legge di stabilità

Quel ceto medio sempre dimenticato

Quel ceto medio sempre dimenticato

Francesco Forte – Il Giornale

Nella legge di Stabilità ci sono ombre che preoccupano, a fianco delle luci che brillano, anche per il modo con cui le misure attraenti sono presentate. Vorrei poter fare il poliziotto buono, perché in questo disegno di legge ci sono due misure importanti, che ho caldeggiato, sul Giornale e che i liberali di Forza Italia sostengono, il taglio di Irap sui costi del lavoro e il Tfr in busta paga. Ma ho la necessità di fare il poliziotto cattivo, a difesa dei ceti medi e dei contribuenti che rischiano di pagare un conto salato. È ottima cosa la detrazione dell’intera Irap sui costi del lavoro dall’imponibile dell’imposta sul reddito che ne opera una riduzione del 30% e prelude all’eliminazione di questo balzello che distorce l’impiego del lavoro nella produzione di beni e servizi e danneggia soprattutto la manodopera qualificata. È buona cosa consentire ai lavoratori di scegliere come impiegare il proprio Tfr. Ed è gradevole vedere una manovra con 18 miliardi di riduzione di imposte su 36 complessivi. Ma per il 2015 ci sono 11 miliardi di deficit in più rispetto quelli a legislazione invariata. Ciò comporta un rapporto del deficit di bilancio sul Pil del 2,9% anziché del 2,2% che implica un aumento ulteriore del debito pubblico sul Pil che è già attorno al 130%!

Certo, un’espansione della domanda tramite il deficit di esercizio può servire per contrastare la tendenza recessiva o quanto meno di ristagno dopo una recessione che comporta larga disoccupazione di lavoro e di capacità produttive. Che, dato ciò, occorra accrescere la domanda globale lo dicono non solo i keynesiani (che dominano in questo governo e nei suoi consulenti). Lo dicono anche gli altri economisti che non credono alla piacevole economia del «pasto gratis». Ma si poteva e doveva coprire il buco, che così si crea nel bilancio, privatizzando quote di imprese pubbliche che non stanno sul mercato: a partire da quelle inefficienti degli enti locali, che costano al contribuente. Inoltre, alcuni tagli di spese sono vaghi. I 3,8 miliardi di recupero di evasione fiscale sono incerti. E i tagli di spesa delle Regioni e degli enti locali non sono fatti su loro spese, ma su trasferimenti dello Stato, sicché questi governi probabilmente aumenteranno le loro imposte, come Imu, Tasi, tassa sui rifiuti, addizionali all’Irpef e altro, a danno dei piccoli proprietari e dei ceti medi già tartassati.

Le ricetta vera per rilanciare la domanda è la politica di investimenti, in primis edilizi. Nella legge di Stabilità questa politica manca. E delle tre misure che compongono il grosso delle riduzioni fiscali, solo una – la detrazione dell’Irap sul costo del lavoro, che comporta 5 miliardi di sgravio – ha natura economica e giova all’efficienza dell’offerta, cioè è produttiva. Le altre due, ossia il bonus per i lavoratori dipendenti a basso reddito (e non pensionati e autonomi) che vale 9-10 miliardi e il bonus per i neo assunti con contratto a tempo indeterminato, hanno natura sociale e sindacalese. Servono al Pd per la sua stabilità interna (che, per altro, non c’è) e come strumento elettorale. Ma sono misure discriminatorie, che non generano rilancio. In questo clima di incertezza questo bonus non darà più occupazione, ma preferenza per il contratto a tempo indeterminato su quello a termine, ammesso che basti questo incentivo per assunzioni impegnative. Ed infine – pillola avvelenata – è prevista una clausola di salvaguardia, con nuove imposte per 12,5 miliardi di Iva e tassazioni indirette se la Commissione europea ci dirà di ridurre il deficit e i mercati spingeranno in tal senso, punendo i nostri titoli pubblici; e qualora i 3,8 miliardi di recuperi di evasione e i tagli di spesa dei ministeri, degli enti locali, della sanità non si materializzino.

Lo sforzo di restituire (un po’) il maltolto

Lo sforzo di restituire (un po’) il maltolto

Nicola Porro – Il Giornale

Sulla prima finanziaria di Matteo Renzi si deve dire ciò che vale per ogni legge di Bilancio. Non esiste una formula miracolosa: il giorno dopo sono tutti dei fenomeni a consigliare il meglio per il paese. Spesso sono gli stessi, che con o senza responsabilità, fino al giorno prima hanno attuato o proposto il peggio. Governare i conti dell’Italia spa è un casino. Per i vincoli interni ed esterni che ci sono. Non parliamo solo dell’Europa, ma provate voi a trattare con i tecnici della Ragioneria o con le leggi che trascinano i loro effetti pluriennali senza che si possa modificare una virgola. Vabbé questa è filosofia. Andiamo al dunque. La manovra è tosta, da 36 miliardi. E, aspetto fondamentale, non è ideologica. Non è figlia di un pregiudizio politico. Una rarità per la sinistra: almeno sulla carta questo resta un governo di sinistra, o no? Per farla semplice semplice si compone di tre capitoli.

