria affinché le norme di legge abbiano un qualche impatto sulla realtà, nella direzione auspicata.

I tanti illegittimi dubbi sul taglio delle tasse

I tanti illegittimi dubbi sul taglio delle tasse

Massimo Francaro e Nicola Saldutti – Corriere della Sera

L’idea che il peso delle tasse possa (finalmente) diminuire rappresenta un segnale importante per le persone e le imprese. E quei 18 miliardi di riduzione indicati nella legge di Stabilità rappresentano un passo importante. Eppure, quando si parla di tasse è legittimo avere qualche dubbio. Quando fu dato l’addio all’Imu sull’abitazione principale si disse che le imposte sugli immobili sarebbero diminuite e che il sistema sarebbe stato semplificato. Sappiamo che, purtroppo, non è andata così. E allora proviamo a ripercorrere alcuni degli interventi varati.

Partiamo dal Tfr. Se, come sembra, l’anticipo sarà tassato con le aliquote progressive Irpef, si tratta di una misura che alla fine (oltre i 29 mila euro) avrà come principale beneficiario soprattutto il Fisco. Se l’obiettivo era quello di spingere i consumi sarebbe stato meglio lasciare una tassazione più favorevole. Ai lavoratori che faranno questa scelta, infatti, verrà applicata l’aliquota marginale, ovvero quella che si paga sulla quota più elevata di reddito (oscilla tra il 23% e il 43%). Mentre se si decide di incassarlo a fine carriera, come avviene oggi, si subirà un prelievo nettamente inferiore (dal 23% al 33%). E, se lo si investe nei fondi pensione, l’aliquota è ancora inferiore: tra il 9% e il 15%. L’unico a guadagnarci sarà alla fine lo Stato, che riceverà in anticipo (e in misura maggiorata) le imposte che altrimenti incasserebbe tra 15 o venti anni.

Un brutto segnale viene dal capitolo della previdenza integrativa. Qui, per cercare di coprire altri sgravi, si propone di portare il prelievo annuo sui rendimenti dei fondi pensione dall’11,5% al 20% (e dal 20% al 26% quello delle casse private). L’aumento comporta maggiori tasse per 3,6 miliardi. Il 10% delle entrate previste. Un colpo gobbo che colpisce i risparmiatori più previdenti, quelli che stanno investendo per il loro futuro. Quasi tutti l’hanno fatto sapendo di poter beneficiare di un trattamento favorevole, mentre ora vedono infrangersi il patto con il Fisco. La previdenza complementare rischia l’estinzione.

E arriviamo al capitolo più ambiguo: quello degli enti locali. Come è già avvenuto in passato si rischia che la riduzione dei finanziamenti statali venga compensata dagli aumenti delle addizionali Irpef o dei tributi di competenza regionale e comunale. Lo scontro tra Regioni e Stato centrale è appena agli inizi. Diventa sempre più stretta la via per chi amministra e deve rispettare i nuovi parametri di bilancio. Risultato: andiamo verso un nuovo aumento a orologeria. Lo stesso ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, a una domanda su questo rischio ha risposto con un laconico «Può darsi». Speriamo che si sbagli.

La legge di stabilità? Debole

La legge di stabilità? Debole

Aldo Cazzullo – Sette

Pier Carlo Padoan ha ragione quando dice che questa crisi è forse la peggiore dell’era capitalista. Ma i numeri della sua legge di stabilità non sono da emergenza, sono da ordinaria amministrazione. Non è colpa sua, ovviamente, né di Renzi, che semmai ha il torto di averla fatta troppo facile. La crisi italiana non è solo una crisi di fiducia; è soprattutto una crisi di investimenti. Certo, c’è un rapporto tra le due cose: si investe poco perché non si ha fiducia nel futuro. Ma anche perché mancano infrastrutture, tecnologie, laureati, e forse anche voglia di competere, di sacriicarsi, di rischiare. In una situazione così bloccata. solo una massiccia iniezione di liquidità potrebbe far diminuire il valore dell’euro, fin troppo forte per il nostro sistema produttivo, e far aumentare l’inflazione, troppo bassa per il nostro debito pubblico. E solo grandi investimenti finanziati dall’Europa, dallo Stato, dagli enti locali possono creare lavoro e a medio termine anche migliorare i parametri della nostra economia: perché puoi tassare e tagliare finché vuoi, ma se il Pil non riparte qualsiasi parametro calcolato sul Pil, a partire dal fatidico 3 per cento, tenderà sempre a peggiorare.