Il primo è la riduzione della spesa pubblica. Per una cifra monstre di 15 miliardi. Una buona parte a carico degli enti locali e specialmente le regioni. Non giriamoci troppo attorno, si tratta di tagli lineari belli e buoni. Ovviamente, soprattutto a livello locale, si stracceranno le vesti. Abbiamo già dato, sosterranno. È vero. Ma non siamo più nelle condizioni di andare per il sottile: occorre affamare la Bestia. E se questa prova a comprarsi un po’ di biada alzando ancora le imposte locali, saranno guai. Il rischio che si sindaci e presidenti di regione si rifacciano alzando le loro aliquote ovviamente c’è. È forse questo un buon motivo per astenersi dall’imporre loro nuovi tagli? Secondo noi, no. Lo stato deve dimagrire, regioni ed enti locali pure. Il principio è semplice così come i privati si sono arrangiati a spendere di meno e pagare di più, il pubblico si arrangi almeno a spendere di meno.

Il secondo capitolo riguarda i tagli fiscali. La cifra totale è di 18 miliardi, di cui la gran parte (10) per il bonus degli 80 euro rivolto alle sole fasce più deboli della popolazione con contratto di lavoro dipendente. Si tratta di un déjà vu , che abbiamo già criticato. Aiutare la classe medio bassa, e per di più solo una parte di essa, non aiuta i consumi. Come si è visto. Ovviamente, a questo punto togliere l’incentivo avrebbe però creato un effetto boomerang. La vera novità è aver inserito circa 7 miliardi di euro a beneficio delle imprese. In questo momento si devono aiutare loro. Il problema è dare una mano a chi assume. Il taglio dell’Irap e la defiscalizzazione delle nuove assunzioni (sommato alla riforma del lavoro che si prevede di chiudere nel giro di un anno) è cosa buona e giusta. Chiunque può trovare il pelo nell’uovo, ma ci troviamo finalmente nella condizione di criticare gli aspetti di dettaglio di un taglio fiscale invece che a commentare l’ennesima imposta creativa.

Piccola parentesi su questo aspetto. Come ha magistralmente scritto ieri Guido Tabellini: questo non è proprio il momento di incentivare le famiglie al risparmio. Le banche sono gonfie di liquidità, anche privata. Il problema oggi è spendere. L’idea di mettere a disposizione la liquidazione (anche se il vizietto di farci cassa tassandola con aliquota ordinaria il governo se lo poteva risparmiare) è sacrosanta. Solo uno Stato socialista e paternalista si preoccupa dell’insipienza dei propri sudditi nell’utilizzare i propri quattrini. Chi opterà per avere subito in busta paga il proprio tfr avrà le sue buone o cattive ragioni, e non sta ai burocrati deciderle. Ritornando dunque alla tesi di Tabellini, il combinato disposto degli 80 euro, del tfr in busta paga e delle defiscalizzazioni per le imprese agisce tutto nel verso giusto: stimolo ai consumi più che al risparmio. Se vogliamo fare i sofisti (ma evidentemente mancavano i soldi) la vera mossa per far ripartire la macchina sarebbe stata quella di dare un po’ più di ossigeno all’edilizia. Negli ultimi due anni le sciagurate tasse introdotte da Monti e Letta hanno trasferito 40 miliardi dai privati allo Stato e soprattutto hanno convinto gli italiani che la casa più che un rifugio è un debito. Una pazzia. È la mancanza più grossa di questa finanziaria. Nel nostro personale libro dei sogni sarebbe stato meglio togliere il bonus degli 80 euro e utilizzare quei 10 miliardi per la proprietà edilizia.

Infine il terzo capitolo. Parte di questa manovra (circa 11,5 miliardi) non è finanziata da maggiori tagli di spesa o da maggiori entrate, ma è finanziata a debito, aumentando il deficit. Tutto rimanendo nella soglia famigerata del tre per cento, ma rallentando il processo di risanamento che vorrebbero in Europa. Bene. Non perché sia positivo fare deficit: esso rappresenta un’ipoteca sul futuro. Oggi paghiamo le scelleratezze dei nostri padri e nonni che si sono ubriacati a botte di Krug facendo pagare il conto alle generazioni che seguivano. In un periodo di profonda recessione come questa e con prezzi in calo, fare i Mandrake del rigore è da drogati. Inoltre l’aumento del deficit non sembra dovuto a nuove leggi di spesa, ma a riduzioni fiscali. Se prendiamo un veleno, lo si faccia in modiche quantità e a fin di bene.

Il giudizio complessivo su questa manovra (anche se molti dettagli non di poco conto sono ancora da studiare) è che nei suoi saldi ha cercato di affamare la Bestia e restituire un po’ di maltolto ai sudditi.

Macché, lo spread vola alto

Macché, lo spread vola alto

Daniele Capezzone – Il Tempo

È vero: nella legge di stabilità ci sono alcuni aspetti positivi, che vanno riconosciuti onestamente, anche per rendere più credibili le nostre critiche. Ad esempio, sono positive le scelte di confronto a testa alta con l’Ue e gli interventi su Irap e detassazione delle nuove assunzioni (questi punti oggetto da tempo di nostre proposte, in qualche modo ora raccolte dall’Esecutivo, speriamo senza trucchi e senza inganni).

Però è come se Renzi si fosse fermato a metà strada: ancora troppo poco (temo) per dare uno choc positivo alla domanda interna, ma (purtroppo) già abbastanza per aprire un conflitto con l’Ue (e la cosa non mi spaventa di certo, anzi) ma anche per destare dubbio sui mercati (e qui invece occorre una riflessione attenta). Insomma, detta senza demagogia: ho paura che non ripartano i consumi ma lo spread. A questo punto, sarebbe stata più saggia l’apparente “imprudenza” di rischiare ancora di più, andando nella direzione – da me indicata da tempo – di un vero e proprio choc fiscale, con 40 miliardi (veri) di tasse in meno, accompagnati da tagli di spesa ancora più consistenti, e da un chiaro sforamento del vincolo del 3%.

Andiamo alle criticità più serie. Resta il macigno della tassa sulla casa, di cui Renzi porta la responsabilità (l’ha aggravata lui all’inizio del 2014), e che aumenterà ancora nel 2015. Sui tagli di spesa, non c’è stato coraggio né sui costi standard né sulle municipalizzate. E con il rischio (Padoan lo ha ammesso) che in sede locale si provveda ad aumentare le tasse, facendo fare il “lavoro sporco” a Comuni e Regioni. Poi ci sono alcuni aumenti di tasse: a partire da quello sui fondi pensione, assolutamente inaccettabile. Così come va indagato il meccanismo che sarà alla fine scelto per il Tfr, che potrebbe creare serissimi problemi alle imprese medio-piccole (causando contemporaneamente – che beffa!- aggravi di tassazione per i lavoratori). E soprattutto va posta la questione delle mega-clausole di salvaguardia per i prossimi anni, tutte bombe fiscali destinate a esplodere ai danni dei cittadini. Per queste ragioni, la mia opinione è che FI debba lanciare una sfida su alcuni punti qualificanti, per aumentare i tagli di tasse, e per rendere migliori i tagli di spesa. Avanzerò precise proposte in tal senso.

Ottimisti nel mungere l’evasione

Ottimisti nel mungere l’evasione

Domenico Cacopardo – Italia Oggi

Da oggi, in mare aperto, esposti ai refoli di burrasca e ai momenti di bonaccia. La nostra barca è vecchia, lo scafo è corroso e tante incrostazioni impediscono di navigare regolarmente. Così, la rotta che l’attuale capitano ha impostato (legge di stabilità) si presta a numerose critiche. Esse non possono essere risparmiate a chi promette di condurci fuori dall’area di rischio e di rilanciare la boccheggiante economia. Prima di tutto facciamo ammenda dei rilievi rivolti al sottosegretario Delrio a proposito dell’evasione fiscale e della sua importanza nella manovra. Diceva la verità. Come si faceva in passato, alla fine, se, per esempio, mancavano duemila miliardi di lire per quadrare i conti, si inserivano duemila miliardi di ricavi da lotta all’evasione e il problema era risolto.

Nella legge di stabilità Renzi-Padoan (più Renzi che Padoan) ci sono 3,8 miliardi di lotta all’evasione. Tanto per dare un’idea precisa a chi ha più di cinquant’anni, qualcosa come 7.600 miliardi di vecchie lire. Chi ha appostato questa somma o era in preda a ubriachezza molesta o era in malafede. Propendo per la seconda ipotesi ed è un’aggravante. 3,8 miliardi di lotta all’evasione sono la più palese testimonianza di assenza di realistiche analisi della situazione della nostra economia e degli strumenti di cui dispongono le autorità.

La seconda posta deludente riguarda i tagli ai trasferimenti alle regioni e ai comuni e alle spese dei ministeri, all’interno del capitolo spending review. «Sostiene Pereira» (Renzi) che sarà nell’autonomia dei soggetti percossi dove e come tagliare. In questo modo, si dà la zappa sui piedi: in sostanza, ripropone i tagli lineari che tanto abbiamo criticato in passato e che dimostrano l’incapacità del governo di compiere scelte coraggiose, intestandosene il merito e assumendosene le relative responsabilità. E dire ch’è in possesso del ponderoso e ragionato documento redatto da Carlo Cottarelli, in procinto, ormai, di tornarsene a Washington. C’è da chiedersi con preoccupazione perché il documento non sia stato mai pubblicato se non per brevi stralci. Le peggiori ipotesi sono sul tappeto: la più convincente riguarda il timore che si sarebbe messo in evidenza il mancato intervento del governo sui casi eclatanti, quelli da cui traggono alimento corrotti e corruttori al Nord come al Sud. E che, comunque, la mancata decisa introduzione dei costi standard consentirà ancora alla regione Sicilia di pagare le siringhe, ormai emblematiche, una trentina di volte di più che il Veneto.