La legge di stabilità del governo Renzi-Padoan non assomiglia neppure lontanamente a una manovra del genere. Nel ’92 Amato tra tagli e tasse muoveva 90mila miliardi, per salvare il bilancio pubblico e la lira. Oggi che abbiamo al contrario tassi relativamente bassi e una moneta fin troppo forte si muovono 20 miliardi di euro, quasi tutti per mantenere provvedimenti già decisi, come gli 80 euro. Che non sono affatto demagogia, rappresentano il primo serio tentativo di abbassare le tasse sul lavoro; ma ovviamente non bastano. Che ci facciamo con un miliardo qui e un miliardo là, un contributo alla scuola e uno ai Comuni, più un miliardo e mezzo per i nuovi ammortizzatori ai disoccupati, vale a dire un decimo di quel che servirebbe?

Anche Renzi inevitabilmente si ritrova nella gabbia in cui si erano invano dibattuti i suoi predecessori, da Prodi a Letta passando per Berlusconi e Monti. Prodi mise sette miliardi per tagliare il cuneo fiscale, ma aumentò l’Irpef ai ceti medi, per cumi molti lavoratori dipendenti non ebbero alcun beneficio, anzi, dovettero pagare più tasse. Tremonti concluse un’attenta gestione dell’esistente, presagendo la crisi in arrivo, da lui prevista fin dal 2007, ma a parte la detassazione degli utili reinvestiti non si è vista affatto l’attesa svolta liberale, e l’Italia con la destra al governo ha continuato a perdere competitività. Con Monti abbiamo finanziato il salvataggio delle banche altrui senza avere in cambio la flessibilità che ci serviva: il risultato è stata la deflazione.

Renzi vuol convincere l’Europa a cambiare politica in modo da avere margini di manovra ulteriori, parla spesso dei 200 miliardi di investimenti promessi da Juncker, attende le mosse di Draghi cui ha portato la riforma dell’artitolo 18; ma sono speranze per l’avvenire, non misure per la ripresa qui e ora. Il premier ricorda spesso che l’Italia è il Paese con la più alta ricchezza privata pro capite (in altre statistiche siamo secondi dopo un’altra grande malata, la Francia). Meglio non farlo sapere alla Merkel, che ci chiederebbe ulteriori sacrifici: i tedeschi producono più ricchezza di noi, ma ne hanno accumulata meno. Debito pubblico, e crediti privati: il nostro convento è povero, ma i frati sono ricchi. La ricchezza non viene più prodotta, ma estratta: come nella Venezia del Settecento, bellissima, con il miglior tenore di vita d’Europa, ma senza vitalità e prospettive, in cui una classe di oligarchi viveva di rendita e grazie al lavoro dei sottoposti. Davvero vogliamo un Paese così? Davvero pensiamo di uscirne investendo un miliardo qui e un miliardo là?

Ambizioni

Ambizioni

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Da 20 a 36 miliardi in poche ore: di questi tempi, meglio una legge di stabilità ambiziosa che una stitica, ma purtroppo la dimensione non fa automaticamente la qualità della manovra. Contano i dettagli. E quelli non li conosciamo – come da troppo tempo a questa parte capita, sarebbe ora di smettere di usare le slide al posto dei testi di legge – per poter dare un giudizio serio. E non è solo una questione di coperture – dai tagli di spesa per 15 miliardi al fondamento dei 3,8 miliardi previsti come rivenienti dalla lotta all’evasione – che naturalmente più i numeri sono grandi più diventano complicate. No, il tema è (sarebbe, se avessimo i documenti ufficiali) capire l’efficacia di alcune voci della manovra per misurarne gli effetti sull’unica cosa che conta davvero in questo momento, e cioè la ripresa dell’economia. Pur andando nella giusta direzione, sono sufficienti gli sgravi Irap e le decontribuzioni per le nuove assunzioni per spingere gli investimenti privati? La conferma degli 80 euro e l’eventualità (ancora tutta da capire) del Tfr in busta paga sono provvedimenti che possono far ripartire i consumi interni? Ma, soprattutto, la domanda è: visto che dei 36 miliardi 11 sono già esplicitamente a carico del deficit – e speriamo che a consuntivo la cifra si fermi lì – stiamo spendendo bene i soldi? La risposta di merito verrà più avanti, come ho detto, ma francamente è lecito dubitare che il tutto sia sufficiente. Luca Ricolfi l’ha efficacemente chiamato “keynesismo debole”: poco per riuscire a scuotere un’economia che apprestandosi a chiudere anche il 2014 in recessione (il quinto anno, dal 2008) ha perso 10 punti di pil e bruciato un quarto della sua capacità produttiva manifatturiera; troppo per essere più che sufficiente a scatenare la reazione sia della conservazione interna (da battere), sia di Bruxelles (e pazienza), sia dei mercati (pericolosa).