Il premier ribadisce che è nella responsabilità di ministeri, regioni e comuni stabilire come e dove risparmiare e che si tratta di una specie di doveroso atto di fiducia. Follie. Mentre i disastri di Genova, Parma, Maremma, Trieste e Piemonte sono precisi atti di accusa nei confronti dei carrozzoni Regione, comunque realizzati, capaci solo di dissipare risorse senza contribuire al buon andamento del Paese, l’affermazione di Renzi appare viziata da ipocrita condiscendenza o da ammissione di grave impotenza.

Fermiamoci qua. Il testo della legge di stabilità è a Bruxelles e trova un ambiente meno arcigno del passato, viste le difficoltà generali che investono l’Unione europea. È possibile che, dopo gli accordi riservati tra Germania e Francia (come avevamo previsto, Hollande, incassato l’appoggio di Renzi, s’è occupato solo del suo Paese) che garantirebbero un’imprevista indulgenza della cancelliera di ferro, anche per l’Italia si manifesti un tasso (minore) di comprensione. In ogni caso, avremo un «cahier» di prescrizioni che ci costringeranno a svolgere difficili compiti a casa. Tutti i problemi tutt’insieme: l’economia, l’occupazione, Ebola e la politica estera con i dossier Isi, Ucraina-Russia, la Libia. Tante decisioni interconnesse da adottare nelle prossime settimane. Senza un soggetto politico unitario o unitariamente concepito. L’Europa è nana, divisa e senza leader con qualità adeguate.

Il doppio azzardo del premier

Il doppio azzardo del premier

Luca Ricolfi – La Stampa

Sono stato fin troppo facile profeta, tre giorni fa, quando ho provato a insinuare il dubbio che i mercati finanziari non l’avrebbero bevuta. Che i mercati, cioè, non avrebbero apprezzato affatto una manovra che, anziché tentare di risanare i conti pubblici, li sfascia ulteriormente, pianificando un aumento del deficit di ben 11 miliardi di euro. E così è stato, purtroppo: fra ieri e l’altro ieri lo spread dell’Italia rispetto alla Germania è tornato a salire. Si potrebbe pensare che questo peggioramento non sia dovuto a un deterioramento del giudizio dei mercati sui conti pubblici dell’Italia, ma al cattivo momento dell’economia europea e alle preoccupazioni sullo stato patrimoniale delle banche greche, ma purtroppo questa interpretazione, vagamente autoconsolatoria, si scontra con la pietosa realtà dei dati.

I dati: lo spread dell’Italia non è aumentato solo rispetto alla Germania, ma anche rispetto alla Francia, al Belgio alla Spagna, all’Irlanda, ed è migliorato solo rispetto all’inguaiatissima Grecia e al Portogallo. Si potrebbe pensare (e sperare) che nel giro di qualche giorno questa situazione di pericolo per i nostri conti pubblici rientri, e che i mercati si auto-tranquillizzino, o vengano tranquillizzati dal solito «aiutino» di Mario Draghi, o da una improvvisa conversione keynesiana di Angela Merkel. Il punto, però, è che anche nel più ottimistico degli scenari possibili, con l’Europa che ci lascia fare deficit e i mercati che continuano a prestarci denaro a basso costo, la manovra da 36 miliardi resta ad alto rischio. Ed è un vero peccato, perché la filosofia della manovra è più che giusta.

L’idea di fondo è di modificare la struttura dei conti pubblici facendo diminuire l’interposizione della Pubblica amministrazione (meno tasse e meno spese) e di farlo più dal lato delle entrate che da quello delle uscite, in modo da far respirare l’economia: se i numeri della manovra venissero rispettati, a fine 2015 avremmo sì più deficit pubblico, ma gli italiani si troverebbero ad aver pagato meno tasse. E altrettanto condivisibile è l’idea che, per far ripartire l’occupazione, si debbano ridurre i contributi sociali a carico del lavoro dipendente. Dov’è dunque il problema?

Il problema si annida in due passaggi assai delicati della manovra. Il primo riguarda la spending review: 15 miliardi di tagli delle spese improduttive, di cui circa 3 sulla sanità, sono facili da annunciare ma molto difficili da attuare, e questo per un mix di cattive e di buone ragioni: la resistenza della casta burocratica, ma anche la mancanza di piani di riduzione degli sprechi così analitici e così ben fatti da consentire riduzioni di spesa senza riduzione dei servizi. Lo scenario più probabile è un negoziato di Renzi e Padoan con gli Enti locali (e con i ministri!) per ridimensionare i tagli, seguito da un aumento della tasse locali. La reazione irritata del governatore del Piemonte, il renziano Chiamparino, all’annuncio dei tagli prelude precisamente a uno scenario del genere.

Ancora più delicato è il secondo passaggio, quello in cui si annuncia l’azzeramento dei contributi per le imprese che assumono. Qui molta enfasi è stata posta sul fatto che un’impresa risparmierà circa 9 mila euro per ogni assunzione a tempo indeterminato, ma si sta dimenticando che se i miliardi a disposizione sono solo 1.9, le assunzioni a contributi zero potranno essere appena 200 mila, ossia molte di meno delle assunzioni a tempo indeterminato totali (oltre 1 milione). Ma non si tratta solo di questo, ovvero della ridotta ampiezza della «platea» dei beneficiari. Il problema è che in una situazione in cui c’è molta capacità produttiva inutilizzata, gli sgravi contributivi si limitano ad alleggerire i conti delle imprese (più profitti, o meno perdite), ma difficilmente generano nuova occupazione perché per soddisfare i pochi ordinativi che le imprese ricevono quasi sempre basta e avanza la forza lavoro già occupata. Se anche nel 2015, nonostante lo stimolo del deficit, la domanda aggregata sarà debole, e il Pil resterà quindi stagnante (come il Governo stesso ammette), non vi sono motivi per pensare che l’occupazione totale possa crescere in modo apprezzabile: perché si abbia un aumento degli occupati, il Pil nel 2015 dovrebbe crescere almeno del 2%, eventualità che tutti gli osservatori escludono.

Ecco perché non sono molto ottimista. La decontribuzione resta un’ottima idea, ma se le risorse ad essa destinate sono così esigue, sarebbe di gran lunga preferibile concentrarle sulle imprese dinamiche. Il che, in concreto, può significare due cose: o riservare gli sgravi alle imprese che esportano, con conseguenti benefici sulla competitività (un’idea di recente lanciata da Oscar Farinetti); oppure riservarli non già ai neoassunti in generale (compresi i lavoratori che ne sostituiscono altri, andati in pensione o licenziati), ma ai lavoratori assunti su nuovi posti di lavoro, ossia ai casi in cui l’impresa incrementa l’occupazione rispetto all’anno precedente (un’idea suggerita dalla Fondazione Hume, con il contratto denominato job-Italia). Il vantaggio sarebbe che, in entrambi i casi, si avrebbe un effetto non trascurabile sul Pil, con benefici nei tre ambiti chiave: competitività, occupazione, entrate dello Stato.

La spending review dall’alto

La spending review dall’alto

Massimo Riva – La Repubblica

Stavolta il fronte interno delle reazioni alla manovra 2015 minaccia di rivelarsi anche più caldo, se possibile, di quello esterno in Europa. In particolare sul versante degli enti locali: le Regioni innanzi a tutti. Si potrà dire che lo scontro fra Palazzo Chigi e i governatori è una costante nella stagione in cui si allestiscono le misure di aggiustamento del bilancio: anche ai tempi dei tagli lineari del duo Berlusconi-Tremonti si sono viste scintille infuocate. Quest’anno, però, c’è una novità politica da non prendere sottogamba: il conflitto si è aperto all’interno dello stesso schieramento della sinistra governante. Da una parte c’è il segretario del Pd che è anche presidente del Consiglio, dall’altra c’è Sergio Chiamparino, governatore del Piemonte e presidente della conferenza delle Regioni. Un personaggio di estrazione diessina ma che, nelle battaglie interne al Pd, finora si era manifestato fra i sostenitori di Matteo Renzi.

Alto, quindi, è il rischio che il conflitto sulla portata dei provvedimenti possa essere inquinato anche da tentativi di piccolo o grande cabotaggio per rimettere in discussione gli equilibri interni di un partito dove i non-renziani sono sì una minoranza e però non pacificata. I toni durissimi con i quali Chiamparino ha aperto le ostilità, purtroppo, non fanno presagire granché di buono. Né le prime reazioni di Renzi suonano particolarmente accomodanti. Ha detto il governatore del Piemonte che questa manovra per le Regioni è «insostenibile a meno di non incidere sulla sanità». Ha replicato il presidente del Consiglio: «Sono pronto a incontrare gli esponenti delle Regioni, ma dire che ora si alzano le tasse o si taglia la sanità è una provocazione». Controreplica di Chiamparino: parole offensive.

Così non va: in un’ottica di responsabilità istituzionale reciproca sarebbe auspicabile da parte di entrambi un linguaggio più legato alla sostanza delle questioni. Nessuno pensa che chiedere alle Regioni ulteriori sacrifici per oltre quattro miliardi sia come l’invito a una passeggiata. Così com’è vero che la spesa per la sanità costituisce la posta di gran lunga maggiore nei bilanci regionali. Ma davvero all’interno di questi consuntivi non ci sono altri spazi, meno socialmente odiosi, su cui operare risparmi di spesa? C’è qualcosa di non sempre credibile nelle reazioni degli enti locali alle richieste di tagli che vengono dai governi centrali. Non appena la scure si alza sui bilanci comunali, pronti i sindaci dichiarano che così dovranno chiudere gli asili nido. Quando la mannaia minaccia le Regioni, la risposta consolidata è: taglieremo i servizi sanitari. È una storia vecchia, che però rimane ancora del tutto irrisolta.