E già, perché un po’ tutti gli osservatori hanno sottolineato il reciproco “vaffa” con le regioni e immaginato lo scontro con la Commissione europea, la Merkel e la Buba. Renzi, si sa, ha nella tattica di “un nemico al giorno toglie i problemi di torno”, uno dei suoi cavalli di battaglia. Ma il vero pericolo viene da un nemico, impalpabile e nello stesso tempo concretissimo, che non conviene mai sfidare: i mercati finanziari. Sia chiaro, le Borse non sono crollate negli ultimi giorni per colpa del governo di Roma, né gli spread sono schizzati (ieri il differenziale Italia-Germania ha toccato i 200 punti, per poi ripiegare un po’) dopo aver visto la manovra di Renzi. Ma una cosa è sicura: quel clima positivo verso l’Italia che si era manifestato qualche mese fa – e sulla cui durata mi ero permesso, solitario, di dubitare – è completamente cambiato. E non sarà questa manovra a far cambiare opinione a chi sta nuovamente valutando se scommettere sulla (non) tenuta dei debiti sovrani dei paesi europei più deboli, dalla Grecia all’Italia, e dell’eurosistema nel suo insieme. E non perché sarà giudicata sbagliata o eccessiva, come l’hanno già ribattezzata i conservatori italici, ma perché scarsa. E’ inutile sfidare l’Europa e i suoi vincoli di bilancio per fare un po’ di deficit in più se poi quella maggiore esposizione non produce pil perché è insufficiente e mal utilizzata, cioè non induce nuovi investimenti, che sono l’unica leva che può risollevare la crescita. Tanto più se i mercati hanno nuovamente dissotterrato l’ascia di guerra.

Quindi? Suggerirei di proporre all’Europa e di far sapere al mondo finanziario internazionale le seguenti due cose. Primo: che l’Italia ha intenzione di sforare sul deficit – anche molto di più degli 11 miliardi previsti dalla manovra – non perché non voglia pagare il prezzo politico di tagli e riforme impopolari, ma perché ha un piano – tra riduzione massiccia dell’imposizione fiscale sulle imprese e investimenti diretti in conto capitale – per rilanciare l’economia a sostegno del quale servono ingenti risorse. Secondo: che compenserà queste minori entrate e maggiori uscite con un massiccio intervento di riduzione una tantum del debito pubblico (e quindi anche degli oneri finanziari, circa 80 miliardi nel 2014, sul debito stesso). Come? Sia con alcune riforme capaci di ridurre in modo strutturale il perimetro della spesa pubblica, prima tra le quali la semplificazione del decentramento amministrativo e la riconduzione della sanità allo stato centrale, sia con un’operazione straordinaria sul patrimonio pubblico.

Una manovra di portata epocale – questa sì – che avrebbe il duplice effetto di ridare la credibilità perduta al paese e alle sue istituzioni in sede europea, e di calmierare i mercati togliendo loro dalle mani gli strumenti della speculazione finanziaria contro i nostri titoli del debito e contro l’euro. E che, last but not least, consentirebbe meglio di ogni altra cosa di tenere lontana la Troika, il cui spettro è tornato in queste ore ad aleggiare su Palazzo Chigi.

Quella sporca dozzina

Quella sporca dozzina

Giuliano Cazzola – Il Garantista

Ecco la prima legge di stabilità della “sporca dozzina”. Nel contrassegnare con il titolo di un celebre film il brain trust che a Palazzo Chigi ha predisposto la manovra di bilancio per il 2015 non intendiamo essere offensivi o polemici. L’idea ci è stata suggerita da un articolo – apparso il 15 ottobre scorso sul QN – molto “simpatizzante” verso i giovanotti che collaborano con il premier in aperta e palese concorrenza con i tecnici dell’Economia. Pare che siano proprio dodici, descritti come intellettuali brillanti, lavoratori indefessi.

Dicono che siano veri e propri “cavalieri dell’Ideale” tra loro solidali e leali nei confronti del Kim Il Sung fiorentino a cui presentano, a getto continuo, lavorando senza orari e senza riposo, dossier accurati sui diversi problemi che il premier afferra in un lampo tanto che, in pochi secondi, è in grado di orientarsi e decidere (ricordate “il concitato imperio e il celere obbedir” che il Manzoni riferisce a Napoleone ancora “folgorante in soglio”?). In verità, anche in questa occasione, gli eroi di Palazzo Chigi non hanno dato prova di quella fantasiosa lungimiranza che i quotidiani si sforzano di riconoscere. Non solo perché si rivelerà certamente illusorio il taglio di 15 miliardi di spesa pubblica. E neppure perché la copertura è tecnicamente inadeguata (non è affidabile cifrare il recupero di evasione fiscale) per cui diventerà necessario prevedere delle clausole di salvaguardia che andranno, al solito, a sbattere contro aumenti delle accise o dell’Iva.