Come altrettanto totalmente irrisolta è un’altra partita che riguarda i bilanci patrimoniali degli enti locali da dove – molto meno dolorosamente per i cittadini – si sarebbero già potute ricavare non piccole risorse per migliorare lo standard dei servizi sociali e al tempo stesso risanare i consuntivi anno dopo anno. La partita è quella delle innumerevoli aziende partecipate da Comuni e Regioni che talora portano nelle casse pubbliche qualche buon profitto, ma più spesso operano in perdita a esclusivo benefico di coloro che hanno avuto – diciamo così – la buona sorte di trovarvi un canonicato, pingue per sé e inutile per gli altri.

Da quanti decenni sul tavolo della politica italiana è aperto questo problema? Quanti commissari alla spending review vi si sono spaccati invano la schiena? Ecco se il presidente del Consiglio, anziché parlare di provocazione, avesse puntato il dito su questo nodo forse si potrebbe sperare in un esito più proficuo – per i cittadini e i conti pubblici – del confronto che si aprirà fra governo e Regioni. Anche perché in materia risulta del tutto insoddisfacente quell’inciso della legge di stabilità in cui si richiede agli enti decentrati di predisporre entro il marzo prossimo un piano di cessioni e accorpamenti delle aziende controllate con riferimento anche alle retribuzioni dei dirigenti.

Francamente da un decisionista come Matteo Renzi c’era da aspettarsi qualcosa di ben più ultimativo su una materia che, oltre tutto, potrebbe portare a risparmi anche parecchio superiori a quei quattro miliardi che hanno fatto così imbufalire Chiamparino e soci. Peccato, un’occasione persa: sulla quale sarebbe stato davvero interessante per i contribuenti assistere a un confronto fra governo ed enti locali. Magari per ascoltare questi ultimi chiedere conto allo Stato di ciò che intende fare per liberare il campo anche dai suoi tanti e persistenti enti inutili o addirittura dannosi. Purtroppo, non l’unica occasione persa di una manovra che comunque contiene buone misure mirate a spingere verso la crescita economica. Anche se talora contraddittorie: che senso ha, per esempio, aprire il capitolo dell’anticipazione del Tfr per poi richiuderlo con una maggiorazione delle imposte? Lo spazio di tempo per un riesame più sobrio e coerente di alcune misure non manca. C’è da sperare che – al lordo del conflitto con le Regioni – governo e Parlamento lo sappiano sfruttare.

Un passo avanti positivo ma attenzione ai tagli

Un passo avanti positivo ma attenzione ai tagli

Guido Tabellini – Il Sole 24 Ore

Questa volta il governo ha smentito gli scettici: non c’è dubbio che la legge di stabilità sia un passo avanti importante con varie novità positive. Il governo ha scelto bene le priorità e sta attuando una strategia di politica economica che, nei limiti del possibile, spinge l’economia italiana verso la crescita.

Innanzitutto, l’impostazione generale è espansiva: seppur nel rispetto del vincolo del 3%, il pareggio del bilancio strutturale è rinviato al 2017 per evitare provvedimenti prociclici. Sommato agli effetti della revisione del Pil annunciata a fine settembre, si ha un effettivo ampliamento del disavanzo di quasi l’1% del Pil rispetto al tendenziale. Non è poco, ma è giusto che sia così. Se la Commissione Europea trovasse qualcosa da ridire su questo punto, dimostrerebbe miopia e stupidità.

Secondo, si affronta il nodo della competitività. Tra la nascita dell’euro e il 2008, il costo del lavoro per unità di prodotto è salito in Italia di circa il 30% più che in Germania. Da allora il divario è aumentato ancora, per via dell’andamento prociclico della produttività. Ciò è insostenibile ed è uno dei fattori alla base dell’attuale crisi economica. Prima con la riforma dell’articolo 18, ora con l’abolizione dell’Irap sul lavoro e gli sgravi contributivi sui neo-assunti, si pongono finalmente le basi per riacquistare competitività e aumentare la domanda di lavoro regolare.

Terzo, scende la pressione fiscale, perché gli sgravi fiscali su imprese e famiglie sono coperti da tagli di spesa. Anche questa è una svolta essenziale per promuovere la crescita e ridare fiducia. Sarà importante, ma non scontato, evitare che questo aspetto della manovra venga stravolta durante l’esame parlamentare.