È il disegno di politica economica che non regge, come è emerso nell’ambito dell’operazione del bonus di 80 euro. Alla base dei provvedimenti sta la convinzione – non solo non dimostrata, ma smentita dai fatti – per la quale, avendo le famiglie maggiori disponibilità economiche, ripartiranno i consumi, mentre riducendo le tasse sulle imprese si rimetterà in moto l’economia. Tutto ciò sparando nel mucchio: attingendo anche a risorse preziose come quelle del Tfr, da un lato; oppure, evitando di selezionare i settori veramente in grado di guidare la ripresa, dall’altro. Non ci vuole molto a capire che quando si riducono le tasse e il costo del lavoro o si favoriscono gli investimenti nelle imprese che esportano e operano nell’economia globale, si migliora anche la loro capacità competitiva.

Se si compie invece un’operazione di carattere generale, rivolta a favorire l’occupazione con il taglio dei contributi per un triennio, nel caso di nuove assunzioni, si finirà soltanto per “drogare” il mercato del lavoro e per dare la stura, una volta cessato il beneficio, a una tornata di licenziamenti collettivi e di chiusura di imprese. I posti di lavoro non si creano e, soprattutto, non si conservano, assumendosi lo Stato una parte considerevole del costo del lavoro, ma attraverso una crescita reale dell’economia che il disegno di legge di stabilità non garantisce, limitandosi a una redistribuzione clientelare delle risorse reperite raschiando il fondo del barile.

Benché, infatti, in tanti la sconsigliassero, il premier-ragazzino ha voluto inserire nella legge di stabilità l’operazione Tfr in busta paga. Per dare un giudizio compiuto e misurare l’entità dei danni prodotti (perché vi saranno solo danni) occorrerà capire come sono stati affrontati e risolti alcuni dei tanti problemi connessi. Facciamo pure degli esempi: che cosa succede del Tfr allocato nei fondi pensione? Potrà essere distolto per un triennio e intascato? E di quello non allocato nelle forme di previdenza complementare che le aziende con 50 e più dipendenti sono tenute a versare nel Fondo Tesoro? Se i futuri ratei dovessero tornare, in modo massiccio, nelle tasche dei lavoratori verrebbe a mancare un`importante entrata per lo Stato.

È vero che anche oggi coloro che a suo tempo decisero di rimanere affezionati al Tfr potrebbero cambiare idea e aderire ad una forma di previdenza privata. Ma nella realtà sappiamo bene che, da anni, le possibili opzioni nell’utilizzo delle liquidazioni si è stabilizzata (5,5 miliardi ai fondi e alle altre tipologie, 6 miliardi al Fondo Tesoro presso l’Inps, il resto (tra gli 11 e i 14 miliardi presso le imprese con meno di 50 dipendenti). C’è poi la questione del pubblico impiego: per motivi di difficoltà pratiche e soprattutto di cassa, il settore resterà escluso, E quindi, oltre a non rinnovare i contratti, a non disporre, nei fatti, della previdenza complementare, per i dipendenti pubblici non sarà nemmeno possibile usare delle liquidazioni in contanti. Ora, nei settori privati, verrà introdotta una variabile d’uso (la monetizzazione mensile o annua) che potrà certamente mettere in crisi il suddetto equilibrio.

Gli italiani, comunque, devono essere consapevoli che, nella previdenza come nella vita, “nessun pasto è gratis”: alla maggiore disponibilità di reddito attuale – per quanti sceglieranno di intascare il Tfr – corrisponderà un tenore di vita più modesto da anziani. Ciò anche per effetto della più elevata tassazione dei rendimenti che andrà a incidere sul montante contributivo delle singole posizioni individuali. Queste risorse garantiscono le future pensioni, quelle dei fondi sono loro stesse pensioni. Recenti sondaggi avevano accertato che due italiani su tre sono contrari all’operazione Tfr in busta paga. Matteo Renzi ha voluto tirare ugualmente diritto. Quanti lo seguiranno? Per costoro sarà come la vicenda dei passeggeri di una mongolfiera bucata. Avranno la sensazione di andare più veloci, invece staranno precipitando.