Quarto, ma più controverso, anche la possibilità per il lavoratore di chiedere il rimborso anticipato del Tfr merita un giudizio positivo. Già oggi, a certe condizioni, i lavoratori possono incassare anticipatamente il Tfr versato, e un numero rilevante di lavoratori si avvale di questa facoltà. Ciò non sorprende, perché la crisi e la stretta creditizia impongono vincoli di liquidità stringenti su molte famiglie. Allentare questi vincoli non solo è efficiente per i diretti interessati, ma sostiene anche la domanda interna. L’obiezione che in questo modo si creano problemi alle piccole e medie imprese (o che si costringe lo Stato a dare garanzie implicite sul Tfr) è sbagliata, sia perché la legge di stabilità ha escogitato un modo per far affluire comunque liquidità alle imprese che la chiedono, sia perché non vi è una valida ragione per sussidiare le imprese piccole con i soldi dei loro dipendenti, sia infine perché l’Inps già oggi assicura il Tfr contro il rischio di fallimento dell’impresa. Più rilevante è l’obiezione che in questo modo si ostacola lo sviluppo della previdenza integrativa; ma anche questo argomento non è persuasivo, sia perché la legge di stabilità non prevede un incentivo fiscale alla riscossione anticipata, ma soprattutto perché non è questo il momento di costringere le famiglie a risparmiare.

Non illudiamoci che il più sia stato fatto, tuttavia. I principali interrogativi riguardano la natura dei tagli di spesa. La legge di stabilità riduce i trasferimenti a regioni e enti locali per circa 6,2 miliardi, senza però intervenire sulle prestazioni e sui programmi di spesa che queste amministrazioni sono tenute ad elargire (l’80% delle uscite delle regioni sono in spesa sanitaria). Riusciranno davvero questi enti decentrati a ridurre le uscite, oppure vedremo solo uno spostamento del carico fiscale dal centro alla periferia, o peggio ancora uno spostamento delle spese fuori bilancio? Preoccupazioni analoghe riguardano i tagli alla spesa dei ministeri (4 miliardi). Per ridurre in modo permanente la spesa pubblica non basta la lotta agli sprechi, occorre anche intervenire sui grandi programmi di spesa, riducendo le prestazioni offerte sotto costo ai cittadini, o tagliando il pubblico impiego. Forse ora non ci sono le condizioni politiche ed economiche per farlo. Ma se non ora, dovremo farlo nei prossimi anni, altrimenti la spesa pubblica riprenderà a salire.

Anche per la competitività resta molto da fare. La riforma dell’articolo 18 andrà estesa anche ai lavoratori del pubblico impiego (non c’è alcuna ragione per discriminare a loro favore). Inoltre il regime di contrattazione dovrebbe essere rivisto, per dare più peso ai contratti aziendali e consentire deroghe alla contrattazione collettiva. Quanto al cuneo fiscale, la componente che grava sulle imprese rimane comunque molto più elevata rispetto agli altri paesi europei (per allinearci alla Germania, occorrerebbero sgravi contributivi per oltre 30 miliardi anche dopo l’abolizione dell’Irap).

Infine, un dubbio sull’azzeramento dei contributi sociali per tre anni sui neoassunti: sebbene l’intento di sostenere la domanda di lavoro sui nuovi contratti regolari sia condivisibile, cosa succederà allo scadere dei tre anni? Il provvedimento è una scommessa che per allora saremo usciti dalla stagnazione, altrimenti dal quarto anno in poi aspettiamoci licenziamenti per evitare l’impennata del costo del lavoro (in barba all’idea del contratto a tutele crescenti). Ma se davvero ci sarà la ripresa, la copertura richiesta per questo provvedimento potrebbe rivelarsi superiore alle stime del governo. Insomma, la strada per cambiare l’Italia è ancora lunga e difficile. Ma il governo l’ha imboccata, ed è la prima volta da tanto tempo che questo accade senza esservi costretto dall’emergenza finanziaria. Speriamo che ci sia tempo per percorrerla tutta, senza precipitare di nuovo nell’emergenza.

Operazione attenta al consenso ma non manovra elettorale vecchio stile

Operazione attenta al consenso ma non manovra elettorale vecchio stile

Stefano Folli – Il Sole 24 Ore

Intorno alle cifre imponenti della manovra di Renzi si discuterà a lungo: dal rapporto fra tagli di spesa e risorse in deficit alla verosimiglianza dell’intero pacchetto, fino alle effettive coperture. Che sia un progetto ambizioso, è chiaro a tutti. Che sia anche realistico, lo si vedrà presto.

Appare chiaro che il presidente del Consiglio gioca su due fronti. Quello europeo è evidente a tutti. Ma l’ambizione che traspare dai numeri va molto al di là del rigido rispetto dei parametri. Sulla carta il famoso tetto del 3 per cento di deficit è rispettato, ma si sono anche poste le premesse dello sfondamento, nel caso in cui i vari tasselli del mosaico non si collocassero tutti al loro posto: cioè se le maggiori spese non fossero compensate da tagli efficaci e soprattutto autentici. Quindi si coglie un rischio calcolato e persino temerario nelle cifre di Palazzo Chigi, anche se non proprio una sfida all’Unione. Ora spetterà alla Commissione di Bruxelles studiare la manovra nel merito, voce per voce, e giudicare la sua serietà. Non sarà, come tutti prevedono, un esame facile e il pericolo della bocciatura s’intravede sullo sfondo.

Tuttavia c’è anche il secondo fronte, a cui Renzi è particolarmente attento. Un secondo fronte che riguarda il rapporto fra il premier e l’opinione pubblica interna. Sotto questo aspetto la legge di stabilità del centrosinistra è una miscela ben congegnata per piacere al maggior numero possibile di italiani. I miliardi destinati ad abbassare le tasse delle imprese servono, almeno nelle intenzoni, a conquistare il mondo produttivo. Al tempo stesso, gli 80 euro confermati nelle buste paga vogliono rendere più solido il patto politico con i bassi redditi.

È chiaro che l’operazione è tutt’altro che banale. Non è una mera ricerca di consenso; al contrario è soprattutto il tentativo di imprimere una spinta significativa a un’economia che non esce dalla recessione: con un Pil tornato ai livelli di quattordici anni fa, cioè al 2000. Ma in ogni caso è anche una legge molto “politica”, nel senso che Renzi l’ha modellata sull’Italia che ha in mente: da un lato, il paese di chi produce e compete sui mercati eppure si sente soffocato; dall’altro, la platea di chi – singoli o famiglie – ha pagato fin qui il prezzo più salato alla crisi. Tale profilo politico della manovra è stato tratteggiato pensando al possibile «blocco sociale» che il premier ha in mente. Quindi è un errore limitarsi a dire che si tratta di una legge scritta pensando alle elezioni anticipate. Anche perché al momento il voto non è vicino, come non è vicina la riforma elettorale maggioritaria che Renzi considera l’indispensabile lasciapassare per le urne.

Detto questo, è certo che si tratti di un passaggio verso il consolidamento del consenso “renziano” nel paese. Consenso che ha bisogno di mettere radici nell’Italia profonda. Poi, una volta rafforzate le radici, il premier potrà giocare con maggiore sicurezza le sue carte. E magari immaginare quel ricorso alle urne che oggi è prematuro. Del resto, è chiaro che una manovra del genere “lacrime e sangue” oggi non sarebbe praticabile in una nazione stremata. Mentre una legge di stabilità come l’attuale permette di tenere in tasca, fin quando non sarà utile, la carta dello scioglimento del Parlamento. E c’è da credere che al momento opportuno, non sappiamo quando, Renzi vorrà giocarla.

Il premier contro il pessimismo dei mercati

Il premier contro il pessimismo dei mercati

Marcello Sorgi – La Stampa

Convocato nel mercoledì nero del crollo delle borse, con Milano che ha toccato il picco della negatività in Europa, il Consiglio dei ministri ha licenziato la legge di stabilità in un clima diverso da quello di svolta che Renzi avrebbe voluto, e che comunque s’è sforzato di costruire, presentando in serata nei dettagli la manovra da trentasei miliardi, «con il più grande taglio di tasse della storia della Repubblica». In sintesi, Renzi tende a dare un valore contingente al terremoto di ieri sui mercati e a prevedere risultati molto più immediati delle misure appena varate, sia in termini di rilancio dell’occupazione, grazie al drastico taglio dell’Irap e del costo del lavoro, sia in fatto di ripresa dei consumi e di crescita complessiva. Si tratta, com’è evidente, di una visione ottimistica del percorso che l’Italia ha di fronte. Renzi però sostiene che non c’è altra strada.

Qualificati osservatori economici, tuttavia, di quel che è accaduto ieri e del trend delle ultime settimane tratteggiano un quadro diverso e arrivano a conclusioni più preoccupate. L’alibi della Grecia in cui il governo Samaras spingerebbe per liberarsi in anticipo dei vincoli della Trojka non può bastare a spiegare la fuga degli investitori negli ultimi giorni dalla Borsa italiana e il brusco rialzo dello spread, che ieri ha toccato di nuovo quota 170 per assestarsi poi solo qualche punto più sotto. Il ritardo con cui l’agenzia Moodys ha consegnato il suo periodico rapporto (per la verità più positivo, o se si preferisce meno allarmato, del previsto) può aver determinato un’ondata di vendite, ma non fino al punto da provocare un crollo come quello che s’è avuto.

La verità, come ha ricordato giorni fa il presidente della Bce Draghi, è che la crescita globale nell’insieme sta rallentando, e in tale ambito la stagnazione europea non dà segni di movimento e la stessa Germania comincia a mostrare qualche segno di affaticamento. È in questa cornice che la Commissione europea – quella uscente presieduta da Barroso, che ha già spiegato come sia difficile fare sconti, e la nuova guidata da Juncker, con cui Renzi ha avuto una telefonata non del tutto rasserenante martedì – deve decidere se promuovere l’Italia e la manovra varata da Palazzo Chigi, accettando l’ottimismo della volontà di Renzi, o se rimandarla o addirittura bocciarla, abbandonandosi al pessimismo della ragione.